«Il tempo della mia scrittura è sempre il presente». Il lavoro come esperienza temporale nell’opera di Vitaliano Trevisan
Introduzione
Se si cerca di esplorare in maniera sistematica la portata del lavoro, in quanto esperienza, nell’opera di Trevisan, ci si trova di fronte a una serie di riflessioni che, in prima battuta, possono sembrare contraddittorie e inconciliabili.
Da un lato, il lavoro è visto a partire dal primo capitolo dell’opera come una maledizione (viene citata la Genesi) della quale il protagonista non riuscirà mai a liberarsi, dall’altro emerge a più riprese un sentimento di soddisfazione per un lavoro ben fatto, e anche un (nevrotico) orgoglio, da parte del protagonista, per essere stato capace di svolgere bene il compito che gli è stato assegnato. Un’ulteriore contraddizione si riscontra tra alcune prese di posizione teoriche del narratore-protagonista, in cui il lavoro viene pensato come un’attività insensata, che serve solo a riempire un vuoto esistenziale, e delle pagine in cui il narratore-protagonista parla del benessere che trova nel lavoro.
Nel presente saggio cercherò di esplorare queste contraddizioni richiamando le contraddizioni originarie dell’etica borghese, e interpretando in seguito il lavoro come esperienza profondamente connotata in senso temporale.
Il primo paragrafo esplora le prese di posizione teoriche esplicitamente rivendicate dal narratore-protagonista di Works, inserendole in una tradizione filosofica che parte dai moralisti francesi, per arrivare a contrapporre la posizione del narratore di Works a quella di Robinson sull’isola, e la sintassi impiegata da Trevisan a quella che Franco Moretti ha rintracciato nel capolavoro di Defoe. Il paragrafo successivo esplora le pagine in cui il narratore-protagonista di Works parla del lavoro nei termini di un’esperienza temporale in cui si realizza una benefica e corroborante comunione col presente. Il terzo e ultimo paragrafo, prendendo a prestito alcune idee sviluppate dallo psichiatra e fenomenologo Eugène Minkowski sull’esperienza del tempo vissuto, tenta di sciogliere l’apparente contraddizione tra la posizione teorica del narratore-protagonista di Works e la prassi che descrive, per arrivare a suggerire una contrapposizione tra il funzionale e borghese Robinson Crusoe al disfunzionale e malinconico protagonista di Works.
1. «Un vuoto spaventoso»
All’interno di Works, all’inizio del capitolo Mobilità, è riportato sotto forma di lunga citazione, che si estende per quattro pagine intere, un passo originariamente contenuto in Un mondo meraviglioso2.
Tale passo si riferisce a un periodo in cui il narratore-protagonista, dal momento che l’azienda da cui è impiegato si trova in concordato preventivo, viene collocato «in mobilità»3. Con un reddito garantito che gli permette la sussistenza e gli dà quindi facoltà di «disporre del [suo] tempo nella sua totalità»4, senza la necessità di cercare un impiego con urgenza, il narratore-protagonista si trova a poter disporre di una quantità di tempo libero di cui non aveva mai goduto (ma vedremo immediatamente quanto il verbo «godere» sia poco appropriato) fino a quel momento: ed è proprio a questo punto, quando l’attività lavorativa viene a mancare, che egli si trova a riflettere sul senso esistenziale dell’attività lavorativa.
La citazione è troppo lunga per essere riportata per intero: ne riporto un estratto ampio per permettere al lettore di avere un’idea dello stile in cui la riflessione è sviluppata; le cifre relative alle occorrenze delle parole, nell’analisi che segue, fanno però riferimento al passo nella sua totalità:
Il sabato e la domenica soprattutto sembrano essere giorni che spaventano, giorni spaventosi, specialmente il sabato, che ha davanti a sé la domenica, giorni spaventosamente vuoti, ed è un vuoto che chiede a gran voce di essere riempito. […]
Durante i cosiddetti fine-settimana, i famigerati week-end, si è costretti a darsi da fare per riempire il vuoto, e allontanare il conseguente senso di vuoto, lasciato dalla sospensione dell’usuale attività lavorativa, sospensione che inevitabilmente ci lascia soli con noi stessi e il senso di vuoto, conseguenza del vuoto; eventualmente soli con noi stessi e i nostri cari, pensavo, costringendoci a inventare un lavoro o comunque un’occupazione che ci distolga da noi stessi e dai nostri cari e dal vuoto e dal conseguente senso di vuoto. La forsennata attività lavorativa e non lavorativa, domestica ed extradomestica […] pensavo camminando, nasce dal vuoto spaventoso in cui ci piomba la sospensione del lavoro che normalmente e quotidianamente ci distoglie da noi stessi […].
[…] E tutto a causa del vuoto, pensavo, tutto questo lavoro, se non lavoro occupazione, o comunque attività, contro il vuoto, e a giudicare dal livello di questa attività, penso, il vuoto che ci circonda […] dev’essere un vuoto davvero spaventoso, un vuoto raccapricciante, se non il vuoto senz’altro la percezione del vuoto, una vera maledizione sotto forma di senso del vuoto, ossia intollerabile coscienza del vuoto e dunque paura del vuoto e orrore del vuoto e spavento del vuoto, paura orrore e spavento che ci inducono a rivolgere tutte le nostre forze contro la paura l’orrore e lo spavento del vuoto, in definitiva contro il vuoto, l’unica arma per combatterlo essendo un’attività di riempimento, materiale e immateriale, della natura e del paesaggio, natura e paesaggio esterni e interni, esternamente in quanto fraintendimento, internamente in quanto reale percezione di un vuoto essenzialmente interno5.
