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Il tempo del lavoro e il suo racconto

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1. Perché la letteratura del lavoro oggi

La diffusione d’iniziative dedicate alla letteratura del lavoro a cui si è assistito negli ultimi anni ha già messo in luce molte questioni rilevanti: ciò non significa, però, che il campionario di strumenti con cui i prodotti culturali contemporanei assorbono e rielaborano le dinamiche che caratterizzano l’odierno mondo del lavoro, non costituisca un campo ancora ampiamente esplorabile. Per questo motivo, in apertura, sembra necessario porsi due interrogativi.
Il primo sorge accorgendosi, in maniera tutt’altro che scontata, che i contributi di questo numero, ancor prima di parlare di forme letterarie, di categorie interpretative, di poetiche e tecniche narrative, parlano prevalentemente di storie individuali, di biografie e autobiografie, di vite particolari insomma. Davanti ad una tale constatazione, dunque, viene naturale chiedersi come sia possibile raccontare una vita, filtrandola attraverso un aspetto così specifico, e in teoria assolutamente non privato, come quello dell’esperienza lavorativa.
Spontaneamente, si potrebbe replicare che nell’età del tardo capitalismo la vita in sostanza è lavoro; quindi, se un individuo passa la maggior parte del proprio tempo esercitando un mestiere, è plausibile che sia portato a parlarne: tutto vero. Ma esiste una risposta più complessa?
Mark Fisher, ad esempio, suggerisce che una delle principali proprietà del realismo capitalista – cioè, quell’«atmosfera»2 storico-sociale capace di permeare integralmente l’esistenza dell’individuo contemporaneo – sia l’abbattimento della barriera tra vita pubblica e vita privata causato dall’estensione della logica produttiva a paradigma assoluto (ciò che egli definisce «ontologia aziendale»3). Tuttavia, è interessante notare come gran parte di questo processo passi per le modalità attraverso cui il lavoro contemporaneo viene organizzato dalle logiche del capitale:

Lavoro e vita diventano inseparabili. […] Il tempo smette di essere lineare e diventa caotico, puntiforme. Il sistema nervoso viene ristrutturato allo stesso modo della produzione e della distribuzione. Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e vivere in condizione di instabilità assoluta4.

Proiettando quest’intuizione sulla produzione letteraria degli ultimi decenni, si può affermare che sia proprio in virtù del modo in cui il sistema postfordista concepisce il lavoro, che nell’ambito della letteratura italiana del terzo millennio, per esempio, un testo come Piove all’insù (2006) di Luca Rastello – volto a ricostruire la storia individuale di un giovane militante degli anni Settanta e i rapporti che essa intrattiene con la grande Storia istituzionale di una nazione – possa aprirsi all’insegna di un licenziamento motivato dalla prassi che regola il nuovo mondo votato alla flessibilità. O ancora, che testi come Works (2016) di Vitaliano Trevisan, Il mondo deve sapere (2006) di Michela Murgia – ai quali, tra l’altro, sono dedicati due contributi del numero – e Ipotesi di una sconfitta (2017) di Giorgio Falco, possano promuovere un discorso sulla costante ridefinizione dei confini tra spazio pubblico e privato nella quale il lavoratore contemporaneo si trova inesorabilmente immerso.
Per la Camilla di Michela Murgia, infatti, al collasso tra le due aree bisogna opporsi evitando qualsiasi immissione di questioni private all’interno di uno spazio forzatamente collettivo come quello del lavoro, il quale, tra l’altro, oggi come mai prima, richiede al lavoratore non solo il timbro del cartellino, bensì creatività ed espressione personale, oltre che «un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo»5: non devi solo svolgere il tuo lavoro, ma devi amarlo e, soprattutto, devi mostrare che ti piace:

Tendono sempre a creare un legame che vada apparentemente oltre il lavoro. Infatti in questo posto non ti è permesso farti i cazzi tuoi. Prima o poi devi condividere con la tua grande nuova famiglia i risvolti della tua vita personale, perché noi qui ti si vuole bene e ci preoccupiamo tutti per te, che tu ti senta a tuo agio e che ti senta accolta. Ecco perché al colloquio ho subito tutta una serie di domande personali a cui ho sistematicamente mentito. Se hai marito, figli, famiglia, hobby… hai motivazioni su cui fare leva. Diventi anche ricattabile sul piano emotivo. Ma – per quanto ne sanno loro – io ho la vita sociale di una disadattata, praticamente non ho nulla di nulla da perdere se perdo questo lavoro. Alla voce hobby ho scritto: scacchi. Nubile, senza figli né animali domestici, non fumo, non bevo, non faccio volontariato, non amo viaggiare, detesto la musica, non vado al cinema, non ho genitori, sono stata adottata, ma non ricordo da chi. Ho la ricattabilità emotiva di un poggiapentole6.

