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La metropoli come soggetto o dell’identità sottratta: frammenti e coincidenze in Manhattan Transfer

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John Dos Passos, con il suo Manhattan Transfer, fa luce su aspetti della modernità non rintracciabili altrove; egli riesce a cogliere un cambiamento radicale, dalle molteplici sfaccettature, che getta la propria luce – e la propria ombra – su vari piani dell’esistenza. Fuori dal rassicurante dipanarsi dei rapporti di causa-effetto, l’autore rende strutturale un cambiamento epocale, proiettandolo nella stessa forma-romanzo, che ne uscirà inevitabilmente e profondamente mutata. Il romanzo, ambientato nella labirintica New York del primo Novecento, si configura come “mosaico impressionista”, costituito da «frammenti ed immagini non sistematiche»1 tra le quali la città si erge con le sue strade e i suoi abitanti, le cui esistenze si intrecciano, senza tuttavia riuscire mai a toglierle il primato di vera protagonista. «Il mosaico di frammenti che lo costituisce e l’assenza di una vera e propria trama fanno sì che il suo unico vero protagonista sia la metropoli»2: la città non fa da sfondo alle vicende narrate ma, al contrario, funge da fattore unificante in una narrazione minutamente franta, e risulterà in qualche modo unica superstite alla babele di voci che la attraversano: «l’ambientazione urbana dunque non accessoria ma strutturale, veicolo di una polisemia che intende trascendere il canone letterario»3. Unica, nel caos generale, a non essere annientata dalla pluralità ma che, al contrario, proprio da quest’ultima è alimentata.
Al di là di un cambiamento oggettivo della città che muta in metropoli – laddove «la metropoli è uno stadio distinto rispetto alla città, qualcosa a sé, dotato di regole proprie»4 – che include dunque processi materiali legati ad un rifacimento strutturale della metropoli stessa, ciò che cambia profondamente è il rapporto dell’uomo con essa:

soprattutto nel romanzo psicologico del diciannovesimo secolo, dove pure la città è ben presente, esiste ancora una logica corrispondenza tra le percezioni e le reazioni del personaggio. […] Permane la possibilità di un rifugio, di un riparo nella sfera intima dinanzi agli stimoli accelerati della città che avanza5.

La metropoli si nutre così di coloro che la popolano, riducendoli alla ripetizione e all’indefinitezza che Dos Passos riesce a cogliere attraverso la forma corale: «Se nell’Ottocento la metropoli aveva costituito per il romanzo borghese una scena sulla quale si dispiegava, consolidandosi, la personalità dei protagonisti, nel Novecento all’interno della città divenuta metropoli si sviluppa il processo inverso, lo sfaldamento del concetto di ego integro»6.
In Manhattan Transfer viene messo sapientemente in atto un duplice spostamento tra ciò che convenzionalmente è sfondo e primo piano, ed è proprio questo a far sì che la forma corale non sia inquadrabile solo come vezzo stilistico, ma che concorra a dare corpo alla più complessa prospettiva dell’autore. L’avanzamento della metropoli-sfondo a personaggio di primaria rilevanza – a partire dal titolo, che da essa prende il nome – implica necessariamente l’arretramento del personaggio-uomo. È così che descrizioni fisiche e psicologiche dei personaggi risultano carenti, lasciando il posto a una serrata e costante intromissione della città finanche nei dialoghi7. Si tratta di un fenomeno osservabile pressoché ad ogni pagina del romanzo, nelle quali abbondano termini indicanti oggetti specifici strettamente legati alle dinamiche di una metropoli come New York; sono le sue “parti”, in qualche modo inanimate ma agenti, a dettare il tempo ed il verso della vita stessa, nonché delle relazioni umane:

Since writers form their image of the city in response to the magnetic field of their culture, they are sensitive to changes in cultural attitudes. The figure of the city as a paved solitude took hold quickly. Even where characters were presented as part of a social group, they were increasingly shown in isolation from each other, and the groups themselves were seen as isolated from the larger social community. […] As a result of this changed orientation the city in literature became fragmented and transparent rather than tangible and coherent, a place consisting of bits, pieces, and shifting moods; it came to stand under the sign of discontinuity and dissociation rather than community8.

