L’eternità in una goccia d’acqua. Il tempo magico di negromanti e narratori: dalla novellistica medievale a Borges
Il tempo, cosa strana […]
Sui volti cola, cola nello specchio,
e scorre nelle mie tempie.
Ed è tra te e me, e scorre ancora. Silente
Come una clessidra.
H. von Hoffmannsthal, Il Cavaliere della Rosa
La novella XXI del Novellino, raccolta che nella sua versione primitiva risale all’ultimo ventennio del XIII secolo, rappresenta uno dei primissimi esempi di racconto fantastico della letteratura europea. È la prima volta che, in una lingua volgare, si cerca di rappresentare attraverso la rigida causalità e l’ordito teleologico della trama narrativa, la negazione di quello stesso ordine causale e progressivo. E così, la fuga obbligatoriamente frazionata dell’intreccio s’arresta, la fine rimane posticipata ad infinitum, e l’eroe e il lettore del racconto vivono insieme l’esperienza extratemporale dell’eternità. Il movimento dinamico del tempo rivela il modello da cui deriva: l’acronia e l’atemporalità divine. L’arte della narrazione mostra, forse, una delle sue qualità più ataviche ed essenziali; quella di giocare con il tempo, esibendo la sua natura malleabile ed elastica di illusione tutta terrena e mentale.
In due brevissimi quanto illuminanti contributi di Alberto del Monte1 e di Cesare Segre2, il racconto è isolato quale capostipite del motivo narrativo del ‘tempo fallace’, o illusorio, e i due filologi ne seguono la traccia nella storia della novellistica europea, principalmente in un esempio del Conde Lucanor di Juan Manuel e in una novella del Paradiso degli Alberti di Giovanni da Prato. Segre è il solo, però, ad avventurarsi più oltre, fino ad Ariosto e Borges. A guidarlo in questa impresa di ‘spigolatura’ filologica è un dettaglio/mitema in apparenza marginale: l’operazione del lavaggio delle mani, posto a cornice del viaggio nel tempo. Gli appunti che seguono vorrebbero servire da ideale prosecuzione di questi due lavori.
La novella XXI prende avvio alla corte di Federico II. Un giorno, tra i signori giunti per mostrare all’imperatore i loro talenti e in cambio ricevere doni, si presentano anche tre negromanti. Federico, che nel frattempo «facea dare l’acqua»3 per lavarsi le mani in vista del pranzo, gli chiede un saggio della loro arte e subito, lanciato un incantesimo, i tre riescono a perturbare il tempo scatenando una terribile e burrascosa grandinata. Sconvolto, l’imperatore gli chiede prima di far tornare il sereno e poi quale dono vogliono come ricompensa. I tre chiedono a Federico che il conte di san Bonifazio possa venire in loro soccorso contro un temibile nemico che minaccia il regno. Permesso accordato e il conte parte con loro, sconfigge tre volte il nemico sul campo, conquista la terra, si sposa, ha figli e «dopo molto tempo» vince la signoria. Lasciato in questa meravigliosa condizione per «grandissimo tempo», il conte è ormai «vecchio»4, i negromanti riappaiono e gli chiedono di tornare alla corte dell’Imperatore. Nonostante le sue rimostranze – molti sovrani saranno ormai succeduti a Federico, anche i cortigiani saranno ora tutti nuovi – i negromanti lo convincono e arrivati a corte ritrovano l’imperatore e tutti i suoi baroni d’un tempo «ch’ancor si dava l’acqua»5, proprio come allora, al momento della partenza. Divertito dal secondo incantesimo dei negromanti, Federico fa raccontare al conte la sua storia una prima e una seconda volta: «I’ ho poi moglie; e figliuoli c’hanno quarant’anni. Tre battaglie di campo ho poi fatte; il mondo è tutto rivolto: come va questo fatto?»6.
I dettagli numerici, quarant’anni e tre battaglie condensati in un punto, non quadrano e la sorpresa del conte è solo accennata dalla domanda finale cui nessuno sa dare altra risposta se non quella di raccontare nuovamente il resoconto miracoloso.
Se all’inizio avevano perturbato il tempo inteso nella sua accezione metereologica, il viaggio del conte perturba la durata, dando al conte l’illusione di aver vissuto una vita intera, quarant’anni, quando in realtà non è passato neanche un istante. I negromanti dominano non solo i mutamenti del cielo ma anche il corso degli astri e, come gli angeli, hanno il potere di contrarre ed estendere a piacimento il destino degli uomini. È attraverso i corpi celesti, infatti, che il volere divino s’imprime sul mondo sublunare, dispiegando nel tempo ciò che si è già e non ancora compiuto nel presente eternizzato di Dio7. La volta celeste è il libro su cui gli angeli trascrivono la storia dell’universo, traducendo la fulminea intuizione dell’eternità in serie di prima e dopo, causa ed effetto, perché non hanno «vedere interciso / da novo obietto»8. Posizionati sull’orizzonte tra tempo e senza tempo la loro prospettiva non è deformata da novità o ricordi, dalla logica della successione.
I negromanti, dominando gli astri, diventano padroni del racconto, narratori intradiegetici in cui l’anonimo compilatore della novella vede il riflesso d’ogni narratore. Lo stesso conte, alla fine, da abile condottiero si trasforma in cantore di successo, trasformando il resto della novella in cornice e la storia del viaggio fantastico in racconto incastonato in un altro racconto. Il tempo soggettivo costretto entro i termini di quello oggettivo. Come suggerisce Alberto Varvaro a proposito del rapporto tra le due parallele, eppure sfasate, temporalità di cornice e racconto:
Questo complesso intarsio finisce per annullare la distinzione a noi consueta tra narratore e narrato, in quanto il narrato si trasforma di continuo in narratore e poi ritorna narrato, in un interminabile gioco di scatole cinesi. D’altro canto, diventa scarsamente significativa la stessa struttura lineare del racconto: ogni storia ha il suo tempo narrativo e la pluralità e sfasatura reciproca dei tempi finisce con l’annullare il loro valore in una sorta di a-cronia narrativa9.
Chi è il vero autore del breve apologo? Il compilatore del Novellino che, con finezza narrativa, accelera il ritmo della trama proprio quando la sua durata è rallentata e la dilata quando si tratta di descrivere brevi attimi? Oppure quella che il lettore ha appena letto è solo una delle versioni del conte, l’ennesima, e fabula e sjuzhet si riavvolgerebbero, così, uno sull’altro in un moto circolare che ritarda indefinitamente la conclusione, ad imitazione della compresenza in un punto di passato, presente e futuro?
