Riproduzioni in scala: diorami ideologici e lavoro poetico in alcune esperienze postreme
Non hai diritto di parola con sei cifre di ISEE.
J. Pentothal, BOCCONIBRUCIA
Che risulti «nella produzione in versi degli ultimi trent’anni», secondo un’acuta analisi di Gianluigi Simonetti, «[…] l’esigenza di comunicazione, riflessione e affabulazione (e quindi un rapporto più ‘sano’ e diretto col pubblico)»1 è indicativo senz’altro della maggior presa di coscienza – nella poesia contemporanea – della natura sostanzialmente performativa di questo mezzo espressivo2. C’è però dell’altro. C’è – innanzitutto – l’esigenza di un pubblico, al netto del rapporto con esso: il sentimento del destinatario3 non è infatti da intendersi unicamente come la percezione del proprio rapporto con l’uditorio (ideale o reale che sia), ma anche – e soprattutto – come la percezione del proprio essere necessariamente posizionati davanti a un ascoltatore, e cioè che il proprio lavoro culturale come poeta dipenda per statuto dalla sua effettiva presenza. Alla tendenza generale all’autodefinizione come lavoratore-poeta, ovverosia alla «presa di consapevolezza della specificità del gesto artistico, inteso come mestiere e lavoro da cui non bisogna distrarsi, anche quando si realizza nei termini di performance, di esibizione su un palco»4, si aggiunge quindi la consapevolezza che questo ‘mestiere’, in quanto tale, necessiti – al di là di un prodotto che venga realizzato – di veri e propri consumatori5, e che sia anzi pacificamente racchiudibile sotto l’etichetta di lavoro col pubblico, che dal pubblico dipende per il proprio sostentamento. Quali siano le modalità attraverso cui il mestiere della poesia ottenga questo sostentamento, e dunque quale secondo quest’ottica sia la natura del prodotto-poesia e di chi la produce, saranno pertanto il fulcro primario di questo studio, che verrà portato avanti a partire da rappresentazioni testuali esplicite del lavoro poetico.
1. «Lavoro di scrittura che decanta»
Innanzitutto: avendo parlato di ‘statuto’ del lavoratore-poeta nell’ultimo trentennio, è necessario comprendere in cosa questo consista. Nella capillare analisi effettuata da Giulia Martini sulla postura autoriale di questo periodo emerge un primo dato d’interesse «potenzialmente accomunante» a riguardo: la presenza di «un soggetto a vari livelli consapevole di detenere un’informazione o un sistema di competenze», ovverosia il risultato del lavoro culturale e artistico, «ignorato dalla comunità di lettori o fruitori del prodotto artistico cui si rivolge»; che vale a dire «una voce autocosciente, intenzionata a trasmettere qualcosa ritenuta importante, o almeno presentata come tale»6. In poche parole, l’auto-investitura come «soggetto-poeta epistemicamente» – e verrebbe da dire trionfalmente – «superiore»,7 sia in virtù della capacità di comunicare il proprio messaggio nonostante le resistenze e le inadeguatezze culturali dell’uditorio che per quella prestigiatoria – su cui ci soffermeremo più avanti – di manovrare a piacimento un pubblico completamente passivizzato; rimanendo comunque forti di una «dimensione etica» che può volentieri sfociare nel ruolo di maître à vivre8. In entrambi i casi il punto di vista adottato è più vicino alla rappresentazione degli ascoltatori che alla rappresentazione di chi dice «io», e cioè più utile a osservare gli effetti concreti della superiorità del soggetto-poeta che le sue ragioni, ma non per questo risulta meno utile: le motivazioni dell’auto-percezione di trionfo epistemico da parte di questa figura di poeta di successo saranno infatti da ritrovarsi precisamente in questa concezione “inferioristica” del pubblico e nella capacità stessa di irretirlo utilizzando determinati mezzi, nonché di arrivare a vincere tanto l’ostacolo della sua resistenza quanto quello delle condizioni materiali. Per comprendere la natura dell’auto-etichetta di lavoratore-poeta sarà necessario concentrarsi per prima cosa su quest’ultimo punto, partendo da un’apparente ovvietà: se, come detto in precedenza, il lavoro poetico è tale, al di là delle sue eventuali motivazioni civili – che pure saranno da analizzare e che vedremo essere in parte riconducibili al corretto funzionamento del prodotto realizzato tramite questo lavoro –, il suo grado di successo dipenderà necessariamente dalla capacità di garantire o meno attraverso la sua vendita l’autosufficienza, se non il guadagno, del lavoratore, ovverosia il suo successo materiale. Il «lavoro culturale» di cui la poesia fa parte, in sostanza, risulta indistricabile dai meccanismi di produzione capitalistica – pubblicità in primis –, adesso implicati anche nei processi affettivi e soprattutto immaginativi9 e, così come ogni altro mezzo di produzione, non disponibili al pubblico al di sopra del quale il poeta si pone. In generale, come spiegato da Lucia Tozzi:
con rare eccezioni, dalle associazioni di volontariato ai gruppi di attivisti radicali, dalle startup ai circoli intellettuali, tutti oramai hanno introiettato un comportamento ispirato al modello della lobby dotata di ufficio stampa: verticismo, presenzialismo, cultura del fare, comunicazione, associazione indiscriminata ad altre reti. Principi di produttività, legati al valore della condivisione entusiasta […]10.
O ancora – e icasticamente –, nella postfazione di Demetrio Marra al suo Non sappiamo come continuare: «il momento più intenso della pubblicazione […] non è ricevere il pacco con le copie autore a casa, ma il momento in cui, luce naturale permettendo e sfondo in mogano, si carica una fotina su Facebook e Instagram, aspettando sul letto sfatto con tisanina allo zenzero l’esercito di interazioni di cui abbiamo bisogno, per sopravvivere»11.