A produrre una cesura così netta per quanto riguarda il ruolo – letterario e non – delle moderne metropoli concorrono molteplici fattori socio-economici, ai quali la sociologia ha riservato non poca attenzione. In particolare George Simmel, nel suo La metropoli e la vita dello spirito, delinea i tratti fondamentali entro i quali si articola il rapporto dell’uomo moderno con la metropoli9 – concretizzazione straniante della modernità stessa – e restituisce un’analisi scientifica di ciò che Dos Passos traduce, caricandolo di significati, nel suo romanzo. I suoi personaggi transitano senza un vero scopo; non hanno una densità teleologica che li proietti in una dimensione idealmente significativa e le vicende più importanti che li riguardano vengono narrate quasi in una dimensione onirica. In altre parole, non c’è alcuna formazione verso la quale essi siano protesi. Essi tradurrebbero così due spinte fra loro diametralmente opposte che, nell’impossibilità di conciliarsi, li prosciugano e ingrigiscono come la città fatta di cemento e acciaio. Da una parte il bisogno di identificarsi in qualcosa, che sia una categoria sociale, un lavoro che fornisca uno scopo; dall’altra la necessità di fuggire da questi stessi limiti che, in qualche modo, sembrano provenire dalla città: «Personaggi impossibili dunque, che tendono a muoversi e ad agire come marionette; […] quasi simili a cose, percepiscono gli altri esseri umani (e se stessi) con distacco, in un romanzo in cui spesso le descrizioni più vive e dinamiche, benché sordide, sono quelle dei luoghi cittadini»10.
Come illustrato da Gelfant nel suo The American city novel, l’intento di Dos Passos è quello di restituire un’impressione della realtà, astraendo quest’ultima al fine di produrre un’atmosfera – quella di New York – ed un certo modo di vivere. Pertanto «his people are only representatives of a human state of mind intrinsic to the city – they are not fully realized flesh and blood people, but abstract states of being»11. La città prende il sopravvento sull’uomo con i propri oggetti, e ciascuno di essi sembra gettato accidentalmente nel caos cittadino; ma, a ben vedere, sono proprio questi oggetti a tessere una fitta rete di valenze simboliche che, almeno in parte, vengono intrecciate fra di loro nel corso del romanzo:

In Manhattan Transfer, the urban symbols serve as chapter headings and as subjects of the epigraphs. And they function within the narrative structure as physical properties of the scene. Commonplace phrases heard on the city streets, buildings, machines, snatches from songs and jingles, and occasional biblical allusions all take on symbolic meaning – and almost all, significantly, are suggestive of destruction12.

L’andamento frammentario della narrazione e la giustapposizione di tali frammenti rimandano alla tecnica cinematografica del montaggio. Ciononostante non è possibile attribuire ad Ejzenštejn – che fu al contempo teorico e sperimentatore del montaggio – una qualche influenza sull’autore, in quanto i suoi film furono diffusi fuori dall’URSS solo a partire dal 1926, vale a dire un anno dopo la pubblicazione del romanzo. Tuttavia, in un’intervista rilasciata da Dos Passos egli sostiene che: «At the time I did Manhattan Transfer, I’m not sure whether I had seen Eisenstein’s films. The idea of montage had an influence on the development of this sort of writing. I may have seen Potemkin. Then, of course, I must have seen The Birth of a Nation, which was the first attempt at montage. Eisenstein considered it the origin of his method»13.
Sebbene dunque Dos Passos non attinga direttamente dalla produzione di Ejzenštejn, Manhattan Transfer è più accostabile alle teorie di quest’ultimo di quanto non lo sia alle pratiche di Griffith in quanto, seguendo Bibbò: «l’alternarsi incalzante di immagini tipica del “salvataggio alla Griffith” non è possibile in un romanzo in cui, vista la sostanziale assenza d’intreccio, nessun avvenimento può risultare davvero risolutivo»14. Bibbò, analizzando alcuni passaggi del romanzo, mette in luce quanto la differenza sostanziale di medium faccia sì che il montaggio crei significati ulteriori per sottrazione e non per addizione; laddove il montaggio cinematografico ha lo scopo di chiarire significati proprio attraverso l’accostamento di scene contigue, esso permette invece a Dos Passos di incrementare significativamente il livello di fraintendibilità di alcuni frammenti narrativi. È il caso del presunto aborto di Ellen, uno dei personaggi principali del romanzo: la donna dichiara di voler tenere il figlio di Stan, eppure uno dei frammenti successivi racconta dell’aborto di una donna non meglio identificata, la cui descrizione, tuttavia, permette facilmente di pensare ad Ellen. Così come pure in apertura del romanzo si assiste alla nascita di una bambina; poco dopo Ed Thatcher si reca in ospedale dalla moglie che ha appena partorito, ma permane il dubbio se quella bambina sia o meno la loro. Bibbò nota quindi che:

Il linguaggio del cinema è condannato ad un’immediata iconicità; l’illusione mimetica è forse il suo principale vantaggio, ma lo priva di alcune possibili ambiguità che sono proprie del mezzo letterario. Un esempio banale può essere quello dell’ambientazione o dell’età del personaggio: facili da nascondere in narrativa (in particolare nelle forme brevi), non al cinema15.

