Sirene novecentesche. Il caso di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Curzio Malaparte
Introduzione
La sirena è una creatura mitologica di grandissima risonanza nell’universo letterario di ogni tempo. Dall’antichità classica, ibridandosi con la tradizione nordica, fino ai giorni nostri, ha colpito l’immaginario di un elevato numero di autori. Si tratta forse di una delle figure fantastiche dalle caratteristiche fisiche e psicologiche meglio definite, ma ciò non le ha impedito di essere sottoposta a frequenti rivisitazioni, riletture e metamorfosi. Con riguardo all’Ottocento, Diego Pellizzari ha rilevato come, grazie al neonato filone letterario incentrato sul ritorno degli dèi pagani nel mondo moderno, le divinità classiche siano state rese portatrici di angosce legate in particolare a contenuti di tipo inconscio, attinenti alla sfera morale, politica e sessuale, che la contemporaneità aveva fortemente rielaborato, e spesso censurato1. Quando un dio antico ritorna, ritornano anche le pulsioni, gli istinti irrazionali e, più in generale, quanto era stato cancellato dalla Storia, che però, nonostante sia rimasto sepolto per millenni, e soppiantato dall’avvento del cristianesimo e dalla sua conseguente rivoluzione culturale, non è scomparso2.
Se allunghiamo lo sguardo verso il Novecento, poi, sono sempre di più gli autori che scelgono di servirsi della sirena in funzione perturbante, e proprio alle rifunzionalizzazioni letterarie di questa creatura nel XX secolo rivolgiamo la nostra attenzione in questo articolo. In particolare, prenderemo in considerazione due autori italiani sostanzialmente coevi ma dalla poetica molto diversa, e che, conseguentemente, si servono di stilemi mitici simili per giungere a esiti estremamente diversi: Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957) e Curzio Malaparte (1898-1957). L’analisi che condurremo delle loro opere, rispettivamente La Sirena e La pelle, si soffermerà sia su alcune questioni formali sia su aspetti ermeneutici. In particolare, indagheremo il valore che il soprannaturale assume in questi testi, dimostrando come esso possa efficacemente concorrere ad una lettura storico-politica dei contesti nei quali si sviluppano le vicende narrate nelle due opere.
1. La Sirena: una presentazione e il problema del genere
La Sirena3 è un racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa redatto nel 1957 e pubblicato postumo nel 1961. La vicenda si apre nel 1938, a Torino, dove Paolo Corbèra, giornalista e ultimo discendente del grande casato nobiliare dei Corbèra di Salina, ormai decaduto, si reca in un caffè, luogo in cui incontra l’ellenista Rosario La Ciura, siciliano come lui. È proprio questa origine comune a fornire il primo aggancio a una relazione che si fa progressivamente più stretta; nel corso del racconto sarà sempre più chiaro il disprezzo del professore per le dinamiche del mondo contemporaneo e la sua condizione di intellettuale solitario, immerso in un culto profondissimo dell’antico che pare avere le sue radici in una forma di conoscenza lontana dallo studio erudito; egli racconterà, infatti, di aver conosciuto, in gioventù, una sirena dell’antica Grecia durante un ritiro sulla costa della Sicilia, e di aver instaurato una storia d’amore con lei che, pur nella sua brevità, gli garantì un tipo di esperienza, sensuale e intellettuale al contempo, trascendente l’umana comprensione:
Te l’ho già detto Corbèra: era una bestia ma nel medesimo istante era anche una Immortale ed è peccato che parlando non si possa continuamente esprimere questa sintesi come, con assoluta semplicità, essa la esprimeva nel proprio corpo. Non soltanto nell’atto carnale essa manifestava una giocondità e una delicatezza opposte alla tetra foia animale ma il suo parlare era di una immediatezza potente che ho ritrovato soltanto in pochi grandi poeti. Non si è figlia di Calliope per niente: all’oscuro di tutte le colture, ignara di ogni saggezza, sdegnosa di qualsiasi costrizione morale, essa faceva parte, tuttavia, della sorgiva di ogni coltura, di ogni sapienza, di ogni etica e sapeva esprimere questa sua primigenia superiorità in termini di scabra bellezza4.
Subito dopo il racconto, il professore si imbarcherà per il Portogallo, cadendo però in mare in circostanze non chiarite e non venendo mai più ritrovato.
Nel panorama delle opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa5, La Sirena è l’unico esempio di produzione fantastica. Tale elemento distintivo impone subito qualche considerazione sul genere del racconto, facendo riferimento ad alcuni significativi modelli teorici.
Possiamo cominciare con qualche riflessione di Tomasi di Lampedusa stesso basandoci sulla sua Letteratura inglese, redatta attorno al 1954. Si tratta di un ciclo di lezioni che aveva lo scopo di fornire una panoramica della letteratura inglese, appunto, dalle origini agli autori contemporanei, che l’autore aveva progettato per il giovane Francesco Orlando (sotto forma quindi della lezione privata) e, saltuariamente, per pochi altri studenti. Il testo è una fonte imprescindibile per comprendere i riferimenti letterari dell’autore siciliano e il suo approccio critico verso altri intellettuali, specialmente se ricordiamo che egli si formò da autodidatta, lontano dal mondo universitario.
Leggendo la presentazione di Tomasi di Lampedusa a Chaucer e ai suoi Racconti di Canterbury, rileviamo una definizione di un concetto che l’autore individua come elemento fondante delle caratteristiche della letteratura inglese, cioè quella di «fiabesco»:
Il fiabesco (parola non esatta) è un lieve contorcimento delle linee, una deformazione, involontaria forse, che lo scrittore dà alla cosa narrata, per la quale il lettore si accorge ad un tratto che ciò che legge non avviene più soltanto in questo mondo, ma che vi è la partecipazione di un altro elemento, estraneo. I personaggi, elisabettiani, seicenteschi, vittoriani, contemporanei si sono per un attimo trasformati in gnomi e vi guardano lepidi o minacciosi con occhi morti di già o non mortali. […]
Vi è una parola scozzese che lo definisce, eerie, un’altra irlandese, fey, esprime una subitanea e passeggera trasmutazione di piano, un richiamo alla tristezza, all’orrore, o al grottesco di una quarta dimensione6.
Si può riscontrare una certa aderenza della Sirena alla definizione appena illustrata: la narrazione, infatti, per buona parte del suo corso, non ha affatto un tenore fantastico. A mano a mano che procediamo con la lettura, però, gli indizi che qualcosa di soprannaturale sta per accadere aumentano: il caffè in cui Corbèra e il professor La Ciura si incontrano, soprannominato «Limbo» o «Ade», frequentato da «esangui ombre di tenenti, colonnelli, magistrati e professori in pensione»7, che già dal nome dischiude subito le porte a una futura dimensione superumana della storia; oppure, l’allusione del grecista agli altri professori universitari cui «nulla è stato rivelato»8; la confessione finale di La Ciura, così, ci appare sempre più credibile. In questo senso sono molto indicative le due visite che Paolo Corbèra fa a casa sua; nell’atmosfera più intima e personale dell’appartamento privato può infatti rivelarsi e complicarsi la vera natura del professore mentre appare sfumato il confine tra umano e divino. Durante la prima visita, viene anche espresso un ammiccamento ironico riferito al passato di Rosario La Ciura, quando il giornalista, guardando una fotografia del professore da giovane, pensa: «il povero senatore in veste da camera era stato un giovane dio»9. Poi si capirà che la data della foto coincide con l’estate dell’incontro con Lighea (così si chiama infatti la sirena del racconto)10; dunque, una parte della natura divina di questa creatura si era trasferita su La Ciura ragazzo e non l’avrebbe più lasciato. Molti anni dopo, l’uomo, divenuto anziano, incapace di ignorare il richiamo di un mondo a cui ormai anche lui appartiene, si getta tra le onde del mare: «Non io certo sarò il secondo [dopo Ulisse] a non ubbidire al suo richiamo, non rifiuterò questa specie di Grazia pagana che mi è stata concessa»11.
