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La fabbrica che non c’è (più)? Un percorso sulla letteratura industriale

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Che in letteratura si parli anche di fabbrica è ormai ampiamente risaputo. Così come è noto che la stagione aurea della letteratura del lavoro in Italia è quella che cronologicamente si colloca durante il boom economico, fondamentale per la storia del nostro paese a partire dalla fine degli anni Cinquanta. In quel periodo l’Italia affronta l’incontrovertibile ammodernamento produttivo – ovvero il passaggio da un paese ad appannaggio produttivo agricolo in uno principalmente industriale – che comporta un naturale riassetto sociale: dalla campagna alla città, dal sud verso il nord, ma soprattutto, ogni aspetto della vita aveva come centro la fabbrica.
Facendo un passo indietro nel tempo, è prezioso sottolineare che le prime testimonianze della comparsa della fabbrica all’interno dei testi letterari sono antecedenti al periodo sopraindicato. Sorprende infatti che una delle prime attestazioni di questo tipo può essere ritrovata già negli anni Trenta (periodo in cui l’industrializzazione non era ancora avanzata), in particolare nel 1934 con la pubblicazione del romanzo Tre operai di Carlo Bernari, all’interno della collana «I Giovani» di Rizzoli. Il testo, ambientato in una Napoli cupa e piovosa, porta il lettore all’interno delle vite di tre giovani operai, Teodoro, Marco e Anna, alle prese con le loro peregrinazioni amorose e lavorative investite di istinti rivoluzionari.
Dunque, Tre operai anticipatore di un genere di cui ritroviamo le tracce circa vent’anni dopo. La fabbrica diventa il luogo per eccellenza. Gli intellettuali entrano in fabbrica, per narrarla o per lavorarci: da Simon Weil in Francia che inaugura questa pratica, a Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Franco Fortini in Italia. In particolare, Volponi e Ottieri sono impiegati entrambi presso l’Olivetti di Pozzuoli, che non è la loro unica esperienza in fabbrica, ma sicuramente la più rilevante. Adriano Olivetti, allora proprietario dell’azienda, considerava necessario integrare all’interno dell’industria, e dunque della cultura tecnica, anche la cultura umanistica; perciò, scelse di assumere in ruoli manageriali anche poeti, scrittori e intellettuali. Uno degli obiettivi primi dell’ingegnere era quello di “umanizzare” il lavoro di fabbrica: questa non doveva essere causa di disagio e angoscia, ma produttrice di benessere. Olivetti nota la crescente separazione tra la sfera materiale e spirituale, attribuendo questa divisione a cambiamenti culturali e tecnologici che hanno trasformato l’uomo in consumatore.
Proprio all’interno dello stabilimento di Pozzuoli proliferano le testimonianze letterarie che ci raccontano della vita di fabbrica. Una rassegna che può cominciare da Ottiero Ottieri che nel 1957 pubblica Tempi stretti1, un romanzo dall’intreccio volutamente semplice, che non distrae da quello che Ottieri sceglie essere il centro – nell’accezione di Orhan Pamuk: la vita di fabbrica con le sue dinamiche ripetitive che si manifestano e si ritrovano all’interno dei tre stabilimenti industriali descritti nelle pagine di Ottieri (Alessandri, Zanini, Smai), ovvero alienazione, sfruttamento, lotte sociali e politiche, scioperi, salari bassi. In Donnarumma all’assalto, testo del 1959, Ottieri raccoglie invece le sue esperienze presso l’Olivetti di Pozzuoli, e in qualche modo, riesce a narrare le conseguenze che quell’alienazione di fabbrica di Tempi stretti aveva generato. Lo Pizzicologo, termine con cui la voce narrante viene chiamata all’interno delle pagine del testo, si trova a dover selezionare nuovo personale, mansione che Ottieri aveva direttamente svolto nella fabbrica2. Il problema sta nel fattore quantitativo: sono troppi coloro che chiedono di lavorare3, perché troppa è la disoccupazione; il lavoro del tecnico Dottore non consiste nello scegliere ma «nell’escludere». Il meridione crea, in maniera spontanea, una nuova forma di alienazione: se in Tempi stretti era la condizione di operaio ad essere alienante, qui si sposta sul disoccupato, l’alienazione della mancanza di lavoro è il male radicale, e il disoccupato è il malato primario. La disoccupazione si pone come elemento disgiuntivo e non capace di fare da collante tra gli operai. Non esistono gli operai in lotta, ma il singolo lavoratore.
Agli inizi degli anni Sessanta si unisce alla voce dei romanzieri industriali anche Paolo Volponi, autore iper-produttivo: alla professione di scrittore accompagna quella di saggista, critico, dirigente industriale presso l’Olivetti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, per divenire poi politico di spicco nella sinistra comunista durante il decennio ’83-’93. Il primo romanzo che pubblica è Memoriale, nel 1962. Il protagonista Albino Saluggia, narratore poco affidabile e paranoico, vive a cavallo di due mondi: il primo è quello delle campagne, del passato, del silenzio, dell’agricoltura e dell’economia lenta; il secondo è quello nuovo in cui deve entrare dopo la guerra, il mondo fatto di industrie e capitalismo. Leggiamo, infatti, che

