c. baghetti, m. candiloro, j. carter, p. chirumbolo, m. mura (a cura di), ecologia e lavoro. dialoghi interdisciplinari, milano-udine, mimesis, 2023, 438 pp.
Recensire un testo come Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari, in occasione di un numero monografico volto a operare una ricognizione della rappresentazione del lavoro nella letteratura contemporanea, può apparire un’operazione scontata. In realtà, contestualizzare la proposta di questa rivista all’interno della riflessione critica coeva sul tema in questione, non può che essere complementare agli obiettivi della sezione monografica. Non avrebbe senso, d’altronde, imbastire una verifica delle modalità con cui la letteratura odierna tratta il lavoro senza un dibattito critico che permetta di inscrivere i testi in una struttura interpretativa, dialogica, per restituire un affresco delle modalità con cui la produzione culturale recepisce una situazione storica. Ciò è valido, a maggior ragione, nel momento in cui – con l’avanzamento sempre più aggressivo della logica tardocapitalistica – l’arte si trova ad essere uno dei lavori soggetti alla stessa logica: se infatti oggi si assiste «a una operaizzazione di altre categorie di lavoratori, spesso all’insegna di una precarietà professionale ed esistenziale sempre più marcate» (p. 22), potendo considerare pienamente inclusa anche la produzione culturale nelle logiche merceologiche del capitale, risulta chiaro che la lente del lavoro può fungere da strumento fondamentale ai fini di un’interpretazione generale del presente.
Difatti, la prima intuizione felice del libro – organizzato in quattro sezioni che si avvalgono dei contributi di diversi studiosi e studiose, ognuna dedicata ad una disciplina specifica: storia, narrativa, poesia e cinema – è proprio questa, ed è, tra l’altro, apertamente dichiarata nella premessa. Nell’apertura al volume, infatti, viene specificato che il suo scopo primario è esattamente quello di pensare il lavoro alla stregua di una «funzione» (p. 11). Non un genere, quindi, né un tema, ma piuttosto uno strumento interpretativo da applicare ai testi, una categoria, che permetta di dire qualcosa sul mondo. In questo senso, scegliere come elemento dirimente il lavoro non è scontato ai fini della sua valenza epistemologica. Se le persone trascorrono la maggior parte del loro tempo – per la maggior parte della loro vita – lavorando, interrogare il modo in cui l’arte recepisce la questione può aprire una finestra inaspettatamente importante sul mondo e sulla sua comprensione.
Ciò è tanto più vero, nel momento in cui subentrano altri due elementi. Il primo, di natura storica e sociale, riguarda la possibilità, sempre meno praticabile, di scindere lavoro e vita privata. Nelle modalità descritte da alcuni finissimi osservatori della contemporaneità come Bauman e Fisher, infatti, il processo di liquefazione delle strutture di potere e della stabilità dei ruoli all’interno dell’organizzazione postfordista del lavoro, ha portato ad un collasso del confine tra il lavoro e la vita privata: al tempo della flessibilità, quindi, l’impegno lavorativo diventa non solo sforzo produttivo, ma anche, e soprattutto, emotivo. Se ciò è vero, è comprensibile allora che, paradossalmente, il lavoro, in un’epoca in cui sembra diventato sempre più difficile parlare di lotta di classe, di masse politiche e di working class, si costituisca come specola fondamentale per un’indagine della realtà. In questo senso – chiamando in causa l’operato di autori come Pasolini, Calvino, Volponi, Zanzotto o Fortini, i quali hanno segnato, con la loro attività letteraria e intellettuale, una fase cruciale della letteratura del secondo Novecento – il libro che stiamo trattando, riesce benissimo nel porre tale questione: se il lavoro, a quest’altezza storica, è diventato vita, rappresentare il lavoro significa parlare della realtà esistenziale di ogni singolo.
A tal proposito, risulta interessante che, in Ecologia e lavoro, non ci si limiti all’analisi di campioni artistici e culturali dal valore universalmente riconosciuto, ma ci si arrischi a scandagliare altri tipi di testimonianze, meno affermate ma comunque utili al discorso. Considerare in uno studio così vasto, e dalle ambizioni non banali, autori e prodotti che generano una risonanza minore (come il conosciuto, ma di certo non canonico Tommaso Di Ciaula; la contemporanea, e quindi ancora in cerca di collocazione nel canone, Simona Baldanzi; o la regista Alice Rohrwacher, affermata certo, ma comunque entrata nell’establishment cinematografico italiano da poco più di dieci anni), risulta una mossa funzionale e riuscita. Strutturare, quindi, un binomio specifico come quello tra ecologia e lavoro, ma anche importante per le ragioni esposte fin qui, significa non solo suggerire una chiave interpretativa capace di dire qualcosa di nuovo sulla realtà contemporanea, ma anche estendere il numero di campioni vagliabili, scandagliare opere che meritano un’attenzione retrospettiva o autori che vale la pena seguire nello svolgersi della loro traiettoria; e questa sembra una prerogativa fondamentale per qualsiasi iniziativa che si proponga di coniugare un ambito relativamente giovane negli studi letterari italiani, come l’ecocritica, con uno invece più storicizzato.