Nel loro articolo sui capitoli Mobilità e Mobilità n. 2, Mara Santi e Tiziano Toracca propongono un’interpretazione che muove dal concetto marxista di alienazione, e che si concentra sulla legittimazione sociale che il lavoro offre al lavoratore e che viene a mancare quando cessa l’attività lavorativa:
al di fuori del mondo del lavoro il soggetto non sa su quale puntello appoggiare la determinazione sociale della propria identità, ovvero non sa come definirsi nel contesto sociale […].
La natura del vuoto viene lasciata piuttosto nel vago, mentre è segnalata in modo esplicito la sua connessione con la perdita di legittimazione sociale: «Sono in mobilità […] sono escluso dal cosiddetto ciclo produttivo […] e siccome sembra che il mondo del lavoro sia l’unico mondo legittimo, comunque l’unico che dia legittimità, la mia è un’esistenza illegittima perché non legittimata6.
L’interpretazione fornita dai due studiosi è senza dubbio convincente, ed esaustiva per quanto riguarda la parte della riflessione di Trevisan relativa al lavoro in quanto attività sociale. Mi pare, però, che a complemento dell’analisi di Santi e Toracca sia possibile analizzare ulteriormente la parte relativa al vuoto esistenziale, e al lavoro come mezzo per colmarlo.
Questo aspetto della riflessione di Trevisan si inserisce infatti in una tradizione filosofica illustre e di lunga durata. Non è certo un caso che gli exerga del capitolo Mobilità, immediatamente precedenti la lunga citazione (ma assenti in Un mondo meraviglioso) siano presi dai moralisti francesi: dai Saggi di Montaigne il primo («La nostra vita non è se non movimento») e dai Pensieri di Pascal il secondo («La nostra natura è nel movimento: il riposo assoluto è la morte»7).
Pascal in particolare, e per la precisione il suo celeberrimo frammento sul divertissement, è l’evidente referente filosofico primario dell’idea di fondo esposta nel lungo passo di Trevisan. Del frammento sul divertissement8 si cita abitualmente il celebre aforisma «tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: e cioè dal non saper stare tranquilli in una stanza»9: il seguito del frammento, però, può essere inteso come una fonte quasi letterale di Trevisan.
Per Pascal, l’infelicità è per gli esseri umani universale e ineludibile, e si palesa a chiunque si fermi a riflettere da vicino sulla propria condizione: «quando, dopo aver trovato la causa di tutti i nostri guai, ho voluto scoprirne i motivi, ho constatato che ce n’è uno molto reale: ossia l’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, e così miserabile che nulla ci può consolare quando ci pensiamo attentamente»10.
È a partire da questo che il filosofo rintraccia negli uomini «un segreto istinto, che li spinge a cercare la distrazione e l’alienazione, che deriva dalla percezione delle loro continue miserie»11. Divertissement, ovviamente, non va tradotto come «divertimento» ma come «distrazione», a meno di non intendere «di-vertimento» in senso etimologico: il termine divertissement, insomma, indica l’atto di spostare l’attenzione, di distoglierla dal pensiero di qualcosa.
Quello che cerchiamo nelle diverse attività – Pascal accomuna il gioco, la guerra, le grandi imprese, e dei non meglio specificati «emplois» (‘occupazioni’) – è precisamente «il grattacapo che ci distoglie dal pensarvi e ci distrae»12, il frastuono che ci impedisce di pensare alla nostra condizione: nient’altro che le «attività di riempimento, materiale e immateriale» di cui parla Trevisan.
Pascal ragiona in una logica di ancien régime, e pensa, almeno esplicitamente, più alla nobiltà che alla borghesia; eppure, la frase finale del lungo frammento fa precisamente riferimento al lavoro, e alla necessità di tenersi occupati anche quando si sia delegato ad altri di provvedere alle proprie necessità materiali («besoins»):
Badate bene: essere sovrintendente, cancelliere, primo presidente, che altro è se non trovarsi in una condizione in cui al mattino si ha una moltitudine di gente che viene da tutte le parti, per non lasciare loro un’ora nella giornata in cui possano pensare a se stessi? E quando cadono in disgrazia e vengono rispediti nelle loro case di campagna, dove non mancano né di beni, né di domestici per assisterli nei loro bisogni, essi si sentono miseri e abbandonati, perché nessuno impedisce loro di pensare a sé stessi13.
Ovviamente, parlare di lavoro nei termini esistenziali di una distrazione che ci permette di non pensare alla miseria della nostra condizione metafisica significa, almeno apparentemente, obliterare il fatto che il lavoro è, per chiunque non possa vivere di rendita, una necessità materiale – dato che Trevisan ha invece sempre ben presente. Alla domanda dell’insegnante di inglese Mr Chess «perché lavorate», il protagonista è l’unico a rispondere «Because I need money to live»14, eppure, è altrettanto ricorrente nel romanzo – e riportata immediatamente prima della domanda di Mr Chess – l’idea che il lavoro sia, da un punto di vista più ampio e antropologico, un’invenzione, un’attività fondamentalmente gratuita:
06/04/95 – In una cooperativa di handicappati, come quella che ho sotto gli occhi, si comprende chiaramente come il lavoro altro non sia se non un’invenzione dell’uomo per contrastare l’insensatezza dell’esistenza, per rendere più leggero il peso di quell’insensatezza15.