Se avessi fatto il contadino e fossi rimasto a Candia, pensavo, non mi sarei ammalato. Avrei potuto comperare altra terra, prendere un trattore e mettere su una stalla. Avrei potuto vivere per conto mio e decidere ogni giorno il mio lavoro libero per i campi. Le stelle segnano le stagioni e si sa quando seminare, rivoltare la terra, mietere e tagliare i fieni. […] Avrei potuto cambiar strada dietro una lepre o risalire i fossi del confine. Scuotere gli alberi da frutta o sedermi e dare una voce a quelli degli altri campi. Fare un lavoro mio. […] Invece ho accettato il lavoro della fabbrica. Mi è stato imposto dai progetti degli altri, che mi hanno scelto come la loro vittima. […] Tutti i conforti della fabbrica diventano alla fine, come per me, dei motivi di pena4.

Il decennio successivo è il tempo in cui gli operai si impossessano della penna per raccontare da sé le proprie storie. Questa letteratura è definita “selvaggia”, termine in parte sicuramente dispregiativo, volto ad indicare quegli scrittori che non fanno parte della cerchia dei letterati, ma che in qualche modo, attraverso la scrittura, aprono le porte di una fabbrica intrinsecamente chiusa, come osservava Ottieri5. Nascono operai artisti che, spinti non da istanze letterarie ma dall’urgenza di raccontare, compongono opere che ci portano realmente all’interno della vita lavorativa delle fabbriche. I testi nati su questi presupposti propongono una prospettiva fortemente militante: sono gli operai che vogliono parlare così da «sottrarre agli avversari un fondamentale dispositivo di dominio: la parola»6. Quando si parla di scrittori operai si fa riferimento ad autori come Luigi Davì, Tommaso di Ciaula, Vincenzo Guernazzi e Nanni Balestrini. Si è dinanzi a opere scritte da operai per gli operai che non solo occupano ben presto una posizione rilevante all’interno del paradigma letterario – molti di questi romanzi divengono best-seller – ma soprattutto danno voce a una generazione intera in lotta contro l’individualismo capitalista a favore di un collettivismo in fase di strutturazione, che si esprime in slogan e applausi.
La vitalità del cronotopo della fabbrica non è costante: si passa da un periodo, appunto, di enorme diffusione ad una crisi a partire dagli anni Ottanta. A sancire in effetti la fine di questa stagione è il testo di Ermanno Rea, La dismissione, pubblicato nel 2002. In apertura al testo, in corsivo, Rea ci informa di quale dismissione si tratta: «non c’è libro che non ruoti attorno a un problema. In questo caso il “problema” è la dismissione dell’Ilva di Bagnoli, l’acciaieria che attraversa circa un secolo di storia napoletana»7. L’Italsider sorge a Bagnoli agli inizi del Novecento (intorno al 1910), e sarà definitivamente dismessa nel 1994. Il periodo di massima gloria dello stabilimento è ovviamente intorno agli anni Sessanta, ma come il protagonista del testo annota:

Le cose cominciarono ad andare a rotoli dalla fine degli anni Sessanta in poi, diciamo dal 1969. A partire da quel momento lo stabilimento chiuse i successivi esercizi con bilanci via via più disastrosi, fino ad arrivare, nel 1977, a centoventisette miliardi di perdita, pari a sedici milioni per ciascun dipendente. Centoventisette miliardi (del ’77) in dodici mesi appena8.