Quest’ultima citazione non è casuale. La raccolta di poesie da cui è tratta – pubblicata nel 2024 – è infatti definita da Dimitri Milleri come «un libro di fallimenti a matriosca», e soprattutto di «processi […] di una persona reale […] contro le sue identificazioni (non pensate ma performate nel tempo)»12, quella di poeta in testa13: in tal senso, a dare man forte ai fallimenti dell’io-lirico messi in scena – tali perché irricevibile risulterà la sua posizione di poeta, privilegiata rispetto al pubblico e de facto impotente nel suo ruolo civile – è innanzitutto lo stato materiale del paratesto, ovverosia la natura self-published dell’opera. Si è quindi davanti alla voluta rinuncia a quei mezzi materiali di produzione che, preso atto della resistenza insormontabile di chi legge e dell’insignificanza della propria agency sociale, garantirebbero quantomeno il primo e più basilare successo del lavoratore-poeta, quello economico. Senza di esso, è venuta meno l’organicità con il capitalismo culturale, cade anche il trionfalismo di statuto, e gli esempi nel testo sono numerosi:
dice cioè pensa, cioè non lo sa,
non sa quantificare nulla
di ciò che non lo riguarda
strettamente come un animale e
Mamma la scrittura non vivifica un bel cazzo14.
[…] senti, non fare niente
che è meglio, lascia perdere15
senzatetto e muffa
sono della stessa materia
e nessuno vede le ife che si radicano
immarciscono tutto
insomma, tu per me
lascio perdere ma se avessi le energie,
se fossi un uomo come si deve
senza figli a carico senza Equitalia alle calcagna,
con chi parli? Guardami in faccia
senza lo specchio del tempo indeterminato,
o il tempo di radermi la barba16.
È però evidente che – soprattutto se una delle modalità del successo è la vittoria sul lettore –, laddove si voglia invece mettere in scena la figura dell’autore trionfante da cui siamo partiti, la rinuncia ai mezzi di produzione possa anche essere funzionale alla costruzione retorica di un ostacolo, evidenziando per contrasto le capacità dell’io lirico di ottenere ciononostante il favore del pubblico e rispondendo così alla narrazione archetipica del self-made man. Il processo è accuratamente spiegato da Andrea Inglese: «il lavoratore della conoscenza, dunque, pur subendo l’incertezza della precarietà e i bassi salari che ad essa si accompagnano, riesce a compensare questa posizione di dominato, acquisendo riconoscimento sociale da parte dei dominanti: egli si sente, comunque, dalla parte dei vincitori. Le soddisfazioni simboliche sono il suo balsamo sulle piaghe economiche»17.
Il discorso fatto finora è tanto più importante quanto più il riferimento intratestuale all’autopromozione o alla live performance è legato alla capacità dell’io lirico di adeguarsi all’orizzonte di attesa dell’estremo contemporaneo – reale conditio sine qua non del succitato favore –, dal momento che, oltre alla decostruzione della figura del poeta posizionato nel mondo editoriale, l’altro obiettivo dichiarato di Marra è precisamente la possibilità di produrre un testo effettivamente attuale in virtù dello scarto minimo tra tempi di creazione e tempi di pubblicazione18. Pertanto, in testi come la serie di sonetti di Ophelia Borghesan19 Madreperla, domani – dedicati esplicitamente a dieci autori contemporanei, dunque ad altrettanti membri attivi del panorama editoriale e culturale –, convivranno riferimenti alla necessità economica del «meccanismo di self-publishing totalitario»20 con dimostrazioni pratiche di riuscito artificio poetico, naturalmente contestualizzate come eseguite in diretta21. Due esempi su tutti:
Se non di solo pane vive l’uomo
– e sottolineo se –, mettiamo il caso
che ci mettiamo a fare l’autopromo
divisi tra i mi piace ed il parnaso,
un poco si è ammiraglia e un po’ nostromo
(così si fila lisci come il raso),
un altro apericena e un altro tomo
coi tappi per le orecchie e per il naso22.
[…] vi leggerò qualcosa, che è un assaggio
dal nuovo libro (scatta la leggera
esitazione), è in fase di montaggio,
con testi scritti in treno ed in corriera;
oppure: non è altro che un omaggio
ai miei maestri (e questa scelta azzera
le resistenze di chi sta ascoltando)23.
Ed è di azzerare le resistenze dell’uditorio che si parla anche quando, nel sonetto dedicato a Julian Zhara, si farà riferimento al «test dell’alce»24, «un test di sicurezza ideato in Svezia per verificare che un determinato modello di automobile riesca a evitare in tempo alci o altri animali selvatici in attraversamento improvviso della carreggiata; in altre parole, la tenuta di fronte a un ostacolo»25. L’obiettivo, ancora una volta, sarà il successo economico del lavoratore-poeta, per il quale è necessaria la creazione di un prodotto conforme alle necessità di mercato26:
Ci sono le collane ed i collari
per quanto a prima vista sia da poco
la differenza, ma se li compari
diventa molto chiaro che men loco
si cinghia, e tanto più dolor; safari
tra le macerie come se quel fuoco
innato di chi scrive (ma magari!)
rendesse conveniente stare al gioco.
[…] non ci stupiamo se le antologie
non fanno l’undicesima edizione:
X Factor fa la decima, e la guardo27.
C’è però un ultimo grado della costruzione retorica dell’ostacolo: anche laddove siano assenti non solo i successi materiali ma anche quelli simbolici, ovverosia nel caso in cui le ritrosie del pubblico non siano state superate, la sensazione di successo connaturata all’auto-investitura come poeta può comunque dipendere dal successo morale, ovverosia dalla consapevolezza della forte carica etica del proprio «qualcosa da dire». È precisamente la rinuncia anche a quest’ultimo successo che, nel passaggio tra le due raccolte edite di Marra, sancisce in definitiva la sua postura di fallimento esistenziale nel ruolo di lavoratore-poeta. Se, nonostante tutto, per Riproduzioni in scala si poteva ancora parlare di «merito della tenacia e della persistenza»28, in Non sappiamo come continuare – dove anche il titolo è emblematico – la resa è totale. «E Io, gli faceva giorni prima, non ho forze, non ho un campo, / come posso… alle volte mi disconosco persino alla luce»29, si dirà, o ancora:
che significa che non posso sognare la rivoluzione
e volere ugualmente:
smettere di lottare
ignorare la guerra
pensare a voi come vittime
in un qualche film, in una qualche serie
che poi mi tornate solo
come custodie in sogno,
vi eterno! Almeno finché io…30
Si tratta di una resa necessaria. O meglio: necessaria nel momento in cui ci si voglia davvero spogliare dell’«identificazione performata» di poeta, dal momento che – come spiegato ancora da Inglese – «forse questa è la vera trappola che ingabbia i lavoratori indipendenti, essere vincolati ai valori del riconoscimento sociale31 tanto quanto la classe operaia è stata vincolata ai valori del consumismo»32, senza che per questo – come visto – il lavoratore-poeta sia da considerarsi estraneo all’imperio di questi ultimi. Ecco quindi la trappola che nell’ultima raccolta di Marra si cerca di disinnescare: l’idea che al poeta sia ontologicamente connaturata – in quanto tale – una carica rivoluzionaria, e che questa non faccia invece parte dell’armamentario performativo33 dell’autore contemporaneo.
