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Tensioni verso il reale tra testimonianza e autorappresentazione

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Nel numero 57 di «Allegoria» del 2008, Raffaele Donnarumma affermava che a partire dalla fine degli anni Novanta si sono affermati scrittori «che hanno fiducia nel racconto come strumento d’analisi della società presente, della vita interiore, del mondo materiale. Le loro storie vanno prese per buone, cioè per vere – anche se sappiamo bene che si tratta di finzioni»1. Si inaugurava così un dibattito che avrebbe visto risposte agguerrite, come quella di Andrea Cortellessa2, ma che è in seguito andato in contro ad una più mite accettazione di questa rinascita realista, fino ad arrivare al capitolo relativo agli anni Novanta in Il romanzo in Italia curato dallo stesso Donnarumma3.
In questo studio prenderemo in considerazione due testi, osservandoli alla luce del «bisogno morale di ritorno alla realtà» cui lo studioso faceva riferimento: Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi, che precede l’inchiesta di due anni, e Parigi è un desiderio di Andrea Inglese, che invece la segue di otto anni. I due romanzi appartengono al genere autobiografico, ma vi si inseriscono con modalità e si pongono fini estremamente diversi. A differire è innanzitutto il bagaglio di vita ed esperienze dei due autori-personaggi, anche se entrambi appartenenti alla categoria dei lavoratori culturali4: l’una originaria di Barberino di Mugello, nata in una famiglia operaia, laureata in scienze politiche e sindacalista; l’altro originario di Milano e di un «microclima sereno da classe media»5, che per un periodo ha attraversato le tappe del mondo accademico nel tentativo di diventare uno degli «intelligentoni del posto fisso»6 nella metropoli più grande d’Europa. Se dunque il percorso esperienziale dei due autori è così dissimile, i testi di chiara matrice autobiografica non possono che portare risultati radicalmente distinti.
Come poco prima accennato, gli elementi differenziali sono relativi sia all’aspetto morfologico dei testi, con ricadute sulla stessa definizione del loro genere di appartenenza, che al fine che essi si propongono. A tali elementi differenziali guarderemo, nel tentativo di osservare quale ruolo e quanto spazio assuma la rappresentazione del lavoro nella tensione verso il reale di questi due testi.

1. «Ghostwriter per i lavoratori»

In un’intervista su «Left» Simona Baldanzi risponde ad una domanda sulla conciliazione tra mondo del lavoro e scrittura con un’osservazione che può essere un buon punto di partenza per comprendere la natura del concetto di lavoro culturale su cui si incentra il confronto che stiamo tentando di porre:

Scrivere per me è anche rappresentare e viceversa, scrivere è cercare una voce e fare sindacato è mettere insieme le voci, scrivere è fare ricerca su di me e su ciò che mi circonda e fare sindacato è rimescolare ciò che imparo da queste ricerche. Sono mondi che se saputi mettere al servizio l’uno dell’altro possono essere potenti. Il primo atto di riconoscimento di una condizione, di una vita, di una persona, come di una lavoratrice o di un lavoratore è il raccontare. Ci si racconta per riconoscersi, per fare gruppo, per difendersi, per rivendicare, per migliorare. Da sindacalista e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza mi capita di scrivere e scherzando dico che faccio spesso la ghostwriter per i lavoratori7.

Compare subito un verbo assolutamente centrale: rappresentare. Colmo di significato nella prospettiva della ricerca del proprium della letteratura e quindi nel senso della capacità oggettivante del testo letterario, assume in questo caso un valore precisamente militante. La letteratura è mezzo per veicolare rivendicazioni, ma ancor di più è essa stessa un luogo in cui rivendicare un posto, appunto perché «il primo atto di riconoscimento», anche per la capacità oggettivante ora nominata, «è il raccontare».
L’operazione cui Baldanzi contribuisce con questo libro e con questa concezione della scrittura, dunque, è la ricostruzione di un immaginario della classe lavoratrice. Nell’opera questa strada viene percorsa per mezzo di un testo autobiografico che non solo si sottrae al voyeurismo che spesso contraddistingue questa tipologia di scritti8, ma porta sul piano narrativo la riflessione sulla necessità della creazione di un immaginario collettivo consapevole. Questo dato emerge chiaramente dal confronto tra un brano in cui Prunetti ragiona sulla progressiva asportazione del concetto di classe dal discorso pubblico, e una sezione di testo del romanzo:

Intanto, per avvelenare i pozzi della working class veniva decretato morto anche l’immaginario operaio. Tutto quello che puzzava di sudore era visto come roba vecchia: la modernità era infilarsi in un outlet o in un centro commerciale a strusciare la carta di debito. Nell’economia reale, si frantumavano i processi produttivi, si distruggevano le industrie per delocalizzarle e creare intanto un’economia di servizi e finanza9.

Quel giorno di lezione su fordismo e postfordismo lo commentano insieme appena finì l’ora. Il prof ci consigliò: «Se passate da Detroit andate a vedere la Ford». Non disse mica: «Se passate da Pontedera andate a vedere la Piaggio»! la sua affermazione fu evidentemente un sottolineare che in quel pubblico di studenti non vi erano figli di operai (operai poi manco a pensarci) perché altrimenti avrebbero già visto una fabbrica e non si sarebbero comunque potuti permettere un viaggio a Detroit. Però quel prof fece una domanda, che neanche lui si sognava che qualcuno potesse rispondere affermativamente. Una di quelle domande che si fanno perché la classe risponda no e tu possa essere felice di spiegare ciò che loro non sanno.
Chiese: «Qualcuno di voi ha mai visto una catena?».
Io mi guardai intorno un po’ spaventata. Adesso, se rispondo, divento animale da circo. Presi fiato, coraggio e alzai la mano. «Io l’ho vista. Ci lavora mia mamma, fa l’operaia. È un’industria tessile che lavora a catena, appunto». Tutti mi guardarono. Il più stupito era il prof che con aria di sfida mi chiese di descriverla. Io raccontai quello che più o meno mi ricordavo. Ma evidentemente toppai. Mi disse: «No, non è così, non più». Lui cominciò a parlare di «isole computerizzate», di gruppi di lavoro, team, équipe di operai e non più mansioni di catena. Parlava di macchinari spettacolari, di lavoratori che non mettevano solo la loro forza fisica, ma tutto l’ingegno in un pulsante. Quasi quasi veniva voglia di andarci a lavorare. Altro che fare il prof nell’università. Descrisse il tutto come da un bel libro di fantascienza. Ma quella venuta da Marte sembravo io e non lui. Agli occhi di tutti avevo mentito: avevo descritto tutta un’altra realtà fatta di vecchi e grossi macchinari, di rumori assordanti… parlavo di un’altra epoca. Adesso siamo nel Terzo Millennio. Sveglia signorina!10

