·

Oltre la pratica del lavoro, a partire dalla narrativa di Michela Murgia

DOI

Rivendicare la generazione di volontà non è solo una possibilità per le famiglie che non ne hanno un’altra, ma è una battaglia per la libertà di chiunque, perché chi vuole controllare i corpi di qualcuno alla fine cercherà di controllare tutto.

M. Murgia, Dare la vita

1. Strategie retoriche nella scrittura di Michela Murgia

Con la pubblicazione del romanzo Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (2006), in cui è di scena l’ambiente del call center e i rapporti di potere che si sviluppano al suo interno, Michela Murgia viene ad occupare una posizione importante nello scenario della letteratura sul lavoro. Questa prima opera dell’autrice è il risultato della sua esperienza personale nelle vesti di venditrice telefonica. Murgia ha scoperto le strategie promozionali delle telefoniste in un’azienda internazionale. Con grande abilità persuasiva e retorica di comunicazione, le impiegate riescono nel proprio intento di vendere i prodotti spesso raggirando i clienti con false promesse. Al centro del libro non vi è la figura dell’operaio sfruttato tipica della letteratura degli anni Sessanta, ma quella del lavoratore precario protagonista di una produzione letteraria che si sviluppa a partire dal Duemila1. Il cambiamento generazionale è evidente e si coglie soprattutto dall’incapacità nel presente di poter rappresentare il lavoro come epicentro di significato:

La rappresentazione del lavoro riguarda un’esperienza esaurita e svuotata, propria del passato. Il lavoro ha perso centralità e significato, ma il fatto decisivo è che ha cessato di rappresentare l’epicentro della vita e del sistema sociale. Ha smesso, cioè, di raffigurare quell’azione fondamentale grazie alla quale un individuo poteva narrare a sé e agli altri la propria esistenza e grazie alla quale poteva accedere alla dimensione politica della vita, al welfare, al riconoscimento sociale. L’idea di raccontare e rappresentare l’attività lavorativa retrospettivamente, come un’esperienza che aveva più senso o un senso più chiaro nel passato, […] è tramontata ed è stata trasfigurata nel presente2.

Pertanto, al di là della polarizzazione tra vittima e carnefice incarnata rispettivamente dal lavoratore e dal datore di lavoro, al centro della riflessione vi è piuttosto la rappresentazione di un’ingiustizia delle condizioni lavorative che nasce dal poco lavoro e da contratti spesso brevi che non permettono di garantire all’individuo la tranquillità e la sicurezza di un progetto di vita professionale a lungo termine. Gli inizi dell’anno 2000 vedono numerosi scrittori e intellettuali attivi sul tema del precariato, che usano la scrittura come strumento militante per far riaffiorare problemi e questioni di ordine sociale. Tra gli altri, si pensi ad Andrea Bajani che, nel suo libro uscito in contemporanea al romanzo di Michela Murgia col titolo Mi spezzo ma non m’impiego, affronta la difficile situazione dei precari all’inizio del XXI secolo. E, ancora, allo stesso anno risale la pubblicazione di Vita precaria e amore eterno, poi Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove, Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi. Tale produzione letteraria, autobiografica, giornalistica, fattuale più che finzionale, non si racchiude in un genere predefinito e – con una contaminazione stilistica e di genere – rispecchia la complessità della realtà.
In Il mondo deve sapere, il call center diventa un microcosmo in cui l’autrice indaga principalmente i ruoli rigidamente assegnati ai dipendenti. Michela Murgia racconta con ironia storie bizzarre che seguono il filo di ciò che l’autrice stessa è riuscita a scoprire dell’azienda e tutto ciò che vi succede all’interno: ad esempio le pratiche usate per soggiogare i dipendenti, per raggirare le casalinghe e i clienti ingenui per promuovere un prodotto. L’attenzione al linguaggio utilizzato e le strategie retoriche adottate sono frutto di una lunga osservazione che ha ispirato Michela Murgia, la quale – come detto – in prima persona ha fatto esperienza di lavoro in un call center. Lo straniamento linguistico si coglie per esempio nei nomi dei capi reparto che hanno appellativi da Kapò nazisti; la vendita di un’aspirapolvere è descritta come un’operazione retorica, dai connotati osceni, per «inchiappettare»3 l’ingenua casalinga e, infine, l’uso del linguaggio dei fumetti sottolinea ancora di più l’ingenuità della vittima: «Buongiorno sono Camilla della Kirby di Paperopoli, lei è la signora Topolina?»4. L’ironia data dallo straniamento linguistico si accentua nel momento in cui chi lavora al call center sa bene che ha il tempo contato, per cui vive il lavoro con divertimento piuttosto che con serietà: «Ho capito subito che era il call center che cercavo, quello dove avrei potuto davvero divertirmi»5. Le allusioni al nazismo, alla pornografia e ai fumetti per sottolineare la sottomissione del dipendente, il quale a sua volta sfrutta l’ingenuità del cliente, spersonalizzano il luogo di lavoro creando una catena di rapporti servo/padrone che si generalizza a un contesto sociale ben più ampio. La distanza sancita dall’ironia trova il suo massimo riscontro alla fine del romanzo quando la protagonista si licenzia prima ancora della scadenza del contratto: «Termina anche il senso di questo scritto work in progress, visto che il work è cessato e il progress è la mia vita che continua, altrove»6.
A tal proposito la massa di spettatori diventa omogenea e omologata dal momento che – come affermava Umberto Eco in un suo studio sulle comunicazioni – «i mass media si rivolgono a un pubblico inconscio di sé come gruppo sociale caratterizzato; il pubblico quindi non può manifestare delle esigenze nei confronti della cultura di massa, ma deve subire le sue proposte senza sapere che le subisce» e, ancora:

i mass media, immessi in un circuito commerciale, sono sottomessi alla “legge della domanda e dell’offerta”. Quindi danno al pubblico solo ciò che esso vuole o, quel che è peggio, seguendo le leggi di un’economia fondata sul consumo e sostenuta dall’azione persuasiva della pubblicità, suggeriscono al pubblico cosa deve desiderare7.

Alla luce di quanto appena affermato è possibile ricordare le parole di Maria Corti per la quale la nostra epoca è particolarmente sensibile alla poesia visiva, alla scenografia, alla cinematografia, al fumetto e più in generale ai media8.
L’indagine del rapporto tra scrittura e mondo del lavoro delinea dunque l’immagine di un’esclusione del soggetto dal mondo sociale rappresentato, come testimoniano già prima testi che parlano dell’alienazione operaia; si pensi – tra gli altri – a Le mosche del capitale di Paolo Volponi o al suo Memoriale, Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, Il calzolaio di Vigevano di Mastronardi. Risulta dunque fondamentale l’uso del linguaggio, a partire dal nome dell’azienda, Kirby: «Dietro questo nome innocente che suggerisce immagini rassicuranti a metà tra Bambi e i Puffi birichini, si nasconde un aggeggio infernale dai mille accessori, in acciaio cromato “pressofuso” in un unico blocco»9. La scelta del linguaggio utilizzato si rivela dunque fondamentale dal momento che fornisce una cornice retorica specifica all’istanza di protesta sociale10.
Nel 2009, poi, Michela Murgia prende parte, con il racconto Alla pari, alla raccolta Lavoro da morire. Racconti di un’Italia sfruttata pubblicata da Einaudi, sancendo un passaggio – che si rivelerà poi definitivo – dalla forma narrativa lunga al racconto.

2. Lavoro da morire: storie di (dis)parità a partire dal racconto Alla pari

La maggior parte dei racconti contenuti nella raccolta Lavoro da morire, sono costellati da immagini iconografiche – più che figurative – che enfatizzano l’opposizione tra la fredda tecnologia e l’impotenza dei lavoratori. Emerge un panorama vario in cui tuttavia vi è in comune a tutti i singoli testi la somma di esperienze lavorative che fanno parte di cronache quotidiane. Da questo punto di vista «è insomma innegabile che la narrativa breve sul lavoro tenda a muoversi all’interno di un orizzonte di senso che è per tutti lo stesso: negativo e distruttivo, traumatico, segnato dallo sfruttamento e dall’incertezza»11. Su tale polarizzazione ha scritto Paolo Sorrentino: «Abbiamo visto come nei racconti analizzati il soggetto dell’enunciazione abbia tradotto i lavoratori-protagonisti in eroi. […] datori di lavoro, capi e colleghi sono […] rappresentati come gli anti-eroi»12. Così, ad esempio, in Dacia Maraini presenta Nadja, protagonista è un’ucraina arrivata in Italia nel 2002:

“Sono arrivata come turista per vedere l’Europa”. O per lo meno così si illudeva, perché una voce in lei diceva che non era solo per vedere il mondo che si trovava in un paese diverso dal suo, con una lingua che non capiva. Dopo aver guardato e ammirato le meraviglie del passato di città come Venezia, come Bologna, Nadja ha dovuto piegarsi a cercare lavoro. E in quel momento sono cominciati tutti i guai13.

