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Filologia dell’emergenza

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Come tutti sanno, in seguito all’uccisione di Androgeo, perpetrata a tradimento entro i confini dell’Attica, Minosse scatenò una luttuosissima guerra contro Atene, e gli dèi inviarono per punizione sul paese una serie di disastrose calamità […] L’oracolo prescrisse agli Ateniesi di placare Minosse, perché solo se si fossero riconciliati con lui l’ira divina sarebbe cessata e le loro sciagure avrebbero avuto fine. Subito essi mandarono araldi al re e lo supplicarono di fare la pace; fu concluso un accordo, per cui gli Ateniesi si impegnavano a inviare ogni nove anni a Creta un tributo di sette giovani e altrettante vergini […] I giovani inviati a Creta venivano ammazzati nel Labirinto dal Minotauro, oppure vagavano là dentro da soli finché, incapaci di trovare l’uscita, perivano. Il Minotauro, come dice Euripide, era “un’ibrida forma, un frutto mostruoso”.

Plutarco, Vita di Teseo, 15; trad. C. Carena

Viviamo il tempo dell’Emergenza. Emergenza percettiva, interiore e interiorizzata, emergenza come Weltanschauung, emergenza come profezia che si autoavvera saldando il percepito col reale. L’Occidente ha sempre avuto una certa familiarità con le ondate apocalittiche. Non importa che l’apocalissi di turno abbia una base nella realtà: che so, un terremoto particolarmente devastante, una carestia più lunga del solito, una serie di guerre, un’epidemia eccezionalmente mortifera… Conta di più che, periodicamente, l’umanità, almeno quella occidentale, senta l’approssimarsi di una fine. Forse è un senso di colpa collettivo, di radice cristiana; forse è un moto ondulatorio che denota una certa “bipolarità” strutturale, radicata ab antiquo nella nostra soggettività. Fatto sta che l’avvento della Bestia, il mito dell’Anticristo, l’attesa di un Giudizio, è incombente e ricorrente nelle viscere, oggi malatissime, dell’Occidente classico-giudeo-cristiano. A questo servono i grandi miti trasmessi dai grandi libri: a catalogare le nostre nevrosi, a rappresentare i nostri terrori.
L’Emergenza è legata all’Eccezione, e l’attesa della catastrofe offre il campo – logico e psicologico, cioè politico – ai salvatori, ai messia, agli illuminati da qualche ragione superiore e qualche tecnica salvifica. Gli ingredienti della distopia sono belli e serviti. Bastava un nulla, l’annuncio di un pericolo, qualche immagine convenientemente manipolata, un po’ di ammuina mediatica, la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’ossessione securitaria che ha invaso la nostra opulenza ormai da mezzo secolo – proprio in concomitanza, guarda caso, con l’esplosione del consumismo compulsivo di massa, con l’illusione di un benessere per default, di una felicità in servizio permanente effettivo. E intere architetture legislative e antropologiche, sistemi di vita consolidati, modi di stare al mondo concepiti come naturali, sono svaniti nel caos di un potere da day after. Il primo naufrago, come no, è l’uomo aristotelico, lo zoon politikón, l’animal sociale et politicum immerso nella realtà della vita attiva della polis. Storicamente, l’uomo occidentale si è realizzato su tre dimensioni: le relazioni personali/affettive; il contesto sociale; l’agone politico. E questo è il paradigma che sta crollando.
L’emergenza è impolitica ma è interna alla politica. Sgretola dall’interno il politico intaccando le relazioni personali/affettive, i legami individuali e collettivi, le complicità che ne sono la materia. Sembra, in effetti, che sul fondo di tutto questo processo precipitoso, caotico, di reset delle società, di riarticolazione delle vite individuali, a tutti i livelli, vi sia un mutamento profondissimo delle relazioni umane, una mutazione genetica che riguarda sia il rapporto dei cittadini con il potere (“verticale”) che quello degli individui fra di loro (“orizzontale”).