Con un sarcasmo tutt’altro che velato la narratrice, oltre a mostrarci la distanza tra effettiva realtà del lavoro operaio e percezione che ne ha la middle class, fa riferimento alla principale caratteristica di quella che Prunetti definisce letteratura working class: «un protagonismo culturale di operai che si raccontano da soli per non farsi raccontare da altri»11. Nonostante il personaggio sia una studentessa universitaria, questo protagonismo contraddistingue il romanzo che dal punto di vista letterario si inserisce in un gruppo di scritti che «oppongono […] a quella “perdita dell’esperienza” di benjaminiana memoria a cui si è richiamata e ancor si richiama tanta letteratura contemporanea, una poetica sostanzialmente esperienziale»12, e che hanno come fine quello di dare rappresentanza alla classe lavoratrice in ambito letterario, riconquistandole in questo modo «accesso al discorso pubblico»:

Il risultato è di avvalorare l’esperienza individuale del mondo, la propria o quella del testimone che viene messo sotto i riflettori. […] gli autori stessi si pongono come testimoni (cioè come “testis”, nel senso latino del termine di spettatore) e portavoce di quei testimoni martiri (questa volta nel senso greco del termine “martire” come testimone di dio) che sono invece i loro protagonisti facendo in qualche modo da filtro, con il racconto, fra i lettori e i protagonisti che hanno in questo modo diritto di accesso al discorso pubblico13.

Tale avvaloramento dell’esperienza individuale è operato secondo una modalità necessaria che Prunetti inserisce nel suo Piccolo manifesto personale di scrittura working class:

se parliamo di noi e delle nostre famiglie, non è narcisismo. Quello che per alcuni è narcisismo, per altri è autorappresentazione. Così le storie personali di chi sta nei coni d’ombra della narrativa diventano storie esemplari. Se diciamo «io», non è per culto della personalità, ma per un’assunzione di responsabilità su quel che raccontiamo14.

Questa rivendicazione della validità dell’esperienza appare tanto più rilevante se osservata in parallelo a quanto Giglioli scriveva relativamente alla svalutazione del soggetto nella contemporaneità15. Il testo di Baldanzi, a nostro parere, va considerato nella più generale ottica del ritorno dell’esperienza perché sembra configurarsi come tentativo di restituire la natura pubblica dell’esistenza umana, e di reintrodurre la dimensione politica nel «recinto delle possibilità umane». Ciò avviene per la sovrapposizione dell’esperienza familiare della protagonista con quella dei minatori del Mugello, attraverso una scrittura che, rifacendoci alla terminologia utilizzata da Giglioli, enfatizza non l’Io ma il soggetto: «È di quell’impotenza che si fa figura la scrittura dell’estremo. Di qui la sua esasperata enfasi sull’Io, luogo delle finzioni riparatrici e protettive. […] Il soggetto non è un signore degli inganni come l’Io, ma neanche un flusso innocente […]. È piuttosto un’insistenza, una promessa, un’accettazione della necessità di essere chiamati a rispondere, dunque una responsabilità»16.
L’elemento della divaricazione tra coscienza collettiva e realtà di cui poco sopra, invece, permette di legare questo ritorno dell’esperienza ad una sorta di recupero dell’autorità che Benjamin ricordava esser propria delle due tipologie più arcaiche di narratori: l’«agricoltore sedentario» e il «mercante viaggiatore». Queste due figure avevano il potere di restituire al lettore porzioni di realtà ad esso precluse quali il passato delle «storie e delle tradizioni» della propria terra nel caso dell’agricoltore sedentario, e la conoscenza dei luoghi remoti in quello del mercante navigatore17. Nella letteratura working class del nuovo millennio l’autorità viene ai narratori dal fatto di esser portatori di un’esperienza di nuovo preclusa al circolo dei lettori non soltanto per la non sperimentazione diretta, ma perché «a partire dagli anni Ottanta e Novanta si è diffuso uno storytelling che ci vuole tutti “ceto medio”»18. Si potrebbe dunque affermare che gli scrittori working class hanno un capitale di esperienza narrabile che gli deriva dalla loro esclusione dall’immaginario collettivo.
Se osserviamo quanto Donnarumma affermava in merito alla questione della «crisi dell’esperienza» ci rendiamo conto di quanto lo storytelling cui ora abbiamo accennato fosse radicato:

Ciò di fronte a cui la narrativa contemporanea ci mette è, anziché la perdita dell’esperienza, il tentativo di fare esperienza di un mondo avvertito come traumatico o minaccioso, più che come smarrito nell’indistinzione di immaginario e reale. Il vero incubo […] è, al contrario, un grumo di realtà che non si lascia catturare e sciogliere da nessuna finzione. Certo, questo tentativo percorre strade diverse: e se all’estero prevale una via critica e problematica […] il panorama italiano sembra invece caratterizzato dalla malinconia di un io debole e incerto19.

A sfuggire a questa debolezza e incertezza dell’io riuscirebbero, secondo Donnarumma, solo alcuni autori di autobiografie e romanzi autobiografici emigrati in Italia per mezzo di un portato di esperienza e «volontà testimoniale autentiche»20. Osservando queste parole con la coscienza che il testo di Simona Baldanzi le precede di due anni ci rendiamo conto dell’inedita consapevolezza con cui l’autrice si è posizionata in un panorama letterario in cui la morte dell’esperienza era considerata una condizione dell’esistenza incontrovertibile e universalmente valida.
Figlia di una vestaglia blu è spesso definito come memoir o reportage, e tuttavia i suoi specifici connotati narrativi e formali impediscono una chiara attribuzione del testo ad un genere narrativo. In particolare, la suddivisione dei piani narrativi, l’utilizzo dei tempi verbali che questa comporta, e la creazione di immagini dall’effetto deformante o straniante, parrebbero spingere il testo verso il polo finzionale dei generi narrativi. Per tentare un’ordinata problematizzazione dell’attribuzione di quest’opera ad un qualsiasi genere, osserviamo da vicino gli elementi cui abbiamo appena fatto riferimento.
Il testo è composto da sessantuno micro-capitoli per lo più aventi la stessa struttura: un primo piano della narrazione, al presente indicativo, in cui la narratrice si autorappresenta nel presente del suo lavoro di indagine per la tesi di laurea sui minatori – in maggioranza calabresi – coinvolti nell’operazione di scavo nelle montagne del Mugello per il passaggio del Tav. All’interno di questo piano narrativo ad un certo punto un particolare emerso dalla visita ai campi base o da una conversazione fa sì che inizi il movimento della memoria che, all’imperfetto, sovrappone l’esperienza individuale della madre, operaia nello stabilimento Rifle di Barberino, a quella della collettività dei minatori. È il caso del capitolo 9 L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, in cui la narratrice mentre entra nella mensa di un campo base si sente rivolgere un appellativo che crea un collegamento, di tipo largamente semantico, con la figura principalmente coinvolta nel programma di riorganizzazione aziendale della Rifle avviato nel 2000:

Un lavoratore mentre passo mi fa «Principessa», e allargando un braccio si inchina, mentre gli altri trattengono una risata. Riesco solo a fare mezzo sorriso e a sibilare un «no, no…». Principessa a me? No, vi prego.
Quando le cose si misero male alla Rifle arrivò una nuova figura in ditta: il dottor Re. Re era il suo cognome. Il Re decide della sorte dei suoi sudditi. Difatti questo dottor Re era la nuova figura manager, assunta per smantellare tutto. Addetto alle risorse umane. Pagato fior di milioni per la ristrutturazione aziendale, per gestire le famose unità lavorative. […] Tu rimani. Tu te ne vai. […] Tu sei degno di lavorare. Tu no21.