Questa stessa riflessione era stata affrontata nove anni prima, da Andrea Inglese, già qui più volte citato, giungendo alle medesime conclusioni. Sebbene «esponenti del cosiddetto secondo operaismo italiano, come Toni Negri, hanno puntato sul lavoratore della conoscenza come soggetto potenzialmente antagonista del sistema capitalistico»34, infatti, la messa in discussione del ruolo antagonistico a priori del lavoratore-poeta (fra gli altri) è qui assoluta e, al di là della già affrontata organicità al capitale35 necessaria alla sopravvivenza e alla performatività attualmente connaturata al mestiere, il problema assume radici profonde:
Io stesso sono un lavoratore della conoscenza, un lavoratore culturale. Potrei, però, di tanto in tanto domandarmi di quale cultura io sia un lavoratore. Non solo, infatti, tendiamo a dare per scontato che il lavoratore culturale veicoli antagonismo e creatività. Ma non entriamo minimamente nel merito dei caratteri specifici della cultura che egli trasmette, elabora, innova. Che ruolo ha in essa, ad esempio, l’immaginario di un’espansione industriale e tecnologica illimitata? In che termini noi siamo, oltre che produttori, anche consumatori di questa stessa cultura? Che distanza critica siamo riusciti a porre tra noi e le “magnifiche” macchine che rendono il lavoro immateriale? Quanto la nostra intera esistenza (produzione e consumo) si modella su tecnologie che, al di fuori del nostro controllo, giungono a modificare le nostre forme di vita secondo ritmi sempre più sostenuti?36
Ma se il punto, qui come in Marra, è la performatività del ruolo di lavoratore culturale, è in realtà un altro il passaggio cruciale per la sua decostruzione. Citando Carlo Formenti, si dirà: «ma per quale oscura ragione, se non per miopia eurocentrica, qualche decina di migliaia di nerd angloamericani dovrebbero incarnare il punto più alto della composizione di classe rispetto ai due miliardi di operai cinesi, indiani e latino-americani?»37.
Nel suo Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, infatti, Brigitte Vasallo insisterà precisamente sulla intrinseca «natura performativa» del capitale culturale, cioè dell’accumulo – direttamente monetizzabile – degli strumenti immateriali38 di rappresentazione e autorappresentazione di un orizzonte simbolico, di un immaginario. Secondo questa lettura, ad un maggior possesso di questi strumenti corrisponderebbe proporzionalmente un maggior prestigio percepito, dato sia dalla attiva raffigurazione di sé a quel punto possibile che dalla passiva corrispondenza con le strutture mentali della società. Il concetto era già presente nel teorizzatore del «capitale culturale», Pierre Bourdieu, che difatti scriveva:
La condizione di classe che la statistica sociale cattura attraverso diversi indici materiali della posizione nei rapporti di produzione o, più precisamente, delle capacità di appropriazione materiale degli strumenti di produzione materiale o culturale (capitale economico) e delle capacità di appropriazione simbolica di questi strumenti (capitale culturale), determina, direttamente e indirettamente, attraverso la posizione che gli accorda la classificazione collettiva, le rappresentazioni che ciascun agente si fa della sua posizione e le strategie di «presentazione del sé», come dice Goffman, ovvero le rappresentazioni della sua posizione che egli mette in opera39.
Dunque, riprendendo in parte Weber40, il possesso di capitale culturale – e quindi delle sue possibilità performative – sarebbe diretta conseguenza del possesso di capitale economico, coi cui mezzi materiali diventa disponibile l’accesso a quelli simbolici di rappresentazione della realtà – come l’istruzione – e del sé – come l’editoria o la pubblicità. Il punto – sottolineato da Vasallo – è che il riuscito utilizzo di questi ultimi implica necessariamente la simultanea adesione all’orizzonte cognitivo che producono – pena la mancata percezione come appartenenti a una data classe – sicché il possedere capitale culturale corrisponderà alla sua apparenza o performance: «è necessaria una parvenza di conoscenza. Sono necessari modi ricercati, che sono i modi delle classi dominanti, per avere il capitale culturale. Di fatto, questi stessi modi sono il capitale culturale»41. Riportando l’attenzione all’oggetto della nostra ricerca, ciò significherà che il «successo simbolico» del lavoratore-poeta – e, cosa vitale, il suo successo materiale – dipenderanno direttamente dalla capacità di quest’ultimo di essere percepito come tale42, ovverosia dall’efficacia della propria auto-investitura ancor prima che dal corretto utilizzo del codice socialmente ritenuto come poetico. Non solo: questa auto-investitura e questo codice – vincolati come sono nel loro corretto apprendimento ai mezzi economici43, e pertanto non comunemente disponibili – risulteranno giocoforza in un processo di «disciplina del capitale», cioè nel riutilizzare i «modi delle classi dominanti» nelle proprie produzioni artistiche fino a diventarne a tutti gli effetti membri organici. Spiega ancora Vasallo: «tutti appartengono a una cultura e tutti hanno una cultura, sì. Ma negli spazi conquistati dalla modernità, solo la cultura delle élite ha la capacità di imporre le sue costruzioni di significato all’interno della cultura»44. La performance del poeta potrà – e dovrà45 – insomma includere l’idea «magnifica e progressiva» della propria carica rivoluzionaria o salvifica, a seconda del suo porsi come vate illuminato o come riottoso underdog, ma le sue stesse condizioni d’origine e di esecuzione ne svelano il valore sostanzialmente conservatore fin nei suoi strumenti. Pur di non risultare irricevibili nella teorizzazione di un mondo nuovo, resterà il caricare autoreferenzialmente di significato il ruolo affidato nell’immaginario collettivo al lavoratore culturale attraverso le operazioni di sacralizzazione dell’arte46 e di raffigurazione del successo economico-letterario come facilmente raggiungibile grazie all’altrettanto sacro sforzo personale, saltandone a piè pari le implicazioni. È precisamente da questo «sentimento inquietante», «quello dell’autoreferenzialità dei media artistici», del «senso conseguente che tutto si scriva da solo, pure le idee, e che le forme siano sostanzialmente prevedibili»47, che Demetrio Marra partirà per la sua seconda opera di decostruzione: quella della possibilità letteraria di progettare una realtà alternativa futura che non sia frutto di pezzi di riuso, di «disciplina del capitale».
