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«Quando sarà ascoltata la loro voce?». Spazi, genere e sfruttamento in Tea rooms di Luisa Carnés

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«The subaltern as female cannot be heard or read. […] The subaltern cannot speak»1. Nel 1988 Gayatri Chakravorty Spivak chiudeva così il suo saggio intitolato Can the subaltern speak?, sottolineando l’importanza dell’elemento di genere nell’esperienza della subalternità: la donna che vive sul margine ha minori – se non nessuna – possibilità di prendere parola e di essere ascoltata, perché ci sarà sempre qualcun altro che lo farà al posto suo, ventriloquizzando la sua voce e condannandola, una volta di più, all’invisibilità. Il ragionamento di Spivak si presta a entrare in dialogo con l’opera narrativa di Luisa Carnés e, in particolare, con il romanzo Tea rooms, nella misura in cui quest’ultimo descrive il percorso di coscientizzazione di un soggetto femminile subalterno che culmina anche nella presa di consapevolezza della capacità enunciativa delle donne, a cui però non corrisponde sempre la possibilità di essere ascoltate.
Tea rooms. Mujeres obreras, terza opera di Carnés, viene pubblicata nel 19342 con un sottotitolo significativo che viene però accantonato nelle edizioni successive, a cui pure si deve l’aver riportato alla luce il testo3: quello di novela reportaje4. È un’aggiunta quasi rematica, poiché circoscrive il tono d’inchiesta con cui è prevalentemente condotta la narrazione, al centro della quale vi è la figura di Matilde. Si tratta di un romanzo che mette al centro le condizioni di lavoro e di vita delle donne della classe operaia, lo sfruttamento duplice a cui sono sottoposte, le ingiustizie che subiscono sia sul piano della classe che su quello del genere, mostrando la forza con cui la violenza patriarcale e capitalista si accanisce sui loro corpi. Prima di addentrarsi nell’analisi di tali questioni, sarà conveniente fornire un inquadramento della figura di Luisa Carnés, scrittrice spagnola condannata all’oblio dopo l’esilio a cui venne costretta dal 1939 a causa del suo impegno repubblicano e riscoperta solo in anni recenti.

1. Luisa Carnés. Una scrittrice sommersa

Le regole del campo letterario – a cui è strettamente legato il processo di formazione del canone – tendono a escludere chi non rispecchia il modello autoriale egemonico, per cui le soggettività femminili, non bianche, non privilegiate, sono state spesso relegate al margine5. Luisa Carnés porta con sé diversi elementi di dissidenza. Nata nel 1905 in una famiglia operaia, ebbe modo di studiare solo fino all’età di undici anni, quando cominciò a lavorare in un laboratorio dove si producevano cappelli (esperienza che confluirà nella sua seconda opera, Natacha6). Fu in questo periodo che cominciò a studiare da autodidatta, dedicandosi alla scrittura e avvicinandosi all’attività giornalistica. Il suo primo racconto, intitolato Mar adentro, uscì su La Voz nell’autunno del 1924. In questi anni inizia a muoversi all’interno del mondo letterario, molto distante dalla sua sfera sociale di appartenenza e all’interno del quale sperimenterà varie forme di scrittura: narrativa, giornalistica e teatrale. Entra a far parte come dattilografa della CIAP, la Compañia Iberoamericana de Publicaciones, e pubblica i suoi primi due libri: la raccolta di tre racconti Peregrinos de Calvario7, e il romanzo Natacha, in cui sono narrate le vicende di Natalia, una giovane operaia in una fabbrica di cappelli che, pur di sfuggire alla povertà, accetta di avere una relazione extraconiugale con il suo capo8. Ritornata a Madrid nell’estate del 1932 dopo una breve permanenza ad Algeciras, città del marito Ramón Puyol, trova lavoro come cameriera in una sala da tè, esperienza che costituirà la base biografica per Tea rooms. Negli stessi anni si affilia al Partito comunista spagnolo, cominciando a lavorare per la sezione stampa, e diventa autrice per i periodici Mundo obrero, Altavoz del Frente e Estampa, occupandosi soprattutto di interviste e di reportage in un periodo politicamente concitato come fu quello che seguì alla caduta del governo Azaña e alla rottura della coalizione repubblicano-socialista. Dopo il colpo di stato del 18 luglio del 1936 ripara dapprima a Valencia, dove lavora per il Frente Rojo9 e successivamente a Barcellona, da dove continua a scrivere per il PCE con lo pseudonimo di Clara/Clarita Montes o Natalia Valle10. Nel 1939 lascia definitivamente la Spagna e, passando per Parigi e per New York, arriva in esilio in Messico. Qui prosegue la sua opera giornalistica e letteraria: porta a termine la biografia romanzata di Rosalía de Castro11 e il romanzo Juan Caballero12, che fu la sua unica opera di narrativa pubblicata in questi anni, e scrive El eslabón perdido, che invece sarebbe rimasto inedito fino al 200213. Sono anni in cui Carnés si rende conto che l’esilio sarebbe stato definitivo, tanto più dopo gli accordi militari stipulati tra Stati Uniti e Spagna. In parallelo, compone opere teatrali14, scrive racconti, pubblica articoli sotto pseudonimo nelle sezioni di letteratura, cultura e società di El nacional, Novedades e La Prensa e tra il 1951 e il 1957 dirige Mujeres Españolas. Muore prematuramente il 12 marzo del 1964 a causa di un incidente stradale.
Nell’ambito del suo lavoro e della sua produzione, come si è visto, Carnés pone quasi sempre al centro la figura della donna e, nello specifico, della donna che lavora. Di solito associata alla cosiddetta Generazione del ’2715, la scrittrice condivide con quest’ultima una concezione della letteratura come veicolo di cambiamento, del testo scritto come forma di testimonianza sociale attraverso cui incidere nella realtà. Negli anni Trenta si afferma in Spagna quella che è stata definitiva la narrativa sociale del pre-guerra16, che muove dalla necessità di un nuovo tipo di romanzo che rappresenti il mondo così com’è: nelle sue ingiustizie, nelle sue gerarchie e disuguaglianze. Tuttavia, Carnés si allontana in parte da questa tendenza narrativa, mostrando ancora una volta come le scrittrici, escluse dalle traiettorie che stabiliscono le etichette letterarie, non per forza seguono pedissequamente le linee marcate dalle forze egemoniche del campo letterario. Già in Natacha ma in particolare in Tea rooms, infatti, Carnés declina quest’idea di letteratura al servizio della società in una modalità che si può indubbiamente definire femminista: se la scrittura può denunciare e illuminare su una situazione di ingiustizia, allora questa denuncia deve riguardare le condizioni vissute dalle donne tanto sul posto di lavoro quanto in casa.
I confini tra vita vera e finzione narrativa sono molto porosi nell’opera di Carnés, non solo a livello di costruzione della trama ma anche di piccoli episodi, come vedremo: in entrambi i romanzi menzionati l’azione prende le mosse dalla realtà concreta dei lavori di cui la scrittrice ha fatto esperienza, che si intreccia con lo sviluppo di una coscienza di classe e, più avanti, con la militanza politica portata avanti sia con la partecipazione attiva sia con la scrittura giornalistica. Su questo piano si ricordi che quello della provenienza operaia di Carnés, obbligata ad andare a lavorare a soli undici anni, non è un elemento secondario, ma che anzi influisce sulla difficoltà a inquadrarla e sulla posizione liminare da lei occupata rispetto al centro letterario. Seguendo Iliana Olmedo, si può affermare che la definizione di «romanzo sociale femminista»17 è quella che riassume meglio i tratti principali della scrittura narrativa di Carnés, focalizzata com’è sulle dinamiche dell’oppressione delle donne e sulle possibili soluzioni da adottare per superarla.

