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Cronaca di una scomparsa annunciata. L’autore e la sua morte: prima e dopo Roland Barthes

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1. Limiti e vantaggi dell’approccio biografistico: l’esempio di Francesco Orlando

Con L’intimità e la storia (1998), Francesco Orlando – studioso e affezionato allievo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa – fornì una preziosa prova di close-reading del Gattopardo, un’opera a quell’altezza cronologica tanto letta ma probabilmente ancora molto poco compresa, come dimostrano i pregiudizi che Orlando provò a smentire. La sua dichiarazione, in apertura del saggio, è fortemente emblematica di quanto sarà esposto nelle seguenti pagine, giacché Orlando esordisce facendo notare ai suoi lettori quanto l’opera sia – anzitutto – il prodotto di un uomo ora poco più che sessantenne, ma che intorno ai vent’anni ha frequentato assiduamente Tomasi di Lampedusa, noto per le singolari lezioni di letteratura francese e inglese tenute nel giardino della sua casa palermitana.
In un contesto del genere appare alquanto complesso per l’autore scrivere del Gattopardo senza la spontanea interferenza del ricordo personale che lo legava a Tomasi di Lampedusa, eppure il suo obiettivo è schierarsi dalla “parte di Proust”, lasciandosi alle spalle le memorie fanciullesche dei tempi trascorsi nella dimora del celebre maestro, in favore di un’analisi del romanzo che potesse apparire quanto più oggettiva possibile:

Lampedusa era un ammiratore troppo convinto del metodo di Sainte-Beuve per non persistere nel dar ragione a lui. […] La mia identità professionale matura mi ha situato invece risolutamente dalla parte di quest’ultimo. Munito della sua rigorosa distinzione, avevo dato a suo tempo il mio contributo biografico senza perciò arrogarmi nessun compito d’interprete o giudice dell’opera. Sempre grazie a quella distinzione, posso adesso accingermi a un simile compito senza illudermi che la passata conoscenza dell’uomo mi conferisca un privilegio – e neppure temere che mi si muti in un ostacolo. C’è del paradosso in tutto questo. Ieri da ex discepolo che rendeva testimonianza sul maestro, oggi da studioso che presume autonoma l’opera da analizzare, il rispetto dei confini fra persona e testo fa tutt’uno per me col rispetto del testo, e dopo tutto anche della persona1.

Tomasi, nonostante vedesse in Orlando probabilmente l’allievo prediletto, non avrebbe mai concordato con un simile approccio, giacché in più di un’occasione ha dichiarato di volersi schierare idealmente con Sainte-Beuve nella celebre disputa tra Proust e Sainte-Beuve, sulla quale si tornerà a breve nelle pagine a seguire. Basti qui, a mo’ di introduzione e di esempio, tener conto di quanto ancora negli anni Novanta – ma in realtà anche al giorno d’oggi – l’annosa questione della presenza autoriale fosse tutt’altro che seppellita o latente.