Il montaggio messo in atto da Dos Passos, dunque, non è finalizzato a una definizione univoca del senso dei vari frammenti, i quali, se fossero giustapposti secondo un criterio finalistico, potrebbero così veder svelati i propri significati più profondi; al contrario l’autore ordina le sequenze narrative in modo da disorientare ulteriormente il lettore, disperdendo i significati univoci che determinate scene potrebbero avere. In questo avvicinamento al cinema, dunque, è possibile ritenere che Dos Passos si faccia interprete, come molti altri attorno a lui, di un sentimento condiviso, e che dunque le tecniche utilizzate siano riconducibili ad una sensibilità del tempo particolarmente diffusa piuttosto che ad una influenza diretta; come scrive Pala: «Il sistema di rappresentazione cinematografica modificò l’idea di realismo, facilitando l’affermarsi di un nuovo tipo di ricezione, anche letteraria, che non privilegiava più la costruzione statica»16. È infatti di pochi anni successivo Berlino – Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann, che si inserisce nel cinema d’Avanguardia delle cosiddette “sinfonie urbane”. Il film muto ha inizio con un treno che arriva in città, per poi procedere con vedute di Berlino che ben si distanziano dalle “vedute Lumière” di inizio secolo; non solo per le differenti durate – in quanto quelli di Lumière erano dei cortometraggi di circa un minuto – ma soprattutto per i diversi espedienti tecnici. Sebbene anche nel film di Ruttmann la camera sia pressoché ferma, fatta eccezione per minimi movimenti – in questo caso per scelta stilistica e non per limiti tecnici – ciò che restituisce la sensazione di una progressione veloce e di un movimento costante nello sviluppo narrativo è proprio il montaggio serrato che lega fra loro sequenze di pochi secondi.
E così, dunque, anche Manhattan Transfer sviluppa la propria cifra dinamica grazie al fitto montaggio dei frammenti narrativi che lo compongono: nonostante il romanzo copra un arco cronologico di diverse decine di anni – cosa, peraltro, ricostruibile solo a partire da pochi elementi contenuti nel testo – il tempo appare immobile, con i personaggi fissati in un determinato schema comportamentale che continuano a reiterare. Secondo Pala, la prospettiva adottata da Dos Passos nella sua rappresentazione della metropoli è quella cubista «orientata sulle relazioni mutanti tra le parti e sull’interazione di diversi oggetti, piuttosto che sugli oggetti o le varie parti considerate separatamente. Mentre il naturalismo riporta la superficie dei fenomeni, il cubismo riesce ad unificare prospettive correlate»17. Ma soprattutto, ciò che lega Manhattan Transfer alle Avanguardie cinematografiche degli anni ’20 e ’30 è la necessità di trattare un soggetto nuovo, che manteneva la propria connotazione di novità nonostante comparisse già a partire dalla metà circa del secolo precedente, vale a dire la folla: «la presenza della folla è un dato costante: […] con il cinema il destinatario anonimo della riproduzione, lo spettatore, si vede soggetto possibile di una rappresentazione interessante; e non a caso anche in molti film di finzione di quegli anni la folla compare come simbolo della grande città»18.
Già a partire da Edgar Allan Poe, nel racconto L’uomo della folla del 1840, essa diventa un motivo letterario di particolare interesse. Proprio Baudelaire, traduttore di Poe, ne fece oggetto delle proprie riflessioni. Come scrive Benjamin: «La folla: nessun altro oggetto si è imposto più autorevolmente ai letterati dell’Ottocento. […] Assurgeva al ruolo di committente; e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo»19. Quello di Poe è un uomo lontano dalla flânerie urbana, dai tratti maniacali, pervaso dall’ossessione e dal rifiuto, al tempo stesso, della folla. «In lui l’abito tranquillo ha lasciato il posto ad un tenore maniaco»20, scrive Benjamin, perché nella City «dove il tono è dato dalla vita privata, c’è così poco spazio per il flâner»21.
Neppure la Parigi di Baudelaire si offre come luogo consono alla flânerie; non c’è serenità nella metropoli, che non è più uno spazio al quale l’uomo possa dettare il proprio ritmo e la propria lentezza22. La città si impone, e così facendo disvela all’uomo la propria natura attraverso la folla: «angoscia, ripugnanza e spavento suscitò la folla metropolitana in quelli che per primi la fissarono in volto»23. Ed è così, dunque, che A una passante diventa esplicito riferimento del molteplice dramma al quale si ritrova costretto l’uomo che vive la metropoli; «archetipo del tema moderno dell’incontro»24, la donna si fa portatrice di significati salvifici che immediatamente vengono negati:

La passante appare un attimo e poi scompare: è una visione istantanea ed epifanica, in un istante rivela una possibilità e la sua negazione, il carattere fulmineo della seduzione e dell’eros e la sua necessaria perdita nell’universo convulso e caotico della metropoli moderna. Nella modernità il tempo, insomma, si è frantumato, è fatto di unità minime, discontinue e irrelate25.