2. «Fuori si colora come negli open world»
In Dentro, il secondo dei nove poemetti – o «processi biofisici» – che formano Non sappiamo come continuare, l’attenzione è più volte posta sulla natura già data «da fuori» del reale, arrivando a ribaltare la prospettiva dello pesudovirgiliano «sic vos non vobis mellificatis apes»:
sorridendomi cerchi un verso da cui cominciare,
da cui poter, che non troviamo, e poi: di chi è il verso.
[…] posso bonificare le fantasie
sulle aspettative, sulla razionalità,
su come intercorre nel senso comune ogni azione,
ogni volta che non smettiamo, non si può,
di circolare il sangue […]
dall’altro ci limitiamo a confermare il sistema
o l’antisistema o quella cosa che chiami retroterra,
buone maniere automatismi […].
L’involontarietà di testo e contesto,
siamo già, sempre, fuori di noi […].
Hai pensato a un verso, un nome,
un processo cognitivo che fa capo a,
l’immagine di noi da fuori, dentro il mondo
che ristagna, l’immagine del fuori che scorre
con le api che nidificano
la sbracciata poi dell’apicoltore che le toglie,
dalla trave: non toccarla48.
Si tratta del sintomo di una questione molto più profonda: la rinuncia a qualsivoglia azione rivoluzionaria non dipende unicamente dallo statuto intimamente conservatore del lavoratore-poeta, bensì – ed è il punto più tragico – dallo statuto ontologicamente “conservato” – ovverosia privo di reali elementi di novità e costituito unicamente dal riutilizzo di elementi già esistenti – di qualsiasi prospettiva da lui immaginabile. Il problema è senz’altro linguistico, di modalità, come visto in precedenza, ma anche contenutistico, e pertanto ulteriormente politico. L’idea del postmoderno, intesa come «cultura che pratica la retrospezione e il pastiche»49 è infatti inquadrata da Mark Fisher come prodotto diretto dell’egemonia neoliberale, e ciò per due motivi: da un lato, lo scossone inferto dal progressivo aumentare dell’incertezza economica e sociale porterebbe i produttori e i consumatori di cultura nella posizione di desiderare forme già note, più familiari e dunque meno traumatiche, in un’ottica di stanchezza a cui fa capo anche l’io poetico incarnato da Marra50; dall’altro, la mancanza – causata dal medesimo scossone – delle risorse necessarie alla produzione culturale impedirebbe l’innovazione e costringerebbe ad affidarsi unicamente ai codici capaci di garantire il successo commerciale, come evidente in Borghesan. In ciascuno dei casi, l’unico prodotto artistico possibile sarà il «confermare il sistema» attraverso l’uso di input stilistici e tematici già ben noti e rispettando integralmente l’orizzonte di attesa già presente nel pubblico, anzi, ponendo quest’ultimo davanti al presunto valore positivo51 che questa operazione di riciclo riconosciuto avrebbe. L’oggetto di un lavoro culturale siffatto non è quindi semplicemente il revival, bensì «the memory of a memory»52: un’etichetta già utilizzata da David Keenan per parlare della corrente Vaporwave53, «pastiche ostinato e ipertrofico» pertanto ricondotto – anche in virtù del suo essere «ricordo artificiale e tecnologicamente mediato» – alle riflessioni di Fisher. Si parlerà però più avanti delle implicazioni – tracciate in particolare da Valentina Tanni – di queste estetiche digitali rispetto alla nostra ricerca.
Volendo intendere i lavoratori culturali innanzitutto come produttori di orizzonti d’attesa, cioè di immaginari, le cose si fanno più complesse. Superata – come già nel paragrafo precedente – l’idea del lavoratore culturale come effettivo «elemento antagonista», e messa quindi in luce la figura del poeta organico al capitale, l’inquietante risultato è l’affacciarsi di un’entità nuova: il lavoratore-poeta come produttore di diorami ideologici funzionali al mercato, ovverosia di riproduzioni in scala della realtà in grado di confermare lo status-quo e anzi di produrre nuovi desideri commerciali nei lettori. Un esempio, pur polemico, è nuovamente dato da Ophelia Borghesan con raccolta Il libro della vacanza. Divisa in tre sezioni – La geometria dei solidi, Prekarten e Prekarten II –, si concentra in ognuna di esse sulla raffigurazione di un imprecisato e ideale «posto di vacanza», inizialmente attraverso la narrazione esterna di una crisi amorosa, poi abbandonandosi alla descrizione epigrammatica di una serie di momenti di vita quotidiana, spesso dai soggetti non meglio definiti. A caratterizzare questo luogo è quindi il suo costante rimando alla dimensione consumistica, intesa sia come generica fruizione di merci («nell’area di servizio dice al padre / che vuole un bufalino, il padre dice / che di mattina è meglio la brioche»54; «non si rinuncia al gratta e vinci neanche / nell’emergenza»55) che come preciso rimando a brand o icone della cultura pop, come il Winner Taco, gli Adelphi o Tommaso Paradiso56. Il vero fulcro della raccolta è però un altro, e cioè che tutto ciò che accade nel «posto di vacanza» è, in realtà, predeterminato e costretto a ripetersi secondo forme canonizzate57, infallibilmente in grado di riempire qualsiasi spazio vuoto58, ovverosia qualsiasi spazio di crisi dello status quo:
La scena dei bagagli prevedeva
la lite, preferibilmente, oppure
l’assalto del silenzio, nel ritorno
a casa; o meglio: ognuno a casa propria.
Nell’area di servizio non restava
che farsi un selfie, come per difendere
qualcosa da qualcosa per qualcosa59.
Le palme, gli oleandri, la piscina,
la rondine che scende a bere, tutto
concorre a definire con coerenza
il posto di vacanza; e questo è quanto60.