Già Tomasi di Lampedusa, però, aveva intuito che il termine da lui usato, «fiabesco», non era il più adatto a esprimere la condizione che descrive poi nelle righe successive. C’è bisogno dunque di ricorrere alla sistematizzazione più rigorosa di Tzvetan Todorov. Lo studioso, nel suo celebre saggio La letteratura fantastica (1970)12, propone una definizione di fantastico, più che come forma autonoma, come una condizione in equilibrio tra due generi, lo strano e il meraviglioso. Per l’autore, infatti, il fantastico «dura soltanto il tempo di un’esitazione»13, vale a dire che consiste in quel tempo della narrazione in cui il lettore e il personaggio rimangono incerti riguardo il classificare un evento fuori dalla norma come soprannaturale, o invece ridimensionarlo, considerandolo un evento sì bizzarro, ma comunque naturale. Se alla fine del testo il soprannaturale riceve una spiegazione razionale, l’opera rientrerà nel genere dello strano; se invece il soprannaturale viene confermato, ci troveremo nel meraviglioso.
Mentre questo metodo di analisi si presta benissimo, per esempio, per i racconti gotici ottocenteschi (tutti giocati sull’oscillazione tra la volontà di razionalizzare i misteriosi accadimenti e il sospetto che di razionale possa non esserci nulla), è più difficile applicarlo a un’opera novecentesca come La Sirena. La nostra ipotesi è che questo racconto si muova tra il fantastico-meraviglioso14 e il meraviglioso puro. Possiamo riscontrare, in primo luogo, un elemento proprio del fantastico, quello strutturale. Todorov infatti, rifacendosi alle teorie di Peter Penzoldt, evidenzia come l’intreccio di questi racconti sia organizzato in modo tale da costituire un avvicinamento crescente, attraverso l’accumularsi di indizi, all’evento soprannaturale, ovvero al momento culminante dell’opera («Ecco, in sintesi, la teoria di Penzoldt: “La struttura della storia ideale di fantasmi, scrive, può essere rappresentata come una linea ascendente che conduce al punto culminante. […] Il punto culminante di una storia di fantasmi è evidentemente l’apparizione dello spettro. Nel mirare al punto culminante, la maggior parte degli autori cerca di pervenire a una certa gradualità, dapprima in maniera vaga, poi sempre più direttamente”»15); abbiamo evidenziato poco sopra come anche il nostro testo sia strutturato in tal modo.
Tuttavia, nell’opera è praticamente assente l’elemento che Todorov individua come fondante del fantastico, e cioè proprio il dubbio. È vero che risulta possibile chiedersi, durante la lettura, a cosa siano volte le varie anticipazioni, ma né i personaggi – Paolo Corbèra dice esplicitamente: «Mai un istante ebbi il sospetto che mi si raccontassero delle frottole e chiunque, il più scettico, fosse stato presente, avrebbe avuto la verità più sicura nel tono del vecchio»16 –, né noi lettori, una volta appreso dell’incontro di quest’uomo con una divinità, siamo portati a credere che egli menta; non è sul dubbio che il racconto si regge, come avveniva per una parte della letteratura ottocentesca. Per questo parrebbe più opportuno inserire quest’opera all’interno del meraviglioso puro, all’interno cioè di una narrazione soprannaturale le cui magiche apparizioni non destano alcuna sorpresa e sono accettate pacificamente sia dai personaggi sia dai lettori.
A voler complicare ulteriormente la questione, dovremmo dire che neanche il meraviglioso sembra perfettamente aderente alle caratteristiche della Sirena. Ci torna particolarmente utile in questo senso l’ultimo capitolo dell’opera di Todorov che, offrendo uno sguardo sulle tendenze e sugli sviluppi dei racconti fantastici del Novecento, prende in esame il soprannaturale delle Metamorfosi di Kafka, e così lo commenta:
Non si può dire peraltro che per l’assenza di esitazione, di stupore, anche, e per la presenza di elementi soprannaturali, noi ci troviamo in un altro genere noto: il meraviglioso. Il meraviglioso implica che noi siamo immersi in un mondo dalle leggi totalmente diverse da quelle in vigore nel nostro mondo; per tale ragione, gli avvenimenti soprannaturali che accadono, non sono minimamente inquietanti. Invece, in La metamorfosi, si tratta proprio di un avvenimento conturbante, impossibile; ma che, paradossalmente, finisce col diventare possibile. In questo senso, i racconti di Kafka rientrano insieme nella sfera del meraviglioso e dello strano, sono la coincidenza di due generi apparentemente incompatibili. Il soprannaturale è scontato, e tuttavia continua a sembrarci inammissibile17.
Queste considerazioni sono applicabili anche al nostro testo; l’apparizione della sirena non avviene infatti in un mondo magico, ma nella realtà quotidiana, secondo un uso narrativo tipico del Novecento. Bisogna dire però che la Sicilia dell’incontro è una Sicilia mitica, sempre evocata e mai direttamente presente nel testo, che appare separata dal resto del mondo, sospesa in uno spazio e in un tempo alternativo in cui esistono solo il giovane La Ciura e la divinità; non ci sono incursioni di altri esseri umani (fatta eccezione per un contadino che però non si accorge della presenza della sirena e subito se ne va), né l’intervento di qualcosa di quotidiano che possa rompere la bolla in cui, seppur per un tempo breve, i due vivono. Alla fine, dunque, l’ipotesi di collocare questo racconto nel meraviglioso puro non appare forse così inaccettabile.
In ultima istanza, non si può concludere il ragionamento sul genere letterario a cui si potrebbe accostare La Sirena senza fare riferimento agli studi di Francesco Orlando. In particolare, risulta utile Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, un saggio postumo frutto di un primo abbozzo compiuto dall’autore e delle integrazioni fornite dalle sbobinature dei suoi corsi universitari del 2005 e del 200618.
Orlando propone una classificazione del soprannaturale in letteratura, con opportuni esempi testuali, più estesa e varia, andando oltre la sola categoria di fantastico descritta da Todorov, con una maggiore attenzione alle modificazioni cui la letteratura dell’immaginario va incontro durante le diverse epoche storiche19. I due strumenti fondamentali necessari a individuare lo statuto del soprannaturale sono il credito e la critica, vale a dire quanta fiducia incondizionata venga data all’interno dell’opera all’esistenza del soprannaturale e quanto invece la ragione ne freni l’autorità. Tra i due esiste quindi una «formazione di compromesso», un equilibrio che va studiato20.
Sono due le categorie orlandiane tra le quali, riteniamo, La Sirena di Tomasi di Lampedusa si potrebbe collocare. La prima è quella del soprannaturale di trasposizione. Si tratta di uno statuto che nasce nell’Ottocento e prevede una restaurazione molto forte del materiale mitico o folklorico cui attingeva il soprannaturale detto di tradizione (quello di Omero o Dante, in cui il credito dato all’esistenza del soprannaturale è massimo all’epoca della stesura dei testi). A differenza di quest’ultimo, però, tale materiale, per poter esistere in un’epoca così avanzata, dopo cioè che sono già intervenuti forti elementi a mitigare il credito dato al soprannaturale (la Riforma protestante, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese, l’industrializzazione e la nascita della moderna società capitalistica), deve trovare una giustificazione in un rimando allegorico volto a esorcizzare aspetti della realtà sentiti come problematici, legati ad esempio a specifiche questioni politiche o storiche.
La seconda tipologia che consideriamo è il soprannaturale di imposizione. Categoria eminentemente novecentesca, è caratterizzata da un unico ‘strappo alla regola’ della quotidianità: vale a dire che un singolo evento soprannaturale ci viene perentoriamente imposto senza alcuna giustificazione, spiegazione o rimando allegorico preciso, con un effetto di totale straniamento; «l’insufficienza nella sistemazione razionale del mondo»21, insomma, non è più settoriale, come accadeva nello statuto della trasposizione, ma complessiva. Inoltre, per distinguere ulteriormente i due statuti citati, Orlando precisa che «la mescolanza tra soprannaturale e quotidianità resta una differenza fondamentale»22.