Il “sospetto” è uscito dalle riflessioni dei filosofi, si è esteso come un cancro, ha smesso di essere strumento di comprensione, e si è installato dentro le infiacchite società occidentali, è entrato nei cromosomi antropologici dell’uomo postmoderno e ha compiuto il sogno di ogni totalitarismo: la divisione, la separazione, la vittimizzazione collettiva. Sul piano sociale, ciò implica il collasso delle relazioni di fiducia tra individui e tra generazioni – cioè di quelle che possiamo definire o “gerarchie informali”: professore-alunno; padre-figlio, anziano-giovane ecc. È in atto una destrutturazione delle identità collettive, legate al ruolo sociale, al lavoro, e una frammentazione estrema che pone l’individuo nudo, privo di reti di appoggio e solidarietà (famiglia, gruppo, sindacato, partito…), faccia a faccia con poteri privati giganteschi e virtualmente non interpellabili, perché “algoritmizzati”. La tendenza ipertecnologica che connota il nostro tempo è infatti quella di affidare le decisioni umane a calcoli standardizzati e automatici, dove il libero arbitrio resta totalmente escluso: una governance basata su un atto di fede e che prescinde dall’essere umano.
Se non si è più dentro una rete di relazioni fiduciarie, si è alla mercé del potere globalizzato algoritmico. Ovviamente questo permette una estrema facilità nel governo degli individui, perché li rende debolissimi in quanto isolati. Il rapporto cittadino-potere s’inverte: dalla sovranità popolare alla “cura” paternalistica del tecnocrate. Si moltiplicano le pressioni per controllare l’informazione “per il nostro bene”: dopo i processi di “disciplinamento” dell’età moderna, la postmodernità politica conduce a una sorta di “disciplinamento” tecnologico o 2.0.
La dimensione postumana sembra avviare la fase estrema del capitalismo, che mira al possesso dei corpi e al controllo delle anime: in questa logica, dopo aver posseduto tutto ciò che di materiale esiste, dopo aver creato un’economia parallela ed eterea – l’economia finanziaria – ora tocca al possesso dei corpi. Soltanto eliminando la proprietà del corpo, soltanto rendendo meno umano l’essere umano, il capitalismo potrà sopravvivere in una versione selvaggia e neofeudale dove lo spazio per il singolo sarà ridotto al minimo.
Il meccanismo di fondo di questa società del controllo e della disciplina è dato da una sorta di infantilizzazione di massa insita nei dispositivi di controllo, in primis sanitario, rivelati dalla metafora che ha presieduto i lockdown degli ultimi due anni: “se esci ti ammali”. Il potere biopolitico e psico-politico mira a produrre individui fragili, ossessionati dallo stress identitario, razziale, di genere e comunque di appartenenza a un qualcosa che compensi il senso di smarrimento identitario reale, dovuto alla crisi di civiltà. Il combinato disposto di questi due fattori – corpo e identità – dà luogo alla distruzione della sovranità classica – quella statale e quella dell’individuo su se stesso – per crearne una posticcia, identitaria ed eterodiretta.
La prospettiva è quella di individui-monadi smarriti in un deserto epistemico privo di punti di riferimento, di criteri di certezza e di verità, che si intrattengono nevroticamente simulando il dibattito democratico intorno a temi sostanzialmente irrilevanti dal punto di vista politico in quanto riguardanti la sfera dell’intimità e delle identità più o meno create o artificiali – in particolare rileva la dimensione sessuale come simulatore o “sostituto simbolico” di libero arbitrio identitario. Perdere la coscienza di classe non è indolore: si perde la dimensione pubblica, collettiva, e si ripiega sulla microidentità, sul privato elevato a misura (im)politica di tutte le cose. Da zoon politikón a “post-cittadino” tribale, il trionfo del privato proprio nel momento in cui l’occhio globale penetra in ogni recesso dell’anima consumatrice: un privato profilato e noto alla macchina. È una parabola paradossale, ma che non deve stupire più di tanto nel tempo della post-verità (cioè della falsità).