L’andamento paratattico del sonetto – «Un lampo… poi la notte! – Bellezza fuggitiva»26 – si traduce in una altrettanto paratattica formazione discorsiva, tanto nel cinema quanto nel romanzo: «Venne il giorno in cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di stimoli. Nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Ciò che determina il ritmo della produzione a catena, condiziona, nel film, il ritmo della ricezione»27.
La strada come luogo privilegiato di incontri che modificano il corso delle esistenze, o ancora come luogo di contemplazione artistica, non può esistere nel mondo descritto da Dos Passos: «La strada, […] nel realismo a sfondo urbano, collega in forma anche metaforica l’interno e l’esterno, fornisce il teatro dell’azione metropolitana e rispecchia il carattere di chi la percorre»28. E se, come fin qui delineato, si tratta di personaggi che non hanno una cifra identitaria significativa, la città è sia causa di questa mancanza che termine nel quale i personaggi, rispecchiandosi, trovano questa conferma. Pertanto, «il cammino in Manhattan Transfer è conflitto aperto col caos della via o, nel migliore dei casi, traiettoria circolare, circolo vizioso. […] Un “rambling” surreale che non ha niente in comune con la passeggiata del flâneur, ma piuttosto scandisce i ritmi frenetici di una fuga da una minaccia incombente»29.
È così che, proprio nell’atto del camminare, si sviluppa il carattere precipuo dei due personaggi che, in modo complementare, secondo Pala si configurano come “automa” e flâneur, vale a dire rispettivamente Ellen Thatcher e Jimmy Herf30. Quella di Ellen è la rappresentazione del perfetto adattamento alla città, a discapito di una identità che viene definita e determinata dall’esterno; gli aspetti più oscuri di questo rapporto schizofrenico si leggono proprio nel suo sfuggire alla strada che «rappresenta una minaccia psicologica, oltre che fisica, all’identità di Ellen legata alla capacità, peculiare del picaro, di assumere ruoli diversi. Un’operazione artificiosa dunque: la finzione è lo strumento di auto-affermazione di Ellen contro la metropoli»31. Confermano dunque l’identificazione di Ellen con un automa proprio le percezioni che di lei manifestano gli altri personaggi. Al contrario di Jimmy Herf, che della propria condizione coglie tutte le contraddizioni; ciononostante il suo non è un pacifico percorrere la città nello stato contemplativo del flâneur, ma è possibile definire la sua come una “funzione diagnostica” in quanto, attraverso il suo sguardo, «ricettacolo privilegiato di impressioni»32, Dos Passos realizza non una denuncia sociale, bensì quella di una condizione umana nevrotica, a causa della quale per Jimmy «l’atto del camminare riveste un doppio significato: da una parte Jimmy cerca di sfuggire al senso di perdita e di inadeguatezza che lo ossessiona, dall’altra camminare è una scelta di maturità»33.
In La Signora Dalloway è possibile osservare una particolare commistione degli elementi fin qui osservati. Virginia Woolf ripercorre i pensieri di una dozzina di personaggi nell’arco di una giornata – precisamente scandita ora per ora – nel loro attraversamento di Londra. L’autrice passa da una coscienza all’altra grazie alla presenza di alcuni oggetti o grazie a certi eventi come, ad esempio, il passaggio di un aeroplano che traccia strane lettere in cielo – la cui comparsa, inoltre, è data tramite un chiaro rimando alla folla che, fuori dalle coscienze attraversate dalla Woolf, si accalca per le strade cittadine:

D’un tratto la signora Coates sollevò lo sguardo al cielo. Il rumore di un aeroplano recò sinistre premonizioni alle orecchie della folla. Eccolo venire sopra gli alberi, lasciando una scia di fumo bianco dietro di sé, che si arricciò e ripiegò, scrivendo qualcosa! delle lettere nel cielo! Tutti guardarono in su. […] Giù per il Mall la gente immobile guardava il cielo. E mentre guardavano, il mondo tutto si fece perfettamente immobile, e un volo di gabbiani attraversò il cielo; prima guidava un gabbiano, poi un altro, e in quel silenzio straordinario e in quella quiete, in quel pallore, in quella purezza, le campane batterono undici rintocchi, e il suono morì in alto tra i gabbiani34.

In questi oggetti si rispecchiano a turno i personaggi, e ciò permette alla narrazione di procedere da una coscienza all’altra. A questo tipo di procedimento non è estraneo Dos Passos il quale, come nota Pala, assume l’immagine di una giovane donna a cavallo come «stimolo a libere associazioni, giochi dell’inconscio, immagini di sogno che costituiscono la fantasmagoria unificatrice interna al romanzo: ella è, in altri termini, un simulacro nel quale si specchiano prima Ellen, poi Stan nel suo delirio finale»35. Secondo Johnson «questo meccanismo straordinario coglie bene quel misto di vicinanza pubblica e interiorità che è il nucleo della flânerie urbana»36; tuttavia «nella Londra di Virginia Woolf, la vita privata resta una questione privata persino quando la si intravede nello spazio pubblico: solo la voce narrante unisce i personaggi»37.
Pubblico e privato si intrecciano, dunque, in modi opposti ma complementari: i personaggi di Manhattan Transfer vengono assorbiti dalla città nella loro dimensione esistenziale e, così appiattiti, vagano senza una vera meta; i personaggi di Virginia Woolf, al contrario sprofondano nella propria interiorità, ed entro le strade di Londra ripercorrono le proprie esistenze. Lo sguardo narrante della Woolf, proprio come un dolly nel cinema, transita da una coscienza all’altra offrendola, in uno spazio pubblico, ma in tutta la sua riservatezza. I personaggi si incontrano, infatti, ma senza che questo modifichi minimamente il corso dei loro pensieri: «gli incontri casuali di Woolf non conducono da nessuna parte. Le narrazioni di strada restano fili separati, un’alzata di spalle e via. Non devono né illuminare qualche storia familiare sepolta, né avviare una catena di eventi futuri»38. In sostanza la metropoli moderna è luogo di infinite possibilità, di fronte alle quali l’uomo è immobile anche quando in movimento, schiacciato dal non sapersi riconoscere in niente, oppresso dal frastuono delle automobili e delle autopompe dei vigili del fuoco:

Innanzitutto, la difficoltà di mettere in risalto la propria personalità all’interno delle dimensioni della vita metropolitana. Dove l’aumento quantitativo del valore e dell’energia ha toccato il limite, si ricorre alla particolarizzazione qualitativa per poter attirare su di sé in qualche modo, grazie alla stimolazione del senso delle differenze, l’attenzione del proprio ambiente: ciò che finisce per portare alle eccentricità più arbitrarie, alle stravaganze tipicamente metropolitane della ricercatezza, dei capricci, della preziosità, il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte, bensì solo nell’apparire diversi, nel distinguersi e nel farsi notare – il che in definitiva rimane per molti l’unico mezzo per salvare, attraverso l’attenzione degli altri, una qualche stima di sé e la coscienza di occupare un posto39.

E se culturalmente e socialmente l’identità ha a che fare col nome proprio40, Manhattan Transfer si riconferma essere una messa in discussione non solo dei moderni modelli economici ed architettonici – in una città che determina a partire da sé stessa la propria grandiosità, e non a partire dall’uomo che dovrà abitarla – ma soprattutto della percezione che l’uomo ha di sé stesso e della propria vita comunitaria: «Ed è solo l’altra faccia di questa libertà il fatto che a volte non ci si senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichio della metropoli»41; personaggi solitari che perseguono la propria condizione di solitudine, come se questa fosse introiettata e si stagliasse sullo sfondo dei desideri individuali, proprio come i grattacieli sullo skyline della città.
Il romanzo di Dos Passos si apre con un’incertezza sulla quale la critica ha variamente dibattuto, vale a dire se la neonata delle prime pagine sia proprio Ellen Thatcher, il cui padre si vede festeggiare poche pagine dopo per la nascita della sua prima figlia, o se si tratti invece di un altro anonimo bambino, la cui storia non avrà seguito nel resto del romanzo. Allo stesso modo, Ellen sarà forse l’anonima protagonista di un aborto, nella seconda parte del romanzo. Come spiega la Gelfant, infatti, stare nella città vuol dire essere totalmente assorbiti da essa, perdendo la propria identità umana: «we begin to feel that they are not really fictional people at all. That is, they are not so much people who are suffering an inner discontinuity as they are merely discontinuous states of mind and feeling»42.
La città è dunque il termine nei confronti del quale i personaggi vorrebbero definire la propria identità, rendendosi amaramente conto che essa non è altrimenti disposta a quel confronto. Emblematico a tal proposito è il caso di Jimmy Herf; rimasto orfano della madre, Jimmy viene accolto dalla sorella della madre e dalla sua famiglia nella quale, tra i cugini, è presente un altro James – di cui Jimmy è appunto il diminutivo. La constatazione della cuginetta Maisie è proprio inerente all’impossibilità di mantenere il nome “James” per entrambi: «Non possiamo continuare a chiamarti James. […] Non ci possono essere due James, no?»43. In realtà Jimmy non ha mai utilizzato quel nome, e risponde alla cuginetta dicendo che anche la madre lo chiama Jimmy. La questione del nome proprio si fa quindi circostanziale, relativa, quasi ininfluente ai fini del romanzo. Ellen Thatcher è il personaggio che meno terrà alla propria identità, variando continuamente nome e cognome, spesso a causa dei matrimoni che la porteranno ad essere Mrs. Oglethorpe, Mrs. Herf ed infine Mrs. Baldwin; assieme alle diverse varianti del suo nome che gli altri personaggi utilizzano per rivolgerlesi, che sia Ellie, Ellen o Helena; in sostanza «ogni personaggio vede la sua identità mutata a seconda dello sguardo al quale è sottoposto o del contesto in cui è inserito»44. Soltanto i nomi delle strade di New York saranno sempre ben precisati e, in un certo senso, soltanto alla città Dos Passos si riferirà sempre col nome esatto.
A fronte di una tendenza generalmente eversiva del romanzo rispetto ad una struttura e ad una progressione tradizionali, permane un elemento che, in certa misura, riesce qui a fungere da collante: il ricorso alle coincidenze. Nel romanzo tradizionale le coincidenze svolgono un ruolo fondamentale; anche sotto questo punto di vista il romanzo corale mette in atto una modifica sostanziale della struttura romanzesca: «il romanzo corale modernista depotenzia le coincidenze e le rende un satellite della narrazione invece che un nucleo come nella narrativa tradizionale»45. Tuttavia, in un contesto tanto frammentario quale è quello del romanzo corale, le coincidenze potrebbero agire da fattore di coesione, evitando così un «eccesso di frammentismo»46. Spiega infatti Bibbò che, pur constatando che le coincidenze non hanno un ruolo teleologico, né soddisfano il desiderio di trama del lettore, esse vengono depotenziate piuttosto che annullate. Di conseguenza ignorarle del tutto come dati marginali sarebbe un errore tanto quanto attribuire loro un significato maggiore di quello che hanno.
È dunque possibile individuare una serie di richiami a distanza nel romanzo, che si attuano nel ritorno di personaggi. Il romanzo è diviso in tre parti: la prima e l’ultima ampliano a dismisura il numero di personaggi sulla scena – molti dei quali compaiono una sola volta; la parte centrale è invece dedicata ad un numero limitato di personaggi, circa cinque, le cui storie vengono seguite più nel dettaglio. Ciascuna delle tre sezioni, distanziate in un arco temporale di circa 30 anni, sono a loro volta divise in capitoli. La costante spaziale – vale a dire l’ambientazione newyorkese – prevale su una netta scansione temporale; inoltre, come spiega Pala «la prima grande assente è la Storia»47 che «non è incubo, ma bagatella, dettaglio trascurabile»48.
Le coincidenze sono un elemento di lunga durata in letteratura; Steven Johnson mette in luce differenze sostanziali nel modo in cui questo strumento viene utilizzato, a partire da Dickens e passando per Flaubert. Egli prende in prestito dalla sociologia il concetto di “città autorganizzantesi”, mettendo in luce come, di fronte a questo tipo di città, le difficoltà per i romanzieri fossero imponenti: «la città stessa diventava una protagonista attiva, un personaggio dotato di tutte le sfumature e le mutevoli potenzialità di un eroe letterario. […] La città era sia causa che effetto dei suoi abitanti-personaggi: le loro azioni la ponevano in essere, e la città, a sua volta, ne influenzava il comportamento»49. Non è più sufficiente che la città faccia da sfondo all’azione; non basta neppure che essa incida significativamente sull’esistenza dei personaggi, o che la narrazione trovi nuovi sviluppi proprio a partire da essa. E se nei romanzi di Dickens sono gli incontri casuali – ma soprattutto fortuiti – a permettere la narrazione, a farla avanzare, in quanto «le storie accadono perché i diversi intrecci entrano letteralmente in collisione»50, sono stati i romanzi di Flaubert, ed in particolare L’educazione sentimentale, a modificare completamente il modo in cui la città entra nella narrazione. Al contrario, dunque, di quanto accade nei romanzi di Dickens, «in Flaubert l’incontro non ha alle spalle alcun antefatto segreto, nulla tranne l’accidentalità dell’incontro e gli effetti che ne derivano»51. In particolare, dunque, non solo le città incidono significativamente sull’esistenza delle persone che le abitano, ma ciò che ha luogo entro i loro confini assume dei caratteri nuovi, peculiari, connotati dalle contraddizioni che definiscono la modernità stessa:

Flaubert fu il primo a permettere che la casualità epica della metropoli desse forma alla narrazione, e questo riduceva necessariamente la chiarezza simbolica che circonda eroi ed eroine del romanzo tradizionale. I personaggi diventano pedine dei meccanismi urbani, rendendo ancora più indistinto il confine tra sfondo e primo piano52.

Il procedimento messo in atto da Flaubert riporta dunque al dinamismo che sottende Manhattan Transfer; torna il ruolo di primaria importanza delle strade di New York, spesso più precisabili della personalità stessa dei personaggi. Questi ultimi sono frequentemente colti nell’atto di camminare53, sempre dirigendosi verso un luogo imprecisato nel quale, incontrando qualcuno, minimamente si distende la loro esistenza. Lo spazio fisico in cui i personaggi transitano viene descritto e circoscritto, spesso ponendosi come correlativo di stati d’animo secondo una logica ambigua di accordo o opposizione; è il caso dell’incipit del romanzo:

Tre gabbiani svolazzano al disopra dei rottami di casse, bucce d’arancia, torsi di cavolo marciti che galleggiano tra le palizzate sgangherate; le ondate verdastre schiumano sotto la prora arrotondata del ferry che, in balia della marea, schiaccia e inghiotte l’acqua schiaffeggiata, scivola, e lento s’accosta al molo. Manovelle girano con stridor di catene: saracinesche si alzano, piedi scavalcano il vuoto, uomini e donne s’affollano per il tunnel di legno del pontile, urtati e spinti tra l’odor di letame come mele rotolante in un frantoio54.