Pensiamo che La Sirena possa considerarsi un ibrido tra queste due forme: con il soprannaturale di trasposizione il racconto sicuramente condivide il recupero di materiale mitico. La sirena è notoriamente un essere mitologico di lunghissima tradizione, sia mediterranea che nordica. Scegliere di riutilizzare questa creatura in un testo del Novecento significa anche ricollegarsi a un ramo importante della letteratura precedente e a una serie di valenze simboliche consolidate, ma con una nuova veste. È tipico di questo statuto, infatti, che sia l’elemento soprannaturale stesso a ridefinirsi23, come se fosse consapevole di portare con sé un altro significato, oltre ai simboli che tradizionalmente lo accompagnano: «Sono Lighea, figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto»24.
Tuttavia, non si può ignorare che Tomasi di Lampedusa scriva nel Novecento e di quel clima risenta. L’influsso del soprannaturale di imposizione è forte e lo notiamo soprattutto nella scelta di calare la venuta della sirena nella contemporaneità, inquadrandola dunque come un evento isolato all’interno del mondo moderno. Un ulteriore fondamentale elemento di connessione con lo statuto dell’imposizione è che il rimando allegorico a cui la sirena dovrebbe rinviare non è di immediata ricostruzione e non è inequivocabile: questa creatura ci appare nel racconto come portatrice di una molteplicità di significati che restano volutamente indeterminati da parte dell’autore, senza un referente preciso.
2. Cosa rappresenta Lighea?
Le interpretazioni della Sirena di Tomasi di Lampedusa nelle valutazioni degli studiosi appaiono oscillanti. Andrea Vitello, uno dei più importanti biografi dell’autore, vede in Lighea:
La donna e la bellezza, la natura e l’arte, l’estasi e l’unione. […] Il mito di Lighea, l’Immortale, capovolge il tema della morte in quello della vita, poiché in essa tutte le morti si raccordano e da essa tutte le vite si irradiano. È la vita che scorre nella natura, compresa quella dell’uomo (che nasce, vive, e morendo, torna alla natura stessa)25.
Andrea Molesini invece afferma che:
La voce di Lighea non ha bisogno di modulare un canto, di per sé stessa è il canto. […] è la voce della morte e della vita, della bufera e della bonaccia, dell’attimo e dell’eterno. E queste cose sono uno perché se l’uomo ha un’aspirazione, questa è riconoscere le fattezze dell’unità nella varietà del tutto, o almeno segni di queste fattezze, per poter affermare di non essere un accidente cosmico, e tantomeno storico, ma una necessità lontana dal caso, parte del tutto inestricabile regolato da una qualche armonia prestabilita […]. Lighea è il miraggio femminile che nel Gattopardo il Principe vede prima di morire, è la stessa, sola creatura immortale, la Morte, che ride dei nostri amplessi, come di qualsiasi altro tentativo di allontanarla da noi26.
Queste letture, che hanno comunque il pregio di aver messo in luce la compresenza nella sirena, sin dalla sua caratterizzazione in età classica, di elementi vitali e amorosi ed elementi di morte, hanno però il difetto di non spiegare veramente le ragioni della riproposizione di questo mito in un’epoca tanto avanzata. Come ha giustamente osservato Manuela Bertone, esse tendono a svincolare l’impiego della mitologia nella produzione letteraria contemporanea dal contesto storico di produzione o ambientazione di tali opere27. Abbiamo visto, però, parlando delle categorie del soprannaturale per Francesco Orlando, come tale contesto si riveli sempre più cruciale, a partire dal XIX secolo, per comprendere pienamente il valore di questo tipo di narrazioni. Lo stesso concetto è confermato anche da Franca Linari, che inquadra l’opera come esempio di produzione del dopoguerra che vuole contrapporre il mito alla storia, e alla scelta del rifugio in esso come opposizione a un presente difficoltoso: per la studiosa il professor La Ciura, inseguendo la Sirena, e infine lasciandosi soggiogare dal suo incanto fino alla morte, avrebbe scelto di percorrere ‘la via del mito’, mentre Ulisse, l’altra inevitabile figura di riferimento riguardo l’incontro con le Sirene, avrebbe scelto ‘la via della Storia’, resistendo alla loro seduzione e completando il suo ritorno nella civiltà28. Tuttavia, neppure la spiegazione della classicità come via di fuga29 ci appare pienamente convincente.
Riteniamo che, in questo caso, il mito non sia contrapposto alla Storia, ed esprima invece con gli strumenti che gli sono propri ciò che in un racconto realistico non potrebbe essere detto a proposito della Storia. Varrà la pena, a questo proposito, richiamare quanto sostenuto da Diego Pellizzari riguardo la progressiva perdita di autorità del Cristianesimo, dal Settecento in poi, in quanto chiave di volta per consentire una nuova accoglienza e lettura dei valori sentiti come pagani e il ritorno in letteratura delle divinità classiche come esempio di «ritorno del represso»30.
Quale potrebbe essere dunque il represso a cui il racconto allude? Un’ipotesi che riteniamo possibile avanzare ci spinge a supporre che esso sia direttamente collegabile all’esperienza del fascismo. Infatti, la vicenda è ambientata nel 1938: è un anno centrale per il periodo storico a cui ci si sta riferendo. La natura totalitaria del Regime è delineata in modo ormai inequivocabile dall’incedere degli eventi, a cominciare dalla pubblicazione del Manifesto della razza, il 14 luglio 1938, e dalle leggi razziali nell’autunno del medesimo anno; vanno anche menzionati gli Accordi di Monaco, che rendevano ancora più stretti i rapporti con il nazismo dopo la concessione dell’Anschluss durante la primavera.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, come del resto molti altri intellettuali dell’epoca, non si avvide subito dei pericoli derivanti dall’avvento del fascismo, ritenendo un governo forte e autoritario l’unico mezzo per governare l’Italia, anche per far fronte al «pericolo bolscevico»31. Dalla raccolta di lettere dell’autore all’amico Massimo Erede (rimasta inedita fino al 2019) emerge una certa vicinanza iniziale alla propaganda del regime32; Gioacchino Lanza Tomasi (figlio adottivo dell’autore dal 1957), però, nella postfazione all’opera, rivela come l’opinione di Tomasi di Lampedusa sul fascismo fosse radicalmente mutata proprio a partire dal 1938, in quanto egli giudicava impossibile concepire una sintonia con quegli aspetti del regime che andavano esacerbandosi dopo il contatto con la dittatura nazista33.
Inoltre Fabien Vitali, analizzando alcune lettere di Tomasi di Lampedusa e della moglie Alexandra Wolff, ha messo in evidenza come nei due sia innegabile riscontrare un certo appoggio iniziale alla dittatura di Mussolini, nonché alcune dichiarazioni di antisemitismo, ma che già dal 1936-1937, e indiscutibilmente dal 1938 (anno di cui, però, ci sono rimaste solo le lettere di Alessandra Wolff), l’attenuazione dei toni negli scambi epistolari, e l’evidente orrore per le manovre di Hitler34, indicano «una tacita presa di distanza dal regime […] parallela alla dissociazione esplicita nei confronti della variante ideologica “in maggiore” del fascismo italiano, vale a dire, il nazionalsocialismo»35.
Nella scelta, quindi, di ambientare La Sirena esattamente in quell’anno si potrebbe riconoscere una volontà dell’autore di esprimere l’intollerabile disagio legato all’esperienza del fascismo, su cui egli continua a riflettere a vent’anni di distanza (trattandosi di un’opera composta, lo ricordiamo, nel 1957). Gli stessi personaggi del racconto manifestano insofferenza nei riguardi delle istituzioni e delle direttive culturali del periodo; ne sono testimonianza le amare constatazioni riguardo l’omologazione dell’informazione derivante dalla propaganda del Minculpop, oppure il fatto che il professor La Ciura non sia membro dell’Accademia d’Italia e Paolo Corbèra se ne compiaccia36.
Dando una lettura in chiave storica al testo, il ritorno di una figura mitologica classica in una tale epoca potrebbe rappresentare la volontà di recupero e riaffermazione della cultura greca antica. Infatti, durante l’età fascista, il mito esaltato e ossessivamente propugnato era notoriamente quello di Roma; veniva marcatamente rifiutato il debito della civiltà latina nei confronti di quella greca (contro la realtà storica), non accettando che nello sviluppo del mito di Roma dovesse essere contemplata anche una dipendenza culturale da un altro popolo, e rifiutando conseguentemente i riferimenti morali, letterari e intellettuali che l’universo greco offriva37.