Per Trevisan, invece, la questione sembra essere molto più conflittuale. Infatti, il «Because I need money to live»7 del narratore, in risposta alla domanda «Why do you work?» postagli dall’insegnante d’inglese Mr. Chees – in opposizione alle risposte di tutti i suoi colleghi che connotano l’attività lavorativa come un fattore imprescindibile ai fini della propria realizzazione –, lascia intravedere la necessità di una scissione degli spazi. Ma ciò viene parzialmente discusso dal titolo stesso del testo, il quale, riferendosi alla sequela di mestieri svolti dal protagonista prima di ricoprire quello dello scrittore, dovrebbe adoperare il termine jobs, semanticamente più adeguato di works, che, invece, in inglese ha principalmente la valenza di “opere”, intese in qualità tanto di “manufatti”, quanto di oggetti di carattere artistico8. Avvalendosi dell’estensione a qualsiasi esperienza lavorativa attraversata (compresa quella di scrittore) dell’ambiguità semantica che intercorre tra l’oggetto prodotto manualmente – quindi estraneo al proprio produttore, cioè impersonale – e l’opera d’arte, prodotto in cui è inevitabilmente insito un certo grado di soggettività, Trevisan sembra dunque estrinsecare già dal titolo la psicosi vissuta, da lui come da qualsiasi altro lavoratore, in relazione all’assimilazione tra privato e pubblico al tempo del lavoro di matrice postfordista.
Il fatto stesso di presentare, in molti casi, il lavoro di scrittore come ultimo e definitivo gradino di una lunga scala, è funzionale a desacralizzarne e “deborghesizzarne” lo statuto, a maggior ragione dal momento in cui la possibilità di vivere di ciò che si scrive diventa l’unica discriminante utile a definirsi come tale («avevo pubblicato due libri è vero, ma non mi guadagnavo da vivere scrivendo, cosa per me essenziale per potermi considerare uno scrittore a tutti gli effetti»9). Peraltro, infatti, a quest’idea allude anche la copertina di uno dei libri più importanti usciti di recente sul tema della letteratura working class, Non è un pranzo di gala (2022) di Alberto Prunetti, che presenta, in nero su fondo bianco, una progressione di punte di cacciavite allineate che si chiude con il pennino di una stilografica, in modo che la differenza tra i due oggetti risulti quasi impercettibile.
Tale continuità simbolica, inoltre, dati i presupposti, permette di pensare alla scrittura stessa come ennesimo mestiere in cui non è più possibile conservare alcuno spazio personale. Tant’è vero che – se già Trevisan afferma che «la prima cosa a cui avrei dovuto dire addio, sarebbe stata esattamente questa, ovvero la possibilità di conservare, nella scrittura, uno spazio privato»10 – lo stesso problema è avvertito anche dal protagonista di Ipotesi di una sconfitta:

Non è solo autobiografia, è materia differita, la biografia di ciò che è impersonale e mi circonda e compone. Evito l’immediato riconoscimento di fatti del passato, prego affinché il testo non diventi l’ipermercato della memoria, non voglio trasformare la memoria in una carezza verso me stesso, né scolpire il passato, d’accordo, il marmo della statua è già sottrazione, ma preferisco evitare di scolpirmi, salvarmi fino a diventare piccola statua, meglio trasformare il passato in un flusso mobile che arriva fino a me, l’avvenire inesistente di me stesso, distanza e divenire, la sensazione che le cose possano andare in un altro modo, una nuova possibilità: anche se, lo so, non accadrà nemmeno stavolta11.

È difficile, dunque, non scorgere in questi esempi – come nei contributi che seguiranno – la messa in questione degli effetti della liberalizzazione indiscriminata, del dominio del profitto e della capillarità con cui la logica del tardo capitalismo penetra nell’organizzazione di ogni attività sociale, fino ad investire pienamente il mondo del lavoro e persino quelle tipologie di lavori – come quello culturale – non immediatamente ascrivibili ai processi di produzione e consumo capitalistici.
D’altronde, il rischio che oggi la scrittura finisca per essere una semplice «cassa di risonanza del capitalismo»12 e delle logiche che ne reggono il funzionamento, è paventato, seppur in direzione opposta, anche da un articolo recentissimo di Simona Menicocci relativo all’esperienza dell’Ex GKN. L’autrice del testo, infatti, facendo riferimento alla propria esperienza giovanile di poeta, antecedente alla scoperta, da parte sua, della letteratura working class e fatta di prove «orrende e inutili, iper-espressiviste, fondate sul mito del poeta dotato di privilegi epistemologici»13, afferma:

Il mito del poeta romantico è intrecciato all’individualismo capitalista e viene da esso implementato nei suoi ritornelli imperativi: lavora, produci, acquista, consuma, esprimiti, distinguiti, godi […] Ero un’io senza noi (ovviamente non lo ero, nessunə lo è, ma mi ci sentivo), chiusa in me, nelle mie poesie, in quelle dei morti, nei miei traumi infantili, nei miei drammi familiari, in un fiero titanismo. Le tonalità emotive capitalistiche, come opportunismo, paura, odio, cinismo, disincanto, impotenza, hanno siglato la moralità e gli stili di comportamento delle forme di vita prodotte dalla controrivoluzione neoliberale dispiegata dagli anni Ottanta/Novanta in poi, nella cuspide incarnata da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Sempre partendo dal presupposto dell’intreccio agerarchico tra struttura socio-economica e sovrastruttura simbolico-spirituale, quei sentimenti vengono poi sussunti e diventano requisiti professionali, skills da mostrare ai colloqui e nelle giornate lavorative, ma anche fuori, innervano il tempo della vita e della letteratura14.

In filigrana, dunque, è possibile scorgere come tale dimensione di sospensione tra pubblico e privato, caratteristica dell’organizzazione odierna del lavoro, rappresenti una matrice letteraria particolarmente produttiva nel momento in cui essa si costituisce, contemporaneamente, come sintomo e catalizzatore della porosità tra i due spazi, all’interno di un quadro socio-culturale più generale in cui, come nota Mimmo Cangiano,

la riduzione della nostra carica emotiva verso lo spazio pubblico e il suo indirizzamento verso una valorizzazione delle priorità del privato segue cioè alla credenza (alienata) secondo cui sia comunque la nostra agency privata a legittimare e strutturare l’attuale funzionamento dello stesso spazio pubblico15.

Ecco perché, allora, la tematizzazione del lavoro, la sua rappresentazione in prodotti culturali, può adeguatamente fungere non solo da strumento d’indagine di una storia privata o, per così dire, della storia di una carriera, bensì da paradigma interpretativo della realtà contemporanea nel suo complesso: se il lavoro costituisce il primissimo avamposto del capitale nella vita di un individuo, e la sua organizzazione riproduce un meccanismo di carattere generale, allora indagare e comprendere il lavoro significa iniziare a indagare e comprendere il mondo.
Ciò ci porta al secondo quesito: a cosa ci si riferisce quando si parla di lavoro? Nelle pagine che seguono, infatti, l’operaio – che Marx ed Engels avevano posto come soggetto cardine dell’intera classe lavoratrice – risulta non essere l’unica figura rappresentata ma, nella rosa di testi working class che emerge dai contributi, trovano spazio ghostwriters, accademici, centralinisti e scrittori: tutti precari e alle prese con le sfide del nuovo lavoro flessibile. Questo dato non è ininfluente, poiché certifica che quel processo di «operaizzazione di altre categorie di lavoratori […] all’insegna di una precarietà professionale ed esistenziale sempre più marcate»16 individuato da Ecologia e lavoro (2023) – libro prodotto dal progetto OBERT di cui si può leggere una recensione in coda al numero – è definitivamente avvenuto. In questo senso, dunque, è chiaro che, posto in questi termini, il concetto di “operaizzazione” non rimanda soltanto all’eliminazione della patina ideologica borghese da categorie di lavori che precedentemente erano appannaggio della media borghesia, bensì conduce alla constatazione che, avvicinando altre professioni allo statuto del lavoro operaio, queste ultime si candidino a essere integrate nei soggetti politici della working class.
Se lo scenario storico e politico a cui ci si sta riferendo, infatti, è frutto di un presupposto ineludibile, cioè quella «sconfitta novecentesca del movimento operaio»17 alla quale è seguito il declino di progetti strutturati volti ad una radicale trasformazione sociale, è evidente che, perso il suo fulcro, la classe lavoratrice, per ambire a nuove forme di riconoscimento, abbia inevitabilmente bisogno di coagularsi intorno a nuovi gruppi capaci di rivestire quel ruolo cardinale che in precedenza era prerogativa della classe operaia. Già Prunetti, in verità, nota che oggi «ci sono fette di classe media che si stanno, oltre che impoverendo, anche radicalizzando»18 (verso sinistra), ma afferma che queste dovrebbero spurgarsi dal quel «presunto senso di superiorità etica e cominciare a lasciare da parte tastiere e tertulias per scendere in strada […] al fianco dei soggetti che sanno essere universali nelle loro rivendicazioni»19, assumendo, quindi, un ruolo da agenti marginali. Tuttavia, nonostante tale esigenza sia tutto sommato comprensibile e fondata sulla preoccupazione legittima che la «classe media rischi di occupare tutto il campo della sinistra, gentrificandola»20, ciò su cui la letteratura contemporanea porta ad interrogarsi, è l’effettiva possibilità di scindere fino in fondo l’operaio dal lavoratore operaizzato, nell’epoca in cui l’unica ideologia egemonica rimane quella del realismo capitalista e tutte le sfere della vita, dalla gestione dell’istruzione o della salute, all’organizzazione del lavoro, tendono ad assimilarsi ad un paradigma di matrice aziendalistica. Infatti, se è vero che «da anni ci ripetono che la classe operaia non esiste, e da anni muoiono tre operai al giorno», è altrettanto vero che il «costo del lavoro diventa la morte»21 anche per una studentessa impiccatasi con una sciarpa nel bagno del proprio ateneo o per uno studente lanciatosi dal balcone della propria università poiché ha dovuto mentire sullo stato dei suoi studi.
Forse, allora, è da questo punto di vista che un’indagine della letteratura del lavoro può esserci utile. È plausibile, infatti, che l’emergenza di un filone letterario avente per oggetto il precariato, o in generale le condizioni di lavoro nell’epoca della flessibilità – che prefiguri, per giunta, nei suoi nuclei concettuali e tematici, la possibilità di deborghesizzare e accentrare politicamente lavori e vite che non possiedono un background necessariamente operaio –, sia il sintomo della soggiacenza di un discorso, quantomeno in ambito culturale, volto all’ampliamento del ventaglio dei soggetti in cui si integrano le istanze della compagine del lavoro stipendiato. Se ciò fosse vero, la criticità di cui tale discorso dovrebbe farsi carico sarebbe quella di evitare eventuali appiattimenti delle differenze fra le sfere sociali eminentemente operaie e quelle relative al lavoro stipendiato in generale, ambendo a rappresentare una struttura complessa che contempli soggetti plurimi, chiamati ad integrare il modello novecentesco del movimento operaio. Individuare tale tendenza letteraria, implica, dunque, problematizzare le categorie teoriche con cui si è pensato alla working class, e alla classe operaia, tra Otto e Novecento, provando a rinnovare un paradigma costitutivo del secolo scorso per pensare il presente nelle sue specificità.