È grazie al personaggio del negromante che l’eternità entra nella narrativa occidentale, liberando potenzialità finora insondate della prosa. Tramite questo personaggio penetra nell’Occidente cristiano un nuovo modo di concepire in termini narrativi la relazione tra tempo ed eternità, finitudine ed infinito, divenire ed essere. La porta d’accesso è Al-Andalus dove, durante la ‘rinascita’ del XIII secolo, si traducono dall’arabo e dall’ebraico in castigliano, in latino e poi via via nei vari volgari pressoché simultaneamente il corpus aristotelico fortemente neoplatonizzato, trattati d’astronomia, astrologia, alchimia, e le raccolte di racconti che saranno all’origine di tutta la novellistica europea: il Calila e Dimna, il Sendebar, e Barlaam e Josaphat10.
È, forse, proprio Alfonso X “El Sabio”, il grande protagonista di questo incontro di culture, il primo ad usare il mitema dell’atto di lavarsi le mani. Nella cantiga CIII, infatti, un monaco chiede alla vergine di mostrargli la beatitudine che avrebbe atteso gli eletti in Paradiso. Chiede che questo avvenga ora, in vita, prima della morte. Si reca a pregare nel solito giardino e vi trova una fonte che mai aveva veduto prima. Si lava, con cura, le mani nell’acqua chiarissima, e la vergine gli fa ascoltare il canto di un’uccelletta per un periodo che a lui sembra brevissimo. Quando torna in monastero, però, scopre nel terrore generale, come il conte del Novellino, che in realtà sono trascorsi trecento anni e che l’abate, il priore, i frati che aveva salutato la mattina ora non ci sono più:
Entrara; mais aquel dia fez que hũa font’ achou
Mui crara e mui fremosa, e cab’ ela s’assentou.
E pois lavou mui ben sas mãos, diss’: «Ai, virgen, que
será
[…]
Atan gran sabor avia daquel cant’ e daquel lais,
que grandes trezentos anos. Estevo assi, ou mays,
cuidando que non estevera senon pouco […]11.
Trattandosi di un testo poetico, il gesto non è usato per dare misura narrativa all’incommensurabilità del tempo divino e né funge da cornice al rapimento mistico del monaco. È un dettaglio, però, che Alfonso aggiunge rispetto all’esempio contenuto in un testo dell’XI secolo, redatto presso il monastero benedettino di Afflighem12. Il monaco chiede alla vergine di compiere un vero e proprio miracolo di «anticipazione temporale»13 per liberarsi dalla rigida disciplina che regola i ritmi di lavoro e preghiera della vita conventuale e proiettarsi nell’estasi tutta individuale del tempo mistico:
La favola del monaco medievale nasce cioè come esempio (esempio sermonale, da usarsi nelle prediche sacerdotali) di una meditazione sul tempo e sulla contrapposizione fra i concetti di eternità e di tempo (tempo creato, tempo generato, tempo con un inizio e forse con una fine) che informa tutta la storia dell’umanità14.
Ulteriore conferma della provenienza orientale del motivo del tempo illusorio è l’esempio XI del Conde Lucanor di Juan Manuel (1330-1335). La storia fantastica del conte di san Bonifazio si ripete in quella del vicario di Santiago, e anche qui l’esperienza del senza tempo, e la sua efficace resa in forma narrativa, è realizzabile grazie al sapere scientifico di un negromante. In questo caso, com’è noto, l’esempio è esplicitamente inserito in una triplice cornice generale, come parte dell’insegnamento che Patronio impartisce al conte Lucanor, sul modello, oltre che delle raccolte di racconti orientali citati sopra, della Disciplina clericalis di Pietro Alfonso15. Il motivo del tempo distorto è, questa volta, utilizzato a supporto del più diffuso tema dell’ingratitudine di chi, dopo aver fatto brillante carriera, si dimentica di chi l’aveva resa possibile.
Il vicario di Santiago desidera imparare l’arte della negromanzia e si reca a Toledo per apprenderla direttamente da don Illán, gran maestro di quella scienza. Il sapiente lo accoglie in casa e, dopo aver avvertito la domestica di non mettere le pernici sul fuoco prima di un suo cenno, guida il vicario nella sua biblioteca, giù per i meandri di un sotterraneo accessibile da una botola nella sua camera:
Llamo a una mançeba de su casa et dixol que touiesse perdizes para que çenassen essa noche, mas que non las pusiesen a assar fasta que el gelo mandasse. […] et entraron entramos por una escalera de piedra muy bien labrada et fueron descendiendo por ella muy gran pieça, en guisa que paresçia que estaban tan vaxos que pasaba el rio de Tajo por çima dellos16.
Qui, in questo spazio da romanzo gotico ante litteram, proprio mentre si stanno per mettere a studiare, vengono raggiunti da due messi che gli consegnano una lettera in cui lo zio arcivescovo gli comunica di essere gravemente infermo. Passano «tres o quatro dias»17 e arrivano altri messaggeri con la notizia della morte dell’arcivescovo e che proprio lui sarebbe stato eletto come successore. In capo «de siete o de ocho dias»18 due scudieri gli portano prova dell’avvenuta elezione e solo a questo punto don Illán chiede al suo discepolo di concedere il vicariato di Santiago a suo figlio. La richiesta viene rifiutata perché il vicario, ora arcivescovo, deve acconsentire alle preghiere di un suo fratello che gli chiedeva per lui l’arcivescovato. Propone, comunque, a don Illàn di recarsi con lui a Santiago promettendogli una futura ricompensa. A Santiago, dopo «un tiempo»19, i due sono raggiunti da inviati del Papa con i documenti che lo dichiarano vescovo di Tolosa e gli concedono il diritto di nominare suo successore chi volesse. Don Illán chiede l’arcivescovato per suo figlio ma, anche questa volta, la nomina deve ricadere su suo zio paterno e la ricompensa per don Illán viene nuovamente posticipata a data da destinarsi. I due partono per Tolosa e dopo «fasta dos años»20 il Papa nomina il vescovo cardinale. Don Illán prova a reclamare anche questa carica per il figlio ma lo schema si ripete. Il vescovado è destinato a suo zio materno e don Illán viene invitato a seguirlo ad Avignone perché lì ci sarà sicuramente la possibilità di beneficiarlo in qualche modo. Passa «muy gran tiempo»21 – durante il quale don Illán ricorda quotidianamente al cardinale la sua promessa salvo ricevere sempre nuove scuse in cambio – il Papa muore e il cardinale viene eletto al suo posto. Don Illán è sicuro che ora il Papa non potrà avere più scuse per evitare di accontentarlo e invece la storia si ripete. Il nuovo Papa non solo lo caccia dalla curia ma gli nega anche i viveri per il viaggio di ritorno e minaccia di imprigionarlo perché eretico e mago. Ecco che don Illán fa svanire l’incantesimo e i due si ritrovano faccia a faccia nella biblioteca sotterranea e, visto che il Papa non gli aveva donato da mangiare, avverte la domestica di mettere le pernici sul fuoco: «se avria de tornar a las perdizes que mandara assar aquella noche, et llamo a la muger et dixol que assasse las perdizes»22. Il Papa, resosi conto di quanto accaduto, non riesce a parlare per la vergogna e il maestro lo invita ad andarsene in pace, tenendosi le pernici per sé.