Inaspettatamente, anche per chi ci lavorava, la perdita non sancì l’immediata chiusura dello stabilimento, «si decise di ristrutturarla, di farla risorgere»9. Nessuno credeva che quella soluzione sarebbe stata sufficiente. Infatti, fu del 1989 la decisione definitiva di dare avvio allo smantellamento della fabbrica10. Individuato chiaramente «il problema», Rea, sempre all’interno dell’introduzione, affronta un’altra questione: il genere. Il testo si presenta come un romanzo, ma dalle prime pagine è chiaro quanto non sia sufficiente una tale classificazione:

[il testo non è] né una requisitoria né un’inchiesta né, tantomeno, una ricostruzione storico-politica della travagliata vita della fabbrica fino al suo annientamento […] sono, semplicemente, uno “sfogo”: una stupida faccenda di sentimenti, di rimpianti, di nostalgie spesso regredite in nevrosi […] un racconto, insomma. Nient’altro che un racconto11.

Il testo, dunque, si colloca all’interno di due fertili campi: non-fiction e ibridazione. Presentandosi come un simil romanzo epistolare, la voce del protagonista Vincenzo Buonocore ripercorre, attraverso la sua personale esperienza di fabbrica e di vita, la storia non solo dell’Italsider, ma di un intero quartiere. Il testo si costruisce mediante l’accumulo di episodi di vita quotidiana familiare, frammenti fortemente introspettivi, descrizioni della vita di fabbrica, passaggi tecnico-specialistici e, addirittura, un disegno industriale. La narrazione «vagamente epistolare»12 nasce proprio dallo scambio che Rea intrattiene con Vincenzo Buonocore13 (nome di fantasia) per restituire al lettore l’esperienza del colloquio diretto, con domande che intessono la narrazione e con un Tu presente in maniera diffusa, capace di porre il lettore in una posizione di interlocuzione e far risuonare dentro di lui le medesime vicissitudini del protagonista narratore – che potremmo definire anche co-autore. Con una leggera sorpresa si viene a conoscenza, nell’ultimo capitolo, «l’epitaffio», che Rea ha sottoposto le parole e le vicende di Buonocore a una rielaborazione di tipo finzionale. Sorprende perché dinanzi alla narrazione di un finale del genere il bisogno di verità appare innegabile, e allo stesso tempo ci si domanda quale sia il senso che la manomissione della verità di Buonocore vuole avere. La rielaborazione autoriale, che Buonocore accetta affermando «Le bugie non contano quando assomigliano alla verità»14, pone l’accento sul fatto che la narrazione tende a mantenere uno status di romanzesco, forse per ribadire che non esiste una verità oggettiva, o quanto meno non è davvero quella che importa. Come sostiene Adalgisa Giorgio: «L’impegno di Rea si traduce nella ricerca simultanea della verità e del metodo più adatto a farla emergere. […] Se i libri di Rea si concludono con la dichiarazione che ci sono solo verità parziali, essi affermano anche il potere del genere di scrittura da lui praticata di produrre verità attraverso una valutazione rigorosa e onesta degli indizi»15. Egli, dunque, adotta alcune tecniche per ricreare questo effetto di verità celata come, ad esempio, quello di scegliere personaggi che sono in realtà persone, o anche coinvolgendosi direttamente nella storia. Fedele a un’idea militante della letteratura, il suo obiettivo è quello di risvegliare la coscienza di chi legge: «la natura squisitamente letteraria del suo progetto politico […] serve a coinvolgerci emotivamente, oltre che intellettualmente in una (ri)costruzione basata su frammenti e dati parziali»16. Non è la verità oggettiva quella che Buonocore racconta – d’altronde come potrebbe, è pur sempre un uomo e, come tale, racconta dal suo punto di vista dunque parziale e limitato. Ciò che conta in questo testo è l’eco che tale evento ha per il soggetto.
Vincenzo Buonocore è presentato da Rea come «ex-operaio, ex manutentore, ex tecnico d’area delle colate continue, ora disegnatore industriale, senza titolo di studio, vale a dire autodidatta»17. Come molti altri giovani del quartiere, trova presto lavoro in fabbrica. Vi entra a ventidue anni e riesce a fare carriera, giungendo alla massima carica di responsabilità proprio in concomitanza con la fine della fabbrica: sarà lo stesso Buonocore a dover sorvegliare la dismissione delle aree da vendere ai cinesi della Steel Works, a occuparsi dello smontaggio delle stesse, pezzo per pezzo. È quasi buffo assistere a come si senta orgoglioso di ricoprire quella posizione. Buonocore ama la fabbrica. La ama così tanto da non riuscire a separarsene: «Arrivavano i cinesi e io avevo un unico desiderio: essere al centro dell’avvenimento in maniera da poterlo controllare, da una posizione dominante, per tutto il tempo che fosse