2. Sentire l’ingiustizia. Un racconto di lotta di classe

Tea rooms rappresenta senza dubbio un avanzamento in termini di immaginazione politica rispetto a Natacha: se in quest’ultimo testo sembrano non esserci vie di fuga alla violenza capitalista e patriarcale e la protagonista subisce gli abusi sessuali del padrone, in Tea rooms nel corso della narrazione prende forma una riflessione che, come vedremo, lascerà intravedere una possibilità di azione concreta sulla società. Annunciato dal pronostico di «renovar aquel gran triunfo de “Natacha”»18, Tea rooms comincia a circolare nei primi mesi del 1934, anticipato da una descrizione data dalla stessa autrice:

Se llamará Tea rooms. Novela de mujeres obreras, de lucha de clases. La vida superficial y la vida real de una sala da tè. Desfile de tipos curiosos. Acción, movimiento, perfiles varios, pintorescos o dramáticos. Trabajo en esta nueva novela con una gran fe. La llevo muy avanzada19.

L’elemento significativo che emerge da questo frammento è indubbiamente il fatto che Carnés parla di lotta di classe, il che permette di scorgere l’orizzonte entro cui si situa in parte la narrazione, quello dell’ideologia comunista e della filosofia marxista. Tea rooms è un romanzo sullo sfruttamento che le donne – soprattutto quelle povere – subiscono in quanto donne sia nello spazio lavorativo che nello spazio domestico, modellati entrambi su una struttura sociale profondamente gerarchica. È situato in una materialità storica ben determinata: quella di una capitale europea in piena industrializzazione e avanzamento tecnologico, in cui apparivano i primi segni di modernità e in cui venivano ridefinite le posizioni delle donne, avvenivano cambiamenti sui luoghi di lavoro, venivano organizzate proteste sindacali. Di conseguenza, è un testo che dialoga con temi sociali che facevano parte del dibattito pubblico e politico contemporaneo. Tutti questi aspetti vengono affrontati da una prospettiva che si schiera apertamente a fianco delle donne proletarie, delle lavoratrici che si incontrano nel romanzo e che si pone il problema di come le loro esistenze possano essere liberate.
Scritto tra l’agosto del 1932 e il febbraio del 1933 – quindi quasi in concomitanza con il lavoro da cameriera effettivamente svolto da Carnés – Tea rooms è suddiviso in ventidue capitoli e segue le vicende di un gruppo di donne impiegate in una sala da tè a Madrid. In particolare, è attraverso lo sguardo, la voce e i pensieri di una di loro, Matilde, che le vicende vengono raccontate. La voce narrante in terza persona spesso adotta, infatti, il suo punto di vista con momenti di focalizzazione interna e affondi nella sua interiorità. Questi restituiscono a chi legge non solo degli appunti di riflessione sociologica, ma anche le linee di una coscienza di classe precocemente sviluppata, che nel corso della narrazione diventa carica politica.
L’azione narrativa comincia nel momento in cui Matilde, giovane donna povera, sta cercando lavoro come dattilografa; già in questa parte iniziale emerge la consapevolezza della differenza tra sé stessa e le altre candidate che appartengono alla classe borghese, più spavalde, forti di una sicurezza che deriva dalla loro posizione sociale:

[…] La prossima è una ragazzina giovane, snella, dall’aria decisa. Quando passa davanti a Matilde la guarda con sufficienza. Si siede davanti alla macchina da scrivere senza aspettare che glielo dicano. «La macchina è questa, no?» […] Matilde ha conosciuto molte candidate con queste fattezze e molte con tutt’altro aspetto. Giovani, pulite, col corpo snello e profumato, le mani curate, le unghie brillanti. Alcune sono timide, esitano quando parlano, sedute nella sala d’aspetto nascondono i piedi dentro la sedia o la scrivania. Altre irrompono trionfalmente nella stanza, accavallano le gambe, parlano di salari favolosi, fanno riferimento ad aziende importanti e a volte fumano anche una sigaretta20.

Il senso dell’ingiustizia di classe si fa ancora più acuto nel momento in cui Matilde è costretta a scegliere se acquistare qualcosa da mangiare oppure un biglietto del tram per rientrare verso casa:

Sulla porta di un bar friggono frittelle. […] Le frittelle, dorate e fumanti, emanano un piacevole odore di anice e burro. Matilde le guarda mentre passa ma non si ferma. Sente il bisogno di mangiare. Ha digerito le misere patate di mezzogiorno già da un po’. La invade un senso di rilassatezza soave che le scioglie le membra. Nella borsetta di flanella blu, tra un fazzoletto e una boccetta di profumo vuota, ha dieci centesimi. In testa due ipotesi: una frittella calda o un viaggio in tram fino alla stazione di Cuatro Caminos21.

La forza della fame è resa vividamente dalla ripetizione, distanziata di qualche riga, della stessa espressione: «Frittelle a dieci centesimi. […] Frittelle a dieci centesimi»22. Questo passaggio svela, inoltre, il carattere testimoniale della scrittura di Carnés, che in un articolo del 1953 avrebbe condiviso dei ricordi sulla Madrid degli anni Trenta molto vicini alla scena di Tea rooms:

Los vendedores de patatas asadas han sido siempre una tentación para las adolescentes, aprendices de modista o de carpintero en el centro de Madrid, que vivían en los alrededores de la capital española, y, no disponiendo en cada jornada de labor más que de diez céntimos para regresar por la noche a casita desde el centro debían decidir entre el viaje en tranvía o una patata asada23.

Sin dalle prime battute del romanzo si palesa la percezione marcata di Matilde, un personaggio che trasgredisce la norma, nella misura in cui rifiuta di piegarsi ai comportamenti che il sistema patriarcale le imporrebbe. Di fronte alla richiesta sessista di un possibile datore di lavoro di ricevere una sua foto prima di assumerla, Matilde non riesce a fare altro che pensare: «Canaglia. La parola compare nella testa di Matilde. Sorge e cresce come quegli occhi che avanzano verso di noi sullo schermo fino a catturarci, fino a produrre vertigini su una scala incommensurabile. CANAGLIA»24.