Se consideriamo ciò alla luce dell’affermazione secondo cui «ciò che “fa” finzione, da un punto di vista strettamente testuale, è l’impiego della narrazione simultanea in prima persona»22, abbiamo un primo elemento che ci allontana sia dalla tendenza esclusiva alla modulazione del ricordo propria del memoir, sia alla pretesa documentaristica del reportage.
Se poi guardiamo alle immagini dall’effetto deformante o straniante di cui sopra il gradiente di finzionalità aumenta. Prendiamo come esempi quelle dei capitoli 2 (Cellophane) e 7 (Insegne). Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un’apostrofe al lettore che introduce una prosopopea raffigurante una vestaglia blu che partorisce, prima occorrenza dell’equivalenza tra vestaglia da lavoro e personaggio della madre che dà il titolo al romanzo:

Vi potete immaginare una vestaglia blu che partorisce una bimba? E poi un bimbo? Sarebbe facile: niente dolori, si aprono i bottoni e zac! Il gioco è fatto. Bimbi confezionati ad hoc. Ma una vestaglia che spinge con tutte le proprie forze su un lettino con i lembi di stoffa finali che si aprono davanti ai medici… è proprio brutta come idea. Non ci si può immaginare. Eppure spesso ci ho pensato. Ci ho quasi creduto.
Ricordo che quando vidi le foto di mia mamma che mi allattava in ospedale mi stupii che avesse una vestaglia da notte e non da lavoro. Finalmente qualche fiorellino su cotone bianco anziché quel rozzo blu. Perché insomma, di tutti i ricordi che ho, mia mamma ha sempre indossato una vestaglia blu23.

Si riporta un’immagine per poi qualificarla come frutto dell’immaginazione della narratrice.
Nel secondo caso, invece, viene prima narrato il processo attraverso il quale si viene a creare l’immagine e poi l’immagine stessa. Si tratta di una fantasticheria che la narratrice narra a partire dal ricordo dell’insegna («enorme» e «con due parole. Una bianca. RIFLE. Una blu. Jeans»24) che incontra sempre tornando in auto a Barberino, e che raffigura degli alieni che rubano l’insegna e la portano via:

Io intanto alzo gli occhi al cielo che ancora la sovrasta. Sorrido da sola mentre guido e ascolto la radio. Ho degli strani pensieri. Sapore di vecchi libri di fantascienza. Di qualche film fantasy. L’immaginare altri pianeti, altri dove, altri modi di vivere. Altre facce, altri paesi, altre società, altri mondi possibili.
Un giorno un gruppo di alieni calerà prima dell’alba. Senza coprirsi il volto o cose del genere. Agiranno indisturbati. Nessuno li vedrà perché impegnati nel sonno. Quello ottuso e prepotente che ti impedisce di vedere oltre. Si porteranno via, trainata dalla propria astronave, l’intera insegna. La poseranno sul proprio pianeta. In una specie di ciò che per noi è una piazza. Tutti la guarderanno un po’ incuriositi. Un po’ dubbiosi. Forse un furto inutile. Si interrogheranno sulle parole, sui colori. E non capiranno. O forse afferreranno al volo prima di tanti altri sulla Terra […]. Si rizzeranno loro le antenne, sempre le possiedano. E dopo una decisione unanime fatta di sguardi, senza bisogno del voto o sciocchezze da democratici, la useranno come specchio per le allodole. E se queste nel frattempo fossero estinte, o emigrate su altri pianeti, potrà sempre servire a illuminare l’ingresso del paese.
Il loro, però25.

Questi elementi eccentrici e contenuti nel momento in cui il tempo del narrare si affaccia sulla pagina, contribuiscono ad allontanare l’opera da generi quali reportage e inchiesta e a individuare come ulteriore etichetta calzante per il primo piano (presente) di questo romanzo ibrido la definizione di «gonzo reportage»: «il gonzo reportage è una forma di giornalismo in cui l’autore si proietta nel testo per raccontare una storia di cui è stato testimone, facendo a meno della pretesa di obiettività»26. Prunetti si rifà a questa definizione tenendo a mente le caratteristiche del gonzo journalism, e indicando come principale strada per la veridicità della rappresentazione la lente deformata del soggetto che è immerso nella realtà27. A questa concezione risponde un altro punto nel manifesto di Prunetti, il quarto:

preferiamo i punti di vista obliqui

Ci infiliamo nelle storie di soppiatto, come cani in chiesa, come spettri nella casa del padrone. Per avvicinarsi al reale non c’è solo il realismo. Raccontiamo la realtà ma lo sguardo sulla realtà enfatizza ogni volta un dettaglio distinto. Possiamo fare anche a meno di un punto di vista frontale. Possiamo scegliere angolazioni oblique, più distorsive, che deformano il campo della messa in scena. Per scrivere la realtà talvolta dobbiamo scrivere contro la realtà28.

Alla luce di ciò, si può ben comprendere come non sia integrabile in questa lettura l’asserzione secondo cui Simona Baldanzi in questo romanzo «aggiunge alla conoscenza diretta dell’ambiente operaio le forme di inchiesta derivanti dagli approcci sociologici»29. La stessa occorrenza testuale cui Lettieri si rifà per dimostrare il «difficile e precario equilibrio tra coinvolgimento personale e distacco obiettivo»30 («Non posso commentare, non posso dire niente perché sono lì per la ricerca, per la tesi, non devo, non posso perdere di vista l’etica della ricerca, dell’occhio imparziale»31) che l’autrice riuscirebbe a mantenere nell’applicazione a livello narrativo del metodo «dell’osservazione partecipante», non è riconducibile all’applicazione nel testo di questo metodo, quanto piuttosto alla rappresentazione (attraverso un’ottica obliqua) che l’autrice fa di sé stessa mentre lo applica nel lavoro di ricerca.
Il romanzo di Baldanzi nulla condivide con reportage documentaristici o inchieste che assumono una facie a metà tra romanzo e raccolta di fonti, ma è piuttosto una narrazione ibrida che trova uno specchio adeguato in un incitamento contenuto nel quinto punto del manifesto di Prunetti:

Intrecciamo quindi opere di finzione con memoir, autofiction, etnografia della classe, inchiesta operaia, diari e materiali d’archivio. Moltiplichiamo non solo i registri e i generi ma anche le forme dell’esposizione (descrittiva, di invettiva, poetica). E infine diamo forza perlocutiva ai nostri scritti: usiamoli per fare cose nella realtà; per trasformare il mondo32.