Per indagare questa (apparente) contraddizione bisogna risalire alle origini dell’etica borghese, il cui fondamento paradossale è proprio questo: l’idea di un padrone che lavora, senza essere soggetto a una vera necessità materiale. Ne ha parlato Franco Moretti, rifacendosi a Norbert Elias, nel capitolo del Borghese dedicato a Robison Crusoe, significativamente intitolato Un padrone lavoratore: «Oggi non ci si rende generalmente conto del fatto che uno strato superiore ‘che lavora’ è un fenomeno unico e sorprendente […] Perché si assoggetta a questa costrizione quantunque […] non abbia dei superiori che possano costringervela?»16.
Moretti si chiede perché Robinson, sull’isola, lavori così tanto e in maniera così indefessa, ben oltre le necessità imposte dalla sopravvivenza. Attraverso un’illuminante analisi sintattica, rintraccia nella descrizione dell’attività di Robinson le forme assunte dalla «ragione strumentale come pratica linguistica»17:
Soggetto, oggetto e verbo. Un verbo che ha interiorizzato la lezione degli strumenti e la riproduce all’interno delle attività di Robinson: dove un’azione, tipicamente, si fa sempre con il fine di fare qualcos’altro […].
Due, tre verbi per riga; in mano a un altro scrittore, tutta questa attività sarebbe diventata frenetica. Qui, invece, un onnipresente lessico teleologico (perciò, scopo, desiderare, armato, pronti, mi misi, pratici, cura provvedere…) fornisce il tessuto connettivo che dà solidità e coerenza alla pagina, mentre i verbi suddividono pragmaticamente le azioni di Robinson tra i compiti immediati delle proposizioni principali (andai, vidi, misi, portai) e il futuro più indefinito delle proposizioni finali (per tagliarne, a trasportare, per metterci, come provvedere); ma neanche tanto più indefinito, a dire il vero, perché, per una cultura dell’utile, il futuro ideale è così a portata di mano da essere poco più che un proseguimento del presente. […] Qui tutto è compresso e concatenato; non si salta mai un passaggio […]18.
Poco più oltre, nella sua analisi delle forme linguistiche che la razionalità borghese assume nel grande romanzo di Defoe, Moretti individua le forme della ragione strumentale non solo nei «progetti intenzionali di Robinson», ma anche «subito dopo il naufragio, [nel] momento più calamitoso e inatteso di tutta la sua vita»19: «Robinson va a ‘cercare’ acqua ‘da bere’; poi si mette in bocca del tabacco ‘per ingannare la fame’, si sistema in modo da ‘non cadere’ e si taglia un bastone per difendersi. Teleologia a breve termine ovunque, come se fosse la cosa più naturale del mondo»20.
La sintassi del passo di Trevisan che abbiamo preso in esame è, se così si può dire, l’opposto diametrale di quella reperita da Franco Moretti nelle pagine di Robinson Crusoe.
Se la fonte stilistica dell’autore veneto è evidentemente Bernhard (e in particolare Korrektur21), un’analisi dello stile di Trevisan rispetto al grande classico di Defoe potrà forse valere (al limite, come mera suggestione) come attestazione sintomatica circa l’attuale stato della ragione strumentale.
Se la prosa di Robinson Crusoe «è non solo il ritmo della continuità, ma anche della irreversibilità»22, «ritmo […] misurato, costante, ma altrettanto deciso a procedere senza mai tornare indietro»23, il passo di Trevisan colpisce proprio per la predominanza schiacciante delle forme grammaticali «statiche» (sostantivi e aggettivi, che si riferiscono a enti o qualità persistenti nel tempo) in opposizione ai verbi, e di tutte le possibili figure retoriche della ripetizione.
Nel passo di Trevisan è anzitutto evidente, naturalmente, la ripetizione ossessiva dei sostantivi e degli aggettivi: il sostantivo «vuoto» è ripetuto ventisei volte in poco più di una pagina (in media, due occorrenze ogni tre righe), il sostantivo «sabato» occorre venti volte in poco più di una pagina («le mie giornate sono un susseguirsi di sabati: un sabato che ha davanti un sabato, senza soluzione di continuità. Settimane composte di solo sabato, mesi composti di solo sabato, un lunghissimo pericolosissimo letale sabato periodico della lunghezza di un anno. Trecentosessantacinque sabati uno in fila all’altro, uno dopo l’altro, uno di fianco all’altro […]»24).
