Leggenda aurea. Quasi un editoriale
Il 24 aprile 2020 alle 19.24, in pieno lockdown, mi viene recapitata sulla casella di posta istituzionale una mail ai confini della realtà. Qui di seguito, previo consenso del mittente ormai non più ignoto, il testo integrale: «Gentile professore, “Aura” è una rivista web che partirà a breve (almeno un primo numero prima dell’estate). L’idea è di aprire una panoramica web – indipendente, open source, senza alcuno scopo di lucro – sulla saggistica e sulla ricerca umanistica, raccogliendo brevi contributi (dalle 8.000 alle 15.000 battute); coinvolgendo docenti, ma anche dottorandi e studenti selezionati. Il link allegato in basso rimanda al sito appena creato; come vedrà è ancora piuttosto sgombro. Nello specifico, la pagina linkata è quella dell’unico post attualmente visibile, che vuole essere un invito agli autori e una proposta ai lettori. Lo staff, che vorrebbe rimanere anonimo, ha pensato di invitarla in questo esperimento e accoglierebbe con piacere un suo contributo per il primissimo numero. Non ci sono restrizioni di contenuti e i saggi che aprono al dialogo inter artes e tra discipline sono particolarmente apprezzati. La forma invece deve rispettare criteri redazionali scientifici. Ripensando al suo ultimo seminario web sul contagio, un suo focus scritto sul tema sarebbe accolto davvero con piacere». In calce, una firma che riverbera luci del varietà: «aurarivista».
I miei occhi restano incollati allo schermo del pc. Mi colpiscono soprattutto la capacità di visione, la civiltà dell’invito, l’eleganza del tratto. E mi dico: accidenti, c’è voluta una pandemia (e c’è voluta un’epoché: «Adesso siamo a casa. | È portentoso quello che succede. | E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano»; Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaventi) perché alla Federico II alcuni studenti in gamba decidessero, in modo del tutto spontaneo, di realizzare qualcosa che Claudio Gigante e io già fantasticammo nei poco formidabili anni Novanta. Cioè: una rivista indipendente e, per dir così, fatta a mano; “selvaggia” e però rigorosa; capace, infine, di assecondare e incanalare i fervori di quel momento irripetibile dell’esistenza che sono i vent’anni. Comincio allora a rimuginare sulla mia “età d’oro”. No, noi non ci riuscimmo: non avendone i mezzi, ché all’epoca per pubblicare qualsiasi cosa bisognava abbattere alberi; e non avendone forse neppure lo slancio. (Ricordo che volevamo battezzarla, con buona dose di concettismo, “Cablas”: a legare da un lato lʼafflato lirico delle coblas provenzali e dallʼaltro il sogno, o lʼincubo, di un pianeta globalmente interconnesso mediante cablaggio, in quegli anni segnati dalla rivoluzione di internet. Un titolo che abbiamo poi riciclato per un’altra avventura, ma appunto sul web; dopodiché quel calembour ha fatto la fine che meritava).
Flashback. Circa un mese prima, il 27 marzo, Franco Moretti mi aveva anticipato una premessa scritta per la riedizione di Segni e stili del moderno, raccolta einaudiana di saggi giovanili già usciti, in massima parte, su un’eroica rivista romana degli anni Settanta, “calibano”. Tre paginette smaglianti e nostalgiche, dove quella stagione veniva ricordata così: «un saggio su rivista non era come porre un mattone nella grande cattedrale del sapere; era uno schizzo di tutta la cattedrale; sghembo, e magari troppo microscopico per essere preso sul serio; ma quella cosa lì. In ogni pozzanghera, si provava a vedere il firmamento. Gran fatica, grande libertà».
Libertà… Insomma – sarà che a mezzanotte sarebbe scoccato il 25 aprile, sarà che la pozzanghera di Moretti aveva già smosso qualcosa nel mio privato firmamento: ancora una volta – quella mail anonima mi emozionò e provocò anche un pizzico di benevolissima invidia. Chissà perché, non scrissi il pezzo sul contagio richiesto per il debutto; mentre per il secondo numero, esaltato anche dalla radiosa grafica, diedi il testo di un’improvvisazione che avevo riservato a uno dei temi che conosco peggio, il calcio. Ma soprattutto, divenni lettore assiduo di “Aura” (che da allora non ha perso un colpo, uscendo puntualmente in tutte le idi di marzo, giugno, settembre e dicembre), nonché talent-scout alquanto discreto, nel senso che, forse sull’abbrivo di un decennio di opifici e di laboratori, presi l’abitudine di segnalare alla redazione i paper più ispirati e brillanti tra quelli elaborati dagli allievi dei corsi di Letterature comparate. Nel frattempo “Aura” è cresciuta moltissimo, ha affinato i meccanismi di selezione, ha preteso sempre di più dai suoi collaboratori e ha conquistato una certa autorevolezza; fino a sentire il bisogno di compiere il grande salto, riorganizzandosi e mirando allo statuto di “rivista scientifica”. Revisione cieca, più sofisticata filiera editoriale, staff ampliato e internazionale, comitato composto anche da docenti, sezioni monografiche, call for papers, recensioni, uscite più concentrate, un editore di rango, print on demand, ISSN, DOI e tutti i complicati forestierismi e burocratesi acronimi del caso. Quanto al direttore responsabile, deve essere stata l’ormai conseguita età argentea a indurre gli amorevoli realizzatori a chiedermi di guidare questo nuovo corso. Sinceramente onorato per l’invito, l’ho accolto soprattutto per una ragione: conosco così bene la squadra di “Aura” da essere persuaso che saprà resistere al Leviatano, serbando intatte l’inquietudine e la libertà intellettuali di oggi.