3. Il racconto del lavoro. Diritti, spazi e corpi

Alla fine, Matilde trova lavoro come cameriera in una sala da tè, dove si sposta definitivamente la narrazione. Con tono documentario vengono descritte nei minimi dettagli le giornate di lavoro di Matilde e delle altre dipendenti, che presentano più o meno tutte lo stesso profilo sociologico (con l’unica eccezione di Laurita, appartenente alla classe media): di estrazione proletaria, sono povere e poco istruite. Antonia, Esperanza, Felisa, Trini, Marta e Paca consegnano l’immagine della soggettività femminile operaia, ancora imbrigliata nelle trame di una cultura conservatrice dalla quale sembrano non vedere via di fuga. Rispetto a loro, Matilde «rappresenta una rara e preziosa deviazione dal senso comune»25, per la sua capacità, che si affina nel procedere della narrazione, di vedere le storture del sistema capitalistico e anche la loro origine. La scrittura di reportage permette a Carnés di rielaborare la realtà empirica vissuta dalle donne operaie, e insieme di unire due aspetti fondamentali della sua scrittura: l’uso di materiale autobiografico e il racconto oggettivo del sistema del lavoro femminile. Si veda la precisione quasi cinematografica con cui è rappresentato il passaggio di clienti nella sala da tè:

I clienti danno colore e segnano lo scorrere delle ore nel locale. All’inizio arrivano in massa le domestiche con le loro ceste di tela cerata. Poi la sarta, la dattilografa, l’impiegato, che prendono brioche di pasta sfoglia. Più tardi il garzone di ristoranti famosi come El botones ed El continental («Mi scusi, una pasta»). Poi una vecchia truccata con le sue ragazze pacchiane, beate loro, che tornano dalla chiesa; la proprietaria di una modesta pensione che chiede le torte più economiche; la padrona di casa che compra budini o panna. Nel pomeriggio, dopo un pranzo frugale – dall’Opera a Cuatro Caminos, da Cuatro Caminos all’Opera –, un’ora di calma in cui si coglie l’occasione per passare un panno su vetrine e banconi. Poi ricomincia la sfilata […]26.

E ancora, si notino il tono da inchiesta che Carnés usa per descrivere i movimenti delle lavoratrici, e l’uso di onomatopee, a rendere più concreta e visiva la scena:

Esperanza, Antonia e Paco, il cuoco, aprono il locale al mattino. Antonia riceve le consegne dei rifornimenti alimentari, controlla che le quantità siano corrette e comincia a fare le pulizie. Paco travasa il latte nelle bottiglie dopo averlo smosso con un mestolo di legno in modo da distribuire bene il bicarbonato, poi scalda il piccolo forno della cucina. Esperanza passa l’aspirapolvere – rrrrrr. A volte beve un bicchiere di latte in cucina, velocemente – «prima che arrivi quella maledetta vecchia» – poi scende nel seminterrato a lavare gli stracci. Lì fa freddo anche d’estate: ci sono i frigoriferi, la ghiacciaia, oltre a forti odori di muffa27.

Il testo di Carnés mostra come i diritti delle lavoratrici non venissero né rispettati né tantomeno garantiti. Per esempio, il seguente frammento va letto alla luce del fatto che esisteva dal 1912 una legge che imponeva ai datori di lavoro di garantire delle sedie su cui riposarsi alle lavoratrici costrette a passare molte ore in piedi: «Dietro il banco della pasticceria c’è una panca per far riposare le dipendenti. Ma non è prudente sedervisi troppo a lungo o troppo spesso: la responsabile vigila dal bancone di fronte, severa, dietro alla cassa»28.
Allo stesso modo, quando si dice che Antonia, «la veterana delle inservienti»29, è vedova ma nessuno in sala ne è a conoscenza perché potrebbe rischiare di essere licenziata, si sta facendo riferimento alla legge emanata in Spagna nel 1931 che impediva alle donne sposate di accedere al lavoro salariato, costringendole, di fatto, alla dipendenza economica dal marito: «Antonia è vedova, ma questo in sala è un segreto per tutti. La direzione non ammette donne sposate nei propri negozi, e Antonia nei suoi primi dieci anni di lavoro tra quelle mura ha dovuto nascondere il proprio stato civile come se fosse una vergogna»30.
In un momento storico in cui il tema dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro salariato era al centro sia della riflessione politica che della teoria femminista, con la stesura di Tea rooms Carnés prende posizione sul tema. Da più parti – basti pensare alle formulazioni di Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé – non solo il lavoro era considerato un elemento di priorità nell’analisi della posizione femminile, ma sembravano anche esserci pochi dubbi sul fatto che le donne dovessero avere accesso al lavoro salariato31. Carnés, invece, mette in discussione quest’assunto, problematizzando le condizioni di lavoro e mettendo quest’aspetto in relazione con altri da lei ritenuti più importanti, come, per esempio, quello dell’educazione. Le linee dell’oppressione di classe e di genere si intrecciano per tutta la narrazione, mostrando visivamente quello che Silvia Federici avrebbe elaborato in chiave teorica molti anni dopo: le contraddizioni di un sistema, quello capitalista, che promuove il progresso perpetuando una struttura fatta di gerarchie e disuguaglianze in cui il patriarcato ha un ruolo centrale. L’accumulazione dei profitti va ad arricchire il capitale di chi è già ricco, attraverso un funzionamento che si basa sullo sfruttamento dei corpi subalterni32.
Su questo piano, in Tea rooms è evidente la netta separazione tra classi, tra chi è oppresso e chi opprime: da un lato troviamo le dipendenti e i camerieri, dall’altro la responsabile e il padrone, Don Fermín. Quest’ultimo, definito «l’orco», mantiene il controllo sulla sala da tè con un sistema basato sul terrore: «Quando arriva nel locale […] apre i cassetti e rovista in ogni angolo. Poi all’improvviso interpella una delle ragazze: “Vediamo, quanto costano tre dozzine e mezza di paste? La minima esitazione nella risposta può provocare il licenziamento»33. Lo stesso tipo di potere opprimente e controllante è esercitato dalla responsabile, che non si fa problemi a licenziare immediatamente Felisa dopo che questa ha visto un topo all’interno della sala da tè: «Felisa è la prima a sfilare. Quando passa davanti al banco degli affettati la responsabile la ferma: “Sa già di essere stata licenziata. Venga sabato a prendere la sua ultima paga»34. È la stessa responsabile che costringe le dipendenti a mostrarsi sempre indaffarate, a non dare mai l’impressione di non avere nulla da fare35; si tratta di un personaggio rappresentato come un’antagonista di classe, attraverso cui Carnés mostra che non si può universalizzare l’idea di donna.
Il licenziamento ingiusto di Felisa e l’abolizione del riposo settimanale in seguito alla richiesta di ferie di una delle dipendenti sono alcuni dei soprusi con cui il padrone e la responsabile tengono in scacco le lavoratrici, rendendo sempre più dure le loro giornate. Gli stessi avvenimenti sembrano, per un momento, suscitare un desiderio di protesta collettiva in Matilde e le altre, subito smorzato dalla paura di perdere il lavoro: «Ma se non hai modo di avere un salario più alto… Alla fine, come sempre, le proteste non diventano nient’altro che qualche parola vuota»36.
La separazione tra le dipendenti e i padroni si sostanzia anche nell’organizzazione degli spazi: infatti, se è vero che l’azione si svolge interamente nella sala da tè, vediamo che all’interno di essa ci sono anche anfratti più piccoli. Oltre alla minuscola cucina in cui «l’aria si ricambia solo attraverso una finestrella stretta e verticale che riceve poca luce da un cortile interno»37, Matilde e le altre hanno a disposizione una stanzetta per cambiarsi che si trova nel seminterrato, la cui sporcizia è ovviamente nascosta ai clienti:

[…] una vecchia cabina telefonica foderata con tessuto e dipinta di giallo scuro, un nido di cimici e scarafaggi, in cui le inservienti si spogliano e si rivestono. Una nicchia su cui è stata montata una porta. Dentro c’è un puzzo. Le scarpette di tela sudice e unte, le scarpe per terra e i vestiti appesi la fanno assomigliare a un ripostiglio ricavato in una soffitta. Non c’è un solo buco da cui far cambiare aria. Dietro la porta c’è un piccolo specchio. La lampadina emana una luce fioca. È un po’ che l’aspirapolvere della donna delle pulizie non entra in questa stanza sudicia, piena di fogli accartocciati tra cui spiccano gli incarti lucidi di alcuni cioccolatini38.