2. «Critica del lavoratore culturale»

Nel caso di Parigi è un desiderio ci troviamo di fronte ad un testo dalla fisionomia completamente diversa. Il libro si propone in copertina come romanzo, ma a questo proposito Cortellessa ha incisivamente osservato:

Gli anglosassoni hanno un termine efficace per questo genere memoir […].
Non sarebbe mentalmente più economico, mi chiedo, rispolverare questo termine non così trendy, “autobiografia” appunto, riguardo a un testo come Parigi è un desiderio? Per chi Inglese lo segue con una certa continuità, fra l’altro, l’autobiografia non è solo quella dell’Inglese uomo, ma anche […] quella dell’Inglese scrittore33.

Il testo, infatti, è diviso in sei parti ciascuna delle quali assume delle differenti connotazioni strutturali e di genere nel dispiegamento dei mezzi stilistici dell’autore. Passiamo dall’andamento picaresco de Il sogno, alla descrizione sia della deriva – in senso debordiano34 – finalizzata all’appropriazione effettiva della città e sia della deriva di una storica relazione nella seconda parte, all’ekphrasis de Il quadro che fa da «centro, se non di controllo almeno d’orientamento nel libro»35, agli andamenti maggiormente ragionativi de La Sorbona Novella, L’isola e Il ritorno.
In questo caso il protagonista è in senso proprio un lavoratore della conoscenza, e il primo elemento da sottolineare è che il racconto autobiografico non crea nessun ponte con i destini collettivi. Se La Sorbona Novella è interamente dedicata ad una rappresentazione dei meccanismi del mondo accademico nell’epoca del dilagante precariato – e sempre dalla prospettiva specifica di Andy – il romanzo nella sua interezza non è che la narrazione di un’esistenza individuale che guarda sé stessa. Da qui la necessità, per i nostri fini, di osservare particolarmente quello che Cortellessa ha definito come «il punto cieco del testo», ciò che resta invisibile. Lo studioso individua tale punto cieco nella stessa Parigi e nella «sua storia con Andromeda – e il suo catastrofico concludersi»36 mentre nella lettura di Andrea Accardi è proprio «lo scontro sociale che non viene mai direttamente raccontato»37.
Tuttavia, prima di addentrarci nella ricognizione testuale riteniamo opportuno esplicitare a priori in cosa crediamo che consista questo romanzo: la messa in narrazione del processo di decostruzione che un individuo, giovane speranzoso prima e lavoratore precario della cultura poi, integralmente calato nella società tardocapitalista contemporanea opera su sé stesso. Lo stesso sogno di Parigi, per quanto autenticamente indipendente dalla consapevolezza che ogni italiano «nasce per andarsene, appena può, dal proprio paese, soprattutto se ha studiato»38 («Io invece non sapevo di dover partire. Non avevo piani, strategie, disperazioni precise, qualifiche da far valere, non vi era una borghese chiaroveggenza di mamma e papà a spingermi […], la mia Parigi celeste, però galleggiava clandestinamente sopra la Milano di sempre»39), è frutto di un’immaginazione e di una coazione all’autenticità40 generate dalla società tardocapitalistica. Inglese stesso in Critica del lavoratore culturale, a proposito dell’idea di «operaio sociale» di Toni Negri, osserva: «Qui vi è un’intuizione fondamentale, che i decenni successivi confermeranno: la produzione capitalistica ha investito progressivamente ogni ambito dell’attività umana: gli affetti, le relazioni, l’immaginazione»41. Il sogno di Parigi e il senso della propria provvisorietà, infatti, venivano al giovane Andy dai romanzi, il genere che nel capitalismo ci è nato e del cui immaginario è diventato il rappresentante:

Perché voler fuggire, mettiamo, da un microclima sereno di classe media, con tutti quei crucci che si dissipano con pazienza e ostinazione giorno dopo giorno? A me, però, succedeva quello, forse per via dei romanzi, questo supplemento d’anima veramente a buon mercato a volte, come in Salgari, o nei Dickens e Dumas scorciati per l’infanzia, inizia tutto da lì, è l’assurdità della lettura romanzesca, forse già nei libri con le illustrazioni, quelle degli antichi Egizi, Davide con la fionda di fronte a un Golia diverso, Saturno con i suoi anelli ben levigati, i bambini sono esseri impressionabili, vengono devastati da questo sversamento di mondi, anche se è spesso carta pesta, iconografia di seconda mano, di questo sono sicuro, i disegni grossolani della Bibbia illustrata, le foto dei Segreti dell’astronomia, e le pagine condensate del Conte di Montecristo nell’edizione Salani, sono supplementi che l’anima me l’hanno deformata, dilatata troppo […]42.

Non so chi sia stato il mio Socrate, dubito che sia stato un vecchio brutto e bisbetico, ma una tipa […] un’ostetrica giovane di lingua francese, di abbigliamento parigino, sarà stata piuttosto lei, ma anche i romanzi, certo, è sempre una faccenda di romanzi a quell’età. Comunque sia, c’è stato questo sogno, come un parassita cronico, poi divenuto compagno simbionte, non più un semplice vampiro, ma un agente sostenitore, come è successo a tutti i cristiani con la Gerusalemme celeste: dopo aver colonizzato il loro cervello pagano, aver desertificato gli straordinari ambienti mitologici, essa cominciò a funzionare come psicotropo, sostanza galvanizzante43.

Nella modalità decostruttiva delle convinzioni della giovinezza in generale, e di questo sogno parigino in particolare, rientra l’utilizzo dell’umorismo con cui, ad esempio, viene rappresentato il momento in cui il protagonista realizza di poter effettivamente «penetrare» la città:

Ad un certo punto, dovetti cagare. Lui abitava al settimo piano, ma il cesso si trovava in cortile. È noto che la filosofia molti la fanno al cesso. Sono uno di questi: i pensieri più disinteressati, con maggiore ampiezza alare, mi sono nati spesso durante defecazioni ordinarie. […] Se potevo cagare a Parigi, e proprio a Pigalle, e proprio in quella misera turca da cortile, aggrappato al maniglione, allora ogni cosa sarebbe stata possibile in quella città, nessuna paura, nessuna difficoltà sociale e urbanistica, nessuna barriera culturale avrebbe potuto interferire con la mia disinvoltura. Ora l’avevo davvero conquistata, e la cagata a Pigalle ne costituiva una riprova. Potevo penetrare dentro Parigi come un coltello nel burro, senza incontrare intoppi e resistenze. E, naturalmente, la penetrazione si faceva dal basso, dalla strada, o dal monolocale al settimo piano di Pigalle ma con cesso in cortile44.