2. Romanzo operaio, romanzo industriale, temporalità dell’alienazione

Il primo gruppo di lavori è caratterizzato da un’attenzione ad alcune esperienze romanzesche in cui emerge una dialettica con la cultura dell’età borghese e industriale, o per motivi di pubblicazione dei testi (è il caso di Tea rooms. Mujeres obreras di Luisa Carnés, uscito nel 1934), o in termini di generazioni degli autori (come Ermanno Rea, nato nel 1927), oppure in base al fatto che i testi trattati sono dialettizzati, seppur per antitesi, con archetipi del novel borghese (è il caso di Works di Vitaliano Trevisan che Siri fa reagire con Robinson Crusoe di Daniel Defoe).
Nello specifico, l’articolo di Federica Condipodero utilizza Can the subaltern speak? (1988) di Gayatri Chakravorty Spivak come chiave di accesso a Tea rooms di Carnés, mettendo in evidenza la centralità dell’elemento di genere per pensare il concetto di subalternità. L’autrice propone prima di tutto un’introduzione alla figura di Carnés, operaia in una fabbrica di cappelli, poi dattilografa presso la Compañia Iberoamericana de Publicaciones, ancora cameriera in una sala da tè, inoltre iscritta al Partito comunista spagnolo. L’autrice ha il merito di valorizzare, con una forte sensibilità alla storicizzazione, la componente “interdiscorsiva”, nel senso di Segre, del romanzo di Carnés, nel suo dialogare con istanze «che facevano parte del dibattito pubblico e politico contemporaneo», nella Spagna «in piena industrializzazione e avenzamento tecnologico, in cui apparivano i primi segni di modernità e in cui venivano ridefinite le posizioni delle donne». Tra i riferimenti interdiscorsivi, c’è ad esempio un’allusione alla legge del 1931 che impediva alle donne sposate di accedere al lavoro salariato, oltre che reminiscenze di voci della città di Madrid degli anni Trenta. È lo scenario della Madrid alle soglie del colpo di stato del 1936 da cui si sarebbe instaurato il regime franchista, prima del quale Carnés andrà via dal paese, verso il Messico. Inoltre, Condipodero propone rilievi di tipo formale, che riguardano ad esempio la voce che enuncia in terza persona nel romanzo di Carnés, spesso utilizzando strategie di rappresentazione dell’interiorità di una delle lavoratrici salariate della sala da tè, Matilde. L’argomentazione dell’autrice non può che confrontarsi anche con una riflessione sul genere di Tea rooms, mettendo in rilievo l’utilizzo dei moduli dell’inchiesta-reportage, ibridati con la matrice autobiografica del romanzo. Di un certo interesse è anche il supporto teorico di Silvia Federici, che ha riletto la tradizione materialistica in chiave di genere. L’analisi si concentra sul personaggio di Matilde, che, come scrive Condipodero, utilizzando Paulo Freire, «vive un processo che si potrebbe definire di coscientizzazione», costruendo la sua opposizione sia alle dinamiche di sfruttamento subite in quanto lavoratrice salariata sia in quanto donna di cui è propria un’indotta aspettativa di realizzazione familiare nel matrimonio. Infine, molto interessante e degno di ulteriori approfondimenti il suggerimento che l’istanza di trasformazione della prassi di lotta sociale femminile, espressa dal romanzo di Carnés, sembri dialogare col femminismo socialista di primo Novecento, con autrici come Clara Zarkin e Alessandra Kollontaj.
L’articolo di Roberta Borzillo propone invece un percorso sulla letteratura industriare che, a partire da uno sguardo sul Novecento, su Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Carlo Bernari, oltre che sulle scritture eminentemente operaie, approfondisce poi in modo più ravvicinato La dismissione (2002). Il romanzo di Rea è considerato come ultimo tassello di un percorso che, parallelamente alla trasformazione del tessuto industriale italiano all’inizio del nuovo millennio, conclude una fase anche simbolica in cui il cronotopo della fabbrica conservava una sua pertinenza. Com’è noto, La dismissione rappresenta l’agonia dell’Italsider di Bagnoli. L’autrice si sofferma prima di tutto sul problema del genere del testo di Rea, che si presenta come un romanzo, seppur tale definizione risulti insufficiente, in primis per la modalità più specifica del romanzo epistolare, ibridata con soluzioni da non-fiction e da inchiesta. Tale oscillazione è oggetto di riflessioni metadiscorsive nella stessa introduzione al romanzo firmata da Rea e anche nell’ultimo capitolo, in cui la funzione autoriale afferma di aver sottoposto a rielaborazione finzionale le vicende del protagonista, Vincenzo