2. Il clima culturale: influenze e idee condivise

Nel ’66, anno del noto convegno sullo strutturalismo a Baltimora2, Roland Barthes diede alle stampe Critique et vérité, una breve opera nata in replica ad un pamphlet del critico accademico Raymond Picard risalente all’anno precedente. Attraverso Nouvelle critique ou nouvelle imposture, Picard, influente esperto di Racine, rimproverò a Barthes di aver condotto un’analisi totalmente erronea nel suo volume Sur Racine (1963), intavolando una critica non necessariamente ad personam, ma rivolta a tutti coloro che perseguivano studi strutturalisti, i cosiddetti “nuovi critici o nuovi impostori”, etichetta che vi affibbiò lo stesso Picard.
Secondo Giovanni Bottiroli le aspre polemiche che Critique et vérité suscitò provenivano soprattutto da «un mondo universitario incapace di comprendere la rivoluzione metodologica dello strutturalismo»3; nel suo breve saggio, infatti, Barthes tentò di lavorare sull’opera di Racine mettendo in luce il fervido interesse per le strutture e le relazioni interne che costituiscono un testo letterario, dunque ponendo solo in secondo piano la biografia dell’autore, questione che – al contrario – stava molto a cuore a Picard, il quale sperava che la vecchia critica, nonostante i fortunati avanzamenti dei nuovi intellettuali francesi, continuasse a indagare in maniera pedissequa l’esperienza biografica di un dato autore al fine di dedurne informazioni fondamentali per la comprensione dell’opera stessa.
Critique et vérité4 è stato solo il primo porto d’approdo di una riflessione molto ampia che l’anno seguente è confluita ne La mort de l’auteur5, saggio dal carattere quasi perentorio che ha conferito una vera e propria svolta agli studi sull’autorialità condotti prima d’allora.
Proclamare la scomparsa dell’autore dall’orizzonte ermeneutico e, con essa la definitiva affermazione accademica di molti dei nuovi intellettuali strutturalisti che fino a quel momento avevano avuto carriere per certi versi abbastanza precarie, ha segnato un punto di non ritorno all’interno di una questione assolutamente controversa che affonda le proprie radici in un’epoca alquanto remota.
Ripercorrere le tappe fondamentali di questo dibattito servirà ad inquadrare correttamente il peso della proclamazione barthesiana del ’67. D’altronde se è vero che La morte dell’autore divenne il manifesto ufficiale di una tendenza già ampiamente percepita nel clima culturale dell’epoca, è anche vero che probabilmente esso rappresenta solo il culmine, la “punta dell’iceberg”, se non altro perché il Novecento letterario si apre proprio all’insegna della celebre disputa tra Marcel Proust e Augustin de Sainte-Beuve; i due in breve tempo diedero vita a un’accesa polemica il cui oggetto della contesa ideologica risultava essere proprio la nuova rilevanza da conferire alla questione biografica.
Sainte-Beuve, giornalista e critico militante tra i più noti del tempo, sulla scorta della sensibilità romantica ottocentesca, difendeva strenuamente «la progressiva identificazione del critico con l’autore, attraverso l’acquisizione della propria “realtà individuale” inscritta nei tratti salienti della propria opera. Alla fine, l’obiettivo era quello di ottenere un ritratto vivo dell’uomo e non soltanto dell’artista, in modo da cogliere le sue caratteristiche spirituali, confrontabili con quelle di altri scrittori»6.
Non è complesso spiegarsi per quale ragione Sainte-Beuve la pensasse così, in fin dei conti si tratta di uno studioso pienamente immerso nell’epoca del Romanticismo e dell’Idealismo. Il Romanticismo, in particolare, ha indubbiamente incentivato tale retaggio della cultura comune: poeti del calibro di William Wordsworth o Samuel T. Coleridge avvertivano la poesia come lo spontaneo fluire di sentimenti dell’io lirico. L’artista/critico romantico ha, infatti, la possibilità di sviluppare una percezione relativa al valore di un’opera attraverso l’immedesimazione nello spirito stesso dell’autore di cui sta giudicando la produzione, proprio perché la sensibilità romantica immaginava l’opera come diretta emanazione dell’io. In tale controversia Proust, dal canto suo, nell’incompiuto Contre Sainte-Beuve sostiene l’opposto, ovvero che l’autorialità che emerge da un’opera letteraria è sempre diversa da quanto il critico possa desumere dalla vita dello “scrittore-uomo”.
Sainte-Beuve e Proust hanno, per certi versi, contribuito ad anticipare ciò che è avvenuto un cinquantennio dopo tra Barthes e Picard. È chiaro non si tratti della medesima dinamica poiché, come precisa Carla Benedetti, «quando Proust scriveva che “un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi”, non si riferiva semplicemente a un’istanza intratestuale, opposta a una extratestuale»7, giacché l’obiettivo era comunque quello di mettere in risalto la possibilità di coesistenza di due sollecitazioni differenti: l’io profondo e l’io mondano di un dato artista.
Anche sul fronte angloamericano le tesi sull’autorialità furono enormemente problematizzate, in particolare con l’avvento del New Criticism, una corrente di pensiero non molto dissimile dal formalismo russo, che annoverò tra i suoi esponenti di maggior spicco William K. Wimsatt e Monroe Beardsley; questi ultimi in The Intentional Fallacy (1946) teorizzarono il concetto di affective fallacy secondo cui, molto spesso, il lettore nel giudicare un’opera potrebbe farsi involontariamente influenzare dalle proprie emozioni e impressioni, tentazione che andrebbe scongiurata in virtù di una critica quanto più oggettiva e neutrale possibile.
Prima di giungere a Barthes e a quanti hanno abbracciato pienamente il suo punto di vista, è bene tener presente che alcuni teorici hanno avanzato soluzioni intermedie, immaginando concetti narratologici che, ad oggi, hanno acquisito notevole fortuna quali quello di “autore implicito”, formula coniata da Wayne Booth in The Rhetoric of Fiction (1961). Booth prova a immaginare l’esistenza di una funzione unificante interna al testo stesso che medi tra lo scrittore-uomo e lo scrittore-autore dell’opera; in altre parole, il lettore nel momento in cui si avvicina a una lettura, desumerà da essa una certa immagine dell’autore, che tuttavia non aderisce perfettamente all’autore anagrafico e che, dunque, non consente di puntare alla ricostruzione di un vero e proprio paradigma indiziario utile alla scoperta dei significati nascosti nell’opera stessa.
Secondo Paola Pugliatti va attribuito a Booth il merito di aver recuperato «“la presenza” come elemento essenziale e come tratto ineliminabile dell’arte narrativa»8 proprio in decenni in cui in molti gridavano a gran voce il dileguo dell’autore. Tra l’altro “l’autore implicito” tornerà più volte come formulazione nel corso degli studi narratologici della seconda metà del Novecento, lo stesso Seymour Chatman, ad esempio, in Story and Discourse (1978), equiparando il testo narrativo a un circuito comunicativo, perfezionerà il concetto assicurandogli una salda notorietà nei decenni a seguire.
Nel pieno degli anni Sessanta, invece, nozioni simili furono in parte oscurate, in quanto le teorizzazioni sul biografismo arrivarono a conquistare posizioni estreme, gravitando intorno a La mort de l’auteur di Barthes, esponente di rilievo della “Nouvelle critique”, espressione coniata spregiativamente da Picard in occasione della disputa a cui si è fatto cenno nelle righe precedenti.
Nella cosiddetta “età d’oro della critica letteraria”, coloro che afferivano alla Nouvelle critique non costituirono mai una scuola unitaria tant’è che, seppur accomunati dall’idea di rivendicare l’autonomia del testo letterario in sé, intrapresero anche sentieri molto diversificati tra loro; tuttavia, sebbene quel che si respirava nella Francia del tempo fosse un clima profondamente intriso di teoresi è pur sempre vero che – come fa notare Zanotti – in quegli stessi anni si concluse l’era dell’intellettuale engagé alla Sarte:

Finisce con Sartre, più che l’intellettuale, il grande scrittore, l’intellettuale totale che dice la sua su tutto e scrive non solo libri di filosofia ma anche romanzi, pièces teatrali, ecc. La figura dell’intellettuale prosegue però ricalibrando il suo ambito: gli anni del declino di Sartre vedono la sostituzione dell’intellettuale totale con gli “intellettuali specifici” prodotti dallo sviluppo delle scienze sociali. Curiosamente, anche i nuovi intellettuali si vogliono scrittori, ma non allo stesso modo di Sartre. Soprattutto non vogliono scrivere romanzi9.