Da quella stessa coazione all’autenticità deriva l’altro grande sogno di Andy: quello dell’Amore, che trova personificazione nelle prime figure femminili della giovinezza e soprattutto in Andromeda. Si tratta di un «platonismo amoroso»45, originato dall’infantile «primo sogno dell’amore» di una bambina «che svolge la funzione della donna appagante, cioè custodisce in sé […] l’evidenza sentimentale dell’amore»46 e a cui corrisponde la tensione poetica al governo delle apparenze, il tentativo, cioè, di creare una forma poetica in cui rifulga l’idea stessa di amore. Quest’ultimo è un mito destinato a disfarsi47, e il sogno dell’amore andrà incontro ad un progressivo smantellamento della sua natura onirica e irreale fino al rovesciamento del finale di romanzo in cui l’io narrante sostiene

barando con se stesso – che «le uniche cose che mi hanno persuaso nella vita sono il desiderio amoroso e la dislessia poetica», e che «è venuto il tempo di coniugare le due cose». Ma «accondiscendere poi alla più cieca pressione della specie sul povero individuo coglione che sono, e quindi riprodurmi», non equivale affatto all’assecondare desiderio e dislessia. Come si vede appunto nella pagina finale, dove proustianamente tempo dell’esistenza e tempo della scrittura si ricongiungono, e dove lo splendore del passato è incendiato dall’assolutamente presente dell’urgenza biologica di un altro essere umano che nasce («nessuna cosa vale, esiste, che non sia il presente, questo qui, che ho addosso, in particole, frammenti, ombre, polvere»), al contrario vuol dire, né più né meno, rinunciare al mito del desiderio – quello che spinge sempre nel futuro, o nel passato la propria soddisfazione – in favore della vita “reale”48.

Per giungere all’oggetto principale della nostra indagine8, passiamo ad osservare il trattamento riservato allo scontro sociale – che sopra abbiamo definito come uno dei punti ciechi del romanzo – e alla rappresentazione del mondo del lavoro (nella fattispecie dell’Accademia). Il primo dato da sottolineare è che man mano che si va avanti nel romanzo, questi elementi trovano progressivamente più spazio, passando da singoli riferimenti e riflessioni alla sezione La Sorbona Novella, una meditazione che il personaggio fa a posteriori sul periodo di lavoro nell’università francese in seguito all’arrivo di una lettera in cui gli viene comunicata la contestazione di un voto da parte di un’alunna.
Nelle prime due parti del romanzo ad emergere distintamente sono tre specifiche riflessioni sulla condizione della società: quella relativa alle motivazioni all’origine della «modalità punk»49 con cui da adolescente organizzava il mondo, l’immaginifica consegna della «Medaglia Bianciardi» al «signore cinese delle macchine fotografiche» del tredicesimo arrondissement e il riconoscimento del merito della stessa medaglia a Max e i suoi amici, i senzatetto con cui il protagonista si ferma a parlare e fumare erba. Questi tre episodi possono essere considerati come due diversi gradi di contrapposizione dell’individuo al sistema vigente: si passa dalla semplice coscienza dell’esistenza dei rapporti di forze del primo, alla consapevolezza della matrice economica che li forma negli altri due.
Nel primo caso ci troviamo nella sezione giovanile de Il sogno, e da una constatazione relativa al funzionamento del mondo si formula un tentativo di contrapporvisi dal punto di vista essenzialmente ideologico:

Mi sembrava un po’ una merda, a me, questo funzionamento, dove non si tollerano macchie sulla camicia, e dove quando qualcuno non conta, allora davvero, uomo, donna o bambino può anche crepare tranquillo, perché si può tollerare benissimo una tale eventualità, e persino può accadere, in questa società […] che chi davvero non conta – se non muore da solo – lo si ammazza addirittura […]. […] più l’essere umano cresce, più aumenta la sua capacità difensiva e le pure ragioni dei rapporti di forza fanno sì che si accordi maggiore considerazione a colui che più efficacemente può contrattaccare. Io attesi l’adolescenza per contrattaccare e lo feci con le armi estetiche, verbali e sonore del movimento punk50.

Gli altri due episodi si trovano in La deriva e si richiamano l’un l’altro per il comune elemento dell’attribuzione dell’unico vero baluardo di resistenza rivoluzionaria, la «Medaglia Bianciardi». Nel primo caso si tratta di un negoziante asiatico («ammesso che sia cinese, sarei forse più prudente se dicessi asiatico, ma a me è parso cinese»51) che vende macchine fotografiche usate. La particolarità di questo negozio è l’inusuale esposizione massiccia della merce:

Le vetrine dei negozi più cari, nelle zone esclusive dei centri cittadini rifuggono il gremito, l’ammasso, l’intasamento delle merci, e anzi mostrano massimo disprezzo per il lato materiale, volumetrico, della merce, che possibilmente deve essere assente, invisibile, o alluso, come pura traccia grafica, orma inconsistente di un oggetto vaporizzato. Il cinese invece faceva muro e massa, non solo, ma dimostrava di possedere l’arte paziente dell’intarsio, in modo tale che non traluceva vuoto, buco, intervallo fisico tra i suoi piccoli parallelepipedi fotografici. La vetrina responsabilmente capitalistica, invece, non ama la brutalità univoca dei messaggi, ma si organizza come enigma, equivoco, metafora poetica, oscura e polisensa52.

Il dato che emerge da questo primo passo è che il negoziante resiste ad una delle modalità attraverso cui si raggiunge l’eliminazione dall’immaginario collettivo dell’aspetto materiale del lavoro («Tutto quel che puzzava di sudore era visto come roba vecchia»53): laddove alla merce stessa viene sottratta materialità, se ne occulta il processo produttivo. Se a questo si aggiunge che la «merce che vendeva […] non era neppure nuova» si comprende il gradiente di resistenza di cui si fa portatore il negoziante, meritevole di un riconoscimento effettivo dal «Comitato rivoluzionario del Tredicesimo»:

Al cinese del negozietto io avrei consegnato una «Medaglia Bianciardi», e avrei fatto stampare dei poster propagandistici che riportassero questo passo della Vita agra: «Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere i bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha». Questa mi sembra ancora oggi la lezione più alta, la più luminosa espressione della saldezza morale di un cittadino veramente rivoluzionario: non cercare di migliorare la propria vetrina, da intendersi nel significato più lato, come espressione pubblica e sociale della personalità, non agitarsi inutilmente per suscitare scalpore e interesse, per catturare lo sguardo degli alti prelati dell’industria, della politica o dei media, vivere non segretamente, ma almeno in modo denotativo e monotono, come monotone e denotative, e pure abbastanza sceme, sono le gioie della vita, quali ad esempio il non fare nulla, il succhiare un sesso, il dormicchiare sotto il sole54.