Allitterazioni, epanalessi, anafore, poliptoti («giorni micidiali e pericolosi e lunghissimi nella loro micidiale pericolosità»25; «e siccome sembra che il mondo del lavoro sia l’unico mondo legittimo, comunque l’unico che dia legittimità, la mia esistenza è un’esistenza illegittima perché non legittimata»26), enumerazioni, polisindeti («intollerabile coscienza del vuoto e dunque paura del vuoto e orrore del vuoto e spavento del vuoto, paura e orrore e spavento»27), climax («si dovrebbe parlare di stragi del fine settimana, ecatombi del fine-settimana, apocalissi del fine-settimana»28), variationes, tutte virtuosisticamente incuneate le une nelle altre, al punto che in qualsiasi passaggio è possibile reperire, tendenzialmente, la combinazione di almeno due (e spesso tre, a volte addirittura quattro) figure della ripetizione: tutto, nel passo citato di Trevisan, mira a creare un ritmo martellante e ossessivo che, in maniera opposta rispetto alla forma individuata da Moretti in Robinson Crusoe, torna sempre su sé stesso, sempre al punto di partenza.
Eppure, anche le giornate di Robinson sull’isola (e anzi, nel suo isolamento, il rischio è per lui ancora più concreto che per il protagonista di Works) potrebbero potenzialmente diventare «un lungo susseguirsi di sabati»: ma Robinson, eroe dell’ottimismo borghese e della fiducia nel progresso, si rimbocca le maniche, e si organizza in maniera da continuare ad osservare la scansione del tempo:
After I had been there about ten or twelve days, it came into my thoughts, that I should lose my reckoning of time for want of books, and pen and ink, and should even forget the Sabbath days from the working days; but, to prevent this […] I cut every day a notch with my knife, and every seventh notch was as long again as the rest, and every first day of the month as long again as that long one; and thus I kept my calendar, or weekly, monthly, and yearly reckoning of time29.
Anche Robinson, sull’isola, è preso da momenti di disperazione, in cui si trova in «terrible agonies of mind» che lo costringono a correre senza una direzione «like a madman»30. Ma ogni volta che è preso dallo sconforto, Robinson scrive, calcola, conta, lavora, arriva a elencare i pro e i contro della sua condizione «very impartially», con il metodo contabile della partita doppia: in un parola, Robinson razionalizza:
I now began to consider seriously my condition, and the circumstances I was reduced to, and I drew up the state of my affairs in writing, not so much to leave them to any that were to come after me (for I was like to have but few heirs), as to deliver my thoughts from daily poring upon them, and afflicting my mind; and as my reason began now to master my despondency, I began to comfort my self as well as I could, and to set the good against the evil, […] and I stated it very impartially, like debtor and creditor, the comforts I enjoyed against the miseries I suffered […]31.
Accostando due testi separati da trecento anni, e redatti in lingue diverse, non si può certo avere la pretesa di dimostrare qualcosa: mi limito qui ad avanzare, in via preliminare, un’ipotesi che andrà avvalorata o smentita da uno studio più sistematico ed esteso, che esula dalle ambizioni di un articolo. Eppure, dall’accostamento di queste due forme di prosa, contrapponendo Robinson Crusoe, capolavoro degli albori del capitalismo, a Works, testo dell’era del capitalismo avanzato, si può già forse cominciare a intravvedere che essi presentano in fondo due lati della stessa medaglia.
Il narratore di Works è un Robinson che, almeno nei suoi momenti di riflessione, guarda all’etica del lavoro in maniera disillusa, che ha smascherato il meccanismo che ancora permetteva a Robinson di trovare una forma di equilibrio. L’angoscia di Robinson sull’isola, di cui poco ci è dato vedere, appartiene alla stessa famiglia del senso di vuoto del narratore-eroe di Works (e a questo proposito andrebbero chiamati in causa, per un testo come per l’altro, anche gli studi di genere: perché il distogliersi da sé stessi attraverso il lavoro ha certo molto a che vedere con l’etica borghese del lavoro, ma ha anche molto a che vedere con la costruzione sociale della maschilità borghese): in Robinson Crusoe però, il lavoro razionalizzato funziona ancora, per dirla con Weber, come «mezzo tecnico non già per acquistare la salvezza, ma per liberarsi dall’angoscia»32, mentre il narratore di Trevisan ha preso pienamente coscienza, almeno quando si ferma a riflettere, delle aporie di questo tipo di razionalizzazione.
2. «Esserci al presente»
Se dunque nel momento della riflessione filosofica il narratore-protagonista di Works si inserisce nella tradizione filosofica pascaliana che vede nel lavoro un’attività «qualsiasi» che non è portatrice di senso in sé, ma che ha valore di mero riempitivo e distrazione, come si spiega quello che Toracca e Santi hanno a ragion veduta chiamato il «costante, sorprendente tono euforico»33 del narratore di Works? Come si spiega il fatto che il narratore eroe finisce sempre per svolgere il proprio lavoro con diligenza e attenzione, quando non con autentica passione?
In parte, certo, si tratta di una questione di dovere introiettato, di aderenza a un’etica per la quale il narratore si maledice, ma della quale è allo stesso tempo (nevroticamente) orgoglioso:
Potrei anche farmi i cazzi miei in orario d’ufficio […] Così fan tutti… eppure, c’è qualcosa in me che non va, un’allergia, un’intolleranza al concetto; e poi ‘fanculo!, così fa chi può e vuole, che sarà pure la stragrande maggioranza in questa putrescente democrazia […], ma non è tutti; qualcuno resta fuori; e non per questo quel qualcuno dovrà aspettarsi qualcosa in cambio, semmai il contrario; né aversene a far vanto, o in alcun modo lamentarsene. Resta il diritto, per chi resta fuori, di non essere compreso in quel tutti34.