Rispetto alla novella dei tre negromanti e del conte, il racconto della miracolosa carriera ecclesiastica del vicario si fa più intricato e si arricchisce di una maggiore «tessitura psicologica»23. La trama è costruita quasi secondo un procedimento matematico e sillogistico: più la durata reale aumenta – da giorni ad anni – più il tempo del racconto si scorcia e accelera. Con il tempo crescono sia l’insistenza, e la costanza, di don Illán, che l’insofferenza obliosa del vicario. La vergogna ammutolita del Papa ridivenuto ‘semplice’ vicario è misura di quanto, in un istante, egli senta tutto insieme il peso dell’ingratitudine accumulata negli anni precedenti. Il susseguirsi aritmetico degli eventi rivela la durata tutta interiore di una progressiva presa di coscienza. Il tempo si mostra come illusione, stato psicologico, emozione, sentimento, finzione e copia dell’eterna verità divina. L’incantesimo del negromante permette al vicario d’intuire la profonda frattura che separa il suo tempo individuale da quello universale, il tempo della vita da quello del mondo24. Il segno che marca in maniera inequivocabile l’incommensurabilità tra tempo oggettivo e durata soggettiva sono le due pernici che assumono, così, la stessa funzione narrativa che nella storia del conte e dei tre negromanti era assegnata al gesto di sciacquarsi le mani.
Come nel Novellino anche in questo esempio il negromante è il vero alter ego dell’autore della novella. È lui, infatti, a scrivere, tramite gli astri, il destino dell’allievo. La proiezione nel tempo illusorio di quel futuro possibile, gli permette di illustrare al vicario, in maniera più vivida ed efficace, la stessa lezione etica e morale che nella cornice Patronio impartisce al conte raccontandogli l’aneddoto e che, ad un livello ulteriore, Juan Manuel comunica al lettore. La narrazione, come un’arte magica, permette a un assunto etico paradigmatico valido in eterno, e quindi astorico, di mostrarsi attivo anche qui e ora, nell’ infinita varietà del reale e nel divenire. L’esempio è, infatti, il segno di un determinato momento storico e i riferimenti alla realtà coeva sono precisi e numerosi. Sia a Toledo che Tolosa la negromanzia era pratica diffusa e, in quegli anni, la scienza aristotelica da cui derivava era stata condannata a Parigi (1210-1277) come eretica. Pare, inoltre, che la rapidissima carriera del vicario rispecchiasse quella altrettanto repentina di Gerbert de Aurillac, Papa Silvestro II. Quando era ancora un novizio benedettino, venne educato alle arti liberali dal conte di Barcellona e in matematica, aritmetica e musica dal vescovo di Vic, e contribuì a trasferire oltre i Pirenei quelle nuove informazioni ottenute grazie all’imponente opera di copiatura di testi originali greci, dei commenti in arabo ed ebraico che da Baghdad, Damasco e il Cairo erano giunti prima a Cordoba e poi a Siviglia, Valencia, Saragozza e Toledo. Qui si era formata una vera e propria ‘scuola’. Tra i suoi membri vi furono Ibn Sā’id, Azarchel e Gerardo da Cremona, conosciuto anche come ‘Gerardo da Toledo’ e che lì compose le celebri tavole astronomiche. Azarchel era un abile costruttore di orologi ad acqua al servizio del qadi di Toledo, mentre Gerardo, aveva tradotto, oltre al canone aristotelico e alle tavole astronomiche, l’Almagesto di Tolomeo, trattati arabi di astronomia, astrologia, medicina, magia, alchimia, geomanzia, algebra, ottica e divinazione. Avamposto e trait d’union tra Oriente musulmano e Occidente cristiano era il monastero benedettino di Santa Maria Ripoll, ai piedi dei Pirenei. E proprio in questo monastero è documentato l’uso di un orologio ad acqua e tra i vari testi di astronomia, matematica e geometria protagonisti di questo scambio culturale tra Ponente e Levante si trovano anche trattati sull’astrolabio, anch’esso antenato dell’orologio meccanico25. Insomma, anche se nell’esempio XI del Conde Lucanor la misurazione del tempo è affidata alla cottura di due pernici, la tecnologia applicata al calcolo matematico del tempo aveva ricevuto un impeto non indifferente e il dettaglio della durata spezzata del lavaggio delle mani potrebbe avere a che fare proprio con le clessidre e gli orologi ad acqua che scandivano il tempo liturgico della preghiera e degli offici.
Inoltre, il breve apologo doveva essere inteso anche come tentativo politico di sottrarre alla Chiesa il potere che essa esercitava sul tempo nella forma di disciplina monastica e di ricatto escatologico, a favore di quei sapienti laici dominatori di astri che avevano scoperto quel nuovo modo di sentire e vivere la relazione tra tempo ed eternità che era giunto da Levante.
Trascorso circa mezzo secolo, ecco comparire un ulteriore discendente di questa marginale ma importante tradizione del motivo del tempo fittizio26. Nel Paradiso degli Alberti di Giovanni da Prato (1389) vi è, infatti, una novella che amplia notevolmente il portento e il miraggio temporale messi in atto sia dai tre negromanti che dal maestro di Toledo. Come nel Novellino non c’è traccia, invece, del tema dell’ingratitudine.