A dare questa impressione di immutabilità sono anche i tempi verbali utilizzati per tutta la silloge – l’imperfetto e il presente –, che, in mancanza di qualsivoglia reale coordinata spazio-temporale, incatenano le consecuzioni di eventi in una dimensione di assolutezza e – appunto – di reiterazione; ma c’è di più. L’idea di una «matrix» immodificabile e da cui è impossibile fuggire è infatti presente anche in Marra, che in vari punti di Non sappiamo come continuare fa riferimento al problema attraverso l’immaginario “scriptato” – e cioè predeterminato nella sua generazione e nei suoi esiti – del mondo dei videogiochi:
fuori si colora come negli open world
volta per volta, con grande sforzo
e poi a un punto parliamo a vanvera di umano,
se ci siamo dentro, e postumano61.
o, più in generale, rappresentando le ambientazioni urbane della raccolta come scenografie artificialmente costruite dall’alto, per pezzi immaginari, come fossero riproduzioni in scala:
Prendi quelle gallerie
che aprono in primavera per la Design Week
e trasformano in Gallerie per la Design Week,
larghi e alti tunnel mi hanno detto,
senza fine mi hanno detto,
anche con le scenografie della Design Week
senza fine con piante ornamentali,
vecchie transenne affittate
per qualche giorno di fine,
cosa? Prendile e svuotale di nuovo […]62.
E Riproduzioni in scala era – del resto – il titolo della raccolta precedente, dove infatti questa isotopia è già attiva:
Come
il sistema mi dia degli ordini e la casa cominci
a esistere, tipo le mura, tipo i quadri africani
[…], le statuette in mogano
forse e le foto di Penna di una processione
siciliana alla Madonna, la realtà bella, lì
tutta sistemata, ma quale debole forza messianica!63
Dalla lettura di questi esempi risulterà quindi evidente un tratto comune: in tutti e tre i casi la realtà non è unicamente narrata, rappresentata per descrizioni. La realtà è – a ben vedere – accuratamente evidenziata come frutto di una creazione attiva a partire da specifiche coordinate, dai soli elementi in grado di «definire con coerenza» precisi spazi ipotetici. Il «posto di vacanza» non è immaginabile senza palme e piscine, così come la «scenografia» della Design Week non può non prevedere piante ornamentali, ma allo stesso tempo nessuno di questi luoghi potrà materializzarsi senza un preciso intervento che ne metta assieme le parti. Si tratta di una concezione dell’artificialità manifesta del reale particolarmente diffusa nella cultura on-line e videoludica, e che Valentina Tanni dimostra come fondante nei suoi meccanismi creativi: «per creare e trasmettere consapevolmente una certa vibe» – ovverosia un certo orizzonte simbolico – «è necessario individuarne le coordinate, mettere insieme un set di indicazioni che serve a raggiungere uno specifico luogo»64, e il meccanismo non è dissimile da quello dei programmi di generazione grafica text-to-image, che attraverso specifici input testuali sono in grado di generare spazi complessi e, soprattutto, da noi riconoscibili. Il parallelismo tra i due processi è motivato dall’analogo utilizzo degli «spazi latenti»65, cioè di quegli spazi di rappresentazione di oggetti ed eventi in cui dati dalle caratteristiche simili – dunque «coerenti» – sono organizzati in regioni contigue: e laddove un’intelligenza artificiale è in grado di navigare questi spazi grazie al proprio addestramento meccanico, ottenendo così la capacità di riconoscere il principio di coerenza e riprodurre le caratteristiche essenziali di una regione concettuale, questa stessa riproduzione sarà invece umanamente possibile in virtù delle proprie esperienze sensibili. Si ritorna così al nostro punto di partenza. Seguendo Vasallo, le «esperienze sensibili» che formano un orizzonte simbolico sono infatti prima di ogni altra cosa esperienze politiche, ovverosia esperienze attive di uno status quo socio-economico che – producendo capitale cognitivo – fa in modo di essere interpretato e immaginato unicamente secondo determinate modalità. Spiega ancora la studiosa: «nella realtà succedono molte cose contemporaneamente e succedono a molti livelli. Nel simbolico, un’epoca è descritta da chi la conquista, perché conquistarla significa anche acquisire il potere della codificazione» – ovvero del significato dato all’esperienza – «e della durata della narrazione»66, ovvero della precisa disposizione dei dati. Il risultato di quest’opera di conquista sarà allora il regime che Franco «Bifo» Berardi definisce come «semiocapitalismo», l’impatto riconosciuto che la produzione e l’accumulazione di beni immateriali – i «segni» – ha «sulla mente collettiva, sull’attenzione, sull’immaginazione e sulla psiche sociale»67. In sostanza, e superando Bourdieu, «la naturalizzazione della sequenza È il messaggio»68.
Riconoscere l’azione del semiocapitalismo ha evidentemente un’implicazione su tutte: le coordinate utilizzate per immaginare la realtà – ovvero per fare lavoro culturale – non sono oggettive, bensì un problema politico, e pertanto decostruirle vorrà dire innanzitutto evidenziare – come avviene in Marra e Borghesan – la loro artificialità, il loro essere decise a priori. Anzi, in queste circostanze l’autoconservazione dello status quo sarà garantita dal controllo sull’immaginario ancor prima che da quello sui mezzi materiali69. «La sensazione che niente possa più cambiare davvero, conseguenza di uno scenario politico e sociale in cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”»; l’idea bifiana di «lenta cancellazione»70 di un futuro che sia «percettibilmente diverso»; le conseguenti ondate di stanchezza e malessere psicologico che pure vengono rappresentate – attraverso la descrizione di una seduta psicanalitica dopo gravi episodi di ansia e derealizzazione – in un passaggio cruciale di Non sappiamo come continuare71 sono tutte conseguenze teoriche e letterarie della consapevolezza di quanto forte sia la presa della «disciplina del capitale» sulla creatività. Meglio ancora: la diretta conseguenza è ciò che Fisher – riprendendo Derrida72 – definisce come «hauntology», «l’aspetto importante della figura dello spettro […], che questo non può essere pienamente presente: non possiede essere in sé, ma marca una relazione con ciò che è non più o non ancora»73. In poche parole la coincidenza – causata dalle condizioni storiche – tra necessità e impossibilità di un’idea di futuro, e il sentimento di spossante frustrazione che deriva da ciò e dalla conseguente mancanza di agency. Il «pastiche ipertrofico» della vaporwave – emblematico per tutta l’estetica postmoderna del riuso – risulterà efficace esattamente per il suo incarnare un immaginario marcatamente costruito per riciclo, dove l’inquietudine data dall’incapacità di teorizzare elementi per costruire il futuro convive con il ritorno rassicurante e nostalgico al serbatoio di simboli di un’epoca in cui immaginare non sembrava impossibile. Viceversa, appartenendo al capitale culturale dello status quo anche gli strumenti della teoria rivoluzionaria, sono necessariamente destinati al fallimento i tentativi di fuoriuscita dalle modalità con cui la realtà si riproduce.