L’introiezione di un’etica imposta dall’esterno è però solo uno degli aspetti che la complicatissima questione del rapporto dell’uomo con il lavoro assume in Trevisan, e probabilmente una delle più superficiali. Il narratore-protagonista di Works finisce spesso – quasi sempre – per appassionarsi genuinamente al lavoro che si trova a svolgere in quel momento, a cercare la maniera di svolgerlo efficacemente, economicamente, e, a seconda dei lavori, talora anche cercando una forma di eleganza del gesto.
Come è possibile conciliare questo aspetto – il fatto che il lavoro assume tendenzialmente sempre, per il bene o per il male, un valore esperienziale per il protagonista di Works –, con la filosofia da lui programmaticamente esposta, che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente?
Come può, nello stesso romanzo, chi scrive che qualsiasi occupazione serve solo a riempire il vuoto spaventoso delle nostre esistenze, scrivere «Soldi a parte, ebbi la conferma di ciò che pensavo: il lavoro manuale, specie se all’aperto, mi faceva star meglio, di corpo e di testa. […] Non avevo più dubbi, era quella la strada: lavoro manuale pensiero e scrittura, alla Wittgenstein»35?
Un’idea ricorre quando il narratore-protagonista parla dello svolgere il proprio lavoro con passione: idea che è veicolata con l’espressione «esserci», «esserci al presente», sempre in corsivo, sempre accompagnata da una formula attenuativa, che ne attesta il carattere in qualche maniera impreciso («per così dire», «se così si può dire, ma credo di sì»).
Le occorrenze sono numerose. Nelle prime due qui riportate, il narratore parla della sua passione per il lavoro di lattoniere:
[…] quel nuovo lavoro, arrivato per caso, mi piacque da subito proprio perché si trattava di lavorare in alto, sui tetti, cosa che dava al mondo una prospettiva inusuale; e che fosse così pericoloso me lo faceva piacere ancora di più, forse perché l’altezza, di cui, almeno all’inizio, ero sempre ben cosciente, mi obbligava a concentrarmi, a esserci, per così dire, lì e ora, su quella trave, su quel muro, su quel tetto, e mi costringeva continuamente a mettermi alla prova, quasi fosse un gioco e non un lavoro […]36.
Ma a parte muoversi, anche rimanere semplicemente fermi sul posto, spesso accucciati, o seduti, o con un ginocchio a terra, o meglio su una falda inclinata, la testa chinata e le spalle protese in avanti, verso il vuoto, già in parte nel vuoto, a saldare l’angolo di una grondaia in rame per esempio […] star fermi al limite, a quell’altezza, era qualcosa che impegnava il corpo anche staticamente, se così si può dire, ma credo di sì, essendo questione di mantenere un baricentro saldo, e operare senza mai comprometterlo; e infine la testa, che di quella statica doveva sempre aver coscienza (esserci)37.
«Esserci per così dire»: le formule volte ad attenuare si spiegano forse col tentativo di smorzare la connotazione heideggeriana che il termine «esserci» assume immediatamente agli occhi del lettore, ma esprimono anche l’elusività dello stato che il narratore cerca di descrivere.
Nella seconda citazione, è suggestivo che il narratore parli di vuoto: star fermi al limite, «verso il vuoto, già in parte nel vuoto» (il corsivo è di Trevisan). Si tratta qui, ovviamente, di un vuoto decisamente fisico, e non certo del vuoto esistenziale discusso nel paragrafo precedente: eppure, non è questa forse un’immagine della concentrazione che, finché dura, permette al soggetto, in qualche misura, di abitare anche il vuoto esistenziale?
In un altro passo, precedente ai due citati e relativo un lavoro di cartografia raccontato nel capitolo Enzimi n. 2, il narratore protagonista descrive un lavoro che ha svolto «con la più grande passione», e nel contrapporre il suo carattere a quello del suo responsabile ricorre di nuovo all’espressione «esserci al presente», ancora una volta precisata dalla locuzione «se così si può dire»:
E io di nuovo lo ringrazio, e volentieri gli perdono tutto il tormento che mi fece poi subire, nel mentre seguivo ed eseguivo, con la più grande passione, quei lavori. Una questione caratteriale. No, una questione fisica, dove c’entrava molto il corpo e il modo di muoversi. Lui grasso, eppure nervoso, sempre in movimento, sempre con la testa un passo avanti a se stesso, per così dire, e da qui una fretta che probabilmente confondeva con velocità. Io, al contrario, magro, fisico nervoso, eppure con una grande tendenza ad apparire lento, addirittura immobile; e assente, anche, anzi soprattutto, come ora so, quando non lo sono affatto, e di altro non si tratta se non di esserci al presente, se così si può dire, con la testa e con il corpo, e dunque pensare il minimo indispensabile, possibilmente non pensare affatto, e fare ciò che va fatto nel modo più economico possibile, cosa che, paradossalmente, ma più che un paradosso è appunto un equivoco, ci rende più veloci. Dunque non sono affatto lento. Lo sembro, e questo, nella vita di strada, è sempre stato un grande vantaggio, mentre viceversa, sul lavoro, un grave difetto38.