durato»18 e poco prima, quando l’ingegner Leonardi gli chiedeva cieca collaborazione nelle fasi di smontaggio, Buonocore gli risponde «Ingegnere, io non vedo l’ora che questo smontaggio cominci. Sia chiaro una volta per tutte. Io non vedo l’ora». Un atteggiamento estremamente contraddittorio: da un uomo che ha vissuto la fabbrica per più di venti anni, ci si aspetterebbe un’opposizione netta alla sua chiusura, o quanto meno non entusiasmo per la stessa. Lui invece si preoccupava di «accogliere nel migliore dei modi coloro che, un pezzo alla volta, si sarebbero portati a casa propria, in Cina, una fetta importante della nostra vecchia fabbrica»19. Buonocore, preso da una sorta di luddismo causato dall’amore20, non può fare a meno di prendersi cura della sua stessa fabbrica, sua come di ogni altro operaio, ingegnere, manovale, tecnico che ci abbia lavorato. Tanto era ciò che la fabbrica gli aveva dato, altrettanto egli doveva restituirle; a quel luogo così necessario per la sua vita spettava una fine dignitosa. Buonocore si fa carico di questa mansione e la porta avanti inimicandosi i suoi colleghi, che arrivano perfino a spedirgli tre lettere minatorie. Non sorprende che Buonocore si voglia in qualche modo prendere cura della macchina fino all’ultimo secondo concessogli – dichiara innumerevoli volte che ama la macchina e usa queste parole quando parla della colata continua: «una colata di piccole dimensioni, come certe donne minute minute […] ebbene io me ne innamorai subito»21. Chiede poi a Rea direttamente, anzi più precisamente lo prega, di inserire all’interno del testo un disegno, raccomandando il lettore di «osservarlo attentamente»: «Non pensi anche tu che nella felicità di questo incontro, un vero colpo di fulmine tra un uomo e una macchina, possa essere intravisto un segno del destino?»22.
La fabbrica diviene per chi la vive un luogo sacro: «Eccolo, il mio impianto, immenso come una cattedrale con un’unica navata grigio-azzurra dall’alta volta a coste e i fianchi arabescati da geometriche carpenterie, percorsi da fasci di tubi simili a sistemi venosi, scale, binari, aerei corridoi»23. Questo avviene perché il luogo fabbrica non rappresentava allora solo l’ameno, rumoroso, grigiastro, insalubre luogo di lavoro, bensì rappresentava il centro della vita di chi la viveva: rapporti umani, lotte politiche, sentimento di profonda gratitudine verso la macchina che dà lavoro, che permette all’operaio di essere operaio, luogo della coscienza. L’operaio del Sud vive la fabbrica come «via di libertà»24, come possibilità di riscatto sociale, morale, intellettuale, come strumento di vita per poter uscire definitivamente dalla condizione di emarginato sociale, di ignorante ed escluso. Dunque, è chiaro che la fabbrica è fonte di gratitudine ed è investita di una sacralità quasi ossimorica. Inoltre, il topos della fabbrica-chiesa, luogo di culto, come testimonia Giuseppe Lupo nel suo contributo introduttivo in Fabbriche di carta, non è nuovo: già Albino Saluggia nel Memoriale volponiano ne parla in questi termini, e ancora prima anche Sinisgalli25. Lupo sostiene che idealizzare la fabbrica non significa dimenticare che a causa di essa si verifichi quella tanto temuta quanto reale alienazione. Egli difatti nota che è proprio la meccanizzazione della vita a ricordare nel soggetto salariato la ritualità liturgica: «l’organizzazione tayloristica produce una monotona ritualità che azzera ogni forma di coscienza individuale e critica, ma […] accoglie un rito che sacralizza il lavoro e fonda un patto di alleanza tra i codici della religione e le tavole della legge, a garanzia di una civiltà nascente»26. Tramite la tecnica della microstoria, Rea presenta la verità sulla Bagnoli, e di conseguenza sulla Napoli, post-industriale. La storia di Vincenzo Buonocore è la storia di un quartiere, di una città e di un mondo ormai allo sbaraglio. È naturale chiedersi in effetti cosa possa restare di un mondo il cui sole è ormai spento: alla Bagnoli di Buonocore, «c’era poco da meravigliarsi: si era così tanto identificata con la fabbrica che, alla scomparsa di questa, era diventata automaticamente un nulla, un non-luogo, un’assenza»27.
La simbiosi tra la fabbrica e l’uomo è costante lungo tutta l’opera di Rea-Buonocore. Il romanzo racconta della perdita, della scomparsa: dell’ufficiale dismissione dalla vita. In ogni pagina echeggia questa aura di morte:

Credimi, non c’è niente che abbia a che fare altrettanto da vicino con la morte. La morte è presente in ogni atto che compi, in ogni parola che annoti, in ogni scatola che sigilli. Tutto, intorno a te vi allude, perché sa di muffa e di delusione. Di fallimento. Di cose che furono vive, ma adesso non più28.

