· 1 | 2024  ·  Recensioni ·

a. piasentini, «la forma desiderata». temporalità, sintassi e ritmo negli strumenti umani e in stella variabile di vittorio sereni, pisa, pacini, 2024, 189 pp.

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In un contesto culturale in cui la riflessione sull’identità e sul reale come insiemi frammentari di eredità appare particolarmente cogente, ritornare all’opera di Vittorio Sereni – vero e proprio «avansuono» di molta poesia secondonovecentesca e contemporanea – può dare frutti insperati. A quasi sessant’anni dalla pubblicazione de Gli strumenti umani ci prova Andrea Piasentini, che nel suo «La forma desiderata». Temporalità, sintassi e ritmo negli Strumenti umani e in Stella variabile di Vittorio Sereni scandaglia minuziosamente l’impostazione stilistica del terzo e del quarto Sereni per comprenderne le specificità e – soprattutto – le motivazioni che l’hanno resa modello efficace per gli autori a venire. Innanzitutto, la sua sintesi interna. L’equilibrio – linguistico e concettuale – delle due raccolte è ritrovato tutto nella sua capacità di fusione di istanze liriche e narrative, se non colloquiali, e di messe a fuoco soggettive e oggettive a cui la forma – tematizzandosi – si adegua, dandole un corpo analogo a quello multiforme di un Io glaneur, attraverso il quale riemergono i fatti della storia e dell’anima, i dialoghi interiori e biografici. Nell’Io, in sostanza, si simultaneizzano i tempi e la loro dialettica, nel tentativo di trarne – e trattenerne – qualcosa:

Per Sereni, la forma serve a raccogliere ciò che di informale e movimentato si stratifica nell’io, liberandolo in una lenta enunciazione che si schiarisce e si oscura secondo quello che gli offrono gli attimi […]. Nella lingua di Sereni si allunga però l’inquietante ombra di non appartenere più a sé stesso; è il vocabolario sfibrato dell’estate: la scomparsa, il mutismo, l’io che arma sé contro sé stesso, la razza esanime fuori dal suo elemento (pp. 59-60).

In queste due contrapposte forze, costruzione e atomizzazione, la cifra de Gli strumenti umani e di Stella variabile. Si tratta di spinte capillari, la cui intensità interessa tanto i macropiani di narrazione quanto le grandi e piccole strutture della sintassi e del metro, e perciò ciascuno di questi livelli diventerà giocoforza oggetto d’analisi. Ne emergerà, per esaustivo sondaggio, l’armamentario che nel libro del ’65 concorre a una generale armonia nobilitante, a uno stile aperto alla comunicazione e convinto della sua efficacia, che è anche quella di una possibilità di dialogo con la Storia: i tempi verbali – e i punti di vista in essi contenuti – si parlano a vicenda nella loro concatenazione, e la sintassi è piana, felicemente controllata dall’Io, periodo e strofa possono coincidere e vi può riemergere per memoria l’armonia del metro tradizionale. Il risultato sarà, secondo Fortini, «da storico», in virtù della solida «natura empirica del materiale da cui muove la narrazione» e del «dispositivo del racconto e del confronto della situazione narrata col presente» (p. 29). Le cose appaiono ben diverse nella raccolta successiva. Nell’indebolimento di qualsiasi struttura narrativa, e in particolare di quelle più complesse sperimentate quindici anni prima, le immagini implodono, assolutizzandosi in un nunc ossessivo quanto imprecisato e in un’enunciazione dai contorni altrettanto sformati. I titoli percolano nelle strofe; il discorso di queste si polverizza rendendole semplici nuclei tematici, spazi di consapevolezze più o meno fluide a seconda della loro lunghezza; l’affabulatorietà degli endecasillabi è corrosa da versi medi inconsueti, da una musicalità degli accenti ondulatoria, fuori di chiave. E però si è detto che il corpo delle due sillogi è sintetico. Anzi, che in questa sinteticità sta la sua forza: la ciarliera affabilità degli Strumenti umani e la pulviscolare dimissione di Stella variabile sono infatti tanto più efficaci quanto più sapientemente bilanciate da opposte compresenze che pure – come visto – hanno in quanto tali valore semantico. Il senso più profondo de La forma desiderata è allora non tanto la descrizione delle semplici peculiarità enunciative delle due raccolte, bensì il ritrovamento preciso di questi punti di dialettica. Il terzo Sereni, pur nella sua pacatezza e nella datità storica degli oggetti e personaggi che lo affollano, pur nei suoi articolati – e precisi – piani temporali, non è privo di apparizioni psichiche, di genettiane «scene dialogate» in astratto tra l’Io e le sue personae, di «semantica dell’incertezza». Lo stesso presente assoluto che frammenterà il libro seguente è già a queste altezze numericamente riscontrato come abbondante, già un tempo allo stato gassoso, «aereo sul piano referenziale» (p. 18) e tenuto in equilibrio per spinte contrarie, prima fra tutte il ben più vivido «presente-astanza» della presa diretta, salutato da Mengaldo nella Tradizione del Novecento. E se questo tempo è ritenuto ideale per il genere lirico in virtù della propria genericità, la raccolta del ’79 – apparentemente la più scettica nei confronti della lingua letteraria- ne risulta accesa per lampi. Lo stesso poemetto che ne fa da cuore pulsante – il celebre Un posto di vacanza – si scopre più poesia in noccioli di senso che corpo unico, più schizofrenia di livelli temporali concentrici o assottigliati dalle deissi am phantasma che architettura narrativa. Ed è tuttavia corpo, solido nella precisione dei suoi spazi, e sono chirurgicamente biografici, parlanti, i fantasmi che lo abitano: ma come per i momenti di armonia sintattica e gli slanci di ortodossia metrica, le isole d’ordine tra i flash appaiono una provocazione orchestrata. È «la permanenza carsica delle cose della vita, il loro sedimentarsi per poi ritornare risalendo il tempo, depotenziando la stabilità del soggetto» che «non riesce a trattenere la continuità dell’esistenza, gli anni o le vite, ma solo “ombre e colori”, attimi, “cose”, che “si sfaldano trasognandoci anni o momenti dopo”» (pp. 81-82). Alla fine dell’analisi di Piasentini è evidente l’imperio della sintropia sulle due opere: le stesse strategie retoriche che le caratterizzano – serie additive e inversioni – sciolgono per esempi reali l’astrattezza dei referenti e innalzano il tono tanto quanto frammentano il dettato, esiliano oggetto e soggetto. Il disordine ordina, e se «il prezzo della comunicazione» è l’apertura all’‘informale’ – e cioè «alla varietà dell’esistenza (omologa alla variatio dello stile)» (p. 104) –, è questo sottile equilibrio tra parti che rende lo stile di Sereni «semplice». Dirà Enrico Testa, in Dopo la lirica, che «mentre investe di dubbi la stessa liceità e onestà della scrittura, riesce a stringere assieme, spesso con effetti dissonanti, […] un risultato complesso ed estremo che deriva dalla caparbia tensione a tener viva, della poesia, la “facoltà di raccogliere altri, e se stessi con altri, attorno a qualcosa”». Allora, è la gestione interiore di queste forze sotterranee a renderlo un modello tutt’ora attivo, in colloquio, e bisognoso di approfondimento: la «compresenza di impotenza e potenzialità, […] la coscienza di una condizione dimidiata e infelice e l’ipotesi di una vita diversa, tanto vaga e sfuggente oggi quanto pronta a riproporsi ogni volta che ne sappiamo cogliere gli indizi, le tracce umane» (p. 36) ci insegna a vivere la crisi ancora oggi, a desiderare la forma.

Luigi Riccio