Considerando le ultime righe di questa citazione i protagonisti del secondo episodio se ne potrebbero considerare il compimento figurativo. Max e i suoi amici meritano quella medaglia «perché, grosso modo, se ne stanno fermi e non collaborano»55 e offrono l’esempio perfetto per comprendere che andrebbe

rettificata l’opinione secondo cui, sciolto dal mansionario implacabile del mansionato implacabile della società produttiva, l’uomo cadrebbe in uno stato di astenia taciturna, avendo perso quelle mete, spesso vaghe e indorate, ma che sole potrebbero certificare e stimolare il suo istinto di sopravvivenza. Lo provano Max e amici, nullafacenti e nullatenenti, eppure risoluti, nel mezzo del loro continuo intossicarsi d’alcol e tabacco, a imbastire dialoghi, conversazioni, arringhe, prolusioni di ogni specie e qualità. E questo accade da quando si radunano la mattina fino a quando si lasciano la sera, ognuno seguendo i propri piani e rituali di dormizione56.

La Sorbona Novella, invece, è una riflessione che torna ad un momento della storia – come abbiamo sopra accennato – precedente a quello della narrazione e che si riferisce al periodo della vita di Andy passato ad insegnare e fare ricerca all’università. Il narratore ci dice in apertura che alla fine aveva compreso di non essere adatto alla carriera universitaria, in quanto «un universitario serio è una persona veramente intelligente» priva di quelle «ansie di scemenza […] responsabili di tante incomprensioni e insoddisfazioni»57, ma a cui lui non poteva rinunciare perché un po’ gli servivano sempre, «magari per scrivere le poesie, che con l’intelligenza soltanto non vengono così bene»58. Questa sezione di testo è in buona parte una somma di riflessione sul proprio vissuto e condensazione narrativa di quanto l’autore aveva scritto appena un anno prima in Critica del lavoratore culturale. Si può ben vedere, ad esempio, dal confronto tra la fondamentale affermazione per cui «il primo passo per una critica della figura del lavoratore culturale e della conoscenza sarebbe questo: frantumare la sua mistificante omogeneità e rintracciare in esso […] gradi di precarietà, ossia di dominazione diversi»59 e la descrizione del «professore universitario, giovanile e di sinistra»:

questo professore universitario, giovanile e di sinistra, aveva ormai, e probabilmente da anni, un radar socio-professionale infallibile, ossia sapeva a colpo d’occhio pesare la quantità d’intelligenza ufficiale di una persona nell’ambiente universitario, sapeva chi aveva un posto e chi no, chi era a piedi e chi era in sella, chi contava anche solo per il 10% e chi navigava su uno sparuto 0,6%. Aveva fatto velocemente il suo calcolo, nei secondi seguenti la sua entrata in aula, e gli ero logicamente divenuto trasparente, con la mia quota d’importanza professionale pari allo 0,6%60.

Questi diversi gradi di dominazione sono essenzialmente rivelatori di quello che è l’assunto fondamentale del saggio di Inglese e uno dei punti di partenza dell’atto decostruttivo del romanzo: l’organicità del lavoratore culturale al sistema capitalistico. Tale organicità viene presentata al lettore mediante la rappresentazione della condizione di precarietà del lavoratore culturale attraversando diversi registri, in un crescendo di frustrazione. Quest’escursione tonale inizia con un’amara ironia straniante, come nel caso della conclusione del quarto capitolo («[…] in definitiva nessuno là dentro, né gli aspiranti né gli arrivati, potevano essere biasimati: ognuno faceva del suo meglio. L’unico, invece, che faceva del suo peggio, che storceva il naso, che aveva pretese sindacali o democratiche, ero io, il bestia»61) per culminare poi con registri apertamente polemici, come nel caso della successione – nei capitoli sei e sette – del discorso sulla gentilezza come vero cominciamento del comunismo62 e della raffigurazione degli «intelligentoni» che maltrattano il lavoratore precario63, conclusasi con un’osservazione colma di rabbia:

Nel mio ragionamento, però, gli intelligentoni dovrebbero andare ogni giorno ad accendere un cero alla Madonna dei precari, e quando ne incontrano uno, di collega scalzacane e appiedato [….] dovrebbero semplicemente stringergli la mano con grande gratitudine, e magari aggiungere «Grazie amico! Senza di te l’università non funzionerebbe, e se l’università non funzionasse, a me non pagherebbero la sella ed il cavallo, e quindi, insomma, quando hai bisogno, conta su di me, puoi chiamarmi anche alle due di notte!»64.

La frustrazione del protagonista nel tempo narrato si accompagnava comunque al tentativo di diventare un intelligentone a causa di quello che nel suo saggio critico l’autore definiva come atteggiamento inautentico nei confronti dell’esperienza dell’esistenza. Alla luce della considerazione della precarietà come un elemento costitutivo dell’esistenza umana, Inglese reputa inautentici tutti gli atteggiamenti che derivano dall’abbandonarsi «allo spavento nei confronti dell’incertezza futura e della nostalgia di un mondo più prevedibile e rassicurante»65, e nello specifico del protagonista in questa sezione, dunque, inautentico era il tentativo di portare avanti il proprio «periodo produttivistico»66 per poter trovare la sicurezza degli intelligentoni a cavallo.
In questo senso la conclusione del romanzo con l’essersi messo alle spalle sia questo «lavorare con l’ustione all’inguine»67 sia la relazione sentimentale di otto anni con Andromeda, che aveva avuto tutti i requisiti generici di prevedibilità e sicurezza, racconta l’accettazione radicale della precarietà:

Alla fine, invece, ho sconvolto il mio piano ancestrale: per distruggere le abitudini, ho deciso di fare la cosa per me più radicale e avventurosa, ossia di andare fino in fondo con una donna, e nello stesso tempo di andare fino in fondo con la scrittura, perché solo accettando di mettermi davvero nei guai, decidendo di fare un figlio senza nessuna garanzia razionale, né sulla donna con cui lo facevo […] né sul luogo in cui stabilirmi con la nuova famiglia […] né sul tipo di lavoro che avrei fatto […], solo in questa situazione di autentico rischio, che non è poi che la cosa più banale del mondo, il «mettere su famiglia», solo in questa scelta del più banale dei destini umani a me è sembrato di mettere tutto in pericolo, e di andare finalmente in fondo in qualcosa, perché un figlio è una realtà irrevocabile […]68.