Ancora una volta, l’idea non meglio precisata di «esserci al presente», ancora una volta la smorzatura «se così si può dire»: l’immagine che Trevisan veicola in questi passaggi è quella di una lavoro concentrato, di uno stato di trance indotto dal lavoro, come quello in cui si trova Levin nelle pagine di Anna Karenina dedicate alla falciatura. Lavoro come meditazione in movimento, come concentrazione sul presente: come, paradossalmente, una forma di contemplazione attiva – ed è significativo, a questo proposito, che il narratore non sappia dire se quello che tenta di descrivere sia un fenomeno che riguarda la mente oppure il corpo, e che esiti tra i due: «Una questione caratteriale. No, una questione fisica». Ci avviamo alla conclusione del nostro ragionamento, ed è il momento di enunciare la nostra ipotesi. La si può riassumere così: se il lavoro in Trevisan è ambiguo, è perché è sempre, in maniera più o meno esplicita, pensato come un’esperienza profondamente connotata in senso temporale, ed è quest’ultimo – il tempo – ad essere ambiguo.
Gli scritti di Trevisan – le riflessioni sul tempo che vi si trovano – mostrano diverse sorprendenti convergenze con un classico della letteratura psichiatrica: Il tempo vissuto di Eugène Minkowski, un’opera dall’eloquente sottotitolo Fenomenologia e psicopatologia, che esplora il tempo in quanto esperienza individuale, e non oggettiva, tanto nel vissuto del soggetto sano quanto nei vissuti dei soggetti psichiatricamente patologici (o patologizzati).
Cominciamo col leggere le righe in cui Minkowski descrive la contemplazione:
Ciò che distingue il contemplare dal guardare non è un maggior grado d’attenzione, come vorrebbero ancora certe definizioni, è piuttosto un lasciarsi andare che ci dà appunto la possibilità di assorbirci interamente in ciò che contempliamo e di lasciarci quasi penetrare. […] Si potrebbe anche scorgere nella contemplazione immobilità e passività. Ma questa pretesa immobilità non è altro, in fondo, che il senso di armonia e di riposo che deriva da questa unione intima con il divenire-ambiente […] che è del tutto diversa dall’immobilità reale. È questa penetrazione a far sì che non vi sia posto nella contemplazione per la contrapposizione di un soggetto e di un oggetto; c’è piuttosto un’equivalenza tra i due, in quanto se io m’immergo in ciò che contemplo, la cosa contemplata si anima, diviene viva quanto me, penetra fino al fondo del mio essere, diventa la sorgente della mia ispirazione39.
Non è del tutto impossibile che un autore colto come Trevisan conoscesse Minkowski, anche se per ora non sono riuscita a reperire tracce che lo possano attestare: mi limiterò dunque a notare, qui e nel paragrafo successivo, qualche curiosa convergenza, anche lessicale, che, se non è indice di un rapporto tra i testi, è quantomeno sintomo di una affinità di pensiero tra i due autori. Come Trevisan, Minkowski parla di immobilità apparente: la contemplazione è esplorata da Minkowski nel capitolo Il contatto vitale con la realtà. Il sincronismo vissuto40, che, eloquentemente, discute delle forme in cui il soggetto riesce a superare il senso di tensione provocato da quello che Minkowski chiama «slancio personale», e che caratterizza il vissuto temporale proprio del soggetto in opposizione all’ambiente, per farvi subentrare un «senso di riposo e di distensione»41, riuscendo a colmare «la lacuna» che lo psichiatra rintraccia nel rapporto del soggetto con il divenire. Il lavoro come forma di riconciliazione del soggetto con l’ambiente: possibile che sia questa la lezione delle opere di Trevisan? O si tratta piuttosto di una forma di pacificazione temporanea, che nasconde però ulteriori insidie? Nel prossimo paragrafo, tenterò di spingere oltre il ragionamento.
3. «Ah il tempo!»
Ah il tempo! Tic-tac, tic-tac, tic-tac, pensiamo al tempo, e inevitabilmente sentiamo dentro questo inesorabile angosciante meccanico tic-tac, tic-tac, e ci dimentichiamo che a fare tic-tac è l’orologio che ci hanno ficcato in testa fin da piccoli, e non il tempo. Dovrei saperlo: più di trent’anni di studio e pratica batteristica me l’hanno insegnato. Tutto quel tempo passato a misurarmi col metronomo, prima di rendermi conto che a confondermi era proprio il fottuto metronomo! Una volta sperimentato che, imparando a memoria i testi delle canzoni, non solo non sbagliavo più, ma […] tutto, guadagnando in fluidità, acquistava anche in espressività, mi liberai del metronomo in quanto tale, e dell’idea stessa di tempo meccanicamente, o peggio ancora atomicamente determinato, che sarà certo utile a più di qualche cosa, ma non a suonare e, se è per questo, nemmeno a vivere. Ah sì, sul tempo potrei scrivere all’infinito. Ma è ora di tornare in Africa. Solo lo spazio per una considerazione che non so nemmeno se abbia un senso, ma tant’è: il tempo, o meglio i tempi, per esistere, non hanno affatto bisogno che noi li misuriamo42.