O, ancora, la difficile avventura occupazionale del protagonista del racconto di Giorgio Falco intitolato Liberazione di una superficie:

Ha dormito accovacciato dietro un cespuglio, su un pietrisco umido che sapeva di piscia. Allunga le braccia, sgranchisce le gambe, cerca l’acqua con lo sguardo ancora assonnato, ma non la trova. Risale sulla strada, le prime auto del lunedì mattina iniziano la settimana lavorativa. Lui deve trovare una fontanella d’acqua, lavarsi e concedersi un po’ di fiducia con un caffè doppio. Davanti a un cantiere, un gruppo di uomini parla di qualcuno che a lavoro non è andato. Lui ravvia i suoi capelli, avanza forte e si presenta, chiede se può lavorare, almeno per oggi, può aiutare e fare quello che gli dicono. Lo guardano, il capo chiede se sa fare veramente il muratore, lui risponde “sì, so fare”14.

Nel racconto di Michela Murgia è fortemente presente fin dal titolo – Alla pari – il gioco retorico che viene messo in atto. Infatti, nonostante il titolo evochi la sfera morale e la parità dei diritti che spetterebbero ai lavoratori, l’inizio del racconto sottolinea piuttosto una disparità che causa vittime sul luogo di lavoro: «Le vittime piacciono alla gente, bisognerebbe farsene una ragione»15. E, ancora, lo spettacolo mediatico delle vittime entra nel privato delle case creando un’alienazione frustrante negli spettatori che si immedesimano: «In casa mia ne vanno pazzi [dei programmi televisivi]. Accendono sempre il tg a pranzo, che se non vedono la vittima del giorno gli sembra che non è nemmeno ora di mettere in tavola»16. È interessante che l’io autobiografico si sposti narratologicamente su un “egli” universale, funzionale a decentralizzare le vicende personali dell’autrice stessa per estendere le problematiche del tema di cui tratta a un pubblico molto più vasto. Ecco che dunque Michela Murgia introduce improvvisamente un personaggio alla terza persona: «Lui il meccanismo della vittima non l’ha mai preso veramente sul serio, è quello il suo problema. Dipenderà dal fatto che è da quando aveva vent’anni che la morte per lui ha il gusto stantio della consuetudine»17. Questa terza persona – che si scoprirà essere poi un ragazzo sieropositivo – diventa dunque oggetto di identificazione da parte del lettore e, al contempo, immagine di una condizione esistenziale («tutta gente con una sentenza di morte già scritta […]. Che poi se ci pensi bene è la stessa precisa condizione di tutti i viventi»)18. Il personaggio assurge a simbolo di una sottrazione da quel ruolo di vittima che – come visto precedentemente – si conforma ai più. Piuttosto l’autrice decide di non inserirlo nel gioco infernale di coloro che sono vittime e che desiderano vedere vittime, ma gli permette di lottare per perseguire la propria affermazione sociale, distanziandosi dagli spettatori sempre pronti ad ascoltare disgrazie altrui: «Nessuno può mettere un freno a chi si sveglia già ogni mattina con la sua sentenza, e l’ultimo desiderio è avere ancora un altro desiderio»19. Attraverso questo distanziamento, Michela Murgia fa sì che il protagonista non coinvolga il lettore in un’immediata empatia verso i personaggi alienati, ma si impegni a competere “alla pari” andando al di là degli impedimenti fisici («e pazienza se nella gente non scatta più l’effetto simpatia»)20. Inoltre, sembra inserto strategico il coinvolgimento del lettore che è associato allo spettatore, attraverso l’analogia fra la fruizione mediale e quella del libro: «Non passeresti anche tu delle ore davanti alla tv a guardarli?»21. Con questa domanda retorica Murgia invita il lettore a uscire dal suo atteggiamento passivo per lottare e mettersi in gioco esattamente come il protagonista del suo racconto. La tragica ironia trova il suo culmine nella satira finale: dopo anni di fatica sostenuta dal protagonista per realizzarsi professionalmente, il superamento del suo vittimismo sociale vede a un certo punto del testo un’interruzione colmata dalla metafora del corpo malato; in altri termini, il giovane diventa vittima della malattia che ormai lo pervade; per cui morte e vita arrivano a coincidere:

Morto sul lavoro o vivo sul lavoro, alla fine non c’è poi tutta questa differenza se sei identico alla tua funzione, come una cellula nel suo tessuto, come un enzima nella sua struttura chimica. Tutto al suo posto, tutto perfetto. Un corpo unico, tu e La Banca. Uno di quegli organismi che non si ammalano, che non gli va a puttane il sistema immunitario, che sanno organizzarsi sempre ed espellere la minaccia con prontezza e decisione. Le persone si ammalano, non Le Banche. Le Banche al massimo si riorganizzano22.

È chiara qui l’opposizione tra la fragilità del corpo individuale e l’immunità di quello sociale. La malattia individuale distingue e, paradossalmente, pone tutti su un livello di parità. A tal proposito, si pensi anche al racconto Luce nella battaglia. La storia di Matilde di Barbara Garlaschelli in cui la protagonista, nata con insufficienza cardiaca, si chiede: «Correre correre correre. Per andare dove? Vorrei sapere»23. Il coraggio di non essere vittima si trasforma quindi nell’ingenuità di chi pensa di aver raggiunto un obiettivo professionale, identificandosi con la propria funzione sociale, e questa ingenuità è la medesima del cliente che si lascia convincere dalle strategie retoriche degli impiegati che si impegnano a far apparire ottimale qualsiasi prodotto. Per cui, la conseguenza è un allineamento e identificazione tra cliente e lavoratore, entrambi “ingenui” e vittime di un sistema ben più complesso. È a questo punto che avviene un ulteriore passaggio di persona; dall’io della narratrice, all’egli del protagonista, si passa al tu del lettore/spettatore a rivelargli, in un momento critico, la sua perdita di funzionalità: «Tu sai solo che non sei più funzionale, e quindi non sei nemmeno più funzionario»24. In questo approdo narrativo c’è la morale dell’autrice che vuole abbattere ogni differenza tra vinti e vincitori, impiegati, datori, clienti, mirando a eliminare le polarizzazioni per produrre un’immagine di risoluzione, seppur amara, dei conflitti.

3. Spazio e tempo nei “luoghi di lavoro” di Michela Murgia

Nella narrativa di Michela Murgia è possibile individuare un’attenzione alla funzione dei luoghi, sottolineando una differenza tra spazio aperto e chiuso25. Per esempio, nel suo romanzo d’esordio, Il mondo deve sapere, la scrittrice – più che fare riferimento alla descrizione dell’isola di Sardegna dove si ritrova a lavorare, pone principalmente il proprio sguardo all’interno dell’azienda Kirby. Non parla mai esplicitamente della Sardegna, piuttosto accenna in ottica più ampia al paese in cui vive dal momento che i call center sono diffusi in tutta Italia. In questo modo trasporta il problema del lavoro dal luogo a una questione legata al tempo, ossia la situazione del precariato nei tempi d’oggi. Il tempo e le persone che lo vivono creano la storia, mentre i luoghi sono secondari. Quasi tutta la trama si svolge dentro l’azienda con relative descrizioni frequenti di uffici tetri e freddi:

L’ufficio è piccolissimo o, le postazioni di combattimento sono la metà di un banco di scuola, divise da un pezzo di compensato. Danno sul muro e sullo schermo di un pc. Ma sul muro, ovviamente, ci sono gli immancabili cartelli motivazionali26.