Dunque, gli anni Sessanta in Francia sono anni in cui lo sviluppo e la specializzazione delle scienze sociali hanno dato vita a ciò che uno scrittore postmoderno come Laurent Binet ha definito con tono ironico «il discorso sul discorso. Il discorso a margine»10, lo stesso che ha monopolizzato anche l’ascesa di case editrici che – forse per la prima volta in assoluto – si occuparono proprio di collane di saggistica tascabile secondo una nuova logica del mercato editoriale per la quale molte delle opere di Barthes, Genette, Debord, Lacan, etc. assursero a veri e propri bestsellers.
Tra l’altro, come puntualizza Zanotti, non è interesse dei nuovi intellettuali scrivere romanzi, almeno non farlo alla “maniera classica”: gli anni Sessanta, infatti, sono anni di sperimentalismo – non solo teorico – ma anche dal punto di vista strettamente letterario, giacché fioriscono molte neoavanguardie; tra queste ultime è di notevole interesse l’attività dei Nouveaux romanciers, poiché perfettamente aderente ai dettami della Nouvelle critique.
Nel 1963 Alain Robbe-Grillet dà alle stampe Pour un nouveau roman, manifesto programmatico della suddetta Avanguardia; in esso si legge della volontà di esaminare, indagare l’opera d’arte dal suo interno, al fine di condurre una riflessione sulla scrittura di ampio respiro. Tra le principali innovazioni propugnante dai Nouveaux romanciers è opportuno citare quanto meno la strenua lotta contro il disfacimento della trama e del personaggio. Ne La route des Flandres (1960) del premio Nobel Claude Simon, ad esempio, tutto inizia con un’immagine in cui risuonano anche echi biografici dello stesso Simon che nel 1940, dopo essere stato fatto prigioniero dai nazisti, ha combattuto a fianco della resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale. L’immagine in questione rappresenta non solo il nucleo originario dal quale si dipana la narrazione, ma anche l’unica narrazione possibile, poiché nel corso dell’intero romanzo – diviso solo formalmente in tre parti differenti – la trama non avanza mai e l’opera appare come una mera ripetizione del medesimo evento ma in più varianti; si tratta di un romanzo storico, eppure l’archivio personale fagocitato all’interno della storia non serve per ricostruire una memoria collettiva, semmai per inscenare un autentico disimpegno intellettuale.
L’esperienza della fortunata avanguardia legata alle Éditions de Minuit non sarà un caso isolato, infatti, all’incirca negli stessi anni, qualcosa di simile stava accadendo sempre sul suolo francese con la creazione dell’OuLiPo, acronimo di Ouvroir de Littérature Potentielle. L’associazione, nata nel 1960 come sottocommissione del collegio di patafisica, annoverava tra i suoi fondatori Raymond Queneau e François Le Lionnais, rispettivamente un letterato e un matematico. L’obiettivo di questi intraprendenti artisti era quello di utilizzare delle contraintes che rompessero la presunta armonia del romanzo tradizionale, il quale, secondo la loro teorizzazione, non godeva di alcuna specifica norma.
Utilizzare delle regole che, in base all’opinione dell’uno o dell’altro membro, andavano rivelate o meno ai lettori, aveva lo scopo di propugnare, ancora una volta, l’idea che la soggettività dell’autore non potesse palesarsi apertamente; l’obiettivo degli oulipiani era, di fatto, quello di dare vita a una scrittura oggettiva, quasi automatizzata, dunque ben lontana dalla libera espressione dell’interiorità dell’artista. Georges Perec, ad esempio, si divertì a creare un romanzo – La Disparition (1969) – sottoforma di lipogramma scritto interamente senza mai utilizzare la lettera E, la vocale probabilmente più ridondante della lingua francese.
Attraverso le esperienze delle avanguardie francesi risulta evidente quanto le tesi relative alla scomparsa dell’autore fossero ormai nell’aria; come ha sottolineato Zanotti, l’autore, non solo rinunciò al ruolo di intellettuale engagé ma perfino a quello di scrittore, divenendo semplicemente «un devoto asceta della scrittura, la quale diventa un valore in sé»11; anzi si potrebbe rincarare la dose affermando che «gli aspetti più estremisti delle teorie formaliste, tra le quali lo strutturalismo letterario, hanno davvero senso solo all’interno di questo legame»12 con le summenzionate correnti letterarie.

3. La mort de l’auteur di Roland Barthes: una sentenza davvero inderogabile?

Tenendo conto del clima culturale nel quale Barthes sviluppa il proprio pensiero, sarà ora opportuna una lettura ravvicinata de La mort de l’auteur per delineare limiti e pregi della sua apodittica sentenza. L’incipit del saggio è emblematico in tal senso, poiché utilizza una novella balzachiana per instillare dubbi nel lettore circa l’equivoca autorialità rinvenibile in un passaggio della novella stessa:

Nella sua novella Sarrasine Balzac, parlando di un castrato travestito da donna, scrive questa frase: «Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi capricci irragionevoli, i suoi turbamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e la sua deliziosa finezza di sentimenti». Chi parla in questo modo? È forse l’eroe della novella, interessato a ignorare il castrato che si nasconde sotto la donna? È l’individuo Balzac, che l’esperienza personale ha munito di una sua filosofia della donna? È l’autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla femminilità? È la saggezza universale? La psicologia romantica? Non lo sapremo mai13.

Una frase, nello specifico, consente di chiedersi chi sia a pronunciarsi in quel momento. L’interrogativo ammette molte probabili risposte, nessuna delle quali può essere confermata come definitiva, in quanto – secondo il critico francese – la «scrittura è distruzione di ogni voce, di ogni origine. La scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive»14.
L’atto di raccontare fa sì che si realizzi immediatamente una cesura rispetto all’io narrante e Barthes riflette su tale assunto posto in apertura, facendo riferimento alle tradizioni dei racconti orali dei popoli antichi; nelle società etnografiche del racconto è lo sciamano o recitante che viene applaudito per la sua performance, mai il genio creatore da cui il racconto proviene. Barthes sostiene che il concetto di autorialità nell’antico non era così stringente come lo è nella modernità; l’esempio più calzante potrebbe essere quello dei poemi omerici, opera di un autore che molto probabilmente non è mai esistito e che fa da maschera ad una composizione corale stratificatasi per secoli e secoli fra le mani di abili aedi, che lasciavano ampio spazio all’intervento del pubblico nel loro racconto. E così si prosegue fino al Medioevo, quando anche tra i principali filoni della lirica popolareggiante in lingua volgare, attribuire la paternità di un’opera all’uno o all’altro autore risulta essere un’impresa alquanto ardua.
L’autore è dunque da considerarsi un’invenzione moderna: nello specifico la figura autoriale si delinea alla fine del Medioevo, quando fenomeni come l’empirismo inglese e la riforma protestante accendono la miccia dell’individualismo, facendo credere all’uomo di essere misura di ogni cosa:

L’immagine della letteratura diffusa nella cultura corrente è tirannicamente incentrata sull’autore, sulla sua persona, storia, gusti, passioni; nella maggior parte dei casi la critica consiste ancora nel dire che l’opera di Baudelaire è il fallimento dell’uomo Baudelaire, quella di Van Gogh la sua follia, quella di Cajkovskij il suo vizio: si cerca sempre la spiegazione dell’opera sul versante di chi l’ha prodotta, come se, attraverso l’allegoria più o meno trasparente della finzione, fosse sempre, in ultima analisi, la voce di una sola e medesima persona, l’autore, a consegnarci le sue «confidenze»15.