Già, l’animal sociale et politicum. Il rapporto verticale, non più mediato e articolato da norme legislative e da valori condivisi, bensì affidato in prevalenza a rapporti di forza personali, appunto privati, evoca il concetto di feudalesimo, inteso come categoria del pensiero più che come fenomeno storico. In effetti nel postmoderno post-statuale viene meno una delle polarità strutturali della civiltà occidentale, quella tra pubblico e privato: l’interruzione della fluidità sociale, della permeabilità delle classi ha vanificato il principio di rappresentanza, col risultato che élites sempre più autoreferenziali non hanno più alcun rapporto con la massa di coloro che dovrebbero rappresentare, obbediscono a logiche proprie, a circuito interno, sempre più astratte, sempre più distaccate dalla realtà empirica, materiale, in cui non credono, pervasi come sono da un’infantiloide volontà di potenza: è per questi vicoli ciechi della civiltà occidentale che si è introdotto il delirio transumanista di “rifondare il mondo”. Le istituzioni rappresentative involvono in dispositivi tecnici rispondenti a logiche che prescindono programmaticamente dall’umano. Di fatto, in quegli arzigogolati grafici in cui i politologi contemporanei credono di poter ridurre i sistemi sociali e politici su ascisse e ordinate, il grado di “democrazia” e trasparenza amministrativa si misura sull’assenza di mediazione umana e di rapporti informali. Tutto codificato, tutto spersonalizzato. Governare bene, a quanto pare, significa governare senza anima. Perché è l’umano, in ultima istanza, che è sotto attacco.
La smaterializzazione della sovranità politica consiste nel dissolversi dell’impersonalità e della superiorità giuridica dello Stato, della sua funzione arbitrale e perequativa, e conduce dritto allo Stato postmoderno, ombra dello Stato moderno liquefattasi nel pentolone dei poteri privati globali, cosmopoliti, essenzialmente apatridi e soprattutto non pubblici. Del suo predecessore sano, lo Stato postmoderno ha mantenuto, anzi ha potenziato, gli apparati di repressione e controllo, riorientati al mantenimento degli interessi privati che lo occupano e lo condizionano: lo Stato postmoderno non protegge ma sorveglia, non persuade ma obbliga, non educa ma dissuade; questo però fa sì che cambi anche la natura dell’oggetto del governo: al posto del civis – questa bella invenzione del pensiero classico – il corpo, da controllare, dirigere, manipolare. Un post-capitalismo globale in cui gli stessi attori dominano finanza, logistica, telematica e medicina. Un ordito impossibile senza la destrutturazione delle categorie basilari dell’Occidente moderno.
Ogni rivoluzione, comprese le rivoluzioni distopiche, conta su un trasfondo filosofico, tanto decisivo quanto impercettibile. L’ideologia che sostiene questa rivoluzione, o reset, è il transumanesimo, perché presuppone, da un lato, uno sfilacciamento delle nozioni stesse di vero e di falso; dall’altro, una strutturale sfiducia nell’uomo, figlia dell’ossessione dell’illimitato propria del postmoderno, ma (è una genealogia affascinante) con profonde radici nello gnosticismo antico: entrambi sono accomunati dal disprezzo radicale del dato di realtà, del mondo visibile. Lo zoon politikón sembra in verità renitente a ogni schema ideologico, a ogni afflato di programmazione, bisognoso di complementi, di “stampelle” elettroniche e ideologiche. E quanto più è renitente, tanto più questo neo-gnosticismo transumanista si impegna a “migliorarlo”, somministrandogli quei complementi e quelle stampelle. La traduzione socio-politica della cosiddetta teoria gender è questa: sottomettere l’evoluzione psico-fisica del soggetto nelle sue fasi cruciali a una teoria astratta che nega la natura in cerca di una perfezione tanto chimerica quanto minacciosa.