Ogni cosa nel romanzo sta per finire o è già finita. La narrazione vera e propria inizia con la presentazione della crisi matrimoniale tra Vincenzo e sua moglie Rosaria, per poi passare alla fabbrica, «anzi all’ex-fabbrica»29. È la lotta costante di Buonocore contro questa morte delle cose. Riesce in parte a sconfiggere la morte della sua fabbrica tramite i suoi archivi, i suoi disegni tecnici e le sue parole confessate, in quanto diviene creatore di una memoria storica, un documento inesauribile, rendendo di fatto la fabbrica immortale. Riesce a salvare la relazione con la moglie: sino all’ultima pagina, non si arrende allo stato delle cose e si arma di determinazione matrimoniale. Non ci riesce, però, con Marcella, figlia di un collega operaio anch’egli morto prima del tempo dei fatti narrati. Marcella è una giovane completamente persa, allo sbaraglio. All’interno del romanzo è l’unico vero e proprio elemento di disturbo per Vincenzo Buonocore, quel perturbante che lo rende inquieto. Buonocore è un uomo che viene presentato per tutto il romanzo come un uomo integro, per nulla vacillante. Solo con Marcella sembra entrare in crisi: lei si dichiara innamorata di Vincenzo, ma lo ama perché gli ricorda il padre. È un amore sbagliato, provocatorio, non fattuale e non reale, ma pur sapendolo, Buonocore è in costante difficoltà nei confronti di quella giovane donna.
Che Marcella non sia solo Marcella è chiaro – Rea non è mai ambiguo in questi momenti, non lascia spazio all’interpretazione, la chiarezza è fondamentale30. All’interno della Trilogia napoletana (composta da Mistero napoletano (1995), La dismissione (2002) e Napoli ferrovia (2007), riuniti poi in un’edizione del 2009 con il titolo Rosso Napoli: trilogia dei ritorni e degli addii) le figure femminili hanno sempre un enorme importanza. Francesca Spada per Mistero napoletano, Marcella in La dismissione e Rosa La Rosa nelle pagine di Napoli ferrovia assurgono a simbolo della protagonista indiscussa della trilogia stessa, la città. Infatti, sostiene Laura Cannavacciuolo, «seguendo le storie [delle tre donne] ci troviamo di fronte a tre caratteri e tre destini che si succedono l’uno all’altro in maniera progressiva, come le diverse fasi storiche che ha attraversato Napoli dagli anni Cinquanta ad oggi»31. Marcella, dunque non è la fabbrica, anche perché lei con la fabbrica non intrattiene mai un vero e proprio rapporto, in fabbrica non è mai entrata. Se in parte rappresenta la città che cambia e si smantella insieme alla fabbrica, è anche ciò che della vita resta dopo la fabbrica: lei assurge a simbolo di una gioventù che ha perso il centro, a ventidue anni (l’età che aveva Buonocore quando è entrato in fabbrica) non sanno più dove andare a lavorare, non hanno più un luogo e non hanno più un’identità. Marcella è la vittima di un sistema fallito, è spaesata al pari dei tre ragazzi protagonisti del libro di Carlo Bernari (non sorprende infatti che entrambi gli autori si rifiutano di raccontare la Napoli del sole e delle cartoline, ma scelgono di descrivere una città che si caratterizza nei colori più cupi e nel dolore dell’abbandono). Marcella porta questa condizione di perdita all’estremo, perdendo la sé stessa materiale, ma tutta la Bagnoli che descrive Rea si immerge nella profonda sensazione di spaesamento32, che coincide con la certezza di non avere un futuro. Come sostiene Gerardo Iandoli33 la cultura in cui un individuo nasce e si sviluppa, profondamente legata al territorio in cui vive, plasma la sua visione del mondo e il suo modo di agire. Il passato, con le sue esperienze e le sue eredità, diviene il sostrato su cui l’individuo costruisce il proprio futuro, inevitabilmente influenzato dai codici interpretativi trasmessi da linguaggio, famiglia, religione e altri elementi del suo retroterra culturale. Per i giovani di Bagnoli, in particolare per Marcella, la chiusura della fabbrica ha significato la perdita di un punto di riferimento fondamentale, del loro “mondo”, lasciando come unica via d’uscita la fuga verso altri contesti.
È stato ampiamente sottolineato che, quasi con una perfetta struttura ciclica, il periodo fertile per il filone della letteratura industriale va da Tre operai a La dismissione, entrambi ambientati a Napoli, una città stranamente industrializzata, con la fabbrica imponente che fa da sfondo. Com’è stato accennato, la parabola del tema non segue un andamento lineare: a seguito della manifestazione dei colletti bianchi a Torino, cioè dell’ufficiale sconfitta politica del movimento operaio, la fabbrica cade in sordina. È quindi opportuno interpretarlo, nei suoi significati simbolici, come un tramonto che va oltre l’Ilva di Bagnoli, ma simboleggia la fine di un’epoca industriale con i suoi eroi, i suoi miti superati e le sue speranze ormai disilluse. Con la scomparsa della fabbrica, svanisce anche lo scenario umano che la abita: gli operai paragonati a dei mammut da Pennacchi, nel suo libro omonimo. Come il mammut, l’operaio è una razza destinata all’estinzione o, meglio, già estinta «Ci siamo già estinti da un pezzo. Come il bisonte dell’Europa. Come i mammut… non ci stanno più i mammut… e noi? Ci siamo estinti, amore mio. Culturalmente. Politicamente. Numericamente, come i mammut»34. Con La dismissione in effetti si chiude una parabola sia storica che letteraria. Eppure, Rea non segna la fine della letteratura del lavoro: dismettendone una caratterizzazione ben precisa egli dà al lavoro la possibilità di tornare sulle pagine, di riprendersi lo spazio letterario. Difatti nel nuovo secolo si sviluppa la letteratura del precariato. Non c’è più collettività né tanto meno coralità, non ci sono più voci di lotta ma c’è il lavoro, nelle sue forme più crude, nelle sue dinamiche più alienanti. Rea con il suo romanzo, per forma e scrittura estremamente contemporaneo, si pone come anello di congiunzione: chiude una stagione permettendo così alla successiva di nascere.