Buonocore. Borzillo analizza la crasi fra la storia individuale di Buonocore (ad esempio la sua storia con Marcella) e la storia di fabbrica. L’autrice mette in luce le modalità attraverso cui Rea costruisce la relazione simbiotica fra i personaggi e la fabbrica. Rilevante, da questo punto di vista, l’isolamento di soluzioni retoriche stranianti con cui Buonocore afferma di auspicare un celere smontaggio della fabbrica: come scrive Borzillo, Buonocore sembra «preso da una sorta di luddismo causato dall’amore». Lo scenario oggettuale del cronotopo di fabbrica è in effetti connotato nel romanzo attraverso una serie di metafore del femminile e dell’infatuazione, oltre che da una serie di figure del religioso e del sacro che fanno della fabbrica una «fabbrica-chiesa». Altro aspetto interessante riguarda la tensione della storia di Rea all’universale: nella microstoria dell’Italsider si custodisce il senso di una dismissione più generale, anche esistenziale e mortifera, salvata solo dalla smania archivistica e collezionistica di Buonocore. Tale dismissione invade potenzialmente la Napoli post-industriale (allegorizzata in Marcella), il Meridione mediterraneo, il Sud del mondo. Infine, Borzillo pone il romanzo di Rea come possibile anello di congiunzione fra la parabola della letteratura industriale e quella della letteratura del precariato.
L’articolo di Nicole Siri si confronta invece con Works (2016) di Trevisan. L’autrice rileva primariamente le aporie dei giudizi sull’esperienza del lavoro che il narratore-protagonista enuncia nel corso del testo: tale esperienza è connotata sia come una maledizione sia come qualcosa di gratificante. Siri espone sin da subito la tesi per cui tali contraddizioni possono essere messe in relazione con un’eredità dell’etica borghese e possono essere interpretate in relazione a un’esperienza della temporalità. L’autrice inserisce alcuni passagi gnomici di Works, soprattutto quando il protagonista va in mobilità e fa esperienza di uno straniante spare time, nella tradizione dei moralisti francesi, allusa già dagli exerga tratti dai Saggi di Montaigne e dai Pensieri di Pascal. Particolarmente interessante l’analisi della contraddizione che vuole il lavoro sia come un mezzo di sostentamento che come una chimerica invenzione. Siri dialettizza tale aporia col paradosso borghese del detentore dei mezzi di produzione che sceglie di lavorare senza una reale necessità di farlo. Qui l’argomentazione, di notevole interesse, si confronta col capitolo del Borghese (2017 [2013]) in cui Franco Moretti analizza Robinson Crusoe, rilevando e interpretando simbolicamente la persistenza, nel romanzo di Defoe, di una struttura sintattica che è specchio di una «ragione strumentale» assunta a «pratica linguistica». Siri rileva che le strutture della ragione borghese in Trevisan sono in un certo senso rovesciate: alla sintassi misuratamente ritmata tra soggetto, oggetto e verbo di Robinson si contrappongono le forme statiche, i «sostantivi “vuoti”» e le figure di ripetizione di Works. L’autrice si interroga poi sul tono euforico che pervade comunque l’esperienza del lavoro del protagonista di Works. Tale analisi si concentra sulla ricorrenza di un Leitmotiv che presiede al racconto delle mansioni svolte del protagonista: egli aderisce emotivamente a tali esperienze alludendo ricorsivamente alla sensazione di «esserci per così dire». Nell’analisi di Siri, emerge allora l’immagine di uno «stato di trance indotto dal lavoro, come quello in cui si trova Levin nelle pagine di Anna Karenina dedicate alla falciatura. Lavoro come meditazione in movimento, come concentrazione sul presente: come, paradossalmente, una forma di contemplazione attiva». A questo punto, l’assonanza di alcuni passaggi di Works con le tesi esposte da Eugène Minkowski in Il tempo vissuto (1933) porta a interrogare l’emersione di un’idea di distensione psichica come risoluzione della lacuna fra il soggetto e il divenire dell’ambiente in cui è calato. Siri ha il merito di provare a dare un’organicità alla concezione del tempo in Trevisan, coinvolgendo anche altri scritti come il postumo Black Tulips (2022). Ne risulta un’idea di discrasia fra tempo interiore ed esteriore, coerentemente minkovskiana, e in particolare un’idea di mancata proiezione nell’avvenire, una percezione di eterno presente che caratterizza lo stato del melanconico. Essa è vissuta dal disfunzionale di Works in modo irrimediabilmente contrapposto rispetto alla funzionalità borghese di Robinson.