Luciano Canfora, in Ideologie del classicismo, cita uno scritto dello storico Emanuele Ciaceri, apparso in «Dottrina Fascista» nel 1940, esemplare in questo senso:
I Romani per loro natura rifuggivano da ogni genere di elucubrazioni, cioè da un lavoro intellettualistico sostanzialmente inutile […]. In un primo tempo si dimostrarono diffidenti verso una cultura che giungeva dal di fuori, e la considerarono sempre come oggetto estraneo ai doveri del cittadino [giacché] la filosofia, il filosofeggiare [può] minare l’esistenza dello Stato. […] Da tutte le pagine di Cicerone spira un senso di romanità; che non riflettono le scene del dialogo, la vita spensierata d’una democrazia ateniese, amante di un’arte piena di grazie e incantevoli manifestazioni, ma non curante delle sorti della patria38.
Canfora così commenta il passo:
Siamo di fronte all’esasperazione di certi motivi di fondo del classicismo fascista, non soltanto a un caso di contraffazione strumentale, a freddo, della ricerca storica: la contrapposizione Grecia-Roma, la svalutazione del primo di questi due poli, la ricerca di una tradizione romana univoca e ben distinguibile, che proseguirebbe addirittura fino ai moderni “italici”, il recupero all’idealità imperiale del personaggio Cicerone, la svalutazione della democrazia (volentieri relegata tra i disvalori tipici del mondo greco) ecc39.
In tale contesto appare quindi possibile che Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mettendo al centro della sua narrazione un incontro, che, pur con tutte le sue ambiguità, si configura comunque come una storia d’amore, abbia voluto proporre una nuova visione del classico, che tornasse a valorizzare l’individualità e i sentimenti personali, oltre al recupero della dimensione dell’intimità, così presente nella letteratura antica, sia greca che latina, che nel fascismo era stata trascurata, se non censurata.
Vi è, infine, un ulteriore significato di questo racconto da illustrare. Abbiamo già ricordato, ma del resto è implicito nell’immagine della sirena, come la natura di questa creatura sia duplice. Tale doppiezza può essere considerata su molti piani: la coesistenza di natura (la componente ferina) e cultura (quella umana), che rende così sfuggente la comprensione della sua personalità, la sensualità e l’orrore, l’amore e la morte. Possiamo anche però leggere la sirena come forma di espressione di un’identità meno rigidamente definita di quanto imponesse la cultura fascista. Non è un caso che non siano mancate interpretazioni in chiave psicanalitica di Lighea (considerando anche il fatto che Alessandra Wolff era psicanalista, ed è dunque probabile che queste tematiche fossero in qualche misura familiari a Tomasi di Lampedusa). Senza addentrarci troppo all’interno di queste letture, ci limitiamo a riportare un concetto illustrato da Andrea Vitello40 e da Basilio Reale41, concordi nell’individuare nella sirena del racconto l’archetipo junghiano dell’anima, intesa come la controparte femminile della personalità maschile, che emerge dal mare, cioè dall’inconscio.
Anche alla luce di questi studi, possiamo avanzare l’ipotesi che nell’unione del professore con Lighea possa scorgersi la volontà di riconciliare le componenti femminili e quelle maschili della psiche umana, che dal fascismo venivano innaturalmente scisse, propugnando il modello irraggiungibile di una virilità priva di sfumature. Proporre una memoria così intensa (e anche così esplicita nelle sue manifestazioni) durante un tale periodo, rigidissimo nella definizione dei canoni di genere, significa anche avere la forza di rivendicare la complessità della natura umana, accogliendone la diversità.
3. Curzio Malaparte: quando il soprannaturale diventa orrore
Prendiamo ora in esame una delle opere più celebri di Curzio Malaparte (1898-1957), La pelle42: essa ci interessa specialmente per il capitolo VII, Il pranzo del generale Cork.
Il romanzo, pubblicato nel 1949, e divenuto anche un film, nel 1981, diretto da Liliana Cavani, pur trattando la permanenza degli Alleati nella città di Napoli, con alcuni brevi accenni anche ad altre località, dal 1943 al 1945, non è un romanzo storico; il racconto è spesso volutamente distorto e allucinato, con ampie porzioni narrative dal taglio surreale. Luigi Martellini ricorda che Malaparte, nel suo Memoriale del 1946, affermava che lo scopo della sua scrittura non fosse l’obiettività, ma una vicenda romanzata in cui, a partire da episodi esatti, venivano inseriti motivi fantastici e immaginari (di frequente molto crudi e disturbanti) narrati da «un personnage qui s’apelle je», solo episodicamente sovrapponibile con l’autore43.
Il fil rouge che collega tutti gli episodi della Pelle è «la peste»44 che serpeggia tra i vicoli di Napoli, infettando progressivamente la popolazione; tale male non è fisico, ma morale, e spinge uomini e donne a svilirsi nei modi più abietti e a far emergere prepotentemente le componenti ferine della loro personalità. Secondo Malaparte, la peste cancella la dignità e il senso dell’onore e trasforma l’animo umano in una pura sete di sopravvivenza, inducendo le donne a prostituirsi, assecondando ogni perversione, e gli uomini a darsi «ai più ignobili commerci» (che comprendono anche la vendita delle proprie figlie, della moglie, o della madre). L’untore che avrebbe diffuso tale morbo, per Malaparte, andrebbe identificato proprio con gli americani: nonostante il loro ruolo anche salvifico, dato che dalla loro venuta, unita alla lotta partigiana, dipenderà la liberazione della Penisola, l’impatto sulla società napoletana (emblema, nel romanzo, della società europea) sarà devastante, tanto da determinare un’«apocalisse culturale»45 di cui solo Malaparte nel romanzo sembra avere coscienza:
L’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo deve e di questo può: nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può46.
L’apocalisse, la rivelazione cioè dell’inutilità, ormai, degli apporti di tutte le civiltà che, secolo dopo secolo, avevano contribuito a fondare l’Occidente per come era conosciuto fino a quel momento, è scatenata dal fatto che i Liberators, nonostante la loro «mano tesa fraternamente a quel popolo vinto»47, non possono provare vera comprensione per l’antica e complessa civiltà europea, non appartenendo al medesimo sostrato culturale. Si potrebbe obiettare che un forte elemento culturale comune gli americani e gli europei lo hanno, ed è il Cristianesimo; ma questo non viene ritenuto da Malaparte la sola radice profonda della civiltà occidentale, la quale è il frutto, invece, dell’inestricabile intrecciarsi delle varie epoche e culture, a partire dall’età classica. I riferimenti all’antichità sono numerosissimi e costellano tutto il romanzo; anche i soldati alleati con cui l’autore interloquisce spesso hanno una profonda conoscenza del mondo classico, ma si tratta di una conoscenza per forza di cose libresca; nonostante la passione per l’ambito di studio, non sarà mai possibile agli Alleati comprendere veramente il lascito concesso dalla tradizione antica all’Europa, e nello specifico a una realtà complessa e stratificata come quella di Napoli, in cui la presenza greca si sovrappone a quella latina e poi alla cristiana, sempre intrecciata quest’ultima con il folklore e la cultura popolare.
Il tema apocalittico è fortemente presente nel romanzo, a partire dai titoli evocativi di certi capitoli («La peste», «Il figlio di Adamo», «La pioggia di fuoco», «Il Dio morto»); diverse porzioni di testo, poi, lo sviluppano in maniera evidente, ad esempio nel paragrafo dedicato all’eruzione del Vesuvio del 1944:
Il cielo, a oriente, squarciato da un’immensa ferita, sanguinava, e il sangue tingeva di rosso il mare. Scossa da profondi sussulti, la terra tremava, le case oscillavano sulle fondamenta, e già si udivano i tonfi sordi dei tegoli e dei calcinacci che, staccandosi dai tetti e dai cornicioni delle terrazze, precipitavano sul lastrico delle strade, segni forieri di una universale rovina. Uno scricchiolio orrendo correva nell’aria, come d’ossa rotte, stritolate. E su quell’alto strepito, sui pianti, sugli urli di terrore del popolo, che correva qua e là brancolando per le vie come cieco, si alzava, squarciando il cielo, un terribile grido.