L’autore allora non è altro che l’incarnazione del borghese moderno e dell’ideologia capitalista; intorno a lui, sostiene Barthes, si organizzano i manuali di storia letteraria, come se l’opera fosse una confessione, come se non potesse rappresentare altro che una confidenza di colui che l’ha prodotta. A questo autore, principio produttivo ed esplicativo della letteratura, Barthes sostituisce il linguaggio, impersonale e anonimo, rivendicato via via come materia esclusiva già da Mallarmé, Valery o Proust, poi dal Surrealismo e infine dalla linguistica, per la quale l’autore non è mai nient’altro che colui che scrive. Quest’ultima disciplina ebbe un peso estremamente rilevante all’interno del dibattito in esame, infatti in concomitanza dell’esplodere del mito della morte dell’autore, l’indoeuropeista Émile Benveniste diede alle stampe La natura dei pronomi (1956), testo in grado di esercitare forte influenza sulla nuova critica. Nel suo studio si evidenziava quanto lo scrittore non fosse mai niente altro che un soggetto nel senso grammaticale o linguistico, un essere di carta, senza alcun referente psicologico, entità che dunque non si produce se non nel momento stesso dell’enunciazione; Benedetti – in tal senso – apostrofa l’io linguistico di Benveniste come «una mera funzione di scrittura o di lettura che libera la comunicazione letteraria dalla credenza in una soggettività antecedente al testo»16>.
Nel suo pamphlet, Barthes prosegue azzardando una metafora molto incisiva, giacché paragona l’opera dell’autore a un messaggio teologico, «il messaggio dell’Autore-Dio»17, che non può necessariamente essere contraddetto, né essere sottoposto a indagini di alcun tipo; ovviamente un simile approccio è da bandire per gli strutturalisti, il cui obiettivo è quello di incentivare i lettori alla scoperta di un testo come “tessuto”, uno spazio multidimensionale, che non può essere “decifrato” ma solo “districato”, proprio come accade ai fili della trama di un tessuto:

Il testo è un tessuto di citazioni, provenienti dai più diversi settori della cultura. Il suo solo potere consiste nel mescolare le scritture, nel contrapporle l’una all’altra in modo da non appoggiarsi mai ad una in particolare; se anche volesse esprimersi, dovrebbe almeno sapere che la «cosa» interiore che pretende di «tradurre» non è a sua volta nient’altro che un dizionario preconfezionato, le cui parole possono essere spiegate solo attraverso altre parole, e così all’infinito18.

Siccome la scrittura non può rappresentare o dipingere nulla di preliminare rispetto al proprio enunciato, essa non ha un’origine vera e propria, appare allora come un reticolo di richiami e riferimenti potenzialmente infinito: la morte dell’autore diviene proficua per l’intertestualità, concetto in seguito perfezionato da Julia Kristeva19, tra le migliori allieve di Barthes.
A quest’altezza cronologica subentra anche la fondamentale distinzione che Barthes delinea tra opera e testo, due termini che prima dell’avvento dello strutturalismo potevano ritenersi pressoché intercambiabili, ma che a partire Dall’opera al testo, un suo articolo del 1971 pubblicato sulla «Revue d’Estétique», assume una certa valenza; se infatti sino a metà degli anni Sessanta lo sguardo del critico era volto verso la nozione di opera, negli anni successivi nuovo oggetto di interesse diviene proprio il testo:

Se l’opera è una cosa materiale (si tiene in mano, si colloca in una biblioteca) il testo è un campo metodologico: esso non è un oggetto ma l’attraversamento di ogni oggetto linguistico computabile […]. Esso, in un certo qual modo, è identificabile con l’intertestualità: dal momento che è infratesto d’ogni altro testo, non ha origini, non è vessato da influenze, ma ricopre il terreno del già letto, delle citazioni senza virgolette, dei codici culturali dissolti nel tempo. Così, se per l’opera è costitutivo il problema della filiazione da un autore o da una catena di altre opere (secondo criteri di attribuzione, di proprietà), per il testo non si danno eredità20.

Dunque all’opera Barthes non chiede la decifrazione del pensiero dell’autore, ma di poter accedere al suo farsi dall’interno, tant’è che nel Piacere del testo (1973) compie un ulteriore passaggio in tal senso, ponendo l’accento proprio sul meccanismo generativo profondo: «adesso accentuiamo, nel tessuto, l’idea generativa per cui il testo si fa, si lavora attraverso un intreccio perpetuo; sperduto in questo tessuto il soggetto vi si disfa, simile a un ragno che si dissolva da sé nelle secrezioni costruttive della sua tela»21.
Il testo – inteso quale campo metodologico aperto – apre necessariamente alla molteplicità delle interpretazioni connesse al pubblico di riferimento, dunque alla figura del lettore, il quale ricopre un ruolo fondamentale per la comprensione ultima dell’opera letteraria.
«In altre parole, è il modo d’essere dell’opera in quanto oggetto storico e linguistico a rendere possibile la pluralità dei suoi sensi e delle sue interpretazioni e, dunque, a comportare la valorizzazione delle operazioni svolte dall’interprete/lettore»22, scrive G. Nutini a proposito della teoria di Barthes espressa ne La mort de l’auteur; se ne desume – dunque – che il significato essenziale di un’opera non possa che dipendere dalle impressioni del lettore, piuttosto che dalle “passioni” o dai “gusti” dello scrittore: l’unità di un testo non risiede nelle sue origini, o nel suo creatore, ma nella sua destinazione, nel suo pubblico23.
È il lettore, e non l’autore, a divenire il luogo metaforico in cui si produce l’unità del testo; ma, si badi bene, questo lettore non è più personale di quanto non lo sia l’autore: siffatto lettore è quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito.
In Sulla lettura24, un intervento redatto per la Writing Conference di Luchon nel 1975 e poi anch’esso confluito postumo ne Il brusio della lingua, Barthes asserisce che il nerbo dell’atto della lettura risiede esattamente in questo suo carattere produttivo. Inoltre la lettura a cui fa riferimento Barthes – precisa Nutini – «si realizza in due gesti complementari e sempre contemporanei, il riconoscimento (delle unità di lettura: leggendo si decostruisce il testo in una serie di unità) e la comprensione (del senso del testo: il lettore, dopo aver decostruito il testo, lo riarticola costruendo il proprio testo, riscrivendolo nella propria mente)»25. In sostanza il testo è come attraversato da una serie di inneschi di senso a cui il lettore e la lettura rispondono, dando il via così alla sua logica combinatoria:

Il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l’unità di un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione, anche se quest’ultima non può più essere personale: il lettore è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo tutte le tracce di cui uno scritto è costituito […]. Del lettore la critica classica non si è mai occupata; per lei, nella letteratura non vi è altro uomo che chi scrive […]. Sappiamo che, per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può che essere la morte dell’Autore26.

Se il messaggio è un complesso generato da singole parti amalgamate coerentemente e in modo differente in ogni opera, è evidente che non possa esistere un testo senza un lettore che lo attraversi, il quale si definisce come un individuo senza biografia, senza nome, vera e unica istanza in grado di raccogliere l’eredità di un testo che, leggendo, partecipa all’atto di produzione simbolica. Da qui l’apertura alla tematica edonistica: secondo Barthes, occorre distinguere tra il piacere (plaisir) che si prova nel momento in cui si consuma un’opera salvaguardando comunque una distanza rispettosa nei suoi confronti, e il godimento (jouissance) che si determina quando si ha a che fare con il testo, possibile solo nel momento in cui si attua un tipo di lettura il cui scopo è quello di riscrivere il testo, cancellando ogni separazione tra opera e lettore: nella prospettiva barthesiana, sottolinea Fausto Pellecchia, «il testo è innanzitutto il luogo d’incontro del corpo dell’autore con quello del lettore che si definisce e si determina in base alle differenti maniere in cui essi si “toccano” l’un l’altro»27.

4. L’avvento delle teorie reader-oriented

Dall’importanza conferita al ruolo del lettore sul finire del celebre saggio barthesiano si evince una svolta nel suo complesso pensiero critico: da appartenente alla Nouvelle critique di impronta strutturalista, approda a tendenze quasi decostruzioniste. Il suo non è tuttavia un percorso isolato, anche altri strutturalisti eretici – come li ha definiti Alberto Casadei28 – quali Michel Foucault e Jacques Derrida si sono gradualmente immersi in un nuovo contesto critico che, da un lato, ha condotto agli studi semiologici e dall’altro ha privilegiato una prospettiva reader-oriented. Lo stesso Barthes nella seconda metà degli anni Settanta modificò in parte la sua scrittura, dando vita a opere molto meno sistematiche in cui la struttura sembra ormai collassare dal suo interno. In Frammenti di un discorso amoroso, una delle sue ultime pubblicazioni, lo stile impiegato sembra ormai rivolto alla decostruzione più che all’analisi testuale, giacché con una scrittura che pare d’improvviso creativa e soggettiva, si è reso – come nota Zanotti – molto più vicino a uno scrittore che ad un critico29.
Foucault, intellettuale e storico poliedrico, dal canto suo, non rinuncia ad assumere la stessa perentoria posizione di Barthes, tant’è che un anno dopo in una conferenza tenuta presso il Collège de France nel ’69 e intitolata Qu’est-ce qu’un auteur? – oggi contenuta all’interno dei suoi Scritti letterari – ha conferito ulteriore propulsione a questo dibattito centrale per la nascita della critica post-strutturalista:

L’autore – o ciò che ho provato a descrivere come la funzione autore – è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione-soggetto. Specificazione possibile o necessaria? Guardando le modificazioni storiche che si sono succedute, non sembra indispensabile, assolutamente, che la funzione-autore rimanga costante nella sua forma, nella sua complessità e finanche nella sua esistenza. Si può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio30.

Ancora una volta, si percepisce quanto – anche attraverso l’impegno di Foucault – la French Theory avesse, in definitiva, privilegiato una critica testuale del tutto privata della componente autoriale-umanistica, in favore di una tendenza che si è sviluppata soprattutto negli Stati Uniti ed è stata genericamente catalogata sotto l’etichetta di decostruzionismo, alla quale diede largo seguito l’operato del filosofo francese Jacques Derrida31. La diffusione del termine decostruzionismo si verificò nello specifico a partire dalla pubblicazione De la Grammatologie di Derrida nel 1967 per i tipi di Minuit, una casa editrice d’avanguardia che si era distinta soprattutto durante l’occupazione nazista in Francia. “Decostruzionismo” apparve fin da subito come una parola molto affascinante, tanto da prestarsi a divenire uno slogan, «il grido di battaglia dell’intellettuale francese che mette tutto in dubbio»32. Suo obiettivo era rivoluzionare, decostruire (mostrare come si sono costruite) dalle basi le scienze, con particolare riferimento alla filosofia33.