Che cosa Vitaliano Trevisan avrebbe avuto da dire sul tempo, se mai ne avesse parlato organicamente, è uno dei tanti interrogativi destinati a restare nell’ambito della speculazione e del rimpianto. A mia conoscenza, le considerazioni sul tempo nell’opera di Trevisan sono frammentarie, e chiedono di essere reperite e sistematizzate, e resta alla sensibilità e all’intelligenza dei critici proporne un’interpretazione.
Nella bellissima pagina del postumo Black Tulips appena riportata, Trevisan, ancora una volta in sintonia con Minkowski, oppone un tempo interiore a un tempo esterno e oggettivamente misurato, «che sarà utile a più di qualche cosa, ma non […] a vivere»: allo stesso modo, fondamento teorico del Tempo vissuto è l’idea, espressa da Minkowski nell’incipit del libro, che «Quando, nella vita ordinaria, si parla di tempo, istintivamente tiriamo fuori l’orologio o guardiamo il calendario, come se tutto si riducesse, in rapporto al tempo, nell’assegnare a ogni avvenimento un punto fisso»43, ma «né il concetto del tempo misurabile nel campo nel normale, né la nozione di disorientamento del tempo nel campo del patologico possono esaurire il fenomeno del tempo vissuto, essi ne costituiscono solo una piccola parte, uno degli aspetti più astratti e pertanto più lontani dalla realtà vivente, e non potrebbero di conseguenza servire come punto di partenza per un’analisi completa del tempo»44.
Nella seconda parte dell’opera, Minkowski esplora dunque il tempo effettivamente vissuto, e in opposizione a quello oggettivo, in diverse condizioni psicopatologiche, tra cui la psicosi maniaco-depressiva. Sappiamo che la questione riguarda da vicino il narratore-protagonista di Works:
sono nato melanconico così come uno nasce epilettico, un’altra emofiliaca, un altro ancora dislessico, autistico eccetera. Nel tempo le diagnosi cliniche della mia malattia sono andate variando, a seconda della scuola di pensiero, o della specializzazione […] Da semplice depressione, a depressione cosiddetta bipolare, a psicosi maniaco-depressiva eccetera45.
Ora, nella depressione endogena (cioè nella depressione apparentemente ‘senza causa’, che si oppone alla depressione «reattiva», che si verifica come una reazione a eventi esteriori), Minkowski rintraccia precisamente una «una modificazione profonda della struttura del tempo»46, che lo psichiatra ascrive sostanzialmente a una mancata proiezione nell’avvenire:
È l’orientamento della nostra vita verso l’avvenire che le dà un senso; là dove questo orientamento manca, tutto sembra uguale, insulso, senza capo né coda; e allora ci si domanda: perché tutto questo? a che scopo?
Allo stesso modo, questo orientamento ci permette di distinguere, basandoci anzitutto sulla realizzazione dei nostri progetti, delle tappe nella nostra vita; distinguiamo queste tappe senza tener conto dei dettagli, degli elementi che vi possono intervenire; lo stesso è pure per i nostri atti diretti a un fine e che terminano con la realizzazione dei nostri progetti. Ma laddove la propulsione verso l’avvenire non interviene più, gli atti, gli avvenimenti si frazionano in movimenti, in elementi isolati, e tanto più quanto più è grande l’inibizione47.
Ovviamente, Minkowski ragiona da psichiatra: da clinico, cioè, che crede nella possibilità, almeno per l’individuo sano, di essere un membro funzionale della società, e di poter vivere, nella sua funzionalità, una vita ragionevolmente felice; la lunga tradizione dell’antipsichiatria ha, nel corso dei decenni, contestato questa visione, così come l’idea stessa di «malattia mentale», mostrando come la psichiatria possa facilmente farsi, in questa prospettiva, pratica clinica che diventa ancella dello status quo. Cercando di conservare le osservazioni di Minkowski sul rapporto al tempo (e in particolare l’idea che un mancato orientamento verso l’avvenire sia legato a uno stato di profonda tristezza), liberandole però dall’idea che lo stato del «malato» dipenda da lui, e non dalla realtà che lo circonda, possiamo avvicinarci al narratore-eroe di Works, e proporre un’interpretazione del suo rapporto al lavoro da un punto di vista esistenziale.
L’«esserci al presente» di cui parla il narratore-protagonista di Works – il fenomeno che, nel paragrafo precedente, abbiamo assimilato alla contemplazione – è un fenomeno che gli permette la «comunione col divenire», il «riposo», finché dura; nel momento in cui si ferma, il soggetto può però tornare a ragionare sull’estensione temporale (tra passato, presente e avvenire) della propria condizione, e a vedere l’orientamento della propria vita come vuoto e insensato. Se Robinson, che incarna la funzionalità borghese, riesce a placare l’angoscia di trovarsi solo su un’isola deserta per mezzo di una teleologia a breve termine, nell’impossibilità di proiettarsi su un tempo troppo lungo, per il malinconico protagonista di Works il lavoro funziona invece come un meccanismo che permette un benessere temporaneo, ma che rivela la propria inconsistenza appena ci si fermi a ragionare.