Il Vesuvio urlava nella notte, sputando sangue e fuoco. […]
Come sempre, la plebe attribuiva a quell’immane flagello un significato di punizione celeste, vedeva nell’ira del Vesuvio la collera della Vergine, dei Santi, degli Dei del cristiano Olimpo, corrucciati contro i peccati, la corruzione, i vizii degli uomini. E insieme col pentimento, con la dolorosa brama di espiare, con l’avida speranza di veder puniti i malvagi, con l’ingenua fiducia nella giustizia di una così crudele e ingiusta natura, insieme con la vergogna della propria miseria, di cui il popolo ha una triste consapevolezza, si svegliava nella plebe, come sempre, il vile sentimento dell’impunità, origine di tanti atti nefandi, e la miserabile persuasione che in così grande rovina, in così immenso tumulto, tutto sia lecito, e giusto48.
Ricorre spesso in Malaparte la parola «crudeltà», ed è un termine usato anche dai critici per discutere la sua poetica; anche nel passo che abbiamo visto l’autore parla di «una così crudele e ingiusta natura». È stata infatti criticata di Malaparte la volontà di insistere, nei suoi scritti, sugli aspetti più violenti o scabrosi con atteggiamento voyeuristico, quasi volesse appositamente risultare fastidioso o morboso49.
Va citata, a questo punto, una riflessione dello stesso autore sulla scrittura del letterato francese Jean Guéhenno apparsa sul «Corriere» il 26 gennaio 1935 e che noi leggiamo nel saggio di Franco Baldasso Curzio Malaparte: la letteratura crudele. «Kaputt», «La pelle» e la caduta della civiltà europea:
Si può dissentire sull’opportunità di certi accenti, e di certi punti di vista, dello scrittore, ma nessuno può mettere in dubbio la sua sincerità, il suo coraggio, perfino le ragioni profonde della sua crudeltà. Una crudeltà, si badi, nel significato che essa ha in letteratura, assai simile al significato che ha in amore. E chi stupisce di accenti così crudeli, grida allo scandalo, dimentica che il male è diffuso e profondo, e che merita una diagnosi spietata, tanto più dolorosa quanto più vera50.
È chiaro che tali giudizi risultano estremamente calzanti anche per lo stesso Malaparte e che quindi si possa dire che la sua crudeltà risponda a un’esigenza di veridicità e testimonianza (per questo La pelle viene considerata un’opera di autofiction51) anche degli aspetti più difficili del secondo conflitto mondiale, come gli effetti che esso ebbe sulla popolazione civile, al contempo vittima della guerra e capace di macchiarsi di terribili atrocità per la sopravvivenza. Per adempiere a questa istanza è funzionale servirsi di un tipo di narrazione soprannaturale o surreale52. Similmente a Tomasi di Lampedusa, questa strategia compositiva non rappresenta una volontà di fuga rispetto a una situazione opprimente, ma un mezzo per esprimere ciò che sarebbe indicibile tramite una narrazione di stampo non fantastico; il soprannaturale, in entrambi gli autori, non ci sembra affatto un rifugio, ma una strada da percorrere per poter marcare con forza, tramite la scrittura, gli aspetti più oscuri e problematici di una situazione contingente che, peraltro, in assenza di questo escamotage letterario, sarebbero sicuramente andati incontro a cogenti limitazioni o censure.
Uno degli esempi più chiari, nel romanzo malapartiano, di questo modo di procedere è costituito dal capitolo Il pranzo del generale Cork, incentrato su un ricevimento che Malaparte condivide con il generale Cork, appunto, Mrs. Flat, moglie di un senatore giunta in città per dirigere un ramo del WAC (Women’s Army Corps, una sezione dell’esercito americano), e altri generali statunitensi. L’evento centrale dell’episodio ruota attorno a una delle portate principali che viene messa in tavola: una «Sirena alla maionese con contorno di coralli». La ‘pietanza’ suscita immediatamente il raccapriccio dei presenti, in particolare di Mrs. Flat, anche perché, ad aumentare l’orrore, vi è il fatto che quella Sirena abbia l’aspetto di una bambina:
Una bambina, qualcosa che assomigliava a una bambina, era distesa sulla schiena in mezzo al vassoio, sopra un letto di foglie verdi di lattuga, entro una grande ghirlanda di rosei rami di corallo. Aveva gli occhi aperti, le labbra socchiuse: e mirava con uno sguardo di meraviglia il Trionfo di Venere dipinto nel soffitto da Luca Giordano. […] Poteva avere non più di otto o dieci anni, sebbene a prima vista, tanto era precoce, di forme già donnesche, ne paresse quindici. Qua e là strappata, o spappolata dalla cottura, specie sulle spalle o sui fianchi, la pelle lasciava intravedere per gli spacchi e le incrinature la carne tenera, dove argentea, dove dorata […]. Le braccia aveva corte, una specie di pinne terminanti a punta, in forma di mano senza dita. Un ciuffo di setole le spuntava al sommo del capo, che parevan capelli, e rade scendevano ai lati del piccolo viso, tutto raccolto, e come aggrumato, in una specie di smorfia simile a un sorriso, intorno alla bocca. I fianchi, lunghi e snelli, finivano, proprio come dice Ovidio, in piscem, in coda di pesce. Giaceva quella bambina nella sua bara d’argento […] ad occhi aperti. E mirava i tritoni di Luca Giordano soffiar nelle loro conche marine, e i delfini, attaccati al cocchio di Venere, galoppar sulle onde, e Venere nuda seduta sull’aureo cocchio, e il bianco e roseo corteo delle sue Ninfe, e Nettuno, col tridente in pugno, correr sul mare trainato dalla foga dei suoi bianchi cavalli, assetati ancora dell’innocente sangue di Ippolito. Mirava il Trionfo di Venere dipinto nel soffitto, quel turchino mare, quegli argentei pesci, quei verdi mostri marini, quelle bianche nuvole erranti in fondo all’orizzonte, e sorrideva estatica: era quello il suo mare, era quella la sua patria perduta, il paese dei suoi sogni, il felice regno delle Sirene53.
Ci troviamo di fronte a un evento totalmente spiazzante, in cui il soprannaturale ci si impone, proprio in senso letterale, «come un pugno sul tavolo»54, per usare la formula adottata da Francesco Orlando nel delineare le caratteristiche del soprannaturale di imposizione, in cui ci sentiamo di includere questo romanzo di Malaparte. Come suggerisce anche Diego Pellizzari nel suo articolo Malaparte scrittore neroniano. Nuovi banchetti e nuovi Trimalchioni, la chiave di lettura di questo episodio, e in generale dell’opera, è contenuta nella citazione dall’Agamennone di Eschilo posta in apertura del romanzo55: «Se si rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno». Gli americani non conoscono profondamente Napoli, che è «disprezzata moralmente ma culturalmente vagheggiata»56 – abbondano infatti le disquisizioni di Mrs. Flat sul Rinascimento e sull’arte italiana –, e non si rendono conto che Napoli, l’Italia e l’Europa siano state anche scenari di enorme sofferenza e disperazione determinati dall’imporsi delle dittature fino al conflitto: «Poi [il generale Cork] mi domandava cosa fosse uno Stato totalitario. Io rispondevo: “È uno stato dove tutto ciò che non è proibito, è obbligatorio”. E tutti mi guardavano meravigliati esclamando: “Funny!”»57.