5. Cosa ne è stato della “morte dell’autore” oggi in Italia?

In conclusione, parrebbe alquanto spontaneo chiedersi cosa ne sia stato oggi di queste teorie che – da semplici e giustificate critiche al biografismo – giunsero a posizioni decisamente estremistiche e oltremodo irreversibili; in Italia il discorso sulle tesi relative alla morte dell’autore– nel corso degli anni Novanta – è confluito in L’ombra lunga dell’autore (1990) di Carla Benedetti e in L’autorità dell’autore (1992) di Mario Barenghi.
Benedetti, più nello specifico, ha tentato innanzitutto di riflettere sul perché fosse stato concepito quello che lei ha definito un wishful thinking – una pia illusione – ovvero l’auspicio di tale morte che forse non è mai del tutto avvenuta davvero:

Per desiderare la morte di qualcuno occorre per prima cosa che questo qualcuno esista; secondo, che abbia un ruolo cospicuo, giacché non avrebbe senso sognare la morte di chi c’è ma non conta niente; terzo, che questo ruolo sia sentito come pericoloso, giacché nessuno sarebbe mai indotto a desiderare la morte di chi non lo danneggia. Tutte e tre queste circostanze stanno dietro al mito della morte dell’autore34.

Oltre alle avanguardie di cui si è parlato in precedenza, in realtà, è bene tener conto del fatto che la funzione-autore era per certi versi ancora avvertita come una minaccia per lo statuto letterario, di fatti al contempo esistevano una serie di studi di ispirazione psicoanalitica che ancora facevano molta leva su metodi biografistici.
Secondo Benedetti nelle parole di Barthes c’è in parte un fondo di verità relativo all’autore da indentificare come soggettività piena e dunque davvero scomparsa («è un fantasma, o un pomello in cima a un’asta cui il lettore può appendere intenzioni o progettualità nascoste»35); quel che potrebbe non essere affatto vero è che ciò comporti una catartica dispersione dell’identità autoriale, in realtà mai dissolta del tutto, anzi sempre presente e immediatamente percepibile nelle dinamiche del mercato editoriale odierno.
L’industria culturale ha fatto dell’autore un segno fortemente distintivo nel corso degli anni, basti pensare all’investimento di marketing che c’è dietro la suddetta figura quando vi è in atto la sponsorizzazione di un nuovo libro. Benedetti va oltre l’industria culturale per focalizzarsi su quello che lei chiama autorialismo, ovvero «un particolare investimento sulla funzione-autore che fa sì che un’opera d’arte non possa esistere se non in quanto prodotto di un autore»36. Nell’età moderna e contemporanea, oltre alla paternità e al diritto d’autore regolarmente tutelato, per poter attribuire statuto d’arte a un qualsiasi oggetto artistico, è necessario che ad esso corrisponda un nome dietro cui si cela un’intenzione artistica; non a caso l’espressione “essere d’autore” per riferirsi a scritture e, più in generale a prodotti artistici di qualsiasi genere, si è sedimentata nel linguaggio comune quale garanzia di valore artistico. L’autore, così inteso, sembrerebbe slegato dal soggetto intenzionante, custode della significanza di cui parlava Eric Donald Hirsch37 e, ancora una volta, chiamato in causa dalla critica strutturalista.
L’intenzione in esame non è – precisa Benedetti – solo un’intenzione interpretativa, di senso, è soprattutto un’intenzione artistica:

Non si tratta tanto di ciò che l’autore ha voluto dire, ma di ciò che egli ha voluto fare artisticamente. Non riguarda semplicemente il senso del testo, il significato che l’autore vi avrebbe depositato e di cui l’interprete va in cerca. Riguarda invece il come l’opera è fatta, la forma in cui si è incarnata, lo stile, la poetica, e tutte quelle altre caratteristiche dell’opera a cui si può attribuire un valore artistico. In altre parole l’autore oltrepassa i problemi dell’interpretazione del testo per toccare quelli della valorizzazione artistica dell’opera. E per quanto l’interprete possa decidere di non farsi vincolare da ciò che l’autore ha voluto dire (come molti sostengono), della sua intenzione artistica, della sua progettualità, vera o supposta che sia, invece non è possibile disfarsi, poiché senza presupporla il testo in questione neppure esisterebbe, cioè non sarebbe un’opera letteraria38.

Per quanto la figura dell’autore sia diventata sempre più marginale negli ultimi decenni, essa riveste ancora un ruolo cruciale nella creazione artistica. L’ipertrofia di mercato dei nostri tempi ha fatto sì che si diffondesse una logica divisione tra lo scrittore e l’autore, secondo cui il primo non sarebbe altro che la figura pubblica della quale i media parlano, mentre la seconda entità corrisponderebbe allo “scrivano muto”, colui che crea la sua opera e dietro di essa si dissolve, scomparendo gradualmente.
L’autore non è inteso da Benedetti come una sorta di garante del significato ultimo del testo, bensì come un portatore di intenzionalità, attribuitagli dal lettore. Date tali premesse è bene notare che per quanto ogni fruitore possa conferire all’autore un’intenzionalità di senso, è anche vero che l’istanza testuale non potrà mai prescindere del tutto dall’intenzionalità artistica dell’autore, giacché senza di essa, quest’ultima non sarebbe qualificabile in quanto “opera letteraria”:

Se l’autore, nella forma di autore-immagine e di autore strategico, è diventato una funzione così importante dell’arte e della letteratura contemporanea, non è solo per quei volti in copertina o per quei nomi d’autore lanciati come marche da automobili. L’industria culturale […] non fa che amplificare e sfruttare ai propri fini qualcosa che già c’è nella comunicazione artistica moderna39.