-
This work of the Interdisciplinary Thematic Institute LETHICA, as part of the ITI 2021-2028 program of the University of Strasbourg, CNRS and Inserm, was supported by IdEx Unistra (ANR-10-IDEX-0002), and by SFRI-STRAT’US project (ANR-20-SFRI-0012) under the framework of the French Investments for the Future Program.↑
-
Cfr. V. Trevisan, Works, Torino, Einaudi, 2022, pp. 339-342. ↑
-
Per un’analisi approfondita dei due capitoli di Works Mobilità e Mobilità n. 2 in relazione alla legge sulla mobilità n. 223/1991, si veda T. Toracca, M. Santi, La procedura di mobilità e la sua rappresentazione letteraria: Mobilità e Mobilità n. 2 in Works di Vitaliano Trevisan, in «Forum Italicum», LIII, 2, 2019, pp. 480-501, con particolare riguardo ai paragrafi 1-4, in cui Tiziano Toracca rende conto delle evoluzioni legislative della procedura di mobilità nel sistema giuridico italiano, e delle loro rationes. ↑
-
Cfr. V. Trevisan, Works, cit., p. 339. ↑
-
Ivi, pp. 339-342. ↑
-
Cfr. T. Toracca, M. Santi, La procedura di mobilità e la sua rappresentazione letteraria: Mobilità e Mobilità n. 2 in Works di Vitaliano Trevisan, cit., pp. 491-492. ↑
-
Entrambi citati in V. Trevisan, Works, cit., p. 339. In nota, Trevisan riporta i riferimenti delle due edizioni italiane da cui le traduzioni sono prese: per Montaigne, l’edizione Adelphi a cura di Fausta Garavini, per Pascal, l’edizione Einaudi a cura di Paolo Serini. ↑
-
Come è noto, i frammenti di Pascal sono numerati diversamente a seconda delle edizioni. Le citazioni nel presente articolo sono tratte dall’edizione italiana delle opere complete, dove il frammento è il n. 168. Cfr. B. Pascal, Opere complete, a cura di M.V. Romeo, Milano, Bompiani, 2020. ↑
-
Ivi, p. 2349. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ivi, p. 2351. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ivi, pp. 2353-2355. ↑
-
V. Trevisan, Works, cit., p. 372. ↑
-
Ibidem. Questa frase è riportata in intercalato, come una citazione, all’inizio del capitolo Ricariche, e l’autore ne riporta la fonte in nota: «Dal taccuino che porto sempre con me (anche quando non l’ho con me) dell’epoca». ↑
-
N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 287, cit. da F. Moretti, Il borghese. Tra storia e letteratura, Torino, Einaudi, 2017, pp. 26-27. ↑
-
Ivi, p. 34. ↑
-
Ivi, p. 33. ↑
-
Ivi, p. 43. ↑
-
Ivi, p. 44. ↑
-
Che d’altronde si colloca nella stessa tradizione filosofica per quanto riguarda le riflessioni sul lavoro come atto fondamentalmente gratuito, come occupazione che viene anzitutto concepita per distrarsi da qualcos’altro. Cfr. T. Bernhard, Correzione, Torino, Einaudi, 2013, p. 201: «Mentre la nostra attenzione è rivolta al nostro lavoro e alla pericolosità e alla delicatezza del nostro lavoro, passiamo la maggior parte del tempo solo a cercare di superare comunque il periodo più vicino, sempre il periodo più vicino a noi e pensiamo, dobbiamo pensare solo a come superare il prossimo periodo, non al lavoro, soprattutto quando è complicato e richiede tutte le nostre energie vitali. […] non importa come, basta superare, pensiamo, sentiamo d’istinto. […] Lavoro, ausilio per far fronte alle prime necessità, non importa che specie di lavoro, occuparsi, vangare il giardino o perseguire l’oggetto filosofico, non ha importanza. Allora siamo ossessionati da un’idea e in fondo abbiamo solo la forza di sopravvivere, quindi siamo nella condizione più tormentosa. Non siamo tenuti a fare nulla, così Roithamer, nulla sottolineato». ↑
-
F. Moretti, Il borghese, cit., p. 47. ↑
-
Ibidem. ↑
-
V. Trevisan, Works, cit., p. 341. ↑
-
Ivi, p. 340. ↑
-
Ivi, p. 341. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Ibidem. ↑
-
D. Defoe, Robinson Crusoe, London, Harper Collins, 2013, p. 53. Il corsivo è mio. ↑
-
Ivi, p. 39. ↑
-
Ivi, p. 54. ↑
-
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Rizzoli, 2018, p. 176. ↑
-
T. Toracca, M. Santi, La procedura di mobilità e la sua rappresentazione letteraria: Mobilità e Mobilità n. 2 in Works di Vitaliano Trevisan, cit., p. 483. ↑
-
V. Trevisan, Works, cit., p. 358. ↑
-
Ivi, p. 363. ↑
-
Ivi, p. 398. I corsivi sono nell’originale. ↑
-
Ivi, p. 408. I corsivi sono nell’originale. ↑
-
Ivi, p. 225. ↑
-
E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 2004, p. 63. ↑
-
Ivi, pp. 61-74. ↑
-
Ivi, p. 61. ↑
-
V. Trevisan, Black Tulips, Torino, Einaudi, 2022, pp. 113-114. ↑
-
E. Minkowski, Il tempo vissuto, cit., p. 13. ↑
-
Ivi, p. 15. ↑
-
V. Trevisan, Works, cit., pp. 405-406. ↑
-
E. Minkowski, Il tempo vissuto, cit., p. 280. ↑
-
Ivi, p. 284. ↑