Lo spazio esterno compare solo in due occasioni: l’accenno ai venditori ambulanti della Kirby costretti a girovagare per diversi paesini e luoghi fittizi e magici di vacanza che le telefoniste possono vincere se svolgono bene il proprio lavoro. A scandire gli avvenimenti della storia è una fluidità temporale legata al fatto che l’intero romanzo veniva pubblicato on-line sul blog personale; quindi, l’autrice descriveva direttamente ciò che le era accaduto durante il giorno. Questo procedimento narrativo permette un contatto tra racconto e realtà.
Nei racconti ancora di più l’ambiente lavorativo si chiude all’interno di un microcosmo che non affaccia su nessun tipo di spazio esterno. Per esempio colpisce che in Il posto è la notte si parli di lavoro in «hotel piccoli a gestione semifamiliare», dietro «il banco della reception», ore trascorse «arenati dietro il banco di un bar», «i corridoi bui della hall». È «nelle abitudini scandite dalle ore» che – afferma il protagonista – «il tempo mi vola via». A un certo punto l’uomo, costretto a lavorare di notte quando non accade nulla, afferma «per la maggior parte del tempo sono pagato solo per esserci. Se non riscatto quelle ore facendo qualcosa per me stesso, è una marea di tempo sprecato»27. L’identificazione del personaggio avviene con il tempo, non con il luogo, come attesta la stretta connessione della retribuzione alla presenza, all’“esserci”. Così come nel racconto Alla pari tutto ruota intorno a La Banca, «il sogno segreto di ogni padre operaio per suo figlio»28. In questo caso l’alienazione del tempo lascia spazio all’identificazione tra lavoratore e luogo, tant’è che a un certo punto si legge «Noi Siamo La Banca»29. Ancora, poco più avanti, si sottolinea nuovamente l’identificazione: «un corpo unico, tu e La Banca»30, «lavorare per La Banca e lavorare per sé è la stessa identica cosa»31. Se però da una parte c’è l’identificazione dei due corpi, rispettivamente quello del lavoratore e quello dell’azienda, a sancirne la differenza è il sistema immunitario dal momento che, mentre il primo si ammala, la seconda rimane immune.
L’ordine cronologico degli avvenimenti si presenta sotto forma di pensieri della protagonista o di chi racconta. In altri termini, la rappresentazione passa attraverso la mimesi della vita psichica di chi racconta. Tutto avviene nell’“ora”, nelle problematiche di oggi, a racchiudere una ciclicità temporale che avvolge i protagonisti, dove tutto è assolutamente uguale a se stesso. Un tempo chiuso, claustrofobico, da cui non è possibile uscire, perché altrimenti si rimane isolati. Si può cogliere bene, ad esempio, nel racconto di Carmen Covito, Tempo parziale, in cui la protagonista – a seguito di una gravidanza – è accusata di essere responsabile dei problemi aziendali: «l’operatività della filiale era a rischio per colpa mia». Alla fine assistiamo a una scelta di cambio di investimento del tempo, dalla sfera pubblica al privato:

Allungo un po’ i tempi e vi vengo incontro, ho detto, e voi mi prolungate il part-time ancora per un anno. […] Il problema è che in filiale continuo ad essere vista come un peso morto […] Allora ho presentato le dimissioni. Mi sono stufata di essere trattata sempre come quella che siccome ha avuto figli non è più buona a niente. E allora faccio la mamma a tempo pieno32.

4. (Non) sono come tu mi vuoi

I racconti raccolti nel libro Sono come tu mi vuoi nascono – allo stesso modo della raccolta precedente – da storie lavorative reali. Rispetto a Lavoro da morire si ha un ampliamento dello scenario sociale: si va dalla giovane operatrice culturale sottopagata nel racconto Un milione di euro di Nicola Lagioia, allo stagista di un canale televisivo nazionale in Non la reintegrano di Peppe Fiore, al venditore di strada immigrato in Il cliente va conquistato di Stefano Liberti, fino al macchinista di treni in L’uomo morto di Elena Stancarelli. Come nel caso della precedente raccolta, il lettore viene messo nuovamente dinanzi a una chiara divisione tra vittime e datori di lavoro, in una cristallizzazione indistruttibile, come si evince dall’affermazione «Io sono quella razza di sfigati»33 pronunciata dal protagonista del racconto di Tommaso Pincio, Tanti piccoli me. I singoli testi hanno un taglio quasi pubblicistico, funzionale a trasmettere l’idea di spaccati cronachistici di realtà. È proprio quest’ultima che si vuole raccontare dal momento che il reale svolgimento dei fatti si mostra senza riserve, come si legge nel finale del racconto Riduzione del danno di Emanuele Trevi:

Avrà tanti difetti, la realtà, ma non si può dire che non le piaccia mostrarsi: tutta intera, così com’è, anche nel più infimo dei particolari. Come un eroe di Beckett, tira fuori la testa dal suo bidone della mondezza, e ricomincia a intonare il suo monologo senza né capo né coda34.