La Novella di Maestro Michele Scotto viene raccontata per dimostrare la potenza delle illusioni diaboliche. Lo schema della storia è identico, con al posto dei tre negromanti Michele Scoto – astrologo, filosofo, alchimista alla corte di Federico II, primo ad introdurre nel 1230 le dottrine di Averroè, protagonista di numerose leggende relative alle sue pratiche di negromanzia e protagonista di alcune novelle dell’ultima giornata del Decameron27 – e un compagno Caldeo. Fin da subito si nota una maggiore precisione nelle notazioni temporali. La festa e il banchetto voluti da Federico sono ormai iniziati da «circa uno mese»28 e si era «già cominciato a dare l’acqua alle mani»29 quando i due negromanti arrivano a corte, tramutano il cielo da sereno a tempesta e richiedono il soccorso di un barone, messer Ulfo, raccomandandosi di «essere presto, imperò che il tempo è corto a tanto fatto a quanto noi vi meniamo: sì che al presente ci viene essere in cammino sanza punto d’indugio»30. Michele sembra adombrare, dunque, la durata istantanea del viaggio. Le contemporanee esplorazioni e viaggi per mare dovettero ispirare la minuziosa descrizione topografica della spedizione di Michele Scoto, del Caldeo e di Messer Ulfo che si fa molto più realistica: risalgono il Tirreno da Palermo e passano da Napoli, Gaeta, Roma, Populonia, il Giglio, l’Elba, Caprara e Gorgona, la Corsica e la Sardegna e poi via verso Occidente, le Baleari, Maiorca e Minorca fino a passare lo stretto di Gibilterra e dirigersi verso Sud, come l’Ulisse dantesco. Messer Ulfo è stato scelto non a caso perché sin dai primi scontri con i nemici si dimostra abile stratega e condottiero capace di sincronizzare i suoi attacchi in base a precise osservazioni sia metereologiche che cronologiche. Egli ha coscienza precisa del passare del tempo, segno che il tempo del mercante, regolato dall’orologio, si era ormai affiancato al tempo della Chiesa31. La festa e letizia con cui viene accolto gli sembrano essere durati abbastanza, «per alcuno dì»32, raduna le schiere «prestissimamente» per farsi trovare pronto in caso di un «improviso caso di fortuna» e sferra l’attacco solo «da poi che ’l tempo debito venne»33 e mette in guardia i suoi uomini, dopo la prima vittoria, di non perder tempo e di non ritardare l’offensiva in modo che il nemico «non si dimentichi» né abbia occasione di «magiore previdenza»34. Regola l’ulteriore attacco in base al sorgere e calare del sole, e calcola il momento esatto, «l’ora preveduta e pensata»35, in cui questo si troverà in faccia all’esercito nemico per accecarlo: «E così in sulla ora del levar del sole, in fra ssé medesimo ripensando il vittoriosissimo capitano, e veggendo che, sse da mezzo giorno in là prendesse la zuffa, il sole rivolto sarebbe, per che il vantaggio alla zuffa sanza dubbio averebbe»36. Il risultato è una vittoria «tanto presta e miracolosa»37 da destare lo stupore di tutti. La velocità meravigliosa è ancora una volta inserita e ripetuta più volte nella doppia funzione di notazione realistica e allusione prolettica alla sua illusorietà. La strategia dello scontro successivo è studiata da messer Ulfo a partire dal fatto che i campi che circondano la rocca dove si sono ritirati i nemici sono ancora pieni di biada non raccolta: «voi vedete essere in su la racolta il tempo»38, segno che il nemico sarà presto costretto a uscire allo scoperto. Sconfitto definitivamente per la terza volta l’esercito avversario, ecco che «in poco tempo» si sposa con la regina del luogo e si moltiplicano il regno, la ricchezza, la sua potenza e gli eredi: «più e più anni e più e più figlioli maschi e femmine»39. Passano «omai circa venti anni»40 e messer Ulfo, Scoto e il Caldeo – ricordiamo che per tradizione i Caldei furono considerati i primi inventori dell’astronomia – s’imbarcano e percorrendo a ritroso lo stesso tragitto dell’andata tornano a Palermo con Federico e i suoi baroni che ancora non avevano «finito dar l’acqua alle mani». Lo stupore generale è immenso. Federico lo credeva ancora «in cammino»41 mentre messer Ulfo, sbigottito, conferma di esser partito, tornato e di aver lasciato reggente del regno un suo figlio «d’anni diciotto»42. Anche Michele Scoto, prima di dileguarsi nel nulla, si scusa di aver trattenuto il campione con sé per «troppo tempo»43. Rispetto ai due antecedenti, la reazione psicologica di messer Ulfo allo sfasamento tra durata percepita e durata effettiva si fa più complessa. Dopo la scomparsa del negromante, Ulfo cade in preda a una disperazione malinconica: «O isventurato a mme! Dove fia il mio Michele? Arò io perduto in uno punto tanto bene aquistato gia .XX. anni?»44.
Se il conte di san Bonifazio e il vicario avevano accettato il passaggio repentino da felicità a infelicità, il cavaliere sceglie di continuare a vivere nel miraggio degli anni perduti e nella loro dolcezza infinita e quindi preferisce credere a quello che ha fatto e visto piuttosto che a quello che gli è stato appena comunicato:
“I vostri falsi concetti e illuse oppenioni quello che io so che ò fatto non mai mi caderanno di mia mente, considerato quanto infinita dolceza porto sì m’ànno.” E così niente sopra ciò volea sentire, anzi con tenerezza le sue peregrinazioni narrava, non sanza lagrime molte quando della donna e del suo figluolo parlava45.
L’esperienza vissuta in un tempo fallace può continuare all’infinito nel tempo di un racconto capace di protarsi per sempre sia nella sua fantasia che per il tempo della recitazione orale dei fatti. Dimostratosi sensibile, attento osservatore e preciso calcolatore del tempo oggettivo, il condottiero non può che reagire alla rivelazione della sua irrealtà e fissità con maggiore sconvolgimento. Eppure, ne trae una lezione tutta moderna: se il tempo è relativo e malleabile allora anch’egli, da abile cantore, può imitare sia il negromante che l’autore dell’opera che lo ospita in qualità di personaggio, e piegare il tempo seguendo le sue emozioni. Più il tempo può essere misurato in ore, più si percepisce con urgenza il suo inesorabile trascorrere, più esso diventa sentimento e consapevolezza interiore, un’eternità tutta mentale in cerca di indipendenza dal pungolo della sua fuga verso la morte. La durata della trama è ormai diventata strumento per esperire l’eterno, per vivere un’esperienza sganciata dalla necessità causale del tempo dell’orologio e quindi senza più ieri, oggi o domani.