3. Subalternità e lavoro culturale

A inaugurare il panorama della letteratura del precariato è la generazione di Michela Murgia, il cui esordio in narrativa, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria (2006), appare tra i testi commentati da Marianna Scamardella. L’articolo affronta anzitutto il problema della distanza ontologica che intercorre fra la letteratura industriale e la letteratura del precariato, nella quale il lavoro non si configura più come «epicentro» del sistema di significati attraverso cui si organizzano i modelli di comprensione del mondo e delle relazioni umane; esso è piuttosto indizio di un conflitto costante, combattuto silenziosamente e ad armi impari, che non conduce a un’interpretazione complessiva dei ruoli degli attori coinvolti. L’analisi si estende poi alla raccolta Lavoro da morire. Racconti di un’Italia sfruttata, uscita per Einaudi nel 2009: sebbene l’attenzione sia rivolta principalmente ad Alla pari di Murgia, non vengono trascurate altre prose brevi del volume, come ad esempio Liberazione di una superficie di Giorgio Falco, Luce nella battaglia di Barbara Garlaschelli, Tempo parziale di Carmen Covito. Un oggetto d’indagine è la rappresentazione spaziale nei testi della scrittrice sarda, dove è riscontrata una netta predilezione per gli ambienti chiusi e un silenzio significativo sul paesaggio isolano, che, lungi dall’essere celebrato nelle sue bellezze, viene menzionato solo nelle due occasioni in cui è legato all’esercizio di una professione: questa frequentazione quasi esclusiva del luogo di lavoro comporta spesso una fusione simbiotica tra personaggio e ambiente, veicolata da sineddochi e metafore del corpo malato. Il posto è la notte, in cui vengono individuate strategie retoriche che enfatizzano l’associazione fra scrittore e lavoratore, tra lettore e cliente, è l’ultimo racconto di Murgia che viene commentato insieme alle altre storie della raccolta laterziana da cui è tratto, Sono come tu mi vuoi (2009), nella quale si registra «un ampliamento dello scenario sociale», popolato non solo da operai salariati ma da lavoratori della cultura, stagisti televisivi, venditori ambulanti immigrati, macchinisti.
Il contributo di Lorisfelice Magro si sofferma su un corpus di testi, pubblicati negli ultimi quindici anni, riconducibili al sottogenere del campus novel italiano. Affinando lo sguardo a partire dalle riflessioni della sociologia sul tema, l’autore si propone di commentare i recenti romanzi accademici rintracciando in essi i fenomeni e le dinamiche tratteggiate da Pierre Bourdieu e Jean Claude Passeron in opere come Les Héritiers. Les étudiants et la culture. La ricognizione, che si allarga occasionalmente anche ad altre forme espressive come quelle del graphic novel, del cinema e delle serie tv, tenta di definire le cifre peculiari, i temi e gli espedienti che presentano queste narrazioni, il cui comune scenario è l’università, luogo contaminato da una competizione malsana quanto sofisticata che arriva a generare i sentimenti più meschini, come il «colpevole sollievo per i fallimenti altrui» descritto da Ilaria Gaspari. Si tratta di opere che ragionano molto sul potere e su un tipo particolare di capitale: il tempo, strumento di dominio che l’ordinario di turno può esercitare mediante «l’arte di far attendere»22 i sottoposti in una zona di sospensione che li renda deboli e mansueti. L’accademia si configura così come un antagonista macroscopico che si nutre di uno spirito neoliberista e sottrae tempo, energia e possibilità di progettazione allo studioso. Quanto più precario è il lavoro, tanto più totalizzante diventa l’immersione in esso: il ricercatore che spera in una prossima stabilità cancella o rimanda in un futuro indefinito qualsiasi impegno che possa essere d’ostacolo alla costruzione della carriera, sprofondando in un’occupazione che «ruba tempo alla vita». Il protagonista di questi romanzi esplorati da Magro è solitamente il «delfino», un lavoratore culturale precario il cui destino professionale dipende da un «protettore». Di qui la totale anonimia che avvolge questi eroi, la cui identità in ambito accademico non è definita se non in rapporto all’ordinario cui si sono affidati.