Va da sé, dunque, che il sistema artistico contemporaneo a cui allude Benedetti non si fondi propriamente né sull’autore, né sul testo in senso stretto, bensì sulla comunicazione letteraria nella sua dimensione processuale. L’autore, in conclusione, non è mai morto davvero, giacché esso consiste in una funzione necessaria al processo di costruzione della sua stessa opera.
Per anni lo strutturalismo e la semiotica hanno considerato l’autore una funzione del testo, ma la svolta si rivela davanti agli occhi del critico nel momento in cui egli riesce ad immaginare tale figura come funzione dell’opera, più che del testo: «autore e opera sono delle costruzioni, frutto di attribuzioni. E ognuna delle due costruzioni presuppone l’altra»40, proprio come se entrambe fossero parte costituente di un processo comunicativo. All’autore – che può certamente anche rimanere anonimo – va attribuita un’intenzione artistica, una scelta e una progettualità, come sottolinea Benedetti.
L’ombra lunga dell’autore costituisce ormai un tassello cruciale all’interno di tale riflessione che è si è fatta spazio imperterrita lungo tutto il corso del Novecento, ma il discorso sull’autorialità chiaramente coinvolge un ventaglio molto ampio di casi di studio possibili, tant’è che molte sono state le disquisizioni alimentate anche in ambito narratologico; Filippo Pennacchio41 – in particolare – si è focalizzato sul fecondo dibattito a partire dallo studio di alcuni fra i romanzi più noti pubblicati in Italia nel secondo decennio degli anni Duemila. Attraverso un esiguo ma emblematico elenco di titoli, Pennacchio prova a delineare la lunga storia che ha visto cambiare la postura autoriale dai primi anni del Novecento ai giorni nostri, con particolare attenzione alla narrativa più recente.
Se nei primi anni del Novecento con le istanze moderniste, qualunque teorizzazione sembrava condurre alla scomparsa della voce narrante, al suo occultamento, è già a partire dalle prime prove della narrativa post-moderna che l’autore riemerge in superficie, fino ad arrivare ai tempi più recenti nei quali – secondo Pennacchio – senz’altro è possibile affermare che «il telling, cioè l’atto di raccontare apertamente, senza dissimulare in alcun modo la mediazione dei contenuti narrativi, stia oggi occupando lo spazio che prima era riservato allo showing, all’atto di raccontare in modo obliquo, dissimulando la presenza di chi racconta»42.
Analizzando testi quali Acciaio di Silvia Avallone, Vite potenziali di Francesco Targhetta o Gemella H di Giorgio Falco, si può facilmente notare che «molti autori abbiano fatto ricorso a modi di raccontare tutto fuorché impersonali, delegando il racconto a narratori onnipresenti e spesso anche onniscienti, che non si nascondono dietro alle storie e ai personaggi ma al contrario impongono la loro voce e il loro punto di vista»43; nello specifico i titoli a cui dedica spazio Pennacchio sono esempi lampanti di come – con le dovute differenze – a raccontare sia direttamente l’autore, «non soltanto in quei testi in cui si gioca apertamente, come nel caso dell’autofiction, sulla sua messa in scena, ma anche nel caso di romanzi in senso pieno, che non si costruiscono a partire da forme provenienti da diversi generi del discorso»44; e ciò potrebbe sembrare quasi paradossale se di fatto si tiene conto degli sviluppi della teoria letteraria degli ultimi anni, la quale – come evidenzia Pennacchio – ha guardato con enorme attenzione al lettore e più nello specifico «ai processi cognitivi tramite cui chi legge si avvicina ai testi e li processa. All’affermarsi di una narratologia cognitiva che valorizza il ruolo del lettore e più in generale del ricevente di ogni tipo di racconto, è corrisposto l’emergere di proposte teoriche fortemente orientate all’autore, che fanno discendere tutto quanto accade in un testo dal suo creatore e mettono in secondo piano l’azione di chi legge, guarda o ascolta un testo»45.
Roberto Talamo, invece, si inserisce nell’annoso dibattito, approfondendo soprattutto la nozione di intenzione autoriale. All’interno di Intenzione e iniziativa46, Talamo effettua una ricostruzione storica di grande respiro in merito alle teorie che coinvolgono la figura autoriale, passando in rassegna le idee dei principali teorici “analitici” di area anglosassone da un lato, e dei teorici francesi con i formalisti russi dall’altro.
Talamo, oltre a condurre un’attenta disamina di quanto teorizzato nel corso del Novecento, si avvale dei concetti di dispositivo e di campo, coniati rispettivamente da Foucault e Bourdieu, per meglio definire la corrente dell’intenzionalismo che si oppone a quella dell’anti-intenzionalismo, a cui d’altronde fa capo lo stesso Barthes:

Per tutte le correnti testualiste dell’anti-intenzionalismo il testo è un evento, qualcosa che accade al di là di un’intenzione e può essere spiegato in termini causali, al contrario, per la teoria dell’iniziativa il testo è un’azione e deve essere interpretato in termini intenzionali, ma non meramente soggettivi: lo studio dell’iniziativa è lo studio dell’azione intenzionale in relazione a una situazione globale, al presente in cui l’azione si iscrive dialetticamente47.

In base a quanto sostiene Talamo, il discorso dell’intenzionalità autoriale è strettamente connesso all’azione e di conseguenza all’agentività, idea che – a sua volta – riprende quella di ri-uso testuale, tecnica che prevede necessariamente l’esistenza di un’intenzione autoriale ben riconoscibile; in altre parole l’autore, scrivendo e pubblicando un testo, compie un’azione e dunque nel farlo, ha assunto un’iniziativa. Tale azione, tuttavia, non deve essere concepita come strettamente legata all’autore stesso, anzi – al contrario – a quest’ultima vi si attribuisce un valore indipendentemente dall’autore stesso:

La critica e la teoria della letteratura non dovranno cercare e definire un’intenzione nascosta dietro o a monte del testo (nella mente dell’autore), ma un’intenzione e un’iniziativa proiettata in avanti dalla specifica azione intenzionale di configurazione che l’autore ha prodotto nel testo48.

Talamo, dunque, sposta l’attenzione dalla sola figura dell’autore in sé alla circostanza nella quale l’opera viene prodotta e la quale viene formulata; l’intenzione insita nel prodotto artistico è concepibile come un’entità in potenza e mai in atto, potenza che di fatti si manifesta nel contesto della lettura e di conseguenza del ri-uso.
Anche la visione di Talamo ha contribuito, in anni più recenti, ad arricchire il lungo dibattitto relativo all’autorialità in Italia, dibattito che, peraltro ad oggi, parrebbe tutt’altro che concluso; sul se quello della morte dell’autore sia un mero mito, mai realmente o del tutto attualizzato, si potrebbe senz’altro discutere ancora a lungo, quel che tuttavia sembrerebbe certo è che la teoria della critica letteraria appare ben lontana dal formulare una definizione univoca destinata alle numerose e potenziali posture autoriali; in definitiva, ben lungi dall’essere morto – scomparso dal campo d’indagine – intorno a questa figura, ancora si coagulano numerose riflessioni teoriche che seguono anche approcci e punti di vista differenti all’interno del panorama critico contemporaneo.