Quel che Andy compie è in definitiva l’abbandono di quella inautenticità per assumere fino in fondo la propria condizione di precarietà

con coraggio, facendone un’occasione di felicità, ossia di progetto e non di fuga. Questa è senza dubbio un’ottima e ragionevole pista. Ricorda un po’ la struttura di fondo del romanzo di formazione ottocentesco, studiato da Franco Moretti: desidera diventare ciò che sei costretto ad essere […]. Essa è poi consona, dal mio punto di vista di scrittore, con una visione tragica della storia. La vita dell’essere umano è precaria in modo costitutivo, in quanto esposta al conflitto familiare, amoroso, sociale e alla malattia, all’invecchiamento, alla morte. Non facciamo, allora, che aggiornare il dilemma freudiano che caratterizza il “disagio della civiltà”: nel momento in cui perdiamo terreno riguardo alla sicurezza ne guadagniamo riguardo alla libertà69.

In questa dimensione il processo di decostruzione arriva al suo culmine. Il romanzo più che ricordare aderisce fattualmente alla struttura profonda del romanzo di formazione, nel movimento pacificante dello sguardo del narratore che osserva sé stesso non per prodursi – secondo l’accezione di autenticità che qui abbiamo ripreso da Byung-Chul Han – ma per raccontare il proprio tentativo di fare esperienza del mondo.