Sulle rappresentazioni del lavoro culturale si concentra anche l’articolo di Maria Teresa Casiello, che però focalizza l’attenzione su due soli romanzi, rispettivamente Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi e Parigi è un desiderio di Andrea Inglese, in cui è particolarmente vivo quel «bisogno morale di ritorno alla realtà»23 che Raffaele Donnarumma registra nella narrativa prodotta a partire dagli ultimi anni del secolo scorso. L’autrice confronta queste due narrazioni in prima persona per ricavarne, a cominciare dalla morfologia e dalle finalità, gli «elementi differenziali». Col supporto di una bibliografia sulla letteratura del lavoro, dimostra come queste scritture dell’io abbiano il fine di raccontare la classe lavoratrice, spesso oggetto di rappresentazioni equivocanti. L’autobiografia del working class hero non è quindi un luogo di egocentrica introspezione ma un atto di militanza. Con le parole di Alberto Prunetti: non è «narcisismo» ma «autorappresentazione»24. A pensarci, il romanzo italiano ha per molto tempo rivendicato uno spazio per gli umili; sin dai suoi esordi, quando l’Anonimo dell’Introduzione ai Promessi sposi promette di illustrare la vita di «gente meccaniche, e di piccol affare». Ma una differenza fondamentale può essere rinvenuta proprio nel nuovo atteggiamento assunto da queste voci contemporanee, stanche dello sguardo paternalistico di un narratore esterno che mostra con una forma di compiacimento le vite altrui, estetizzandole come uno spettacolo di povertà e miseria. Oggi la working class prende parola e si autorappresenta, cercando di smantellare le retoriche diffuse. Questi romanzieri che s’incaricano di raccontare il lavoro generano una riemersione dell’«esperienza» nella letteratura contemporanea che conferisce loro una nuova «autorità». Casiello individua in Inglese e Baldanzi una parentela coi narratori originari (mercanti e agricoltori) descritti da Walter Benjamin, che permettevano al lettore di accedere a pezzi di realtà da lui inesplorati. Raccontare il lavoro, infatti, argina il rischio che esso diventi una nuova forma di esotico, un argomento ignorato o mal percepito dal pubblico borghese.
I contributi di Magro e Casiello sono accomunati dal rilievo delle caratteristiche principali delle scritture del lavoro: i protagonisti sono precari, migranti; incarnano una marginalità geografica e professionale che traccia spesso nelle loro parabole esistenziali il segno del fallimento. Entrambi gli autori suggeriscono che la narrativa contemporanea sul lavoro evita gli obsoleti schemi manichei della vittima e del carnefice, preferendo una prospettiva più problematizzante, che metta in rilievo la collusione di clienti e padroni, precari e ordinari, individuo e sistema.
Il saggio di Luigi Riccio si sofferma su una forma specifica di lavoro della conoscenza, quello dei poeti, ragionando sulle recenti pubblicazioni di Demetrio Marra e Ophelia Borghesan. Anche in questo caso, l’autore pone l’accento su una costitutiva «organicità al capitale» del lavoratore-poeta, contribuendo a demolire l’immagine idealizzata e diffusa dell’uomo di cultura a favore dell’osservazione più approfondita di una realtà complessa. Il «mestiere della poesia» non è automaticamente in contrasto con il sistema capitalistico; l’intellettuale non ne è l’«antagonista», come hanno voluto credere alcuni esponenti del secondo operaismo italiano. Anzi, Riccio mette in rilievo sia una sostanziale dipendenza del lavoratore-poeta dal consumatore dei suoi prodotti, che regola e addirittura informa l’atto creativo, sia la postura performativa, tipica delle classi dominanti, che lo scrittore assume per guadagnare qualche consenso. Un’altra forma di adesione al sistema capitalistico da parte dell’artista sta nel riuso di materiale la cui fortuna presso il pubblico è già consolidata. Ne consegue il rilievo dello statuto essenzialmente conservatore, e non rivoluzionario, del professionista della poesia, che nella generale situazione economica precaria non osa procurare esperienze «traumatiche» a un lettore già istruito su come orientarsi entro confini e luoghi noti. All’interno di questa cornice sociologica (che tesaurizza le riflessioni di Weber, Bourdieu, Vasallo e molti altri) l’opera di Demetrio Marra viene letta quale caso paradigmatico del tentativo consapevole di evasione dalle logiche produttive e campione di una rinuncia al desiderio di conseguire le diverse forme stratificate di successo (materiale, simbolico, morale) indagate da Riccio. Tuttavia, il saggio si chiude facendo notare che nella situazione contemporanea la diffusa incapacità di immaginare un futuro diverso dalla situazione presente ha ricadute sulla percezione, da parte del poeta, del proprio potere di intervento, creativo e pragmatico, nella realtà. Pertanto, l’elaborazione del nuovo, ossia il passo in avanti verso un tempo, forme e contenuti diversi, diventa un mito a cui non si ha la forza di credere. Questa sfiducia immobilizzante può produrre soltanto un recupero di forme e simboli già dati, favorendo la comparsa di estetiche come quelle del Vaporwave, e una denuncia della ridotta quanto inesistente agency del lavoratore della conoscenza.