La traduzione (im)politica del transumanesimo è la medicalizzazione-infantilizzazione dell’individuo, questo capovolgimento del paradigma umanistico e illuministico dell’homo faber capace di autodeterminarsi e discernere razionalmente, questa regressione allo stato di minorità da cui, diceva Kant, i Lumi avrebbero liberato l’essere umano. Da zoon poltikon, potenziale amico, alleato, compagno, cooperatore, l’altro – ex sembamble, antico frere – passa ad essere, semplicemente, una minaccia: dal potenziale terrorista che si annida in ogni individuo con tratti somatici differenti, al potenziale violentatore che si annida in ogni maschio, meglio se bianco ed etero, al potenziale razzista che si annida in ogni individuo di pelle chiara, al potenziale killer biologico nascosto tra il tuo prossimo, tra i tuoi cari, dentro di te: la minaccia, potenziale dunque ancor più onnipresente, ancor più angosciosa, presiede i modi della convivenza, le forme del vivere, dello stare al mondo di quest’Occidente postmoderno nel pieno di una crisi di nervi, anzi di convulsioni. Da zoon politikón a “post-cittadino” tribale, sembra concludersi una parabola che ha coinciso con la modernità antropologica e politica europea.
La filologia aiuta: dal lessico informatico ai report del World Economic Forum di Davos, minaccia (“threat”) è il termine-concetto chiave che sta dietro ai nuovi rapporti politici e sociali promossi dalle (pseudo) sinistre transumaniste liberal a trazione atlantica, uscite vincenti – tanto sul piano politico-economico quanto su quello del costume e della mentalità – dai ben noti rivolgimenti di fine Novecento. Strumenti di dominio funzionali al maggior mutamento di paradigma della storia moderna, quello che ha trasformato società strutturate, del lavoro organizzato e regolato, di partiti sindacati associazioni che articolavano la vita sociale, in una miriade bellicosa di gruppi, gruppetti e sottogruppi identitari, in cui impera la gelosa difesa tribale di microidentità postumane l’una contra l’altra armate, in una rissa illimitata che simula, scimmiotta infantilmente il dibattito democratico razionale. La moltiplicazione, con tinte di grottesco, delle “identità sessuali”, questione impolitica per eccellenza, appartenente alla sfera dell’intimo, del “non pertinente”, si pone come un serio affare di politiche pubbliche: fin dall’età infantile e adolescente, il potere sembra molto interessato ai nostri comportamenti più elementari, a come parliamo, a come ci rivolgiamo ai nostri simili e, come no, alla nostra salute.
Si tratta, per l’appunto, di semplici, aggressivi ma efficaci meccanismi di controllo sociale, che hanno le loro brave regole e i loro penetranti tabù: il concetto di politically correct – termine inglese da impiegare in originale, a sottolinearne la provenienza “imperiale” e la natura manipolatoria –, col suo correlato violento, il cosiddetto hate speech, non ne è che il più evidente e adoperato dispositivo, un bavaglio quasi banale, un trucco censorio quasi scoperto. Il transumanesimo è antico e modernissimo allo stesso tempo, perché il sogno di cancellare l’espressione spontanea, promuovere l’ipocrisia come sistema di relazioni, selezionare e controllare la memoria, serpeggiava nei manuali penitenziale medievali, o nella prima modernità dei tribunali inquisitori. La cosiddetta cancel culture, che si auto-attribuisce il diritto di emettere la sentenza di morte di un’intera civiltà, è la traduzione postmoderna di questa vera e propria tecnica di governo delle masse che si annida da secoli nella pancia oscura del pensiero occidentale. Il transumanesimo vuole l’uomo governabile, anzi oggetto di governance: fragile e smemorato, in un disperato pirandelliano «rinascere ogni giorno nuovo e diverso», in una perpetua fuga in avanti, sradicato, manipolabile ad infinitum: proprio come in quello spot pubblicitario promosso dal Foro di Davos: «You will own nothing and be happy».