A tal proposito, nota Gelfant, la descrizione dei luoghi – ed in particolare degli odori – è significativa di quel malessere intrinseco alla città che traspare tanto dalle parole del narratore esterno quanto dalle percezioni degli stessi personaggi: «As it makes constant reference to the external scene (even when character or action is momentarily the center of interest), it underscores the synoptic intention to create the city as protagonist»55. Tuttavia, il modo in cui i personaggi abitano questo spazio maleodorante e costrittivo è, nella maggior parte dei casi, dialogando. L’incontro con l’altro, dunque, certamente non modifica sensibilmente le vite dei personaggi – come poteva invece avvenire ai personaggi di Dickens i quali, nelle fortuite coincidenze, si scoprivano ingranaggi di un disegno più complesso ordito dall’autore – tuttavia il modo in cui essi stanno “in scena” presuppone la presenza dell’altro:

Le storie, pur incrociandosi, non si influenzano infatti le une con le altre, ma sottolineano in modo più o meno esplicito alcuni dei motivi del romanzo. E le coincidenze, talvolta, lo fanno in modo esplicito, come a mostrare una certa sfiducia verso il montaggio narrativo, e contribuiscono alla strisciante condanna della modernità che anima Manhattan Transfer56.

Incontri e perdita di identità riallacciano la propria unità tematica in una delle ultime scene del romanzo: Jimmy Herf, ormai solo, senza lavoro o soldi, incontra l’amico Congo Jake, che si fa chiamare Armand Duval ed ha fatto fortuna grazie al traffico di alcolici durante il proibizionismo. Congo torna, quindi, avendo mutato forma, nome, esistenza; un’esistenza che si sgretola, che non ha unità, ma ai fini di un’altra unità, quella illusoria del romanzo, i ritorni dei personaggi hanno un ruolo fondamentale. Le coincidenze agiscono quindi parzialmente da collante nelle vicende dei personaggi, ma la loro marginalità può essere spiegata prendendo in prestito la definizione di Simmel dell’essere blasé:

L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze fra le cose, non nel senso che queste non siano percepite – come sarebbe il caso per un idiota – ma nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze57.

Questa analisi non solo fornisce i termini entro i quali guardare alla scarsa rilevanza data alle coincidenze ai fini dell’intreccio del romanzo, ma permette di comprendere quanto minutamente arguto sia, proprio grazie alla sua frammentarietà, il ritratto che Dos Passos traccia dell’uomo moderno. Ma Simmel si spinge oltre, trovando una spiegazione all’attitudine dell’uomo moderno e metropolitano:

Nella misura in cui il denaro pesa tutta la varietà delle cose in modo uniforme ed esprime tutte le differenze qualitative in termini quantitativi, nella misura in cui il denaro con la sua assenza di colori e la sua indifferenza si erge a equivalente universale di tutti i valori, esso diventa il più terribile livellatore, svuota senza scampo il nocciolo delle cose, la loro particolarità, il loro valore individuale, la loro imparagonabilità58.

Quello dell’essere blasé, dunque, rappresenta un atteggiamento volto all’autoconservazione entro il quale, a discapito del mondo oggettivo, l’uomo tenta di preservare sé stesso. Ma la svalutazione del mondo oggettivo comporta, secondo Simmel, anche la svalutazione di sé stessi. Ed è tenendo presente questo fattore che bisogna guardare ai personaggi creati da Dos Passos, e leggere nella loro parzialità – in quanto individui – una scelta autoriale particolarmente rilevante. Allo stesso scopo concorre la scelta della forma corale: come si è avuto modo di vedere fin qui, tanto la frammentarietà dei personaggi quanto la scomposizione della struttura narrativa risultano manifestazioni pratiche di una più complessa posizione ideologica. Per quanto geograficamente collocabile in un’atmosfera – quella americana di inizio XX secolo – è pur vero che la direzione che queste scelte indicano è coerente con un momento storico in cui notoriamente la narrazione fa i conti con sé stessa e coi propri limiti; pare quindi indubitabile il riconoscimento, da parte di Dos Passos, di una mutazione nel modo in cui gli esseri umani stanno al mondo, in particolare nelle neonate metropoli, la cui conseguenza più evidente è proprio un nuovo modo di tenere insieme lo sfondo cittadino e la densità umana dei suoi personaggi.


  1. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos (2004), Cagliari, CUEC, 2005, p. 12.

  2. A. Bibbò, “There can’t be two Jameses can there?”: il montaggio di Manhattan Transfer e l’indeterminatezza, in Il personaggio: figure della dissolvenza e della permanenza, Atti del IV convegno scientifico dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura (Torino, 14-16 settembre 2006)¸ a cura di C. Lombardi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2008, p. 323.

  3. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., p. 38.

  4. Ivi, p. 13.

  5. Ivi, pp. 13-14.

  6. Ivi, p. 27.

  7. Si riporta, a scopo meramente indicativo, un esempio dal romanzo: «“Jimmy, non mi fate andare in collera… Perde sempre la dentiera”, cominciò Ruth. La sopraelevata si portò via il resto della conversazione. La porta del ristorante che si chiuse dietro di loro smorzò il rumore delle rotaie», in J. Dos Passos, Manhattan Transfer (1925), trad. it. di A. Scalero, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2003, p. 125.