In Prekarten II, allora, la fuga dal reale è poco più di un glitch nel codice, sia esso un malfunzionamento nella catena degli eventi o un perturbante segno di imperfezione – non dissimile dalla presenza di dita aggiuntive in un deepfake altrimenti impeccabile – nel coerente idillio consumistico:
La testa azzurra del rinoceronte
in resina che finge l’origami
è appesa nell’ingresso del locale,
vicino allo scaffale con gli Adelphi.
La cameriera in cassa tiene gli occhi
sul tablet, dice adesso siamo pieni,
ha un morso di medusa sul ginocchio.
È incerta tra la texture della tigre
e quella del giaguaro, così sceglie
entrambi i prendisole; la commessa
ritiene che stia bene con la tigre
ma anche col giaguaro, poi sussurra
Come la tigra nel suo gran dolore,
citando Chiaro Davanzati, forse74.
Diverso e più tragico è però il caso di Marra, molto più vicino alle posizioni tracciate da Fisher. Non sappiamo come continuare, nel suo costante riferimento ai rapporti familiari e amorosi75, è infatti innanzitutto un libro sulla riproduzione in scala anche nella misura in cui questa è «processo biofisico»; sicché la catena di montaggio del capitale economico e la genealogia narrativa di quello culturale coincideranno con una catena genealogica altrettanto immutabile, quella dell’eredità, sia questa di mezzi materiali, di traumi generazionali o di storytelling sociali. La prima consapevolezza che ne deriva è l’impossibilità, a livello microscopico, di fuggire dalle proprie narrazioni private («mi ripeto che i ricordi sono vostri, lasciateveli»76) e dal proprio ruolo di riproduttore di specie, di nuclei di consumo («avrei voluto fecondarti artificialmente / come si fa per le mucche, / e produrre latte e rimanere insieme per sempre / senza dover pensare alla casa, alla spesa»77). La seconda – qui il punto – è la frustrazione tematizzata a cui è condannata l’intenzione di scrivere «senza scrivere»78, ovverosia di prendere in mano la propria responsabilità di lavoratore culturale e provare a più riprese a immaginare una realtà svincolata dal disciplinamento anche editoriale e dunque migliore di quella percepita. Il capitale culturale si eredita e, nonostante i tentativi – soprattutto nel poemetto Tautoromanzo79 –, stare fuori dalla realtà da esso scriptata è impossibile80. Tutto sarà in ogni caso «qualsiasi cosa si faccia / […] come una lezione di fotografia»81 dal momento che, pur avendo mezzi di produzione simbolici propri, non si è realmente nella posizione di sapere come utilizzarli. In definitiva il poeta, il sedicente intellettuale rivoluzionario, non sa cosa fare dopo, non può immaginare un «dopo» diverso, «una fine che non sia per / cancro / infarto / incidente stradale», anche se «voi mi dite che moriremo al sole»82. L’unico finale possibile è la presa d’atto di questa mancanza di agency, che conclude – portandola al massimo grado – la decostruzione di Marra e nostra del lavoratore culturale:
Fuori. Senza il ghiaccio delle mattonelle
o anidride carbonica,
senza l’umidità del riscaldamento,
senza acqua corrente,
senza filtri anticalcare. Senza luce artificiale,
poltrone imbottite e librerie verniciate,
senza agende che non riesci a usare,
la città del sole.
Non sai come continuare, vero?
Non sappiamo come continuare83.
- G. Simonetti, Nuovi modi per andare a capo. Su alcune raccolte recenti di poesia italiana, in «Italianistica», XXXVII, 1, 2008, p. 146. ↑
- Per un’analisi del fenomeno, cfr. G. Policastro, L’ultima poesia. Scritture anomale e mutazioni di genere dal secondo novecento a oggi, Milano-Udine, Mimesis, 2021, pp. 73-90. ↑
- Cfr. G. Martini, Forme di immaginario sociale e rappresentazioni del pubblico della poesia nei testi poetici recenti, in «Configurazioni», I, 1, 2022, p. 246. ↑
- Cfr. ivi, p. 250. ↑
- Consumatori che naturalmente – in regime di consumismo – sono il fulcro del «passaggio epocale dell’inedita espansione e stratificazione progressiva del pubblico dei lettori» (S. Ghidinelli, Formato antologia e formato libro. Sui modi di presentazione della poesia nel Novecento, in «Enthymema», 17, 2017, p. 26). Sulle conseguenze di questa «inedita espansione» del pubblico, però, cfr. anche G. Bortolotti, Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete, in «Nuova prosa», 64, 2014, pp. 102-103. ↑
- G. Martini, Forme di immaginario sociale e rappresentazioni del pubblico della poesia nei testi poetici recenti, cit., p. 247. ↑
- Ivi, p. 264. ↑
- In tal senso risultano emblematiche – e pertanto giustamente approfondite da Martini – le serie di poesie I prossimi tutorial di Ophelia Borghesan, «in cui un soggetto spersonalizzato che parla alla prima persona plurale si posiziona come dissacrante magister vitae annunciando, in quaranta slides consecutive, che cominciano tutte con la formula identica “nel prossimo tutorial ti insegneremo a”, una serie di abilità che ripromette di apprendere agli utenti ancora inconsapevoli (ivi, p. 262)». Cfr., a riguardo, O. Borghesan, I prossimi tutorial di Ophelia Borghesan, 2 voll., in «Ophelia Borghesan», 2019, vol. I, URL <opheliaborghesan.wixsite.com/portfolio/nelprossimotutorial1>, vol. II, URL <opheliaborghesan.wixsite.com/portfolio/nelprossimotutorial2>, consultati il 15 aprile 2024. ↑
- Cfr. A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, in «Nazione indiana», 18 maggio 2015, URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>, consultato il 30 aprile 2024. ↑
- L. Tozzi, Schiavi delle reti. Gli effetti del networking sul lavoro indipendente, in «alfabeta2», 19, 2012, p. 24. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, autopubblicato, 2024, p. 73. ↑
- Ivi, p. 7. ↑