Sono ovvietà sgradevoli da ripetere, ma naturalmente diritti e libertà non si conquistano frammentando all’estremo le società, stressando le identità, fomentando la nevrosi di massa. C’è qualcosa di propriamente, etimologicamente diabolico in quest’opera di demolizione dei nessi e dei legami, delle certezze e delle lealtà. La grande mitografia occidentale, vale ripeterlo, non va sottovalutata: rispecchia nel profondo i terrori e le nevrosi della nostra civiltà, forse di ogni civiltà.
In questa postmodernità liquefatta più che liquida, le gerarchie sono apparentemente saltate, e questa che sembra una buona notizia non lo è affatto. Declinata nella cultura occidentale, l’auctoritas ha avuto una funzione esemplare più che prescrittiva ed è diffusa, molecolare, informale, più che centralizzata e istituzionale. La crisi di questa forma di autorità, o di autorevolezza informale, derivante da un sapere riconosciuto – del professore, del genitore, dell’avvocato, al limite del parroco o del farmacista – non indica alcuna emancipazione, al contrario: significa lasciare solo l’individuo-monade davanti a un potere che – specularmente – non è più la rappresentanza politica e il coinvolgimento sociale dello zoon politikon, ma la tecnocrazia algoritmica senza volto e senza anima degli stakeholder.
Le istituzioni senz’anima sono mostri. Con moto circolare, la civiltà d’Occidente vive una specie di nuovo alto medioevo: poteri privati (neo)feudali che hanno invaso la res publica, la cosa di tutti rappresentata nell’organismo statale, rendendo dipendente la massa degli uomini comuni, destrutturati e privati d’identità “solide”: l’ho chiamato, più di una volta, totalitarismo del bene, altri “totalitarismo invertito”, quello in cui il Potere algoritmico “si prende cura” di tutti e ciascuno di noi, al di là, o al di qua, di spinte ideali e ideologiche perché il suo strumento è il numero, e solo in subordine la parola. La numerizzazione della politica ha, se si vuole, radici antichissime, che risalgono al Timeo di Platone, ma il suo dominio è un frutto schiettamente postmoderno reso possibile dalla rivoluzione digitale e manifestatosi, sul piano politico, con l’avvento della rivoluzione neoliberista, l’invasione delle istituzioni economiche, la confusione voluta fra “scienza” economica” e decisioni immediate di politica economica. È stato il grimaldello ideologico che ha permesso il diffondersi dell’idea che una tecnocrazia potesse indicare strade uniche e infallibili («there is no alternative»: TINA), frutto di calcoli “obiettivi”: la versione postmoderna dell’antico vizio occidentale del dogmatismo, della missione salvifica, del “governo dei filosofi”, dal sogno di Platone al Tomismo inquisitorio, dalla brutale ingenuità positivista ottocentesca ai feroci cultural studies, ora giunge al culmine nella tirannide psico-sanitaria, dove sapere e potere si saldano in un ircocervo biopolitico che sembra condizionare e determinare ogni altro aspetto della vita associata.
L’Emergenza, proclamata, interiorizzata, cacciata a forza nelle fauci dell’ex zoon politikón, è il cavallo di Troia che ha accelerato, stabilizzato e normalizzato questi profondi cambiamenti che vanno nella direzione della frammentazione sociale e estrema, del degrado delle relazioni umane, una dissoluzione di quella società tanto avversata dal neoliberismo tatcheriano, funzionale al più raffinato e pervasivo progetto di disciplinamento collettivo che la storia umana abbia visto.
Il nuovo Minotauro globale sta chiedendo la disponibilità illimitata, mentale prima ancora che materiale, dell’essere nella sua fibra più intima, dell’ultimo ridotto della sovranità: il corpo, le emozioni. Noi stessi.