Come abbiamo visto, il motivo del tempo fallace e dell’ingratitudine non appaiono sempre legati come d’altronde lo erano stati sin dalla fonte comune di tutte e tre le storie, un esempio incluso nel Promptuarium exemplorum46. L’unico antecedente in cui i due mitemi sono connessi sembra poter essere un passo del Corano. Nella sura XVIII della ‘Caverna’, Maometto, interrogato dagli ebrei sulla leggenda cristiana dei Sette Dormienti di Efeso – storia che lo stesso profeta aveva udito da un monaco cristiano, Sergio, o da due suoi maestri ebrei come riporta, tra gli altri, Pietro Alfonso – aveva promesso una risposta per il giorno dopo, salvo dimenticarsi di aggiungere se Dio vuole47. Per questo motivo, per il fatto di non essersi ricordato che tutto accade per volere divino e quindi per aver peccato di ingratitudine, la rivelazione è posticipata di qualche giorno. La storia dei Sette Dormienti, del loro sonno miracoloso durato più di trecento anni eppure percepito dai sette martiri come una sola notte, oltre ad essere un chiaro esempio di commistione tra Cristianesimo delle origini e Islam, presenta anche molti motivi comuni alle nostre novelle del tempo magico. Misura oggettiva per mettere in risalto la non corrispondenza tra eternità e tempo sono le monete con cui uno dei sette, la mattina del risveglio e della resurrezione, va al mercato per comprare del pane. Esse, infatti, sono state battute al tempo di Decio, imperatore romano a capo della settima ondata di persecuzioni contro i cristiani, mentre ora è il tempo di Teodosio II, imperatore cristiano. Il giovane dormiente scende in città credendo di essere ancora al tempo di Decio e non la riconosce più, trovandola ricoperta di croci, né può essere riconosciuto da nessuno, essendo tutti i parenti morti da generazioni48.
Il dettaglio dell’acqua, però, compare nella stessa funzione che avrà nelle due novelle italiane, e che le pernici assumono in Juan Manuel, in un altro passo Coranico, nella sura immediatamente precedente a quella della ‘Caverna’, la XVII, dove si narra del viaggio notturno di Maometto, dalla Mecca a Gerusalemme e poi attraverso i sette cieli fino ad arrivare al trono di Dio. Nell’edizione del Corano curata e tradotta dall’arabo da Albert Kasimirski, pubblicata nel 1840, l’orientalista riporta in nota il dibattito sulla natura reale o fittizia dell’ascensione, aggiungendo un dettaglio importante:
On ajoute que ce voyage céleste, où Mahomet a vu les sept cieux et s’est entretenu avec Dieu, s’est fait si rapidement, que le prophète trouva son lit qu’il avait quitté, tout chaud, et que, le pot où il chauffait de l’eau étant près de se renverser à son départ, il revint assez à temps pour le relever sans qu’il y eût un goutte d’eau de répandue49.
È proprio tramite il miraj di Maometto che il motivo del tempo fallace e il dettaglio dell’acqua – in questo caso in forma ancora più minuziosa visto che neanche una goccia d’acqua fa in tempo a rovesciarsi prima del ritorno di Maometto – approda nella letteratura moderna. Ne troviamo traccia nell’Idiota di Dostoevskij (1869), quando il principe Myškin ha un accesso di epilessia mentre Rogòžin alza il pugnale per ucciderlo e vive, così, un’improvvisa esperienza di affrancamento dal corso normale del tempo:
In quel momento mi diventa in qualche modo intellegibile la straordinaria affermazione che non esisterà più il tempo. Probabilmente […] si tratta di quel medesimo minuto secondo in cui non riusciva a versarsi la brocca capovolta piena d’acqua dell’epilettico Maometto, che pure aveva avuto il tempo, in quel secondo, di visitare tutte le dimore di Allah50.
Dostoevskij unisce la tradizione cristiana dell’Apocalisse, «non esisterà più il tempo» è affermazione dell’angelo (10:6), a quella islamica. È un sentimento, poi, del tutto simile a quello, più volte riportato nell’Idiota, che devono vivere i condannati a morte durante il tragitto che li separa dal patibolo, quando al condannato pochi minuti paiono un’eternità.
Se Dostoevskij potrebbe, ma non è sicuro, aver letto la nota di Kasimirski, ci sono più certezze sul fatto che l’abbia avuta davanti a sé Borges, forse proprio accanto a un’edizione dell’Idiota51. Nella Historia de la eternidad (1936), inserisce a commento proprio dello stesso versetto dell’Apocalisse di Giovanni di Patmos, a proposito della «noción de que el tiempo de los hombres no es conmensurable con el de Dios»52, una nota che sembra riportare quasi verbatim da Kasimirski: «El casco de Alburak, al dejar la tierra, volcó una jarra llena de agua; a su regreso, el Profeta la levantó y no se había derramado una sola gota»53. Borges menziona El-Burak e la brocca rovesciata anche nel Manual de zoología fantástica (1957):
Una de las tradiciones islámicas refiere que Burak, al dejar la tierra, volcó una jarra llena de agua. El Profeta fue arrebatado hasta el séptimo cielo y conversó en cada uno con los patriarcas y ángeles que lo habitaban y atravesó la Unidad y sintió un frío que le heló el corazón cuando la mano del Señor le dio una palmada en el hombro. El tiempo de los hombres no es conmensurable con el de Dios; a su regreso, el Profeta levantó la jarra de la que aún no se había derramado una sola gota54.
La stessa tradizione era stata, peraltro, indicata dal D’Ancona tra le possibili fonti proprio della novella da cui siamo partiti, la ventunesima del Novellino. Questa volta, però, a rovesciare la brocca non era stato lo zoccolo di Alburak ma l’arcangelo Gabriele.