Ma soprattutto Carnés si sofferma sul fatto che le dipendenti non hanno accesso al mondo esterno, che si muove e va avanti al di fuori del locale. Mentre la gente si mette in fila per il cinema o va a teatro, mentre i tram sfilano, Matilde e le compagne lavorano dieci ore al giorno, sopportando angherie e osservando dalla vetrina la vita che si svolge nelle strade:

Laurita sta spolverando le vetrine rivolte verso l’esterno. Al di fuori passano i tram, i mezzi vuoti. Un uomo, dalle scale, guarda il programma del giorno nella locandina del cinema di fronte. Un ragazzo pulisce la vetrina di un negozio di dischi per grammofoni e apparecchi di radiotelefonia. Gli spazzini puliscono il selciato. […] Il sole splende attraverso il vetro della vetrina. La vita è bella. La luce chiara che fuori illumina tutto la colma di ottimismo e allo stesso tempo di rabbia per dover stare dentro, «con questa divisa da funerale», con questo caldo appiccicoso39.

Lo spazio esterno è, però, anche quello delle mobilitazioni e dei picchetti sindacali. Movimenti che si avvicinano progressivamente alla sala da tè, e a cui Matilde sente che si dovrebbe aderire. Dopo un episodio di repressione della polizia nei confronti di un gruppo di manifestanti che intonavano l’Internazionale e in seguito all’uccisione di due operai, viene proclamato lo sciopero dei camerieri, dei lavoratori della ristorazione e dei caffè. L’iniziale momento di difficoltà – solidarizzare con gli scioperanti e perdere il lavoro oppure agire da crumiri e rischiare di essere pestati? – è sciolto dalla decisione del padrone, che chiude il locale e manda tutti a casa. Chi ha il potere priva così le lavoratrici e i lavoratori di agentività. Matilde sente il peso di quello che avverte come un tradimento di classe:

«Andatevene tutti. E tornate domani». […] All’improvviso si prova gioia per aver portato un personale granello di sabbia alla causa della classe a cui si appartiene. […] Viva la solidarietà! No. Siamo dei codardi. Non abbiamo fatto altro che seguire gli ordini del padrone. Obbedirgli fedelmente, come sempre. Fedelmente, come cani sporchi, come cani ripugnanti40.

Ora, la difficoltà delle lavoratrici a aderire alle attività sindacali o a organizzarsi collettivamente riflette una realtà storica che ha a che vedere con un cambio di paradigma verificatosi rispetto al lavoro delle donne in tempo di industrializzazione nei paesi occidentali. In Tea rooms vediamo come si sviluppano in divenire alcuni elementi di quel processo che Silvia Federici ha definito «la costruzione della casalinga a tempo pieno»41, basato su una netta divisione sessuata del lavoro. Tra il 1870 e i primi del Novecento, infatti, sotto la pressione delle rivendicazioni operaie e della necessità di una forza lavoro più produttiva, la classe capitalistica avvia una riforma del lavoro che trasforma le fabbriche ma anche la comunità, la casa e la posizione sociale delle donne, ponendo di fatto le basi per la costruzione del lavoro domestico. Vengono messe in atto, cioè, delle procedure di allontanamento delle donne da fabbriche e altri luoghi di lavoro, mentre si raccomanda ai datori di ridurre loro le ore, soprattutto a quelle sposate, e di non assumere donne in gravidanza. Sostanzialmente le donne vengono spinte nelle case e rese non autonome. Si viene quindi costituendo un nuovo regime produttivo, in cui la donna svolge il lavoro domestico e dipende economicamente – e non solo – dal marito, assicurando la riproduzione sociale della famiglia operaia nucleare.
Compito della donna operaia, diventò, quindi, quello «di garantire che il salario fosse ben speso, che il lavoratore fosse ben curato così da poter essere consumato da un altro giorno di lavoro e che i bambini fossero adeguatamente preparati al loro destino di futuri lavoratori»42.
Dopo la Prima guerra mondiale, questo nuovo sistema produttivo andò diffondendosi dall’Inghilterra agli altri paesi industrializzati. Ciò ovviamente non si tradusse nel fatto che le donne smisero all’improvviso di compiere lavoro salariato, anzi. I risultati furono una riduzione degli ambiti di lavoro, un peggioramento delle condizioni, un abbassamento dei salari43 e un aumento del carico, perché oltre al lavoro fuori casa era interamente sulle donne che ricadevano il lavoro di cura e domestico. Proprio su questo solco si manifesta ancora una volta la consapevolezza di Matilde:

Il marito pensa che i lavori di casa si facciano da soli (per miracolo!) e non dà alcuna importanza al lavoro della moglie, all’abbrutente lavoro domestico. […] Per il resto, il marito dice che non ce la fa ad andare avanti con tutto questo lavoro, la sposa ripete fino allo sfinimento che «sgobba come un mulo tutto il santo giorno». […] Nei paesi capitalisti, soprattutto in Spagna, c’è un dilemma problematico e di difficile soluzione: la casa, dopo essersi sposate, oppure la fabbrica, il laboratorio, l’ufficio. L’obbligo di contribuire a vita solo al piacere altrui, o la sottomissione assoluta al padrone o al capo. In un modo o nell’altro, l’umiliazione: la sottomissione al marito o al padre sfruttatore. Non è la stessa cosa?44

Carnés, dunque, mostra i limiti di una posizione che vede nel lavoro salariato una via sicura di liberazione per le donne di classe popolare, incastrate in una doppia catena di abusi. In questo modo, anticipa di molto il dibattito che si svolgerà negli anni Settanta tra il femminismo liberale e quello black e anticapitalista. Se esponenti del primo, come Betty Friedan45, rifiutavano la schiavitù della casa rivendicando la possibilità di lavorare fuori, il secondo, attraverso le formulazioni di bell hooks e Audre Lorde, precisava che per le donne nere e di classe popolare non solo il lavoro extra-domestico era sempre esistito, ma anche che quasi sempre si trattava di lavoro povero46. In Tea rooms troviamo la denuncia del fatto che l’emancipazione attraverso il lavoro fuori casa è fattibile solo per le donne borghesi: «[…] cioè proprio le uniche donne che non si preoccupano dell’emancipazione, perché non hanno mai conosciuto le scarpe rotte o la fame da cui nascono le ribelli»47.
Per le donne di estrazione proletaria la fabbrica, l’officina, il laboratorio possono essere, al massimo, strumenti di sopravvivenza e in ogni caso implicano alienazione e perdita dell’identità. Non a caso, il ritmo della narrazione segue quello delle giornate lavorative: l’effetto iterativo che a volte la scrittura assume serve a riprodurre l’immobilità del contesto che si sta rappresentando: «Quante ore? Dieci ore. […] La notte. Dieci ore di lavoro, stanchezza, tre pesetas. Fuori fa caldo. […] Dieci ore di lavoro, stanchezza, tre pesetas»48.
Dal loro ingresso nella sala da tè, Matilde e le altre si convertono in pezzi d’arredamento del locale, diventando ingranaggi che mandano avanti la produzione capitalistica:

E «una», «una», «ognuna al proprio posto»: «sei paste in tutto»; «una mezza dozzina di biscotti»; «una che risponda al telefono». «Una» ha solo mezza giornata di riposo alla settimana, vale a dire cinque ore ogni sessantacinque di lavoro. «Una» sta sempre qui, «in mezzo a tutto questo appiccicume». Fuori, ozio lusso e amore. Gli uomini che entrano in sala guardano appena le inservienti. L’inserviente, dentro la propria divisa, non è che un elemento d’arredo della sala, un utilissimo accessorio umano. […] «Voi qui non siete donne, siete solo inservienti»49.

Non sono più padrone del proprio corpo, che appartiene al padrone, il quale ne abusa fino a consumarlo:

«Il padrone e l’operaio fanno parte di un solo corpo». […] Il nemico che vede nel corso degli anni – molti, in genere – incurvarsi quel loro corpo per la penuria e le umiliazioni, le tempie imbiancarsi e le membra marcire. «Non mi servi più». E ne prende un altro, lasciando lì quel povero corpo invecchiato. «Non mi servi più»50.

L’autrice si focalizza sulla dimensione materiale che lo sfruttamento lavorativo provoca, che mostra i suoi effetti primariamente sui corpi delle dipendenti. Sono corpi doloranti, affaticati: «Fanno male le piante dei piedi, i muscoli e l’indice della mano sinistra – per via del nodo scorsoio –, e le palpebre sono pesanti»51. La violenza di classe è embodied52, è incarnata anche nella fame che si presenta come bisogno angosciante perché non si sa né se né quando si potrà soddisfarlo. Matilde sa che «la sua fame non è la fame di qualche ora o di qualche anno: è la fame di tutta una vita, sentita attraverso generazioni di antenati poveri»53 e che, nell’attesa di un cambio di paradigma, «[…] bisogna pur mangiare. Bisogna mangiare, in un modo o nell’altro. Per lo stomaco ogni mezzo è lecito e accettabile. Si sa che lo stomaco è immorale»54.

4. Rifare tutto: «la donna nuova ha parlato»

Il personaggio a cui Carnés affida la sua visione politica è senza dubbio Matilde, che vive un processo che si potrebbe definire di coscientizzazione, per prendere in prestito un termine di Paulo Freire55. Ci sono una serie di elementi narrativi che contribuiscono ad alimentare questo processo: i momenti di possibile protesta collettiva, l’indizione dello sciopero, gli echi di ideologia comunista che le arrivano tramite un vicino disoccupato, le vessazioni continue del padrone e della responsabile. Mentre le colleghe mostrano un generale disinteresse per l’azione collettiva56, Matilde progressivamente costruisce una prospettiva di lotta di classe, sentendo sempre «[…] più forte di prima il peso della propria condizione di sfruttata»57. In lei si consolida la convinzione di ascendenza marxista che la società sia divisa in classi, che esista «una linea divisoria» tra «chi sale con l’ascensore e chi deve prendere la scala di servizio»:

Via via che si cresce la linea acquista rilievo, prende corpo. E quando si diventa grandi e si inizia a lavorare, all’improvviso le due metà si presentano chiare davanti agli occhi: una è brillante; ma l’altra, quella scura, è ormai così tanto parte della propria via che per vederla bisogna aprire bene gli occhi e confrontarla con l’altro mondo, e allora… Sembra che nasca qualcosa, che cresca in maniera più netta, solidificandosi. […] Anche se non sa ancora definirla a parole, la vede, la sente in ogni istante. […] E ricorda una volta quando, dopo aver chiesto un indirizzo a uno di quegli antipatici portieri in livrea, la fecero entrare «per la scala di servizio». Un concetto concretizzatosi in parole. La linea divisoria di classe adesso è fissata definitivamente (o chissà, forse solo per un tempo limitato?)58.

Un concetto che si manifesta anche nei più minuti oggetti di vita quotidiana, portatori di realtà anch’essi. Si pensi a quante volte Carnés torna su dettagli come l’abbigliamento e le scarpe delle donne, facendo di essi l’elemento rappresentativo della distanza tra chi lavora per necessità, e chi lo fa solo per guadagnare una maggiore indipendenza:

La donna ricca desidera l’estate che le permette di coltivare le proprie sofisticate nudità. La povera teme l’estate. La povera guarda con timore l’avvicinarsi di quei giorni illuminati da un sole nemico che mette in luce le scarpe sformate e illumina l’usura degli abiti con la precisione di un riflettore cinematografico. La donna povera ama l’inverno, anche se l’acqua le bagna i piedi. D’inverno la gente cammina di fretta e ognuno pensa ai fatti propri. Fa troppo freddo per guardare gli altri. […] E la ragazza di modeste origini non è costretta a camminare preoccupandosi di stare in equilibrio nonostante le scarpe sformate59.

Ma soprattutto, Matilde è un personaggio femminile che trasgredisce la norma di genere, pienamente conscia che l’essere donna porta con sé non solo disuguaglianze, ma anche il destino già scritto di diventare moglie e madre, custode della casa. Matilde respinge l’idea del matrimonio, presentato come via naturale mentre in verità è il risultato di un’imposizione socialmente costruita60, soprattutto per le donne di classe popolare. Riconosce tanto il lavoro quanto la casa come istituzioni repressive e ravvisa nella famiglia nucleare l’ennesimo luogo in cui si alimenta la schiavitù delle donne. Nel momento in cui il ragazzo degli ordini – di cui non è specificato il nome – manifesta un interesse per lei, confessando ad Antonia che in casa sua «c’è bisogno di una donna»61, Matilde sente chiaramente che non può esserci niente di liberatorio nel proposito di sposarsi, anzi: vorrebbe dire essere condannata a un altro spazio di subalternità. C’è una radicale messa in discussione di una componente centrale del modello di donna del tempo, e ciò avviene per il fatto che Matilde allontana fermamente da sé l’identità di angelo del focolare:

Matilde ha visto da vicino, ha toccato con la mano, la tragedia del focolare domestico, la “felicità”, la “pace” della famiglia cristiana celebrata da preti e monache. Il marito torna a casa stanco dal lavoro – quando lavora –, i bambini strepitano e piangono, la donna è mal vestita e scontrosa – ha dimenticato da anni qualsiasi parola piacevole –, e le sue mani puzzano insopportabilmente di cipolla. «Guarda, non ci sono soldi», «Va bene, lo so, non dirmelo. Mica penso che te li sei mangiati», «E a chi devo dirlo, al vicino?», «Senti, non posso fare di più. Sgobbo tutto il giorno come un mulo», «E io non lavoro? Solo che il mio lavoro non porta soldi a casa»62.