Pellizzari legge l’intero episodio come ispirato al celebre estratto dal Satyricon di Petronio della Cena Trimalchionis: individua infatti nell’opera latina alcuni elementi portanti, per esempio la megalomania dei protagonisti, l’insistenza sullo sfarzo delle suppellettili e dell’arredamento, i discorsi continui e vari, la comicità bassa, che fa leva soprattutto sui temi del sesso, del cibo e del denaro, l’uso complesso dell’ironia, che agisce sia a livello dei personaggi sia a un livello superiore, l’ostentazione della cultura, elementi tutti ritrovati dallo studioso anche nella Pelle58. L’accostamento con il Satyricon però, oltre alle somiglianze che lo studioso ha rilevato nell’episodio della Cena, potrebbe acquisire anche un altro significato: quest’opera letteraria infatti, benché arrivataci in condizioni molto parziali e frammentarie, offre una visione estremamente diversa, ma complementare, del concetto di classicità quale la intendono gli Alleati, dato che dà spazio agli aspetti del mondo antico anche più grotteschi e disturbanti. I Liberators sbagliano a considerare l’antichità solamente una ætas aurea di perfezione e armonia; all’inizio del romanzo il colonnello Jack Hamilton dice a Malaparte che «alle cupe, funeree, misteriose immagini della Grecia arcaica, o, com’egli diceva, gotica, egli preferiva le liete, armoniche, chiare immagini della Grecia ellenistica»59. Anche se il colonnello parlava della civiltà greca, e non di quella romana, è chiaro che gli americani hanno questa immagine della classicità nel suo complesso, che invece tornerà proprio nella sua veste più angosciante e tormentosa. In questa prospettiva potremmo dunque leggere il capitolo del Pranzo del generale Cork, nel quale la figura della sirena viene rievocata in una forma particolarmente perturbante, non solo perché presentata cotta, e quindi con le fattezze, che nell’immaginario comune sono presupposte avvenenti e ammalianti, completamente stravolte, ma anche perché in prima istanza essa viene definita una bambina (l’accostamento con la sirena è più che altro suggerito da Malaparte, ma non avvertito dagli americani); il raccapriccio, che viene provato sia dagli ospiti a tavola, sia da noi lettori, forse mira anche a indicarci un legame con la sirena nella sua rappresentazione più vicina alla tradizione ellenistica. Infatti le sirene, per come venivano rappresentate nel mondo greco, non erano né belle né sensuali, e malgrado ciò esercitavano un’attrazione insopprimibile in chi ascoltava il loro canto; allo stesso modo, nonostante l’aspetto respingente con cui viene raffigurata la sirena in Malaparte, risulta inevitabile provare per lei una forma di incanto; con il suo ritorno, sconcertante, si è costretti a prendere atto che la classicità non è costituita solo da «liete, armoniche, chiare immagini», ma altresì da elementi fortemente irrazionalistici, mistici, crudi che si compenetrano con la visione apollinea del mondo antico più consueta. Al contempo, però, viene da chiedersi, e le due letture magari possono coesistere, se non sia l’irruzione dei Liberators a corrompere la bellezza passata del mondo antico60, che era viva a Napoli (pur convivendo, lo abbiamo ricordato, con elementi culturali appartenenti alla tradizione cristiana e folkloristica), dal momento che è stato l’arrivo degli Alleati, nella visione di Malaparte, a gettare la città in un caos ‘dionisiaco’, senza che esso possa però più riequilibrarsi o ricomporsi.
La Sirena nel racconto di Tomasi di Lampedusa riappariva sulla terra, bellissima e vitale, al sorgere di un nuovo mondo, come monito di quello che l’umanità stava rischiando di perdere per sempre, uscendo dalle pareti del soffitto dei Salina nel Gattopardo61 per abitare la realtà in Lighea.
La Sirena malapartiana, senza più neanche un nome, e quindi ancora più universalizzata, appare nel bel mezzo dell’apocalisse a consacrare la fine di un mondo che non ha più possibilità di redenzione e chiude simbolicamente il cerchio guardando il soffitto con l’affresco degli dèi olimpii, che la richiamano a sé.
Il parallelismo evidenziato tra le due sezioni descrittive dei soffitti raffiguranti le divinità apre la possibilità che Tomasi di Lampedusa abbia potuto subire il fascino di questi passaggi del romanzo malapartiano nella stesura del breve brano, citato in nota, del Gattopardo e forse anche nella costruzione della sua sirena62. La pelle non compare nello schedario dei volumi posseduti dallo scrittore siciliano, ma è indubbio che egli conoscesse Malaparte, in quanto, in una lettera a sua moglie del 15 ottobre 1942, ne raccomanda la lettura; pertanto, l’ipotesi di un’influenza di questo autore su Tomasi di Lampedusa non appare infondata63.
Nel Pranzo del generale Cork la vicenda dell’essere mitologico, ucciso e portato in tavola, porta l’evento soprannaturale all’apice del grottesco: Mrs. Flat, inorridita, si rifiuta di consumare «la carne umana» (negando quindi un possibile valore ittico alla creatura) e pretende che venga chiamato un cappellano per offrire alla sirena una sepoltura degna, impietosendosi per lei, ma non mostrando certo la stessa compassione né per la miseria del popolo né per tutti quegli uomini morti insepolti nel corso del conflitto64. La sepoltura della Sirena che poi davvero si verifica, rappresenta anche un affossamento definitivo della cultura precedente.
Del resto, neanche noi lettori riusciamo a capire cosa sia quella ‘Sirena’ e in questo il narratore Malaparte gioca un ruolo fondamentale; anche se sappiamo, dalla lettura complessiva del romanzo, quali siano i motivi di fondo che percorrono l’opera (la perdita di tutti i valori di riferimento di una società e le sue conseguenze catastrofiche, l’abbrutimento della popolazione conseguente al conflitto), Malaparte asseconda le chiacchiere degli americani, incita il gruppo a consumare la pietanza, per creare volutamente il caos e l’incomprensione generale dell’episodio; si abbassa quindi al livello di conversazione degli Alleati, con ironia amara e mordace, che lo scrittore stesso trova dolorosa pur nella sua necessità (nel romanzo troviamo ad esempio espressioni come «mi faceva male ridere così»). L’intento è quello di marcare il fatto che si siano persi gli strumenti culturali per riconoscere la sacralità di qualcosa dopo il processo di desacralizzazione generale avvenuto durante il conflitto, e come anche per noi, che leggiamo tali passaggi, il processo di risalita e recupero di questi valori perduti sia faticoso e pieno di ambiguità.
L’apocalisse della Pelle di Malaparte non è funzionale a dischiudere le porte di un altro mondo, quello vero se lo intendiamo in senso cristiano; non c’è un altro regno che rinfranchi gli uomini dal dolore e dalla sofferenza indicibile che hanno subito. Eppure, anche in un romanzo così disperato, crediamo si riaffermi a un certo punto la carica rigenerativa della vita. Dopo l’eruzione del Vesuvio, infatti, l’umanità, lentamente, ricomincia, risorta e purificata, come se la distruzione più totale si fosse rivelata l’unica arma per mondare il genere umano, ripartendo dalle radici:
Una ragazza, in piedi sulla riva sabbiosa, là dove l’erba verde moriva nelle onde, si pettinava guardando il mare. Guardava il mare come una donna si mira in uno specchio. Da quell’erba nuova, appena creata, ella nuova alla vita, ella appena nata, si mirava nell’antico specchio della creazione con un sorriso di felice stupore, e il riflesso del mare antico tingeva di un verde stanco i suoi lunghi, morbidi capelli, la sua pelle liscia e bianca, le sue mani piccole e forti. Si pettinava lentamente, e il suo gesto era già d’amore65.
In questa giovane donna vogliamo leggere una forma di ritorno ulteriore della Sirena (soprattutto se pensiamo che il pettinarsi i capelli sulla riva del mare è uno dei gesti tipici della sua iconografia), anche lei cambiata, anche lei trasformata e finalmente in piedi, finalmente umanizzata, a dimostrazione di una rinnovata fiducia nella pienezza e nella capacità rifondativa dell’essere umano66.