Nel racconto El milagro secreto (1943), invece, Borges sembra proporre una nuova personale riscrittura ed amplificazione dell’esperienza extratemporale che il condannato a morte nell’Idiota – e che com’è noto visse di persona lo stesso Dostoevskij – crede di vivere poco prima dell’esecuzione. Non solo. È in questo racconto che il dettaglio della caduta sospesa di una goccia d’acqua trova più ampia funzione poetica. La storia, che Julio Cortázar eleva a modello di tempo fantastico55, narra di un drammaturgo ebreo di Praga, Jaromir Hladík, autore di una Vindicación de la eternidad, che, nei due minuti che lo separano dalla fucilazione per mano dei nazisti, prega Dio affinché gli conceda ancora un anno di tempo per portare a termine, grazie al solo ausilio della memoria, un suo dramma rimasto incompiuto, Los enemigos. La trama è costellata da precisi riferimenti cronologici. La vicenda comincia la notte del 14 marzo 1939, quando sogna una partita a scacchi interrotta dal fracasso della pioggia e di «terribles relojes»56, e prosegue il 19 con l’arresto. A questo punto gli viene annunciata data, e ora, dell’esecuzione: il 29 marzo alle nove del mattino. Proprio come il condannato di Dostoevskij, Hladík, durante la prigionia, inizia a giocare con il tempo, a manipolare l’attesa della fine tanto da posticiparla, almeno nell’irrealtà della coscienza: anticipa infinite volte il processo – ormai siamo giunti, nonostante i tentativi di Hladík di ritardare il precipitare delle ore, alla notte del 22 – e sente nel profondo che, finché durano questa e le altre sei notti che gli rimangono, allora egli è immortale. Pensa, allora, al suo Los enemigos, ne ripercorre la trama, nella quale è menzionato due volte un orologio suonare le sette, e chiede a Dio l’estrema dilazione della fine. È la notte della vigilia, quella del 28. La mattina dopo ecco il primo orologio ‘reale’, presente nella veglia e non nel sonno: sono le otto e quarantaquattro quando un sergente vi controlla l’ora. Si devono, però, aspettare le nove per eseguire l’ordine. Mancano una manciata di minuti, il condannato è in posizione davanti al plotone, quando il cielo s’annuvola e «una pesada gota de lluvia rozó una de las sienes de Hladík y rodó lentamente por su mejilla»57. Il sergente dà l’ordine finale e l’universo si ferma. Borges affida allo scivolamento interrotto e sospeso di questa goccia dalla tempia alla guancia del condannato il compito impossibile di misurare la durata infinitesimale di quegli ultimi attimi in cui il tempo s’arresta all’improvviso. La prima, appena citata menzione, arriva quasi alle nove in punto, un millesimo di secondo prima che il sergente abbia gridato fuoco. Poi però Borges la ricorda al lettore in altri due momenti. Prima, mentre Hladík si ridesta dallo stupore una volta compreso che il tempo si è effettivamente fermato e che Dio ha accettato di compiere per lui un miracolo segreto: «En su mejilla perduraba la gota de agua»58. Infine, appena trovata l’ultima parola per completare il dramma, «la gota de agua resbaló en su mejilla»59, solo ora è raggiunto dalla scarica di colpi. Muore il 29 marzo alle nove e due minuti.
Tra la perfezione aritmetica dell’orologio, nuovo protagonista delle trame dal tempo fallace, e un’eternità senza durata, Borges decide comunque di conservare il minuscolo dettaglio della caduta in fieri della goccia di pioggia per scandire il tempo che resta prima della fine, per dare forma narrativa all’incommensurabilità che sfalsa in due eternità e finitudine. Una sensazione fisica che, come una bussola, dovette permettere ad Hladík di aver sempre ben presente, e di misurare in qualche modo, quell’anno illusorio fuori da ogni calcolo numerico. Né il conte di san Bonifazio, né il vicario, né messer Ulfo avevano mai avuto coscienza di essere stati trasportati nel tempo immobile di Dio, che, nel racconto di Borges, compie lo stesso atto magico dei tre negromanti, di don Illán e di Michele Scoto. L’acqua, da semplice dettaglio funzionale a mettere in rilievo sia per il lettore che per il protagonista la biforcazione parallela tra durata e infinito, si posiziona ora sulla soglia tra coscienza e incoscienza, continuità e pausa, movimento e immobilità, realtà e inganno.
Lo stesso gioco tra i tempi certi della fabula e quelli elastici del sjuzhet sono il vero tema della riscrittura che Borges fa in Historia universal de la infamia (1935), proprio dell’esempio XI del Conde Lucanor. Modifica poche cose rispetto all’originale di Juan Manuel. Oltre al titolo, El brujo postergado, la nuova versione si discosta dalla vecchia solo per la maggiore precisione delle indicazioni cronologiche: invece di tre o quattro giorni, tre; invece di sette o otto, dieci; la permanenza a Santiago è di sei mesi mentre in Juan Manuel era indefinita; a Tolosa rimangono due anni, come nell’originale; ad Avignone quattro anni invece di un imprecisato molto tempo. Infine, due dettagli realistici: la botola sul pavimento della camera di don Illán si apre tirando un grande anello di ferro mentre, poco prima che il Papa rifiuti a don Illán il mangiare per il ritorno e che questi risponda che allora mangerà le pernici appena ordinate, Borges aggiunge tra parentesi che il viso di don Illán «se había remozado de un modo extraño»60. Sono entrambe amplificazioni dell’‘effetto di realtà’ che nell’esempio XI era affidato alle pernici. Con la differenza che adesso, al contrario dei suoi predecessori, l’autore è consapevole di muoversi nel genere consolidato del racconto fantastico. L’effetto di realtà diventa allora effetto d’irrealtà. Aumenta il realismo del racconto e proporzionalmente aumenta la stranezza dell’esperienza extratemporale vissuta e di conseguenza s’allunga, in un cerchio potenzialmente eterno, l’esitazione tra spiegazione razionale e irrazionale dell’accaduto, come nella celebre definizione di Todorov. Esitazione che, oltre al lettore, prova, adesso, anche il Papa di fronte alla vaga intuizione del volto ringiovanito del negromante. Un attimo prima che le pernici rientrino in gioco sancendo, così, la fine del sogno, il Papa vive, per un istante, sullo stesso orizzonte sottile tra tempo ed eternità su cui per un anno, o due minuti, scivolava la goccia sulla guancia di Hladík. Peraltro, prima di rotolare sulla guancia, la goccia gli sfiora una «de las sienes», una delle tempie.
Borges costruisce la frase in modo da mantenere il plurale, forse a sottolineare il rapporto etimologico originario tra tempo/tempi e tempia/tempie (tempus/tempora). La parola spagnola fa pensare alla radice del tedesco Sinn, in italiano senno, a confermare la tempia/le tempie quale sede corporea del senso del tempo – in alcuni dialetti mente–mentes e memoria-memorias valgono tempia-tempie – perché è lì che l’individuo, soprattutto nell’insonnia del malato, sente nitido il martellare del battito cardiaco, il “polso” del proprio corpo e prende coscienza della propria durata a termine, della fine del suo tempo, della morte:
Risulta di fatto che nel pensiero medico e profano di una volta le tempie venivano considerate la sede corporea del sonno, e ciò essenzialmente in quanto sono, specie in situazioni di malattia, la fonte evidente dell’insonnia, perché proprio lì si fa sentire il tempo “critico” in forma di battito accelerato. In altre parole, le tempie ospitano il sonno e l’insonnia in quanto sono la parte del corpo in cui ha sede il tempo stesso61.
La goccia di pioggia divina sfiora, pesante, la tempia di Hladík, e innesca la fuga nel tempo mistico, il sonno e il sogno che gli permettono di assaporare l’eternità, e simultaneamente la «base somatica»62 del nostro sentimento del tempo. La storia di un’anomalia temporale non farebbe altro, allora, che farci notare qualcosa che per sopravvivere è meglio dimenticare, ovvero il tempo nella sua doppia natura di interiore stato psicologico e di realtà organica, legata indissolubilmente alla caducità del corpo.