Questa struttura richiama quanto teorizzato da Raffaele Donnarumma in Ipermodernità, in cui si osserva che «l’affermarsi di realismo a cui assistiamo ha, in una sua parte, qualcosa di strumentale: nasce da un bisogno di storie utili, eticamente spendibili»35. Il quadro che ne risulta è quello di un fluire senza certezze dell’esistenza: «La vita nella società liquido-moderna è una versione sinistra, ma seria, del gioco delle sedie. La vera posta in gioco è la salvezza (temporanea) dall’eliminazione, che comporterebbe il ritrovarsi tra gli scarti»36. In questa rete di storie si distingue il racconto di Michela Murgia, Il posto è la notte. Fin dall’incipit è utilizzata una strategia retorica: «Ma che domanda è, se mi piace il mio lavoro? Il mio è un lavoro che è meglio non cominciare nemmeno a farlo, se non sei pronto a cambiare completamente il tuo modo di vivere»37. Come in Alla pari, viene chiamato in causa lo spettatore, per cui lo scrittore ha il ruolo di redimerlo andando oltre il consumo, che sia di lavoro o di letteratura: «Mi vien da ridere se penso che c’è un mucchio di gente che considera il mio un mestiere affascinante, tema di canzoni e romanzi. […] Però scrivilo, che se vuoi una vita normale questo lavoro è meglio non cominciare nemmeno a farlo. Scrivilo»38.
È importante il rapporto che si crea tra scrittore e lettore alla luce di una scrittura militante che esiste sempre in funzione di un messaggio da trasmettere. Valida a tal proposito è l’affermazione di Eco:

C’è una sola cosa che si scrive per se stesso ed è la lista della spesa. Serve a ricordarti che cosa devi comprare, e quando hai comprato puoi distruggerla perché non serve a nessun altro. Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno. Mi sono sovente chiesto: scriverei ancora, oggi, se mi dicessero che domani una catastrofe cosmica distruggerà l’Universo, così che nessuno possa domani leggere quello che scrivo? In prima istanza la risposta è no. Perché scrivere se nessuno potrà leggermi? In seconda istanza la risposta è sì, ma solo perché nutro la disperata speranza che, nella catastrofe delle galassie, qualche stella possa sopravvivere, e domani qualcuno possa decifrare i miei sogni. Allora scrivere, anche alla vigilia dell’Apocalisse, avrebbe ancora un senso. Si scrive solo per un Lettore. Chi dice di scrivere solo per se stesso non è che menta. È spaventosamente ateo. Anche da un punto di vista rigorosamente laico. Infelice e disperato chi non sa rivolgersi a un Lettore futuro39.

Tali racconti del lavoro contribuiscono a rappresentare le contraddizioni del sistema sociale, problematizzando la possibilità di emancipazione attraverso l’immagine che ne restituisce la scrittura. In questi termini, l’istanza narrativa si traduce in impegno della testimonianza come tentativo di emancipazione del lettore-spettatore. La narrazione diventa dunque un messaggio di scambio continuo tra scrittore e lettore, associati in un meccanismo figurale al lavoratore e al cliente, producendo un’identificazione costante, reciproca e problematica.


  1. Tra i contributi inerenti a questo tema ricordiamo: S. Contarini (a cura di), Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, in «Narrativa», 31-32, 2010; P. Chirumbolo, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013; S. Contarini e L. Marsi (a cura di), Precariato. Forme e critica della condizione precaria, Verona, Ombre corte, 2015; S. Contarini, M. Jansen e S. Riccardi (a cura di) Le culture del precariato. Pensiero, azione, narrazione, Verona, Ombre corte, 2015; A. Ceteroni, La letteratura aziendale, Novale Milanese, Calibano, 2017.

  2. T. Toracca, Il racconto del lavoro nella letteratura italiana contemporanea a partire da Addio. Il romanzo della fine del lavoro (2016) di Angelo Ferracuti, in «L’ospite ingrato», 3-4, 2018, pp. 182-199.