Conclusioni
Nel confronto tra Tomasi di Lampedusa e Curzio Malaparte abbiamo voluto percorrere una doppia via. In primo luogo, dimostrare come il recupero della sirena, figura che pur avendo ereditato dall’antichità delle caratteristiche definite e forse un po’ statiche, nella reinterpretazione dei due autori si riveli in grado di dare origine a tipi di testi soprannaturali ben distinti tra loro. La differenza tra i due scritti dipende, ovviamente, dalle diverse letture che gli autori danno a questa creatura dell’antichità valorizzando (o esasperando) alcune sue caratteristiche e modificandone altre secondo la propria sensibilità e poetica, ma si spiega ulteriormente anche con l’appartenenza di queste opere a statuti letterari diversi: abbiamo visto infatti come per Tomasi di Lampedusa vi possa essere oscillazione tra il soprannaturale di trasposizione e quello di imposizione (ma con una predominanza di elementi a favore del soprannaturale di trasposizione), mentre per La pelle di Malaparte ci pare sia preferibile optare per la collocazione del testo all’interno del soprannaturale di imposizione. Va tuttavia precisato che difficilmente un’opera letteraria potrà del tutto adattarsi a una categorizzazione formale che, per quanto assai fondata dal punto di vista critico, di necessità comporta semplificazioni. Se ci riferiamo alla sezione del romanzo di Malaparte dedicata alla sirena si può notare, ad esempio, come l’autore carichi l’episodio di forte ironia (certo dolorosa e spietata), strategia narrativa considerata da Orlando «figura preferenziale» del soprannaturale di indulgenza, in cui «il giudizio sullo statuto ontologico, la questione cioè se il soprannaturale sia vero o no, è sospeso da una tendenza edonistica a conservare al soprannaturale uno statuto abbastanza fittizio da poterne consapevolmente godere»67; dunque anche tale ulteriore tipologia di soprannaturale potrebbe contribuire a una corretta lettura di questo significativo estratto del romanzo. Infatti, l’intero episodio viene lasciato nell’indistinto, non viene chiarita la natura dell’essere portato in tavola e sicuramente l’allusione (ironica, dunque ambigua anch’essa) al fatto che esso potrebbe essere una divinità concorre a caricare il capitolo di suggestioni innumerevoli; il brano è inoltre permeato da risate e battute, degli americani e di Malaparte stesso: tuttavia, non sono risate che invitano alla gaiezza. Questo è a nostro avviso l’aspetto che impedisce una chiara vicinanza a ciò che Orlando ha indicato come soprannaturale di indulgenza, statuto definito da lui stesso «delizioso»: non si riesce a rintracciare la giocosità lieta che lo dovrebbe caratterizzare. Tenendo conto dunque delle peculiarità del testo, e della condizione fortemente e volutamente ambigua di questo episodio in particolare, avanziamo l’ipotesi di mantenere come statuto di riferimento quello dell’imposizione, avendo ben presente che nessuna opera, in questo caso connessa alla letteratura dell’immaginario, può essere impermeabile alle suggestioni narrative appartenenti, in linea teorica, a categorie del soprannaturale differenti, e che dunque tale proposta di collocazione vuole dare ragione solo di alcuni aspetti rilevanti che abbiamo riscontrato nel testo, ma non li esaurisce di certo.
A questa distinzione formale che abbiamo operato tra le opere dei nostri due autori corrispondono differenti esiti narrativi: rispetto a Tomasi di Lampedusa, il racconto di Malaparte ha un sovrappiù di ferocia e diventa sempre più perturbante. Nel soprannaturale di imposizione, infatti, non abbiamo alcun punto di riferimento: a differenza del soprannaturale di trasposizione, il cui il rimando allegorico è in qualche modo individuabile, nel caso di Malaparte l’evento soprannaturale, spesso fortemente disturbante, ci viene, appunto, imposto senza che ci sia una spiegazione, una linea-guida o una chiave di lettura evidente che possa indirizzarci, e di conseguenza il nostro sconcerto resta aperto e irrisolto fino alla fine.
In secondo luogo, i testi che abbiamo considerato delineano un percorso storico che ripercorre una fase cruciale del Novecento: da Lighea, ambientato nel 1938, periodo chiave per l’evoluzione del fascismo, si giunge alla Pelle, ambientato tra il 1943 e il 1945, cioè in anni di svolta per lo sviluppo del secondo conflitto mondiale e la sua conclusione. Tramite questa parabola si può constatare come nelle narrazioni fantastiche, specialmente quelle novecentesche, possa riverberarsi il contesto in cui sono calate, consentendo l’emersione di elementi problematici la cui esposizione non sarebbe ammessa in una scrittura realistica. Non risulta quasi mai vero, quindi, che il fantastico voglia essere soltanto una forma di evasione o di rifugio per non pensare o non parlare della realtà disagevole vissuta dall’autore o dalla collettività, come spesso si tende ad affermare; esso si dimostra, in questi casi, piuttosto un mezzo per affrontare, denunciare e provare a dare un senso agli eventi della Storia.
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D. Pellizzari, L’esilio e il ritorno degli dèi pagani nei racconti dell’Ottocento, Pisa, Pacini, 2017, pp. 48-55. ↑
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Secondo l’analisi di Pellizzari, infatti, il paganesimo venne rimosso dalla sfera culturale pubblica e privata con interventi, anche forzati, a partire da un processo che, con lo sviluppo e poi con la diffusione del cristianesimo, era già naturalmente in atto. Durante la lunghissima fase storica in cui la nuova religione regnò incontrastata, i culti pagani rimasero sommersi e sostanzialmente ai margini rispetto alle nuove tendenze culturali, o si mescolarono e trasformarono completamente riassorbendosi nel nuovo culto. Per quanto concerne la produzione letteraria, la mitologia e la relazione con l’antico furono elementi frequentemente presenti in ogni fase storica, ma l’accento non venne mai posto sulla questione della loro decadenza e rimozione. Fu il forte impatto dell’Illuminismo che, sottraendo autorità alla religione cristiana, permise un’autentica riscoperta del paganesimo, come emblema di una grande civiltà scomparsa a causa dell’oppressione della nuova religione. Nell’Ottocento il tema del ritorno degli dèi pagani si sviluppò pienamente, generando il filone letterario di cui Pellizzari si è occupato nell’opera considerata (ivi, pp. 11-48). ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, La Sirena, in Id., Opere, a cura di G. Lanza Tomasi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 400-432. ↑
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Ivi, p. 425. ↑
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Costituito dal Gattopardo, redatto tra il 1956 e il 1957, dal memoriale autobiografico I luoghi della mia prima infanzia, scritto nell’estate del 1955, dai due racconti La gioia e la legge e La Sirena, composti rispettivamente alla fine del 1956 e nell’inverno del 1957, e infine da un abbozzo per un secondo romanzo, rimasto incompiuto, che ha come titolo I gattini ciechi, risalente all’inverno-primavera del 1957. ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, Letteratura inglese, in Opere, cit., pp. 594-595. ↑
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Id., La Sirena, cit., p. 401. ↑
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Ivi, p. 405. ↑
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Ivi. p. 413. ↑
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Lighea era anche il titolo alternativo che Tomasi aveva pensato per il suo racconto; negli studi critici in merito, le due denominazioni per indicare il testo coesistono indifferentemente e a questa tendenza anche noi ci siamo adattati. ↑
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Ivi, p. 427. ↑
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T. Todorov, La letteratura fantastica [1970], trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1991. ↑
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Ivi, p. 45. ↑
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A sostenere, invece, la totale appartenenza del racconto allo statuto di fantastico-meraviglioso è M.G. Di Paolo, For a New Reading of Lampedusa’s Lighea, in «Merveilles & contes», VII, 1, 1993, pp. 113-132. ↑
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L’opera di Penzoldt a cui fa riferimento Todorov è The supernatural in fiction. Leggiamo la citazione che abbiamo inserito in T. Todorov, La letteratura fantastica, cit., p. 90. ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, La Sirena, cit., p. 423. ↑
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T. Todorov, La letteratura fantastica, cit., p. 175. ↑
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F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, a cura di S. Brugnolo, L. Pellegrini, V. Sturli, Torino, Einaudi, 2017. ↑
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Tutte le fasi evolutive del soprannaturale letterario sono descritte nei loro aspetti formali all’interno del saggio (ivi, pp. 87-119). ↑
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Ivi, pp. 19-22. ↑
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Ivi, p. 119. ↑
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Ivi, p. 118. ↑