Nel giustapporre l’eternità e la morte, nel confronto impossibile tra due ‘misure’ incommensurabili, il tempo fantastico dei racconti del conte di san Bonifazio, di don Illán, di messer Ulfo, di Maometto, di Myškin e di Hladík, lavora anch’esso alla soluzione dell’enigma del tempo e pare trovarla in un’emozione magica che accomuna autore, eroe e lettore.
- A. del Monte, La novella del tempo fallace, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI, 1954, pp. 448-452. ↑
- C. Segre, Negromanzia e ingratitudine (Juan Manuel, il Novellino, Ludovico Ariosto), in Mélanges de linguistique romane et de philologie médiévale offerts à M. Maurice Delbouille Professeur à l’Université de Liège, vol. II, Philologie médiévale, Gembloux, Duculot, 1964, pp. 653-658. ↑
- Il Novellino, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. III, La prosa del Duecento, a cura di C. Segre e M. Marti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 817. ↑
- Ivi, p. 818. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Si veda T. Gregory, Le Temps chrétien de la fin de l’Antiquité au Mayen-Age. III°-XIII° siècles, in «Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique», 604, 1984, pp. 557-553; ora in Id., Temps astrologique et temps chrétien, in Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 330-331. ↑
- Dante, Paradiso, XXIX 79-80, in Id., Divina commedia, a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, p. 807. ↑
- A. Varvaro, Fonti di intertestualità. La narrativa spagnola medievale tra Oriente e Occidente, in «Annali. Sezione romanza», XXVII, 1, 1985, p. 61. La pratica di incastonare racconti entro una cornice narrativa per fini didattici è novità di provenienza orientale. Si veda anche M. Picone, Tre tipi di cornice novellistica. Modelli orientali e tradizione medievale, in «Filologia e critica», 13, 1988, p. 12. ↑
- Si veda M. Menéndez Pelayo, El Apólogo y el cuento oriental. Su Transmisíon a los pueblos de Occidente y especialmente a España. El cuento y la novela entre los árabes y judíos españoles, in Id., Orígenes de la novela, Madrid-Santander, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas-Aldus, 1962, vol. I, pp. 27-114. Il Calila e Dimna deriva da un testo indiano del VI secolo, conosciuto come Le favole di Bidpai, e poi da una traduzione araba dell’VIII. Le prime versioni ebraiche risalgono al XII secolo, mentre la traduzione in castigliano è del 1251. Due anni più tardi, nel 1253, per volere dell’infante don Fabrique, fratello di Alfonso X, viene tradotto in castigliano il Sendebar, con il titolo Libro de los engannos et los asayamientos de las mugeres (che si diffonderà per tutto l’Occidente come Historia septem sapientum Romae). Barlaam e Josaphat, attribuita a lungo a Giovanni Damasceno, riportata sia da Vincenzo di Beauvais nello Speculum historiale che da Jacopo da Varagine nella Legenda aurea, è una trasformazione cristiana della vita di Budda. La storia dall’India viene tradotta prima in siriaco, poi in persiano e infine in greco. Prima della traduzione castigliana di queste tre raccolte, i loro elementi orientali e vari apologhi, anche tratti dalle Gesta romanorum, si ritrovano nella fondamentale Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, ebreo convertitosi al cristianesimo e battezzato a Huesca nel 1106. ↑
- Alfonso X El Sabio, Cantigas de Santa María, CIII, in Miracoli della Vergine. Testi volgari medievali, a cura di C. Beretta, introduzione di C. Segre, testo a fronte, Torino, Einaudi, 1999, pp. 832-833; trad. it.: «Era entrato; ma quel giorno gli fece trovare una fonte limpidissima e bella, sulla cui sponda egli si sedette. Dopo essersi lavato con cura le mani, disse: “Ahi, vergine, che accadrà? […]” Era tanto estasiato dal dolce suono di quel canto, che rimase così per trecento anni abbondandti, o più, credendo di rimanervi solo un poco». ↑
- Si veda L. Stegagno Picchio, Tempo del mistico e tempo del convento. Una cantiga di Alfonso X, in «Critica del testo», I, 1, 1998, pp. 226-246. ↑
- Ivi, p. 240. ↑
- Ivi, p. 235. ↑
- Si vedano a proposito A. Varvaro, La Cornice del Conde Lucanor, in «Studi di Letteratura spagnola», I, 1964, pp. 187-195; E. Caldera, Retorica, narrativa e didattica nel Conde Lucanor, in «Miscellanea di studi ispanici», 14, 1966-1967, pp. 5-120. ↑
- J. Manuel, El Conde Lucanor, Exenplo XI, in Id., Obras completas, a cura di J.M. Blecua, Madrid, Gredos, 1982, vol. II, p. 99; trad. it. Don J. Manuel, Le novelle del “Conde Lucanor”, a cura di A. Ruffinato, S. Orlando, Milano, Bompiani, 1985, pp. 49-50: «Chiamò una sua domestica e le disse di procurare delle pernici per la cena di quella sera; ma non le mettesse al fuoco finché non glielo ordinasse. […] Entrarono tutti e due da una scala di pietra ben costruita e discesero per quella un bel pezzo, a tal punto che sembrava che stessero tanto in profondità che il Tago passasse sulla loro testa». ↑
- Ivi, p. 100; trad. it. p. 50: «Tre o quattro giorni». ↑
- Ibidem; trad. it.: «A sette o otto giorni». ↑
- Ibidem; trad. it.: «Un po’ di tempo». ↑
- Ivi, p. 101; trad. it. p. 51: «Circa due anni». ↑
- Ibidem; trad. it.: «Molto tempo». ↑
- Ivi, pp. 101-102; trad. it. p. 52: «Avrebbe dovuto tornare alle pernici che aveva ordinato quella sera, e chiamò la domestica e le disse di metterle al fuoco». ↑
- A. Varvaro, La cornice del Conde Lucanor, cit., p. 13. ↑
- H. Blumenberg, Tempo della vita e tempo del mondo, Bologna, Il Mulino, 1996. ↑
- Si veda J. North, The Migration of Ideas, in Id., God’s Clockmaker. Richard of Wallingford and the Invention of Time, London-New York, Hambledon & London, 2005, pp. 231-242. ↑