  8. B. Pike, The image of the city in modern literature (1981), Princeton, Princeton University Press, 1981, p. 72.

  9. Cfr. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, a cura di P. Jedlowski, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Roma, Armando, 2011; nelle pagine seguenti verranno meglio analizzati gli elementi dell’analisi di Simmel ai quali qui si accenna soltanto.

  10. A. Bibbò, “There can’t be two Jameses can there?”: il montaggio di Manhattan Transfer e l’indeterminatezza, cit., p. 327.

  11. B.H. Gelfant, The American city novel (1954), Oklahoma, University of Oklahoma Press, 1954, p. 143.

  12. Ivi, p. 153.

  13. G. Plimpton, Writers At Work. The Paris Review Interviews. Fourth Series (1976), New York, Penguin Books, 1979, p. 80.

  14. A. Bibbò, “There can’t be two Jameses can there?”: il montaggio di Manhattan Transfer e l’indeterminatezza, cit., p. 325.

  15. Ivi, p. 331.

  16. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., p. 260.

  17. Ivi, p. 258.

  18. G. Tinazzi, La mobilità dello sguardo, in Cinema d’avanguardia in Europa (dalle origini al 1945) (1996), a cura di P. Bertetto e S. Toffetti, Milano, Il Castoro, 1996, p. 169.

  19. W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti (1962), a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014, p. 99.

  20. Ivi, p. 107.

  21. Ibidem.

  22. Come riportato da Benjamin in una nota al testo: «Il pedone sapeva, all’occasione, esibire in modo provocatorio la sua nonchalance. Intorno al 1840 fu per qualche tempo di moda condurre tartarughe al guinzaglio nelle “gallerie”. Il flâneur si faceva volentieri dettare il ritmo da loro. Se fosse stato per lui, il progresso avrebbe dovuto tenere questo passo. Ma non fu lui ad avere l’ultima parola, bensì Taylor, che della guerra alla flânerie ha fatto una parola d’ordine», ibidem.

  23. Ivi, p. 109.

  24. R. Luperini, L’incontro e il caso: narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale (2007), Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 25.

  25. Ibidem.

  26. C. Baudelaire, A una passante, v. 9, in I fiori del male e tutte le poesie, a cura di M. Colesanti, trad. it. di C. Rendina, Roma, Newton Compton, 2019, p. 233.

  27. W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 110.

  28. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., p. 267.

  29. Ibidem.

  30. Laddove non citato direttamente si veda, per la seguente analisi, M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., pp. 265-275.

  31. Ivi, p. 270.

  32. Ivi, p. 275.

  33. Ivi, p. 273.

  34. V. Woolf, La Signora Dalloway (1925), trad. it. di N. Fusini, Milano, Mondadori, 2005, p. 217.

  35. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., p. 205.

  36. S. Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, vol. I, La cultura del romanzo, Torino, Einaudi, 2001, p. 742.

  37. Ivi, p. 744.

  38. Ivi, p. 743.

  39. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, cit., pp. 52-53.

  40. In merito alle implicazioni che l’attribuzione del nome proprio ha si veda H. Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica (1973), trad. it. di A.P. Becchi, Torino, Einaudi, 1999.

  41. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 49.

  42. B.H. Gelfant, The American city novel, cit., p. 161.

  43. J. Dos Passos, Manhattan Transfer (1925), cit., p. 91.

  44. A. Bibbò, Coralità modernista: multilinearità e resistenza alle coincidenze, in «Status quaestionis», 4, 2013, p. 149.

  45. Ivi, p. 150.

  46. Ibidem.

  47. M. Pala, Allegorie metropolitane: metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, cit., p. 182.

  48. Ibidem.

  49. S. Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, cit., p. 729.

  50. Ivi, p. 734.

  51. Ivi, p. 738.

  52. Ivi, p. 741.

  53. A tal proposito pare interessante l’osservazione di Antonio Bibbò: «Nell’intero romanzo sono presenti una quantità eccezionale di sinonimi di “walk”, tutti connotati dall’insistenza sulla mancanza di equilibrio o di direzione. Valga, come lista incompleta, la seguente: waddle, limp, lurch, stumble, totter, reel, ecc.», A. Bibbò, “There can’t be two Jameses can there?”: il montaggio di Manhattan Transfer e l’indeterminatezza, cit., p. 327.

  54. J. Dos Passos, Manhattan Transfer, cit., p. 7.

  55. B.H. Gelfant, The American city novel, cit., p. 147.

  56. A. Bibbò, Coralità modernista: multilinearità e resistenza alle coincidenze, cit., pp. 150-151.

  57. G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 43.

  58. Ibidem.


In this article I investigated the relationship between the man and the city through John Dos Passos’s novel Manhattan Transfer. The city is not merely the background of the novel, but it is a character itself; however the pre-eminence of the city puts in doubt the importance of the character’s status. Following some significant theories about the novel, I analyzed how the multiplicity of characters and the use of cinematic editing allow the author to create “an impression” of the city rather than a traditional novel.