  1. R. Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, in «Allegoria», XX, 57, 2008, p. 27.
  2. Cfr. A. Cortellessa, Reale troppo reale, in «Nazione indiana», 29 ottobre 2008, URL <https://www.nazioneindiana.com/2008/10/29/reale-troppo-reale/>, consultato il 30 aprile 2024: «La pressione sociale sugli autori è massima. […] Qualche settimana fa a Sarzana Walter Siti legge un suo testo sul realismo, lo riprende “Il Foglio”, gli rispondono Alfonso Berardinelli e altri. Poi la rivista “Allegoria” esce con un questionario sul tema Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno. Il postulato è che alla fine degli anni Novanta sia emersa una generazione di scrittori che “hanno sciolto il nodo delle ossessioni teoriche autoreferenziali postmoderne come Alessandro il nodo di Gordio: tagliandolo”. […] quando leggo che “il realismo è serietà del quotidiano” cioè una “misura di igiene”, un certo sentore di arte degenerata non riesco a non avvertirlo».
  3. R. Donnarumma, Gli anni Novanta: mutazioni del postmoderno, realismo, neomodernismo, in Il romanzo in Italia, 4 voll., a cura di G. Alfano e F. de Cristofaro, Roma, Carocci, 2018, vol. IV, Il secondo Novecento, pp. 419-433.
  4. Intendiamo il lavoro culturale in un senso ampio che comprenda anche l’accezione più propriamente pragmatica e politica del termine, guardando altresì a quanto osservato da A. Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, Roma, Minimum fax, 2022, p. 74: «Bisognerà sperare che sempre più fabbriche si aprano alla città e alle comunità circostanti, come la Gkn di Campi Bisenzio, per fare con gli operai quello che gli intellettuali faticano a fare: il fottuto lavoro culturale».
  5. A. Inglese, Parigi è un desiderio, Milano, Ponte delle Grazie, 2016, p. 14.
  6. Ivi, p. 192.
  7. S. Baldanzi, A. Ferracuti, Simona Baldanzi: Scrivere e lavorare a schiena dritta, in «Left», 11 luglio 2021, URL <https://left.it/2021/07/11/simona-baldanzi-scrivere-e-lavorare-a-schiena-dritta/>, consultato il 27 aprile 2024.
  8. Cfr. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 72: «Il memoir si traduce in una sorta di voyeurismo sulle vite delle persone povere, perlopiù donne, da parte di lettori middleclass perlopiù maschi».
  9. Ivi, p. 46.
  10. S. Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, Roma, Alegre, 2019, pp. 63-64.
  11. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 40.
  12. C. Lettieri, Osservare il lavoro ancor prima di raccontarlo. Le rappresentazioni del mondo del lavoro tra approcci etnografici, osservazione partecipante e reportage giornalistici, in «Narrativa», 31-32, 2010, p. 108.
  13. Ivi, p. 109.
  14. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 187, corsivo mio.
  15. D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2022, p. 90: «Dove il soggetto viene ridotto ad una sintesi passiva di funzioni, la sola “cosa reale” che rimane è il discorso del potere, che ha per sua natura quella di proporsi come l’unica articolazione possibile tra il conoscere e l’agire. E conseguentemente nella pratica: perché è sotto gli occhi di tutti quanto sia difficile in una società post-democratica insediarsi, per il singolo, nella posizione di un agente responsabile non rinchiuso nella mera dimensione del Sé. Tutto coopera a che questo non accada. La privatizzazione dell’esistenza. La requisizione delle prerogative dell’agire da parte di agenzie sempre più impersonali, acefale, sistemiche (mercato, finanza, globalizzazione, ecc.). Il declino, per riprendere una formula famosa di Richard Sennet, dell’uomo pubblico. La fuoriuscita della dimensione politica dal recinto delle possibilità umane».
  16. Ivi, p. 89.
  17. W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2017, pp. 248-249.
  18. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 45.
  19. R. Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne, cit., pp. 48-49.
  20. Cfr. ivi, p. 49: «[…] val la pena di segnalare i casi in cui, al contrario, l’io si presenti con forza maggiore, facendosi portatore di un’esperienza e di una volontà testimoniale autentiche: è il caso di alcuni scrittori emigrati in Italia (penso, fra gli altri, a Ornella Vorspi e al suo Paese dove non si muore mai del 2005, ritratto spietato di un’Albania feroce e misera), di romanzi autobiografici (come Tuttalpiù muoio del 2006, scritto da Edoardo Albinati e Filippo tini, sebbene indebolito da una retorica istrionica) o di autobiografie vere e proprie (come La ragazza del secolo scorso del 2005 di Rossana Rossanda)».
  21. S. Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, cit., pp. 35-36.
  22. R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Roma, Carocci, 2019, p. 72.
  23. S. Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, cit., p. 11.
  24. Ivi, p. 29.
  25. Ivi, pp. 29-30.
  26. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 169, corsivo mio.
  27. Cfr. C. Baghetti, Non fiction e working class. Intervista a Alberto Prunetti, in «Cahiers d’étude romanes», 38, 2019, p. 10: «[in 108 metri] Il realismo c’è ma è spinto agli estremi perché è caricaturale, grottesco, perché il protagonista lavora troppe ore e assume troppi stimolanti e quindi vede la realtà come realisticamente gli appare: deformata e inquietante. […] E quindi ecco che il soprannaturale, il weird, mi serve non per allontanarmi dal reale, ma per raccontare meglio la realtà. Per dire quel non detto del lavoro che è lo sfruttamento. Quindi vado sicuramente oltre l’inchiesta ma lo faccio per un vizio di eccesso di realtà. È quasi una sorta di gonzo journalism. Pensiamo a Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter S. Thompson, all’ironia sarcastica, alle prospettive deformate dalle sostanze».
  28. Ivi, pp. 187-188.
  29. C. Lettieri, Osservare il lavoro ancor prima di raccontarlo, cit., p. 105.
  30. Ivi, p. 107.
  31. S. Baldanzi, Figlia di una vestaglia blu, cit., p. 84.
  32. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 188.
  33. A. Cortellessa, Come restare vivi dopo il diluvio. Parigi è un desiderio di Andrea Inglese, in «Le parole e le cose», 27 novembre 2016, URL <https://www.leparoleelecose.it/?p=25200>, consultato il 29 aprile 2024.
  34. Cfr. G. Debord, Théorie de la dérive, in «La Revue des Ressources», 20 febbraio 2017, URL <https://www.larevuedesressources.org/theorie-de-la-derive,038.html>, consultato il 29 aprile 2024: «la dérive se définit comme une technique du passage hâtif à travers des ambiances variées. Le concept de dérive est indissolublement lié à la reconnaissance d’effets de nature psychogéographique, et à l’affirmation d’un comportement ludique-constructif […] Une ou plusieurs personnes se livrant à la dérive renoncent, pour une durée plus ou moins longue, aux raisons de se déplacer et d’agir qu’elles se connaissent généralement, aux relations, aux travaux et aux loisirs qui leur sont propres, pour se laisser aller aux sollicitations du terrain et des rencontres qui y correspondent». La sezione da noi riportata in corsivo è citata in traduzione nel romanzo (cfr. A. Inglese, Parigi è un desiderio, cit., p. 91).
  35. A. Cortellessa, Come restare vivi dopo il diluvio, cit., URL <https://www.leparoleelecose.it/?p=25200>. Questa sezione del libro, come Inglese precisa nella nota a fine romanzo, è una versione ridotta del suo prosimetro Commiato da Andromeda (2011).
  36. Ibidem.
  37. A. Accardi, Parigi, n’est-ce que ça?: desiderio e quotidiano in un romanzo di Andrea Inglese, in «SigMa», 3, 2019, p. 301.
  38. A. Inglese, Parigi è un desiderio, cit., p. 16.
  39. Ivi, p. 18.
  40. B.-C. Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Milano, Nottetempo, 2021, p. 30: «l’autenticità si rivela ostile alla società. Per via della sua natura narcisistica, essa opera contro la costruzione stessa della comunità. […] Il culto dell’autenticità sposta la questione identitaria dalla società alla singola persona, fa sì che si lavori in maniera permanente alla produzione di sé e, in tal modo, atomizza la società».
  41. A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, in «Nazione indiana», 18 maggio 2015, URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>, consultato il 30 aprile 2024, corsivo mio.
  42. Id., Parigi è un desiderio, cit., p. 14, corsivo d’autore.
  43. Ivi, pp. 18-19.
  44. Ivi, p. 47.
  45. Ivi, p. 182.
  46. Ivi, p. 181.
  47. Cfr. ivi, p. 182: «Da qui, il platonismo amoroso e l’impossibilità, nonostante la poesia scritta, e i mille versi digitati, di governare le apparenze».
  48. A. Cortellessa, Come restare vivi dopo il diluvio, cit., URL <https://www.leparoleelecose.it/?p=25200>.
  49. A. Inglese, Parigi è un desiderio, cit., p. 25.
  50. Ivi, pp. 26-27.
  51. Ivi, p. 114.
  52. Ivi, p. 115.
  53. Cfr. nota 9.
  54. A. Inglese, Parigi è un desiderio, cit., p. 118, corsivo mio. Teniamo a sottolineare che il passo riportato in corsivo può essere interpretato come un invito a incrinare l’azione della coazione all’autenticità nel senso di continua autorappresentazione e produzione di sé evidenziato da Byung-Chul Han.
  55. Ivi, p. 136.
  56. Ivi, p. 138.
  57. Ivi, p. 190.
  58. Ivi, 195.
  59. A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>.
  60. Id., Parigi è un desiderio, cit., p. 203.
  61. Ivi, p. 201.
  62. A. Inglese, Parigi è un desiderio, cit., p. 204: «[…] io ho imparato alcune delle cose più importanti della vita dalle donne. E una delle cose che mi hanno insegnato è la gentilezza. Non mi hanno insegnato la gentilezza, ma mi hanno fatto capire che il vero comunismo comincia con la gentilezza, che non può esserci comunismo senza gentilezza e che, seppure non arrivassimo mai al vero comunismo, la gentilezza è indispensabile anche per una imperfetta democrazia, perché tra di noi possiamo dircelo, non solo è difficile essere un buon comunista, difficilissimo, ma anche essere una decente persona democratica, veramente democratica, non è cosa facile».
  63. Cfr. ivi, p. 209: «Il problema è che poi uno vede delle cose, dei comportamenti, che vanno a sottolineare quella ingiustizia […] e quindi è difficile proprio non guardare, arrivare sempre un attimo dopo che qualche piccolo gesto infame è stato fatto, per questo rimane un residuo tenace di vergogna, e questo non è mica tanto giusto, si dicono quelli che la carriera l’hanno riuscita, perché devo portarmi dietro il prurito della vergogna proprio io, che ho dimostrato di essere un intelligentone, e che non sono mica obbligato a essere un Mandela?».
  64. Ivi, p. 209.
  65. A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>.
  66. Id., Parigi è un desiderio, cit., p. 216.
  67. Ibidem.
  68. Ivi, pp. 309-310.
  69. A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>.

The essay aims to analyze the texts Figlia di una vestaglia blu by Simona Baldanzi and Parigi è un desiderio by Andrea Inglese in light of the concept of the «return to reality», introduced by Raffaele Donnarumma in 2008. In particular, it will explore the connotations that the memoir genre assumes in both cases. In the first case, we will examine how this genre is hybridized with the novel and reportage, taking on characteristics that are not documentary in nature and that stem from an oblique narrative perspective. In the second case, we will analyze the text’s relationship to the genre, while also considering the peculiarities – including genetic ones – of certain textual sections. If the movement of memory represented by Baldanzi will be looked at as an attempt to give narrative space to the experience of the workers with whom the protagonist lives and interacts, the one depicted by Inglese will be considered as the implementation of critical practice by a cultural worker on himself. In both cases, the attempt to give voice to one’s own experience of the world will be seen as foundational, placing the two works within a panorama where literature renews its tension with reality.