  1. Tempi stretti fu inviato da Ottieri a Calvino (in data 18 aprile 1956) e così Calvino gliene parlò in una lettera del 15 maggio 1956: «Le schiene di vetro [titolo iniziale di Tempi stretti] è un libro molto importante e atteso e utile, per la sua seria impostazione documentaria, e dove ti tieni fedele ad essa, (come anche ad esempio nelle descrizioni quasi topografiche di Milano) anche molto felice letterariamente. Sei soprattutto riuscito, […] a dare un quadro della situazione industriale italiana nella sua complessità e interrelazione. Le riunioni politiche e sindacali sono sempre un grosso scoglio a raccontarsi, e anche tu non ti salvi da un appesantimento della narrazione, ma mettendo in primo piano i socialisti anziché i comunisti hai cercato di dare qualche pennellata inedita. (Ma molto da dire ci resterebbe proprio in una rappresentazione di questo tipo, sia sugli uni che sugli altri). […] Quel che pesa sul libro è la tristezza. Che gli operai siano anche gente allegra e le fabbriche anche una via di libertà non si vede. Si vede che Giovanni auspica per la sua azienda uno sviluppo tecnico, anche se questo costerà, ecc., ma tutto molto tristemente. Tristezza vera, certo, ma appunto perché questo è documentario, non ancora poesia, che sola potrà scoprire – chissà mai come – l’allegria delle fabbriche» (I. Calvino, I libri degli altri, Torino, Einaudi, 1997, pp. 183-184).

  2. «La gente del posto lo chiama “pizzicologo”, tocca a lui scegliere fra le migliaia di disoccupati i pochissimi che entreranno in fabbrica. Dispone dei metodi più moderni e raffinati: interviste, colloqui, “reattivi” psicologici come i pirolini O’ Connor, le rotelle del Moede, il pantografo, il numerico, tanti astrusi giochetti che imbrogliano le mani grosse e pesanti dei manovali, degli analfabeti, un codice di leggi nuove che cade accanto a tante leggi vecchie, non scritte, e con esse entra in contraddizione. Perché solo in apparenza il mondo della campagna circostante e quello suburbano della sottoccupazione sono primitivi, anche quella è una civiltà, che fa a pugni con la nuova. Lo psicotecnico del Nord e i contadini e pescatori del Sud: la contraddizione fondamentale e tragica dell’Italia diventa un fatto preciso e concreto, un nodo dolente» (M.P. Ottieri, Cronologia, in O. Ottieri, Opere scelte, a cura di G. Montesano, Milano, Mondadori, 2009, p. LXXVII).