- Cfr. ivi, p. 59; per cui cfr. Id., Riproduzioni in scala, Latiano, Interno Poesia, 2019, p. 36, luogo catalogato da Martini fra quei momenti testuali in cui «il ruolo di poeta e il messaggio poetico vengono coinvolti in una scena squalificante o connessi a un immaginario degradato», e tuttavia «il gesto dell’auto-investitura non viene meno; al contrario, il soggetto-poeta sembra acquistare il merito della tenacia e della persistenza» (G. Martini, Forme di immaginario sociale e rappresentazioni del pubblico della poesia nei testi poetici recenti, cit., p. 255). ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 44. ↑
- Cfr. O. Borghesan, Not a Saudade, in «Ophelia Borghesan», 2020, p. 77, URL <opheliaborghesan.wixsite. com/portfolio/notasaudade>, consultato il 15 aprile 2024. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 58. ↑
- A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>. Cfr. F. Chicchi, Lavoro flessibile e pluralizzazione degli ambiti di riconoscimento sociale, in E. Di Nallo, P. Guidicini, M. La Rosa (a cura di), Identità e appartenenza nella società della globalizzazione. Consumi, lavoro, territorio, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 118-119: «Sembra svolgere una funzione rilevante, la diffusione di una cultura del lavoro che fa della performance individuale e della capacità di competere efficacemente sui mercati emergenti degli elementi imprescindibili dell’alto riconoscimento sociale. Il lavoro diventa fonte di attribuzione di elevato status quando è visto come attività rischiosa, creativa e di responsabilità». ↑
- Cfr. D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., pp. 70-72. ↑
- Nato nel 2013, lavorando unicamente attraverso autopubblicazioni on-line, «Ophelia Borghesan» è in realtà il nome di penna adottato collettivamente ed esplicitamente da Angela Grasso e Luca Rizzatello per il proprio progetto di scrittura, grafica e videoinstallazioni. Per un profilo poetico, si legga la presentazione a cura di F. Vasarri in G. Martini (a cura di), Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, Latiano, Interno Poesia, 2022, pp. 107-109. ↑
- G. Bortolotti, Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete, cit., p. 96. ↑
- Riprendendo l’idea di minimo scarto possibile tra creazione e pubblicazione, inteso come unico modo per avere un rapporto attivo e fruttuoso col pubblico, quest’ultimo dettaglio è di non poco conto. La questione non si riduce unicamente al concetto di poesia come performance: è evidenziato – in questo caso – anche il complessivo abbandono delle strutture macrotestuali, inservibili in forma orale o social, in virtù delle richieste di mercato. Il riferimento costante – in Madreperla, domani – a singoli testi non può quindi non apparire polemico se, come spiegato da Vasarri, nel caso dell’opera di Borghesan «la misura antologica […] non può rendere piena ragione di una scrittura articolata, come questa, per libri di poesia e non per raccolte di elementi singolari (distinzione effettiva, non discorsiva: e che qui significa impianto concettuale e aumentata leggibilità del microtesto in ragione della struttura e del racconto complessivo» (F. Vasarri in Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, cit., pp. 107-108). In tal senso, un sondaggio sullo stato della macrotestualità nella poesia postrema risulta ancor più necessario. ↑
- O. Borghesan, Not a Saudade, cit., p. 45. Cfr. anche ivi, p. 42. ↑
- Ivi, p. 47. Cfr. anche ivi, p. 50. ↑
- Cfr. ivi, p. 42: «arriva un redattore (con la falce) / di quindicianni a dirti che si fa // così, si posta sempre e che lo scopo / è presidiare, è fare il test dell’alce / ai testi; Julian, è pubblicità». ↑
- G. Martini, Forme di immaginario sociale e rappresentazioni del pubblico della poesia nei testi poetici recenti, cit., p. 259. ↑
- Cfr. O. Borghesan, Not a Saudade, cit., p. 48. O, ancora, cfr. ivi, p. 47: «Facciamo un algoritmo che consenta / di ottimizzare le emozioni in sala // mettendoci ad esempio il dove e il quando, / e il come. Quindi, Erika, diventa / un gioco di prestigio, od un bengala». A costo di sembrare banali, è necessario sottolineare come sia in quest’ottica che possano nascere scuole di formazione specificamente mirate all’apprendimento delle tecniche necessarie ad inserirsi – con la propria scrittura – nell’orizzonte editoriale contemporaneo, e come a sua volta la formazione in tal senso divenga un lavoro remunerativo. Non è quindi casuale che un’istituzione celebre come la Scuola Holden di Alessandro Baricco fornisca – tra i suoi servizi – anche corsi di scrittura poetica mirati all’acquisizione del «codice» richiesto, così come non lo sono studi altrettanto mirati alla ricerca del codice comune dei casi letterari recenti, come Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (G. Simonetti, Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario, Milano, Nottetempo, 2023). ↑
- Ivi, p. 44. ↑
- Cfr. infra, nota 12. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 43. ↑
- Ivi, p. 60. ↑
- Ivi, p. 66: «vorrei solo essere bello. No, / tu… vogliamo essere visti / e non c’è niente di male». ↑
- A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>. ↑
- Cfr. D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 41: «si è accertato, mette la virgola toglie la virgola, / giudicato osservato come si giudica / senza pace tra colleghi, preoccupato e soprattutto / che la sua testa tenga geo / politicamente che la sua reputazione / tenga […]». ↑
- A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>. ↑
- Ivi, p. 9: «Questa vulnerabilità, innanzitutto, si esprime attraverso un chiaro obiettivo, che è quello di voler essere dentro. Quanto di più estraneo, per chi ha l’acqua alla gola, il discettare, come va molto di moda tra noi lavoratori culturali, sul come essere fuori stando dentro. Scrivono Magatti e De Benedittis: “In effetti, quello che abbiamo trovato è un mondo preoccupato più di ‘stare dentro’, di integrarsi, di accedere, di essere riconosciuto, di cogliere l’occasione, che non di cambiare o di credere in qualcosa di diverso”». ↑
- Ivi, pp. 10-11. ↑