Gli eventi più significativi che portano a compimento la presa di coscienza di Matilde riguardano, però, le vicende di Marta e di Laurita, dove le linee dell’oppressione di genere e classe tornano a manifestarsi con particolare violenza. La prima, dopo essere stata licenziata per essere stata sorpresa a rubare, finisce per prostituirsi. Anche se mostra di avere raggiunto uno stile di vita migliore, sancito dal fatto che il suo corpo è cambiato, si è rinvigorito («Matilde ripensa al suo incontro con Marta. Marta era più bella e un po’ più in carne. Seni e fianchi sembravano più voluminosi»63), Matilde sente che neppure Marta «cammina sulla strada dell’emancipazione e della libertà»64. Laurita, invece, appartenente alla classe media, in seguito a una relazione con uno degli attori che frequentano il locale, rimane incinta e sceglie di abortire clandestinamente, andando incontro alla morte65. Ritorna con assoluta centralità il tema del corpo, veicolo principale della subalternità di genere, trasversale alle classi sociali. Che rivela a chi legge lo stato di gravidanza di Laurita: «Con mano tremante tocca uno dei seni, lo palpa, strizza il capezzolo, piccolo e scuro, e alcune gocce giallognole e spesse scorrono sul tessuto fine della sottoveste. […] Presto i suoi fianchi si allargheranno e il ventre comincerà a deformarsi. Forse è già più grossa»66. Per la fine di Laurita Matilde incolpa la società e la morale cattolica, ma soprattutto la mancanza di strumenti culturali:

Se Laurita […] non fosse stata condizionata da pregiudizi religiosi e vecchie tradizioni, si sarebbe comportata diversamente. Ma Laurita non aveva letto altro che romanzi frivoli e riviste cinematografiche. La prospettiva di avere un figlio da una relazione illegittima l’ha sconvolta, spingendola al crimine e a un rischio suicida e incosciente. La responsabilità della morte di Laurita ricade sulle mani della società67.

Comincia a intravedersi quello che per Carnés può essere l’unico motore di indipendenza per le donne, e in particolare per le donne povere, ossia l’educazione. Solo questa può, infatti, formare politicamente le donne, rendendole consapevoli della loro situazione e spingendole a unirsi nella rivendicazione dei propri diritti. Carnés aveva espresso un pensiero molto simile in un articolo intitolato Las mujeres no han votado, uscito su La Voz il 9 maggio del 1933, pochi mesi prima delle elezioni a cui avrebbero partecipato le donne per la prima volta: «Hay que poner [a la mujer] en situación de comprender todas las “verdades” de todas las doctrinas […] Hay que dotar a la mujer de educación política, de la que hoy carece; cuando esta cultura la haya desligado de influencias, el voto de la mujer tendrá un verdadero valor»68.
Solo l’azione collettiva generata dalla consapevolezza può essere veicolo di liberazione per i corpi femminili. È quanto viene espresso chiaramente nel discorso pronunciato dall’operaia incinta in cui si imbatte Matilde dopo aver visto il corpo esangue di Laurita:

Prima credevamo che la donna servisse solo a pregare e a rammendare i calzini al marito. Oggi sappiamo che pianti e preghiere non servono a niente. Le lacrime ci danno il mal di testa e la religione ci abbrutisce, ci rende superstiziose e ignoranti. Credevamo anche che il nostro unico scopo nella vita fosse la ricerca di un marito e fin da piccole non ci preparavano ad altro. Non importava che non sapessimo leggere: l’importante era che sapessimo farci belle. Oggi sappiamo che le donne non valgono solo per rammendare vestiti vecchi, battersi il petto o andare a letto; la donna vale tanto quanto l’uomo anche nella vita politica e sociale. […] Prima per le donne non c’erano che due strade: il matrimonio o la prostituzione. Adesso davanti alla donna si apre una nuova strada, più grande, più degna: questo nuovo sentiero di cui vi parlo, attraverso la fame e il caos dei nostri giorni, è la lotta cosciente per l’emancipazione mondiale del proletariato69.

Il soggetto politico che deve incaricarsi di questo cambio radicale di paradigma deve essere una donna nuova, formata, consapevole e forgiata dalla militanza. Le donne sono chiamate a insorgere contro le loro fonti di oppressione, a fare delle loro individualità un’identità collettiva. Ora, il modello femminile che Carnés mostra di avere in mente è piuttosto lontano da quelli egemonici nei circuiti culturali del tempo, plasmati su un’idea di donna moderna proveniente dalle classi medio-alte. Più che a testi come La mujer moderna y su derechos di Carmen de Burgos (1927) o La mujer moderna di María de la O Lejárraga (1920), Carnés sembra guardare al femminismo socialista, in particolare alle formulazioni di Clara Zetkin e Alessandra Kollontaj70, con cui condivide la necessità di un modello di donna nuova che muova dalle vite operaie e proletarie71. Matilde può incarnare questo ideale femminile, lei che avverte con forza l’ingiustizia di classe e l’importanza della collettività. Sente che ci si deve preparare a «distruggere, per ricostruire. Per costruire su fondamenta di cultura e di solidarietà» e che per questo «la donna nuova, lontana dagli stereotipi, ha parlato e le ha risposto la piccola Matilde. Ma la donna nuova ha parlato anche per tutte le innumerevoli Matilde dell’universo. Quando sarà ascoltata la loro voce?»72.