  3. M. Murgia, Il mondo deve sapere (2006), Torino, Einaudi, 2017, pp. 7-8.

  4. Ivi, p. 28.

  5. Ivi, p. 3.

  6. Ivi, p. 156.

  7. U. Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964, pp. 36-37.

  8. «Il grado di coesione e di organizzazione [di un testo letterario] muta ovviamente da periodo a periodo della letteratura; è direttamente proporzionale alla fiducia che una data civiltà ha nelle istituzioni letterarie ed è inversamente proporzionale allo slittamento del letterario fuori dei confini tradizionali, e addirittura dei confini verbali; tipica in questo senso la nostra epoca con la poesia visiva, la scenografia, il copione cinematografico, il fumetto, le videocassette, ecc…Una descrizione unitaria del tutto è per ora poco verosimile» (M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, p. 16).

  9. M. Murgia, Il mondo deve sapere, cit., p. 11.

  10. «Il mondo deve sapere che esistono dei luoghi di lavoro come i call center dove si sfruttano tantissimo le persone e che ci sono delle realtà troppo ingiuste contro le quali bisogna combattere. Non è stato facile decidere di scrivere e far pubblicare questo libro. Parlare del mondo del lavoro quando questo manca e raccontare una storia che hai vissuto, fa affiorare dei sentimenti contrastanti e ti espone ancora di più alle critiche. Devi essere molto convinta delle motivazioni che ti hanno portato a denunciare tutto questo per poter superare gli ostacoli che ti mette di fronte la verità. Il mio però, non è un libro di denuncia. È solo una protesta contro il precariato, un male della nostra società contro cui bisogna combattere per il bene dei giovani e del paese» (M.P. Floris, Michela Murgia, il mondo deve sapere, in «Rivista donna», 3 novembre 2013, URL <http://www.rivistadonna.com/wp/2013/03//11765/>, consultato il 30 aprile 2024).

  11. F. Gobbo, M. Santi, T. Toracca, La rappresentazione del lavoro nelle raccolte di racconti dagli anni Ottanta a oggi, in «Ticontre», 15, 2021, p. 3.

  12. P. Sorrentino, Soggettività negate. Semiotica del lavoro, silenzio e narrativa, in «E | C», VII, 15-16, 2013, p. 90.

  13. D. Maraini, Dacia Maraini presenta Nadja, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, Torino, Einaudi, 2009, p. 61.

  14. G. Falco, Liberazione di una superficie, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, cit., p. 49.

  15. M. Murgia, Alla pari, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, cit., p. 79.

  16. Ibidem.

  17. Ivi, p. 80.

  18. Ibidem.

  19. Ivi, p. 81.

  20. Ibidem.

  21. Ivi, p. 79.

  22. Ivi, p. 83.

  23. B. Garlaschelli, Luce nella battaglia. La storia di Matilde, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, cit., p. 58.

  24. M. Murgia, Alla pari, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, cit., p. 86.

  25. Cfr. J.M. Lotman, Testo e contesto. Semiotica dell’arte e della cultura, Roma-Bari, Laterza, 1980.

  26. M. Murgia, Il mondo deve sapere, cit., p. 4.

  27. Id., Il posto è la notte, in Sono come tu mi vuoi. Storie di lavoro, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 84-89.

  28. Id., Alla pari, in T. Avoledo et al., Lavoro da morire, cit., p. 81.

  29. Ivi, p. 82, maiuscole nel testo.

  30. Ivi, p. 83.

  31. Ivi, p. 85.

  32. C. Covito, Tempo parziale, in Lavoro da morire, cit., pp. 40-42.

  33. T. Pincio, Tanti piccoli me, in C. Susani et al., Sono come tu mi vuoi, cit., p. 9.

  34. E. Trevi, Riduzione del danno, in C. Susani et al., Sono come tu mi vuoi, cit., p. 74.

  35. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la letteratura contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2014, p. 84.

  36. Z. Bauman, Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. X.

  37. M. Murgia, Il posto è la notte, in C. Susani et al., Sono come tu mi vuoi, cit., p. 84.

  38. Ibidem.

  39. U. Eco, Sulla letteratura, Milano, La Nave di Teseo, 2002, pp. 378-379.


This article investigates the representation of precarious labor and exploitation in the narrative of Sardinian writer Michela Murgia, analyzing excerpts from Il mondo deve sapere, the short story Alla pari in the collection Lavoro da morire, and Il posto è la notte in the volume Sono come tu mi vuoi. The author portrays her personal experience of work in a small company through linguistic strategies that critically problematize it, employing irony as a distinctive tool.