- Si veda riguardo ai rapporti evidenti con il racconto XXI del Novellino: G. da Prato, Il Paradiso degli Alberti. Ritrovi e ragionamenti del 1389, a cura di A. Wesselofsky, in Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1968, vol. XVII, pp. 263-268. ↑
- Mi riferisco soprattutto alla Novella 9, Giornata VIII (con protagonista proprio Michele Scoto), alla Novella 9, Giornata X (in cui Messer Torello riesce a sorvolare in una notte tutto il Mediterraneo grazie a un tappeto arabescato intessuto da un negromante per volere del Saladino). Si veda a riguardo R. Antonangeli, Non esisterà più il tempo. Eternità e trama nell’arte del racconto, Roma, Studium, 2020, pp. 44-79. ↑
- G. da Prato, Il Paradiso degli Alberti, in Id., Opere complete, edizione critica per cura di F. Garilli, Palermo, Athena, vol. I, p. 120, par. 499. ↑
- Ivi, par. 497. ↑
- Ivi, p. 122, par. 520. ↑
- J. Le Goff, Au Moyen Age. Temps de l’Église et temps du marchand, in «Annales», XV, 3, 1960, pp. 417-433; trad. it. Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000. ↑
- G. da Prato, Il Paradiso degli Alberti, cit., p. 125, par. 545. ↑
- Ivi, pp. 126 e 127, par. 555 e 556. ↑
- Ivi, p. 128, par. 564. ↑
- Ivi, p. 129, par. 571. ↑
- Ivi, p. 128, par. 570. ↑
- Ivi, p. 130, par. 576. ↑
- Ivi, par. 580. ↑
- Ivi, p. 134, par. 600. ↑
- Ivi, p. 135, par. 603. ↑
- Ivi, pp. 136 e 137, par. 612 e 613. ↑
- Ivi, p. 137, par. 616. ↑
- Ivi, p. 138, par. 622. ↑
- Ivi, par. 626. ↑
- Ivi, pp. 138-139, par. 629-630. ↑
- J. Manuel, El libro de los enxiemplos del Conde Lucanor et de Patronio, a cura di H. Knust e A. Birch-Hirschfeld, Leipzig, Seele, 1900. Per le fonti del racconto XXI del Novellino si veda A. D’Ancona, Del Novellino e delle sue fonti, in Studi di critica e storia letteraria, Bologna, Zanichelli, 1912, pp. 1-163. ↑
- È lo stesso Veselovskij a citare la leggenda dei Sette Dormienti come antecedente della Novella di Maestro Michele Scotto, e quindi anche del racconto XXI del Novellino, in G. da Prato, Il Paradiso degli Alberti, cit., p. 264. ↑
- La letteratura sulla leggenda è vastissima. Si vedano almeno: L. Massignon, Les “Sept Dormants”. Apocalypse de l’Islam [1950] e Le Culte liturgique et populaire des VII Dormants martyrs d’Ephese (Ahl Al-Kahf): Trait d’union Orient-Occident entre l’Islam et la Chretienté [1961], in Id., Opera minora. Textes recueillis, classés et présentés avec une bibliographie par Y. Moubarac, Paris, Presses Universitaires de France, 1969, tome III, pp. 104-180; A. de Prisco e G. Avezzù (a cura di), La leggenda dei Sette Dormienti di Efeso. Nel racconto di Gregorio, vescovo di Tours (ca. 538-594) e di Fozio, Patriarca di Costantinopoli (ca. 820-891~897), Verona, Università di Verona, 1999. ↑
- A. Kasimirski de Biberstein (a cura di), Le Koran. Traduction nouvelle faite sur le texte arabe par M. Kasimirski interprète de la légation française en Perse. Nouvelle Édition entièrement revue et corrigée; augmentée de notes, commentaires et d’un index, Paris, Charpentier, 1852, pp. 219-220. ↑
- F. Dostoevskij, L’Idiota, con un saggio introduttivo di V. Strada, trad. it. di A. Polledro, Torino, Einaudi, 2014, p. 225. ↑
- Si veda P.G. Earle, In and Out of Time (Cervantes, Dostoevsky, Borges), in «Hispanic Review», LXXI, 1, 2003, pp. 1-13. ↑
- J.L. Borges, Historia de la eternidad, in Id., Borges Esencial. Edición commemorativa, a cura di J. L. Moure, Madrid, Real Academia Española, 2017, p. 328; trad. it. Storia dell’eternità, in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, vol. I, p. 535: «La nozione che il tempo degli uomini non è commensurabile con quello di Dio». ↑
- Ivi, p. 329; trad. it. p. 535: «Lo zoccolo di Alburak, nel lasciare la terra, rovesciò una brocca piena d’acqua; quando ritornò, il Profeta la risollevò e non era caduta una sola goccia». ↑
- J.L. Borges, El libro de los Seres Imaginarios, con la collaboration de M. Guerrero, Barcelona, Bruguera Alfaguara, 1979, pp. 59-60; trad. it. Il libro degli esseri immaginari, a cura di T. Scarano, I. Carmignani, Milano, Adelphi, 2006, pp. 53-54: «Una delle tradizioni islamiche riferisce che Burak, nel lasciare la terra, rovesciò una brocca piena d’acqua. Il Profeta fu innalzato fino al settimo cielo e in ciascuno conversò con i patriarchi e gli angeli che lo abitano, e attraversò l’Unità, e sentì un freddo che gli gelò il cuore quando la mano del Signore gli si posò sulla spalla. Il tempo degli uomini non è commensurabile con quello di Dio; al suo ritorno, il Profeta afferrò la brocca dalla quale ancora non si era versata una sola goccia». ↑
- J. Cortázar, Lezioni di letteratura. Berkeley – 1980, Torino, Einaudi, 2014. ↑
- J.L. Borges, Ficciones (1944), in Borges Esencial, cit., p. 106; trad. it. Finzioni, in Tutte le opere, cit., p. 739: «terribili orologi». ↑
- Ivi, p. 110; trad. it. p. 744: «Una pesante goccia di pioggia gli sfiorò una tempia e lentamente rotolò sulla guancia». ↑
- Ivi, p. 111; trad. it. p. 745: «Durava sulla sua guancia la goccia d’acqua». ↑
- Ibidem; trad. it. p. 746: «La goccia d’acqua riprese a scivolare sulla sua guancia». ↑
- J.L. Borges, El brujo postergado, in Id., Historia universal de la infamia, Buenos Aires, Editorial Sudamericana, 2011, p. 124; trad. it. Storia universale dell’infamia, in Tutte le opere, cit., p. 508: «Era ringiovanito in modo strano». ↑
- H. Weinrich, Il polso del tempo, o ciò che le tempie sanno del tempo, in «Critica del testo», I, 1, 1998, pp. 1-21, p. 15. ↑
-
Ivi, p. 17. ↑