  1. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del Gattopardo, Torino, Einaudi, 1998, pp. 4-5.

  2. René Girard, a quell’epoca transfuga in America, organizzò un importante convegno presso la Johns Hopkins University a Baltimora che riunì, per la prima volta negli Stati Uniti, tutti i maggiori intellettuali francesi di impronta strutturalista. Il grande evento diede modo di delineare il punto sullo stato dell’arte di tale movimento culturale e allo stesso tempo di discutere in prospettiva delle nuove tendenze post-strutturaliste e decostruzioniste. Per approfondimenti cfr. P. Zanotti, Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 25.

  3. G. Bottiroli, Che cos’è la teoria della letteratura. Fondamenti e problemi, Torino, Einaudi, 2006, p. 127.

  4. Guido Mattia Gallerani, a proposito di Critique et verité, pone l’accento sul ruolo che la critica assume nella concezione di Barthes, la quale va percepita in qualità di compagna e non di serva della creazione letteraria, così da perseguire la possibilità di smussare il confine netto che intercorre tra artista e critico. Cfr. G.M. Gallerani, Roland Barthes e la tentazione del romanzo, Milano, Morellini, 2017, p. 33.

  5. Il pamphlet scritto nel ’67, edito dapprima in inglese con il titolo The Death of the Author sulla rivista americana «Aspen Magazine», compare solo l’anno seguente in francese su «Manteia». Successivamente è stato inserito in Le bruissement de la langue, raccolta di saggi edita postuma nel 1984. L’edizione italiana di riferimento è R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, trad. it. di B. Bellotto, Torino, Einaudi, 1988.

  6. A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 15.

  7. C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore. Indagine su una figura cancellata, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 63.

  8. P. Pugliatti, Lo sguardo nel racconto. Teorie e prassi del punto di vista, Bologna, Zanichelli, 1985, p. 94.

  9. P. Zanotti, Dopo il primato, cit., p. 27.

  10. L. Binet, La settima funzione del linguaggio (2015), trad. it. di A.M. Lorusso, Milano, La nave di Teseo, 2018, p. 99.

  11. P. Zanotti, Dopo il primato, cit., p. 27.

  12. Ibidem.

  13. R. Barthes, La morte dell’autore (1967), in Il brusio della lingua, cit., p. 51.

  14. Ibidem.

  15. Ivi, p. 52.

  16. C. Benedetti, L’ ombra lunga dell’autore, cit., p. 57.

  17. R. Barthes, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, cit., p. 54.

  18. Ivi, p. 55.

  19. Kristeva, in occasione del convegno del ’66 a Baltimora, tenne un intervento incentrato proprio sulla nozione di intertestualità; teorizzazioni sulla medesima questione si trovano in J. Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi (1969), trad. it. di P. Ricci, Milano, Feltrinelli, 1978.

  20. R. Barthes, Dall’opera al testo (1971), in Il brusio della lingua, cit., pp. 57-64.

  21. Id., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo (1973), a cura di C. Ossola, Torino, Einaudi, 1999, p. 174.

  22. G. Nutini, Il senso dell’autore, i sensi dell’opera: alcune riflessioni di Roland Barthes e Hans-Georg Gadamer, in «Comparatismi», IV, 2019, p. 138.

  23. Cfr. R. Barthes, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, cit., p. 56.

  24. Cfr. Id., Sulla lettura, in Il brusio della lingua, cit., pp. 27-37.

  25. G. Nutini, Il senso dell’autore, cit., p. 140.

  26. R. Barthes, La morte dell’autore, in Il brusio della lingua, cit., p. 56.

  27. F. Pellecchia, Ermeneutica del corpo. Desiderio, piacere e godimento del testo, in «Dialogoi», VII, 2020, p. 49.

  28. Cfr. A. Casadei, La critica letteraria del Novecento, cit., p. 112.

  29. Cfr. P. Zanotti, Dopo il primato, cit., p. 28.

  30. M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 27.

  31. Per approfondimenti su Derrida e il decostruzionismo Cfr. M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003.

  32. P. Zanotti, Dopo il primato, cit., p. 46.

  33. Anche se il decostruzionismo non intende insinuarsi fin da subito nel discorso letterario, quest’ultimo fu ben presto inevitabilmente coinvolto, se non altro perché – anche se Derrida non ha mai inteso proporre la decostruzione come un metodo di analisi dei testi – la prima fase della sua ricezione americana fu favorita proprio dal lavoro di traduzione di Gayatri Spivak, esperta di teoria della letteratura e, dunque, interessata alla possibilità di diffondere un nuovo metodo critico valido ai fini dell’interpretazione testuale.

  34. C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 56.

  35. Ivi, pp. 56-57.

  36. Ivi, p. 17.

  37. Le teorizzazioni fondamentali di Hirsch sono contenute in E.D. Hirsch, Teoria dell’interpretazione e critica letteraria, Bologna, Il Mulino, 1973.

  38. C. Benedetti, L’ombra lunga dell’autore, cit., p. 20.

  39. Ivi, p. 17.

  40. Ivi, p. 21.

  41. Cfr. F. Pennacchio, Eccessi d’autore. Retoriche della voce nel romanzo italiano di oggi, Milano-Udine, Mimesis, 2020.

  42. Ivi, p. 14.

  43. Ivi, p. 162.

  44. Ibidem.

  45. Ivi, p. 162.

  46. Cfr. R. Talamo, Intenzione e iniziativa. Teorie della letteratura dagli anni Venti a oggi, Bari, Progedit, 2013.

  47. Ivi, p. 101.

  48. Ivi, p. 21.


The study has the aim to carry out a general overview about “the death of the author”, one of the most important objects of interest of twentieth-century literary criticism; in particular the study tries to outline the main protagonists and key points of the long debate, that involved not only philosophers and literary critics, but also avant-garde writers. Specifically the study focuses on the short Roland Barthes’ pamphlet La mort de l’auteur, because it was a real turning-point between the structuralist and post-structuralist criticism. The aim of the essay is not only to understand how much the question represented a tendence during the second half of the last century, but also if – today – this idea is still current or if it has been just a myth.