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Ivi, pp. 112, 114, 154. ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, La Sirena, cit., p. 422. ↑
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A. Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio, 1987, pp. 305-306. ↑
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A. Molesini, La voce indivisa. Osservazioni su Lighea, in Aa. Vv., Indagini otto-novecentesche. Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, pp. 309-315. ↑
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M. Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Palumbo, 1995, p. 156. ↑
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F. Linari, La narrativa dal dopoguerra agli anni Settanta. Tra Ulisse e Orfeo, in Aa. Vv., Il mito nella letteratura italiana, a cura di P. Gibellini, M. Cantelmo, Brescia, Morcelliana, 2007, vol. IV, pp. 468-471. ↑
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È la stessa teoria che avanza anche M.G. Di Paolo, For a New Reading of Lampedusa’s Lighea, cit. ↑
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Cfr. F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1973. ↑
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N. Zago, Tomasi, Giuseppe, duca di Palma, principe di Lampedusa, in Dizionario biografico degli italiani, XCVI, 2019, URL <https://www.treccani.it/enciclopedia/tomasi-giuseppe-duca-di-palma-principe-di-lampedusa_(dizionario-biografico)>, consultato il 6 febbraio 2024. ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, Ah, Mussolini! Lettere a Massimo Erede, a cura di G. Lanza Tomasi, Busto Arsizio, De Piante, 2019. ↑
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Cfr. G. Lanza Tomasi, Postfazione, in G. Tomasi di Lampedusa, Ah, Mussolini! Lettere a Massimo Erede, cit., p. 27 e Id., Introduzione, in G. Tomasi di Lampedusa, Opere, cit., pp. XIX-XXXI. ↑
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F. Vitali, “Un po’ di convenzionale ruggine antisemita…”. Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la questione ebraica, in «Italienisch», LXVII, 2012, pp. 47-70. ↑
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Ivi, p. 54. ↑
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G. Tomasi di Lampedusa, La Sirena, cit., pp. 402-404. ↑
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L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino, Einaudi, 1980, pp. 76-92. ↑
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Ivi, pp. 81-82. ↑
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Ivi, p. 83. ↑
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A. Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, cit., pp. 417-429. ↑
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B. Reale, Sirene siciliane: l’anima esiliata in «Lighea» di Tomasi di Lampedusa, Palermo, Sellerio, 1986. ↑
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C. Malaparte, La pelle, a cura di C. Guagni e G. Pinotti, Milano, Adelphi, 2010. ↑
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L. Martellini, Introduzione, in C. Malaparte, Opere scelte, a cura di L. Martellini, Milano, Mondadori, 1997, p. LXIII. ↑
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Il titolo originale dell’opera doveva essere, infatti, proprio La peste, ma non fu possibile per Malaparte adottarlo, poiché anticipato da Albert Camus, che, nel 1947, due anni prima dell’uscita del romanzo dello scrittore pratese, aveva già pubblicato il suo romanzo con quel titolo. ↑
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E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre, M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2019. ↑
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Ivi, p. 70. ↑
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C. Malaparte, La pelle, cit., p. 40. ↑
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Ivi, pp. 259-263. ↑
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Tra i detrattori dello scrittore pratese, Franco Baldasso, ad esempio, ricorda Giulio Ferroni, che nella sua Storia della letteratura italiana, afferma che «le […] numerose opere [di Malaparte] rivelano di continuo frenetiche intenzioni provocatorie, con soluzioni difficilmente superabili di volgarità e cattivo gusto» (F. Baldasso, Curzio Malaparte: la letteratura crudele. «Kaputt», «La pelle» e la caduta della civiltà europea, Roma, Carocci, 2019, p. 9n), oppure lo studioso Raffaele Liucci, sostenitore del fatto che Malaparte rifiutasse di considerare una distanza morale tra vittime e oppressori, senza, però, dimostrarlo con precisi riscontri testuali (ivi, p. 10). ↑
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Ivi p. 26. ↑
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Ivi, p. 9. ↑
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Ivi, pp. 27-28 e p. 34. ↑
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C. Malaparte, La pelle, cit., pp. 221-222. ↑
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F. Orlando, Il soprannaturale letterario, cit., p. 80. ↑
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D. Pellizzari, Malaparte scrittore neroniano. Nuovi banchetti e nuovi Trimalchioni, in Aa. Vv., Curzio Malaparte e la ricerca dell’identità europea, a cura di B. Baglivo, B. Manetti, E. Battiato, B. Meazzi, Chambéry, Université Savoie Mont Blanc, 2020, p. 301. ↑
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Ivi, p. 302. ↑
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C. Malaparte, La pelle, cit., p. 2018. ↑
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D. Pellizzari, Malaparte scrittore neroniano. Nuovi Banchetti e nuovi Trimalchioni, cit., pp. 286-292 e 301-306. ↑
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C. Malaparte, La pelle, cit., p. 24. ↑
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Cfr. D. Pellizzari, Malaparte classicista: sette modi di appropriarsi dell’antico, in Curzio Malaparte e la cultura europea. Cartografia dei palinsesti letterari, a cura di M.P. de Paulis, Firenze, Franco Cesati, 2022, pp. 75-77. ↑
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«Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro del Gattopardo» (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Opere, cit., pp. 19-20). ↑
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Le due descrizioni dei soffitti ci paiono infatti piuttosto somiglianti, anche se va precisato che era una consuetudine, soprattutto della letteratura ottocentesca, il presentare descrizioni accurate di affreschi o dipinti con protagoniste le divinità classiche; esse sono principalmente funzionali a marcare una distanza dal presente «scavando un solco incolmabile, che rende la mitologia stessa solo un residuo, la testimonianza d’un tempo, d’un mondo che non è (né può essere) più» (F. Danelon, La narrativa dell’Ottocento-La caduta degli dèi, in Il mito nella letteratura italiana. Dal Neoclassicismo al Decadentismo, a cura di R. Bertazzoli, P. Gibellini, Brescia, Morcelliana, 2003, vol. III, p. 406) . Tale senso in parte viene mantenuto sia da Tomasi di Lampedusa sia da Curzio Malaparte, anche se entrambi ad esso integrano uno sguardo amaramente ironico, nello scrittore pratese più tragico ancora, per le ragioni che abbiamo segnalato. ↑
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È stato possibile raccogliere questi dati grazie a una comunicazione privata del professor Fabien Vitali (Università di Monaco di Baviera), che ringraziamo. ↑
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D. Pellizzari, Malaparte scrittore neroniano. Nuovi Banchetti e nuovi Trimalchioni, cit., pp. 308-309. ↑
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C. Malaparte, La pelle, cit., p. 272. ↑
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Quest’ultima scena del romanzo che abbiamo segnalato sembra richiamare fortemente la sezione dello Ulysses di Joyce dedicata a Gerty McDowell (capitolo XIII). La somiglianza delle due donne sulla riva del mare è data innanzitutto da alcuni particolari fisici; Gerty infatti «che se ne stava seduta vicino alle compagne, persa in meditazioni, con lo sguardo fisso in lontananza, era in assoluta verità il più bell’esemplare di giovane bellezza irlandese che si potesse desiderar di vedere […]. Il pallore cereo del viso era quasi spirituale nella sua eburnea purezza anche se la bocca a bocciolo di rosa era un autentico arco di Cupido, greca nella sua perfezione, Le mani erano di un alabastro delicatamente venato con dita affusolate e bianche […]. Ma il massimo motivo di gloria per Gerty era la dovizia dei mirabili capelli. Castano scuro con onde naturali» (J. Joyce, Ulisse, trad. it. di M. Biondi, Milano, La nave di Teseo, 2020, pp. 520-521). È possibile che Malaparte si sia ispirato a questa celebre figura della narrativa joyciana per la donna evocata nella Pelle, anche e soprattutto per la forte valenza epifanica che investe il personaggio di Gerty, di cui anche al ragazza del romanzo malapartiano è portatrice, non a un livello personale come nell’Ulysses, ma collettivo per tutta la città di Napoli; la questione comunque sarebbe meritevole di un ulteriore approfondimento. ↑
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F. Orlando, Il soprannaturale letterario, cit., p. 94. ↑