Quello che il lettore ha ora davanti agli occhi, o addirittura tra le mani, è a tutti gli effetti un oggetto diverso dal passato: non ortopedizzato, ma certo ottimizzato. Impiegherò poco a illustrarlo, poiché l’indice è limpidissimo. C’è una sezione monografica, che in questo fascicolo si concentra su un tema cruciale come la rappresentazione letteraria del lavoro (il termine in esponente, verifica, ha ricercato retrogusto fortiniano): i collaboratori sono stati reclutati attraverso una call redatta dagli estensori del saggio introduttivo. Il fuoco è sull’estremo contemporaneo; due degli autori in esame, Vitaliano Trevisan e Michela Murgia, ci hanno purtroppo lasciato recentemente, e prematuramente. C’è poi una miscellanea che contiene contributi di taglio molto diverso, dalla filologia all’ermeneutica, dalla critica tematica alla teoria letteraria. Ci sono due pamphlet elaborati da altrettanti drappelli dell’Osservatorio sul romanzo contemporaneo che coordino con Elisabetta Abignente (il modello è quello del LitLab di Stanford, del quale proprio a Napoli, con la cura di Giuseppe Episcopo, traducemmo i saggi): anche qui eclettismo di metodo, ma con un palese primato della sociologia, come prescritto dall’oggetto di studio. Ci sono recensioni, una delle quali dedicata a un volume che affronta questioni prossime a quelle della nostra sezione monografica. Infine, ci è parso giusto che ciascun fascicolo ospitasse un intervento per così dire “militante”, consacrato a temi di politica culturale o di politica tout court: abbiamo intitolato questa rubrica “Choc”, giocando un po’ con le categorie di Benjamin.
Anche se – come proprio il contributo di Guido Cappelli qui pubblicato mostra efficacemente – non è che ci sia tanto da giocare: il nostro presente è davvero contraddittorio e ricattatorio, specie per chi si avvicini alla ricerca con qualche ambizione. Stato di emergenza e precarietà ormai strutturale da un lato, ansia performativa e misurazione dei risultati dall’altro costringono i giovani ricercatori entro una spirale cogente e frustrante, fatta di efficienza, di competitività e, in ultima analisi, di reificazione (il che rende tanto più pertinente il tema di questo fascicolo). Standard scientifici, eccellenza, valutazione sono parole d’ordine che la mia generazione ha avuto la fortuna di non dover ascoltare tormentosamente negli anni della formazione e del furore. Ciascuno di noi si concedeva tutto il tempo necessario per coltivare le passioni, per far sedimentare il sapere, per sviluppare i ragionamenti; e le idee venivano quando venivano, nella fiducia che la linfa dei libri e quella dell’esperienza nutrissero una sorta di processo naturale. C’erano in questa dimensione (che era, in uno, di otium e di studium) una gratuità, un coraggio, una serendipità che risultano lontanissimi dagli attuali “prodotti della ricerca” e dalla rincorsa delle “mediane”. Ecco perché lo slancio e le buone pratiche di “Aura”, anche – e forse ancor più – oggi che vengono a patti con il secolo in cui siamo gettati e col relativo Zeitgeist, devono essere guardate con gratitudine e con speranza; tenendo a mente l’auspicio che lo stesso Moretti formulava nella eutopica chiusa della sua premessa: «Coloro che verranno si guarderanno attorno, e costruiranno le loro riviste, il loro saggismo, la loro libertà. E vivranno, per un po’, felici e contenti».
Il primo fascicolo del nuovo ciclo di “Aura” è anche il primo dopo la perdita di quello straordinario maestro di Letteratura spagnola e di Letterature comparate che è stato, per tutti noi e per moltissimi altri, Antonio Gargano. Ci è caro dedicarlo alla sua memoria e alla sua lezione.