Il secondo elemento riguarda proprio il nesso ecologia/lavoro. Cogliere la correlazione fortissima tra questi due concetti significa comprendere le modalità con cui il lavoro si immette nel mondo naturale, il modo in cui la struttura sociale umana interagisce con l’ambiente che la ospita, influenzandolo e lasciandosi influenzare, ma soprattutto, significa tracciare in che misura il sistema produttivo e l’ideologia che lo sorregge giochino un ruolo fondamentale nel rapporto che l’essere umano intesse con ciò che lo circonda. Nel contributo di Claudio Panella, contenuto nella sezione “narrativa” e dedicato a Francesco Biamonti e Giancarlo Liviano D’Arcangelo, si può infatti leggere:
il convincimento che ciò che definiamo “lavoro” è una delle forme primarie di relazione tra umano e natura; la constatazione che nell’ultimo secolo tale relazione è entrata più volte in crisi proprio per le trasformazioni radicali imposte al pianeta e a buona parte dell’umanità prima della rivoluzione industriale e dell’abbandono delle campagne, poi dalla progressiva estensione e smaterializzazione del capitalismo globalizzato (p. 219).
La pubblicazione odierna, quindi, di uno studio che si ponga problemi del genere – che cerchi di comprendere il modo in cui la letteratura ha tematizzato, ma soprattutto riflesso e problematizzato, questo nesso inscindibile per una mappatura dell’attività umana in relazione al suo abitare il mondo naturale – risulta utile soprattutto ad un tentativo di rilettura delle dinamiche che hanno mosso l’agire umano fino ad oggi. Cogliere, cioè, questo nesso e analizzarne la proiezione artistica nelle parole, nelle immagini e nelle idee di chi produce cultura, non si può considerare una mera attività interpretativa, bensì una scelta tramite la quale gli studiosi provano ad affermare in maniera netta la necessità di riconciliare l’organizzazione sociale, politica e culturale umana con la natura, i suoi ritmi e le sue specificità, nonché l’esigenza di una svolta etica del lavoro e della struttura economica che lo organizza.
In verità, è forse questo il merito principale dell’iniziativa che qui si sta discutendo: la capacità di ridiscutere un’alternativa alle logiche del capitalismo. Negli ultimi anni, infatti – grazie al lavoro di un pensatore acuto come Mark Fisher, che ci ha lasciato in eredità un’opera fondamentale come Realismo capitalista (2009) –, si è andata sempre più affermando la consapevolezza di una difficoltà diffusa nel pensare ad un futuro che non sia scandito dalle strutture di senso del campo ideologico capitalista. Ecologia e lavoro sembra dialogare in filigrana con questa prospettiva, la quale ribalta in una domanda provocatoria, ma colma di speranza – Is there no alternative?, sottotitolo dell’edizione in lingua inglese del testo di Fisher – il There is no alternative di thatcheriana memoria che ha scandito l’operato economico, sociale e politico dell’Europa negli ultimi quarant’anni. Così il volume nato in seno al lavoro dell’OBERT (Observatoire Européen des Récits du Travail) propone una serie di scritti il cui scopo non può che essere quello di reinvestire nella capacità immaginativa del lettore. Ad esempio, nel saggio di Francesco Diaco sul rapporto tra lavoro ed ecologia nel Pianeta irritabile (1978) di Paolo Volponi, si può leggere:
Se [in Memoriale] è l’io narrante a essere umorale, anzi psicotico, e se Volponi punta spesso sullo stile per superare un realismo confermativo dello status quo, qui è l’intero pianeta a diventare irritabile […] poiché la realtà in cui è ambientato il testo è già stata rotta da ripetute apocalissi […] Tali elementi […] vanno interpretati come la dimostrazione che il capitalismo è perituro, che la sua inscalfibile solidità può essere relativizzata grazie al “tempo profondo” (p. 165).
E ancora:
Si può ipotizzare che per Volponi la scommessa consista nel predisporre sì un piano, che però non pecchi di hybris e non smarrisca il senso del limite, ovvero che ripristini un equilibrato metabolismo socio-ecologico, opposto alle pericolose indigestioni capitalistiche […] creare un patto di solidarietà e collaborazione interspecifiche, una nuova, allargata “social catena” (p. 175).
Nonostante la devastazione ecologica e sociale generata dall’organizzazione del lavoro e della produzione sulla base delle logiche imposte dal realismo capitalista, è ancora possibile immaginare un mondo che riesca a sopravvivere senza capitalismo? È questo il quesito intorno al quale sembra ruotare tutto il libro. Una volta bloccati nel loop epistemologico in cui il sistema produttivo contemporaneo ci ha indotto, dunque, Ecologia e lavoro – che, certo, parte da un’intenzione dichiaratamente ermeneutica, finalizzata a suggerire una metodologia interpretativa di alcuni prodotti culturali – svolge una funzione importante anche nell’offrire una serie di exempla, un catalogo di percorsi immaginativi fondamentali; una memoria culturale su cui basare una possibile alternativa alla prassi del presente.
Alberto Scialò
Università di Napoli L’Orientale