  3. «Ma qui la fabbrica non si trova a scegliere fra un gruppo di operai, per dividerli secondo le loro attitudini e le nostre esigenze. Qui giudichiamo un popolo intero. […] Non si seleziona, si screma. Nei lunghi colloqui di stamani durante le monotone prove scritte, mi battevano in mente due frasi: è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che uno di Santa Maria attraversi l’esame psicotecnico. E quest’altra: questo è un imbuto, da una parte entra un fiume, dall’altra esce solo un rigagnolo» (O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, in Opere scelte, cit., pp. 18-19).

  4. P. Volponi, Memoriale, in Romanzi e prose, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2002, pp. 165-166.

  5. Così dice Ottieri nel suo taccuino industriale: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragioni di tempo, di opportunità, ecc. Gli altri non ne capiscono niente: possono farvi brevi ricognizioni, inchieste, ma l’arte non nasce dall’inchiesta, bensì dalla assimilazione. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica» (O. Ottieri, La linea gotica, in Opere scelte, cit., p. 360).

  6. C. Baghetti, Subalternità e lotta di classe. Sogni, ire e rinunce della working class, in «Allegoria», 82, 2020, p. 85.

  7. E. Rea, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002, p. 7.

  8. Ivi, p. 89.

  9. Ivi, p. 91.

  10. «Finalmente fu resa nota la sentenza definitiva: la prima a esplodere sarebbe stata la torre piezometrica, che richiedeva un impegno ridotto di esplosivo, tra i quaranta e i cinquanta chilogrammi, suddivisi in centoquaranta cariche disposte in circolo alla base della struttura. […] Anche i nostri muscoli si estesero nell’attesa. Nicola Martone fu incaricato di ritrovare la sirena della fabbrica, fuori uso da tempo immemorabile, ma che per almeno sei decenni aveva cadenzato la vita del quartiere con i suoi ululati quotidiani. […] Avrebbe dovuto urlare tre volte […] Fu una vigilia molto movimentata. A Bagnoli il nervosismo si recitava come in un teatro. Alcuni giorni prima dell’esplosione furono affissi manifesti per invitare la popolazione alla calma, avvertendola del giorno e dell’ora esatta in cui ci sarebbe stato il boato. […] L’esplosione fu fissata alla 15:30 del 25 febbraio […] Quel giorno saltai il pasto. […] Pensai che il crollo a cui stavamo per assistere non era diverso da altri spettacoli di morte, le persone e le cose possono assomigliarsi oltre ogni immaginazione: mi vennero a mente le scene di un film che mostrava un uomo sulla sedia elettrica, il boia accanto, il pubblico dietro a uno schermo di vetro, ansioso di vedere com’è che si contrae una faccia nel momento di massimo dolore, di addio alla vita. La torre mi guardava? No, ero io che guardavo fisso la torre: “lei” se ne stava lì fiera, eretta, dignitosa, con il suo immenso cappello in testa, in attesa del suo destino. […] La torre vacilla un secondo come un ubriaco. Sembra davvero un essere umano con quel goffo cappello in testa. Poi crolla: un tonfo sordo che è soltanto il prolungamento del boato prodotto dalla dinamite. Fu più o meno a questo punto che sulla folla, dabbasso, cominciarono a piovere le note (quasi rabbiose, quasi dolenti, quasi disperate) dell’Internazionale cantate da un solitario misterioso sassofono. […] La farfugliai anch’io, assieme a Danubio. Anche Marlène e un altro paio di giovani la cantarono: in francese» (ivi, pp. 334-342).

  11. Ivi, p. 7.

  12. Ivi, p. 7.

  13. Sempre all’interno della prima pagina del testo Rea ci racconta di come ha raccolto le testimonianze: «Ho raccolto per mesi le sue confidenze: tutti i giorni dalle due alle tre e perfino alle quattro ore consecutive di colloquio. L’ho anche costretto a spedirmi un gran numero di lettere, che sono diventate via via sempre più sciolte e circostanziate» (ibidem).

  14. Ivi, p. 368.

  15. A. Giorgio, Coscienza etico politica e realtà napoletana nella scrittura di Ermanno Rea, in «Narrativa», 29, 2007, pp. 228-229, URL <http://journals.openedition.org/narrativa/1912>, consultato il 9 aprile 2024.