5. Conclusioni

Questa domanda, con cui si chiude il romanzo, permette di tornare al quesito posto da Spivak e richiamato all’inizio. Come abbiamo visto, il testo di Carnés interroga e mette in discussione alcuni aspetti fondamentali relativi alla posizione della donna proletaria negli anni Trenta: lavoro, maternità, diritti, aborto. Sviluppando questi elementi, la scrittrice restituisce un quadro chiaro e attendibile della subalternità di classe e genere, partendo dai corpi delle lavoratrici e terminando nel corpo senza vita di Laurita.
Descrivendo un frammento di realtà sociale, situato in un tempo e in uno spazio storicamente determinati, Carnés sviluppa un discorso critico che si configura in effetti anche come un tentativo di impegno pedagogico. L’intenzione della scrittrice è quella di mettere al corrente chi legge dei minimi dettagli della situazione vissuta quotidianamente dalle donne operaie – ed è per questo, forse, che sembra che Carnés si rivolga non solo alle lavoratrici, ma anche a un pubblico più ampio, parte di una comunità sia civile che intellettuale. Tea rooms sottolinea la trasversalità dell’elemento patriarcale, onnipresente nella vita delle donne, e ciò è molto in linea anche con quanto espresso più volte dall’autrice nella sua produzione giornalistica, anch’essa ispirata dagli stessi principi di denuncia e di condivisione73.
Calandosi nella più minuta concretezza della sala da tè, si può dire che Carnés persegue la presa di coscienza di chi legge di fronte a temi sociali. In tal senso, un’operazione pedagogica di questo tipo non può che essere anche politica, nella misura in cui rivendica istanze ed elabora una prospettiva di lotta, mentre al contempo nella filigrana del testo si delinea la necessità di una società più giusta e meno gerarchica. In questo, Tea rooms è un testo che mantiene ancora legami chiari con la narrativa sociale di quegli anni, che pure si proponeva di mettere in discussione aspetti dell’ordine costituito. Tuttavia, le vite delle donne sfruttate raramente trovavano posto in quel tipo di produzione, per cui il gesto di Carnés di sottrarre questo tema all’invisibilità è tanto più significativo. E non si limita a questo: la scrittrice costruisce una prospettiva di trasformazione radicale, che cerca sì di suscitare la solidarietà di chi legge, ma che prima di tutto comincia dall’agentività del soggetto femminile.
Differenziandosi dalla cosiddetta Generazione del ’27, inclusa l’esperienza più militante delle Sinsobrero che pure in qualche modo prese forma all’interno di quel gruppo74, Carnés intraprende strade proprie, con una narrazione che da un lato si fa mezzo di trasmissione di un’utopia apertamente comunista (la lotta del proletariato è centrale nella visione politica proposta da Carnés) e dall’altro aderisce a un posizionamento femminista, in nome del quale i soggetti che è importante coscientizzare, in modo che diventino soggetti politici, sono proprio le donne di classe popolare, le obreras.
In ultima analisi, è interessante rilevare come nella scrittura di Carnés quello letterario si configura davvero come uno spazio di sovversione delle norme imposte dal sistema patriarcale e capitalistico. Il discorso finale dell’operaia – la cui gravidanza si sovrappone all’aborto di Laurita appena narrato – mette in parola, sistematizzandolo, l’ordine di pensieri di Matilde che è stato disseminato per tutta la narrazione. Dischiude non solo orizzonti trasformativi, ma soprattutto, riprendendo la riflessione di Spivak, rivela che anche le donne e le soggettività subalterne possono avere spazi e possibilità per parlare di sé e della propria oppressione, per «dire l’indicibile»: apre una crepa «che rende improvvisamente pubblico e fragoroso un sapere prima taciuto»75.


  1. G.C. Spivak, Can the subaltern speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson, L. Grossberg, Urbana, University of Illinois Press, 1988, p. 308.

  2. L. Carnés, Tea rooms. Mujeres obreras (novela reportaje), Madrid, Pueyo, 1934.

  3. Ead., Tea rooms. Mujeres obreras, a cura di A. Plaza, Xixón, Hoja de Lata, 2016. Tuttavia, l’edizione di riferimento sarà quella italiana: Ead., Tea rooms. Operaie della ristorazione, trad. it. di A. Prunetti, Roma, Alegre, 2021.

  4. Sul genere del reportage si veda G. Lukács, Reportage o rappresentazione? Osservazioni critiche a proposito di un romanzo di Ottwalt, in Id., Scritti di sociologia della letteratura, trad. it. di G. Piana, Milano, Mondadori, 1976, pp. 66-84.

  5. A. Bazzoni, Canone letterario e studi femministi. Dati e prospettive su didattica, manuali e critica letteraria per una trasformazione dell’italianistica, in Le costanti e le varianti. Letteratura e lunga durata, a cura di G. Mazzoni, S. Micali, P. Pellini, N. Scaffai, M. Tasca, Bracciano, Del Vecchio, 2021, pp. 139-162.

  6. L. Carnés, Natacha, Madrid, Mundo Latino, 1930.

  7. Ead., Peregrinos de Calvario, Madrid, Mundo Latino, 1928. I titoli dei racconti erano: El pintor de los bellos horrores, El otro amor, La ciudad dormida.

  8. Grazie ad alcune interviste fatte a Carnés in questi anni in seguito alla visibilità raggiunta dalle prime due opere possiamo scoprire qualcosa dei suoi gusti letterari: «[…] Leer de todo, malo y bueno, siempre dentro la más absoluta desorientación. [Así], y a través de innumerables autores y obras absurdas, ascendí hasta Cervantes, Dostoevskij, Tolstoj […], Santa Teresa, Victor Hugo, Maeterlinck, Poe, Goethe, D’Annunzio», F. Cabeza, Luisa Carnés, la novelista más joven de España, in «En Nuevo Día», 29 aprile 1930, p. 5.

  9. Uno dei primi lavori svolti per il Frente Rojo fu, tra l’altro, un’intervista intorno alla celebrazione fatta a Valencia dell’8 marzo, istituita in Spagna come Giornata Internazionale della donna dal 1937, su modello dell’Unione Sovietica e su proposta degli Amici dell’Unione Sovietica: L. Carnés, Las mujeres españolas celebrarán la jornada del 8 de marzo intensificando su labor de guerra, in «Frente Rojo», 27 febbraio 1937.

  10. Risulta che negli anni 1934-1939 Carnés avesse scritto per la stampa spagnola circa 260 articoli, uno alla settimana. Anche al centro della produzione periodistica c’era la figura femminile, la rivendicazione di diritti e questioni come l’accesso al lavoro e al divorzio. Cfr. A. Mata-Nuñez, Reparación feminista de la memoria histórica. La producción periodística de Luisa Carnés, in «Documentación de Ciencias de la Información», XLV, 2, 2022, pp. 141-148.

  11. L. Carnés, Rosalía, Xixón, Hoja de Lata, 2018.

  12. Ead., Juan Caballero, Città del Messico, Atlante, 1956.

  13. Ead., El eslabón perdido, Siviglia, Renacimiento, 2002.

  14. Los cumpleaños (1951), Los bancos del Prado (1953), Los vendedores de miedo (1951-1953).

  15. I. Olmedo, Itinerarios de exilio. La obra narrativa de Luisa Carnés, Siviglia, Renacimiento, 2014, p. 105.

  16. A. Plaza, La presencia de Luisa Carnés entre las mujeres intelectuales españolas. Flujos y reflujos de un movimiento plural (1931-1936), in Mujer, prensa y libertad, a cura di M. Bernard, I. Rota, Siviglia, Renacimiento, 2015, pp. 246-273.

  17. I. Olmedo, Itinerarios de exilio, cit., p. 107.

  18. Vida literaria: una novela de Luisa Carnés, in «La Libertad», 4 maggio 1933, p. 5.

  19. La citazione è tratta da A. Martínez Fernández, Luisa Carnés Narrative Potentiality. A proposal to read Tea rooms. Mujeres obreras (1934), in «Impossibilia», XXII, 2022, pp. 77-105: 79.

  20. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 9.

  21. Ivi, p. 10.

  22. Ibidem.

  23. L. Carnés, Madrid en el recuerdo: ¡Chuletas de la huerta, in «El Nacional», 3 marzo 1953, p. 5.

  24. Ead., Tea rooms, cit., p. 15.

  25. Ivi, p. 37.

  26. Ivi, p. 27.

  27. Ivi, p. 32.

  28. Ivi, p. 26.

  29. Ivi, p. 38.

  30. Ibidem.

  31. «Tanto las escritoras propulsoras de la transformación femenina – Federica Montseny, Margarita Nelken, Halma Angélico, Elisabeth Mulder – como las conservadoras que deseaban mantener el esquema familiar institucional y la posición de la mujer en el espacio doméstico intacta – María de Echarri, Pilar Millán Astray, Carmen de Icaza – coincidían en que la mujer debía acceder al trabajo asalariado», I. Olmedo, El trabajo femenino en la novela de la Segunda República: Tea rooms (1934) de Luisa Carnés, in «Rilce», XXX, 2, 2014, pp. 503-524: 507.