  1. Al netto di una condivisione generale del testo, il primo paragrafo si assegna ad Alberto Scialò, il secondo a Nicola De Rosa, il terzo a Gianluca Della Corte.

  2. M. Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2018, p. 50.

  3. Id., Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, Roma, Minimum fax, 2020, p. 181.

  4. Id., Realismo capitalista, cit., p. 79.

  5. Ivi, p. 87.

  6. M. Murgia, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Torino, Einaudi, 2017, p. 104.

  7. V. Trevisan, Works, Torino, Einaudi, 2016, p. 372.

  8. A tal proposito, devo a un intervento di Vittorio Celotto, tenutosi nell’ambito dell’Osservatorio sul romanzo contemporaneo (<https://www.osservatoriosulromanzocontemporaneo.it/>) il 24 marzo 2022 presso l’Università di Napoli Federico II, alcune delle considerazioni maturate su Works di Trevisan.

  9. V. Trevisan, Works, cit., p. 455.

  10. Ivi, p. 332.

  11. G. Falco, Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi, 2017, p. 374.

  12. S. Menicocci, GKN, che il nulla sia tutto, in «lay0utemagazine», 8 giugno 2024, URL <https://www.layoutmagazine.it/che-il-nulla-sia-tutto-archivio-affettivo-gkn/>, consultato il 21 giugno 2024, corsivo mio.

  13. Ibidem.

  14. Ibidem.

  15. M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Milano, Nottetempo, 2023, p. 138.

  16. C. Baghetti, M. Candiloro, J. Carter, P. Chirumbolo, M.L. Mura, Un’origine culturale dell’antitesi ecologia-lavoro, in Ecologia e lavoro. Dialoghi interdisciplinari, a cura di C. Baghetti et al., Milano-Udine, Mimesis, 2023, p. 22.

  17. M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, cit., p. 137.

  18. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, Roma, Minimum fax, 2022, p. 74.

  19. Ivi, pp. 74-75.

  20. Ivi, p. 75.

  21. Ivi, p. 83.

  22. P. Bourdieu, Homo academicus [1984], trad. it. di A. Di Feo, Napoli, Dedalo, 2013, p. 150.

  23. R. Donnarumma, Nuovi realismi e persistenze postmoderne: narratori italiani di oggi, in «Allegoria», XX, 57, 2008, p. 28.

  24. A. Prunetti, Non è un pranzo di gala, cit., p. 187.