  16. Ibidem.

  17. E. Rea, La dismissione, cit., p. 7.

  18. Ivi, p. 28.

  19. Ivi, p. 17.

  20. Cfr. U. Fracassa, In luogo della fabbrica, in «Narrativa», 31-32, 2010, pp. 75-87.

  21. Ivi, p. 122.

  22. Ivi, p. 125.

  23. Ivi, p. 20.

  24. Questo concetto presentato da Calvino (cfr. nota 3) è alla base di ciò che immaginava Adriano Olivetti per i suoi stabilimenti e per coloro che lavoravano per lui. Tant’è vero che in Donnarumma all’assalto, il testo di Ottieri maggiormente ispirato alla sua personale esperienza presso l’Olivetti di Pozzuoli, si legge: «“La fabbrica fu quindi concepita” filava in modo atono dalla bocca del presidente “sulla misura dell’uomo … Sulla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile”» (O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, in Opere scelte, cit., p. 104).

  25. «Dal monotono grigiore che avvolgeva le officine durante il neorealismo siamo passati alle allegorie industriali, alla percezione di qualcosa che va al di là della catena di montaggio e si ammanta di significati eterodossi. “la fabbrica era […] immobile come una chiesa o un tribunale” continua a ripetere Albino Saluggia in Memoriale. Un decennio prima di lui nel contesto della fabbrica Pirelli, Sinisgalli scriveva: “Io entro in una fabbrica a capo scoperto come si entra in una basilica”. Queste citazioni segnano in forma di esemplare la distanza con il paradigma dell’infernale che era il dato di partenza nel rapporto uomo industria e ripropongono in posizione rovesciata gli stereotipi del luogo di fatica e di ingiustizie» (G. Lupo, Orfeo tra le macchine, in Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, a cura di G. Lupo e G. Bigatti, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 17).

  26. Ibidem.

  27. E. Rea, La dismissione, cit., p. 184.

  28. Ivi, p. 129.

  29. Ivi, p. 11.

  30. Carlo Baghetti sostiene che «Ermanno Rea ha indiscutibili qualità di narratore ma se dovessimo indicare la caratteristica più forte, quella più presente, forse proprio in virtù della sua provenienza professionale, allora questa è la chiarezza. Probabilmente a causa del suo passato giornalistico, Rea fa dell’evidenza un marchio di fabbrica» (C. Baghetti, La dismissione di Ermanno Rea: opera-ponte dal postmoderno alla non-fiction, in Presente e futuro della lingua e letteratura italiana: problemi, metodi, ricerche, a cura di E. Pirvu, Firenze, Cesati, 2017, pp. 433-444, online in «HAL», 10 marzo 2018, p. 4, URL <https://hal.science/hal-01728222>, consultato il 9 aprile 2024).

  31. L. Cannavacciuolo, Napoli boom. Il romanzo della città (1958-1978), Avellino, Sinestesie, 2016, p. 150.

  32. C. Panella, Crisi globale e nuovi realismi: dismissioni e spaesamenti nell’Italia degli anni 2000, in «Narrativa», 35-36, 2014, pp. 241-251. Panella nel suo contributo identifica il termine “spaesamento” con la definizione che ne dà Calvino nella Nuvola di smog, ovvero «lo stato di chi non sa riconoscersi “come prima” e non riesce “a decifrare l’avvenire”», I. Calvino, La nuvola di smog, in I racconti, vol. I, Torino, Einaudi, 1958, p. 523.

  33. G. Iandoli, L’«etica della resurrezione», in «Cahiers d’études romanes», 46, 2023, pp. 359-380.

  34. A. Pennacchi, Mammut, Milano, Mondadori, 2006, p. 175.


With the growth of industry in Italy at the beginning of the last century, authors and intellectuals focused their attention on its role in people’s lives. Thus, a thread of texts that places the chronotope of industry at its centre has spread in literature: Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Nanni Balestrini are just some of the names that gave space to this theme. This thread, for many, reached its end with La dismissione (2002), a novel by Ermanno Rea that recounts the closure of the Ilva Italsider facility in Bagnoli. The steel factory was established on the western border of Naples in the early 20th century, reaching its peak in the 1970s. Bagnoli was created as a living centre for the factory’s employees, but went beyond its function as a workplace. Rea, through the voice of the protagonist Vincenzo Buonocore, represents in an icastic manner the symbiotic relationship that the factory generates with its inhabitants. The article proposes, after an introduction on industrial literature, to analyse the chronotope and the forms of narration, often documentary, of the Neapolitan factory.