  32. Cfr. S. Federici, Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx, Roma, Derive Approdi, 2020.

  33. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 43.

  34. Ivi, p. 56.

  35. «Ma l’occhio della responsabile – allo stesso tempo guardia e capitano – non smette di gettare occhiate dal bancone di fronte verso le inservienti, osservando ogni loro gesto e movimento. Anche quando è già stata fatta la pulizia ordinaria del locale, la buona inserviente non deve mai rimanere oziosa. “Anche quando sembra che tutto sia stato ben fatto, c’è sempre qualcos’altro da fare”, e “preparare altra carta non fa mai male”. […] Le ragazze non devono smettere di muoversi avanti e indietro lungo il bancone, sorridenti e con la schiena diritta», ivi, p. 26.

  36. Ivi, p. 50.

  37. Ivi, p. 57.

  38. Ivi, p. 35.

  39. Ivi, p. 151.

  40. Ivi, p. 126.

  41. S. Federici, Genere e capitale, cit., p. 59.

  42. Ivi, pp. 62-63.

  43. Mentre quelli degli uomini si alzavano anche del 40 %, visto che l’idea di un «salario familiare era diventata era diventata un obiettivo centrale nella contrattazione sindacale, sostenuto dai partiti operai in tutto il mondo capitalistico sviluppato». W. Seccombe, Weathering the Storm. Working Class from the Industrial Revolution to the Fertility Decline, London, Verso, 1993, p. 114.

  44. L. Carnés, Tea rooms, cit., pp. 106-108.

  45. B. Friedan, La mistica della femminilità, Roma, Castelvecchi, 2012.

  46. b. hooks, Elogio del margine. Scrivere al buio, Napoli, Tamu, 2020.

  47. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 107.

  48. Ivi, pp. 27-28.

  49. Ivi, p. 30.

  50. Ivi, p. 126.

  51. Ivi, p. 27.

  52. «Class is something beneath your clothes, under your skin, in your reflexes, in your psyche, at the very core of your being», A. Kuhn, Family Secrets: Acts of Memory and Imagination, London, Verso, 1995, p. 117.

  53. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 65.

  54. Ivi, p. 133. Tra l’altro, è interessante notare che più o meno negli stessi anni in cui Carnés scriveva Tea rooms, Simone Weil componeva i saggi che avrebbero formato la raccolta intitolata La condizione operaia (1933-34, la prima edizione postuma fu pubblicata da Gallimard nel 1951). In questi scritti sul lavoro di fabbrica Weil si concentra proprio sul fatto che la fame è uno dei dispositivi centrali attraverso cui i padroni mantengono in schiavitù lavoratori e lavoratrici: «La fame. Quando si guadagnano 3 o 4 franchi l’ora, o anche un po’ di più, basta un incidente, un’interruzione di lavoro, una ferita per dover lavorare una settimana o più soffrendo la fame. Non la sottoalimentazione, che può esserci in permanenza, anche senza incidenti: la fame. La fame, congiunta ad un duro lavoro fisico, è una sensazione angosciosa. Bisogna lavorare alla velocità consueta, altrimenti non si mangerà abbastanza nemmeno la settimana seguente. […] Non sarà una scusa dire che si ha fame. Si ha fame, ma bisogna soddisfare egualmente le esigenze di quella gente che ti può condannare in un attimo ad avere ancora più fame». Si cita da S. Weil, La condizione operaia, trad. it. di F. Fortini, Milano, Mondadori, 1990, p. 192.

  55. P. Freire, La pedagogia degli oppressi, trad. it. di C. Alziati e L. Bimbi, Torino, Gruppo Abele, 2022.

  56. «L’operaia spagnola, a parte rare eccezioni nel mondo dell’emancipazione e della cultura, continua a distrarsi con le poesie di Campoamor, a dedicarsi alla religione, a sognare come ‘carriera’ di trovare marito. Le ribellioni, se mai ne prova, non sono altro che momentanei colpi di calore privi di conseguenze. L’esperienza della miseria non stimola la mente a riflettere. Un giorno la mancanza di mezzi economici la costringe al digiuno, un altro mangia fino alla sazietà: in entrambi i casi regna la più perfetta incoscienza. La religione l’ha resa fatalista», L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 37.

  57. Ivi, p. 65.

  58. Ibidem.

  59. Ivi, p. 17.

  60. Sulla costruzione sociale del destino prescritto alle donne di diventare mogli si veda M. Garcia, Sottomessa non si nasce, si diventa, Milano, Nottetempo, 2023.

  61. L. Carnés, Tea rooms, cit., pp. 111-112.

  62. Ivi, pp. 106-107.

  63. Ivi, pp. 162-163.

  64. Ivi, p. 163.

  65. L’aborto viene legalizzato in Spagna nel 1985.

  66. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 157.

  67. Ivi, p. 170.

  68. L. Carnés, Las mujeres han votado, in «La voz», 9 maggio 1933, p. 2.

  69. Ead., Tea rooms, cit., p. 167.

  70. In particolare, il testo di Kollontaj che Carnés sembra conoscere e tenere è mente è il saggio La donna nuova e la morale sessuale, uscito in Russia nel 1913 all’interno della raccolta La nuova morale e le classi operaie e tradotto in Spagna nel 1931.

  71. Cfr. C. Somolinos Molina, La «mujer nueva ha hablado»: diálogos entre Luisa Carnés y Alexandra Kollontai en Tea rooms. Mujeres obreras (1934), in «Castilla», 14, 2023, pp. 833-861.

  72. L. Carnés, Tea rooms, cit., p. 171.

  73. Più di una volta nei suoi articoli Carnés aveva insistito sulla necessità, per la donna, di emanciparsi da qualsiasi tipo di influenza, che fosse quella del marito o del padrone, del capo ufficio o del padre. Su questo si veda F. Lazzarato, Luisa Carnés, la consapevolezza dell’ingiustizia, in «Il Manifesto», 11 giugno 2021.

  74. È questo il nome in uso per riferirsi alle artiste e letterate che fecero parte di quella compagine eterogenea, con particolare riferimento al gesto ritenuto scandaloso compiuto provocatoriamente dalle pittrici Maruja Mallo e Margarita Manso di camminare per strada senza cappello. Cfr. T. Ballo, Las Sinsombrero: sin ellas, la historia no está completa, Barcellona, Espasa, 2016.

  75. G. Siviero, Fare femminismo, Milano, Nottetempo, 2023, p. 24.


This article examines some interesting aspects of Tea rooms. Mujeres obreras by Luisa Carnés. Resuming the term “novela reportaje”, associated with the work in the first edition and then set aside, the focus is on the ways in which the author recounts the intertwining of class and gender oppression. In particular, the analysis observes how, by blending narrative writing with an investigative tone, Carnés precisely describes the working conditions of a group of women employed in a tea room, providing a vivid representation of the double chain of exploitation in which proletarian women are entangled. Through the tools of feminist criticism, specifically through the intersectional lens, attention is drawn to the narrative transposition of a dual dimension of violence, impacting spaces and bodies, and the possibilities of transgression of the norm, embodied in the character of Matilde.