- C. Formenti, Tra postoperaismo e neoanarchia, in «alfabeta2», 22, 2012, p. 10. Cit. in A. Inglese, Critica del lavoratore culturale, cit., URL <https://www.nazioneindiana.com/2015/05/18/critica-del-lavoratore-culturale/>. ↑
- Cfr. P. Bourdieu, Capitale simbolico e classi sociali, in «Polis», 3, 2012, p. 401. ↑
- Ivi, p. 405. ↑
- Cfr. ivi, p. 403. ↑
- B. Vasallo, Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, trad. it. di G. Palomba, Napoli, Tamu, 2023, p. 56. ↑
- Cfr. ivi, p. 57. ↑
- Cfr. ivi, p. 63. ↑
- Ivi, p. 67. ↑
- Cfr. ivi, p. 79. ↑
- Cfr. ivi, pp. 65-66, 68-70. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 7. ↑
- Ivi, pp. 17-20. ↑
- Cfr. M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Roma, Minimum fax, 2019, pp. 22-24. ↑
- Cfr. infra, nota 29; ma cfr. anche D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 65: «Non me la sento, per noia. / Ma ho paura anch’io. // […] Provi / a non averne più, / non ne ho più. Di che? / Forze e coraggio. / Vorrei che fosse tutto più facile, / più immediato»). È inoltre da notare come la stanchezza dell’io lirico – e cioè il sogno di «smettere di lottare» – sia più avanti direttamente collegato al raggiungimento di una pur precaria stabilità lavorativa. Cfr., a riguardo, ivi, p. 61: «Mi sono innamorato finalmente / del mio lavoro e voi volete smettere? / Ho lottato per una vita per non ammazzarmi / e voi dite parole che non capisco / ma che capisco benissimo». ↑
- Cfr. S. Boym, The future of Nostaglia, New York, Basic Books, 2002, cit. in V. Tanni, Exit Reality, Roma, Nero, 2023, pp. 28-29. ↑
- D. Keenan, Childhood’s end, in «The Wire», 306, 2009, p. 26. ↑
- Per un tentativo di definizione, cfr. V. Tanni, Exit Reality, cit., pp. 17-20. In ogni caso si noti come, non casualmente, Giulia Martini parli della poesia di Borghesan come «vaporwave modernista» (cfr. Aa. Vv., Su Ophelia Borghesan, in «In rime sparse: il Podcast», S02-03, 2 novembre 2023, dr. 24:57 mins., URL <https://open.spotify.com/episode/72ENctQmaJZrQMkGWg3Bsm?si=4806505d162c4503>, mins. 17:06, 21:10). ↑
- O. Borghesan, Il libro della vacanza, in «Ophelia Borghesan», 2020, p. 19, URL <opheliaborghesan.wixsite.com/portfolio/illibrodellavacanza>, consultato il 15 aprile 2024. ↑
- Ivi, p. 38. ↑
- Ivi, pp. 22, 25, 44. ↑
- Cfr. ivi, p. 13: «le gambe impolverate, la certezza / di vivere un cliché, e un altro, e un altro». ↑
- Cfr. ivi, p. 43. I tre versi vuoti che concludono la poesia – ben lontani dal generare horror vacui – risultano infatti combinatoriamente riempibili senza alcuno sforzo sulla base delle coordinate date al lettore con deissi ferrea. ↑
- Ivi, p. 15. ↑
- Ivi, p. 33. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., p. 19. ↑
- Ivi, p. 57. Si noti inoltre come, in questo caso e tenendo conto della citazione in esergo a L. Tozzi, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, Napoli, Cronopio, 2023, la costruzione artificiale di una scenografia sia funzionale a sottolineare il valore assolutamente arbitrario che questa assume, affibbiato a tavolino sulla base di logiche commerciali. ↑
- Id., Riproduzioni in scala, cit., p. 23. Ma cfr. anche ivi, p. 19: «Molle di certo, la pianura collassa / come il centro d’un panno pieno d’acqua, / sfiorisce fiore di carta, sulla pietà / scarsa: quale bellezza!». ↑
- V. Tanni, Exit Reality, cit., pp. 63-64. Ma cfr. anche ivi, pp. 158-159, dove è spiegato il fenomeno dello scripting in funzione della dissociazione verso una realtà alternativa, o reality shifting: «all’interno della sua realtà configurabile, lo shifter è allo stesso tempo game designer, regista e giocatore». ↑
- Cfr. ivi, p. 64. Che questo principio sia – come notato da Tanni – di tipo matematico è tanto più importante se si fa caso a come, in Riproduzioni in scala, l’immaginazione degli spazi sia presentata sin da subito come ipotesi scientifica (cfr. D. Marra, Riproduzioni in scala, cit., pp. 16, 22-23; dove Siano A e B è l’emblematico titolo della sezione). La riduzione a coordinate delle persone in movimento attraverso la realtà riprodotta è peraltro attiva anche in Non sappiamo come continuare (Cfr. Id., Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., pp. 41-42). ↑
- B. Vasallo, Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, cit., p. 77. ↑
- F. Berardi, La felicidad es subversiva, intervista a cura di V. Gago, in «Pàgina/12», 12 novembre 2007 (trad. it. di G. Palomba, cit. in B. Vasallo, Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, cit., p. 99). ↑
- Ivi, p. 120. ↑
- Cfr. ivi, p. 135: «il simbolo è più reale dell’oggetto, e l’oggetto rimane, semmai, un premio di consolazione. L’immagine non è una realtà aumentata, è la realtà ad essere un’immagine diminuita. In questo contesto di riproduzione della realtà, o anche di produzione della realtà per la sua riproduzione spettacolare, […] l’iconicità della frase “quello che non si nomina non esiste” acquisisce dimensioni inquietanti». ↑
- Cfr. M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, cit., p. 21. ↑
- D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., pp. 25-28. ↑
- Cfr. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, trad. it. di G. Chiurazzi, Milano, Raffaello Cortina, 1994. ↑
- M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, cit., p. 26. Cfr. M. Hägglund, Radical Atheism. Derrida and the Time of Life, Stanford-London, Stanford University Press, 2008, p. 82. ↑
- O. Borghesan, Il libro della vacanza, cit., pp. 44-45. ↑
- Cfr. D. Marra, Non sappiamo come continuare. Nove processi biofisici, cit., pp. 13-15, 51-55, 63-66. ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- Ivi, p. 53. ↑
- Ivi, p. 24. ↑
- Cfr. ivi, pp. 33-48. ↑
- Cfr. ivi, p. 48: «in coda a quella serie / si chiede se è solo l’ambiente che cambia, / camminando dentro camminando fuori, / perché una volta fuori e dentro gli era sembrato uguale». ↑
- Ivi, pp. 34-35. ↑
- Ivi, p. 59. ↑
- Ivi, p. 66. ↑