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Il marxismo ‘rilanciato’: Jameson e Fortini in dialogo

DOI

[…] l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.

F. Fortini, Traducendo Brecht

1.

Fredric Jameson, teorico della cultura tra i fondatori del neomarxismo americano, si inserisce nel solco della tradizione marxista europea, in particolare recuperando il pensiero di Adorno e Marcuse, per mettere a punto una lettura dell’età contemporanea o postmoderna. A seguito della pubblicazione dell’Inconscio politico1, in cui analizza la relazione simbolica tra oggetto estetico e determinazioni storiche e sociali, Jameson continua a riflettere su postmoderno e società dei consumi2 con un intervento pubblico tenuto al Whitney Museum di New York. Quest’ultimo, rivisto in ottica saggistica, appare dapprima sulla rivista inglese «New Left Review» con il titolo Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, per poi confluire nel volume omonimo del 19913, arricchito da una serie di conferenze tenute nel frattempo sullo stesso tema. Protagonista di un successo immediato, il contributo diviene imprescindibile per ogni successivo dibattito sul postmoderno. Con la messa a punto dell’edizione italiana, quindici anni dopo quella statunitense, Daniele Giglioli coglie l’opportunità di vagliare, nella sua postfazione, la tenuta storica delle principali elaborazioni avanzate dallo studioso statunitense. Pur incorporando – e spesso condividendo – le non poche critiche mosse al libro negli anni (sia da destra che da sinistra4), Giglioli «non ha difficoltà a riconoscere la correttezza delle scelte di metodo»5 di Jameson e la solidità della tesi storiografica, messa a punto seguendo la periodizzazione di Ernest Mandel in Der Spätkapitalismus6. L’economista belga aveva individuato tre «stadi della rivoluzione tecnologica all’interno del capitale» corrispondenti ad altrettanti «salti nell’evoluzione delle macchine nel capitalismo»7:

La periodizzazione sottolinea la tesi generale del libro di Mandel, vale a dire che nel capitalismo ci sono stati tre momenti fondamentali, ciascuno dei quali segna un’espansione dialettica rispetto alla fase precedente. Sono il capitalismo mercantile, la fase monopolistica o imperialistica e il nostro momento, erroneamente denominato postindustriale, che invece si potrebbe definire meglio come capitalismo multinazionale. […] sarà apparso chiaro che la mia periodizzazione culturale delle fasi del realismo, del modernismo e del postmodernismo è al contempo ispirata e confermata dallo schema tripartito di Mandel. Si può dunque parlare della nostra epoca come della Terza Era delle Macchine8.

Partendo dalla rivoluzione industriale del Settecento, si approda agli Stati Uniti degli anni Quaranta del Novecento, dove questa terza mutazione si sarebbe verificata (mentre bisognerebbe aspettare gli anni Sessanta per l’Europa occidentale). Le nuove macchine protagoniste di questa «Terza Era» non producono più oggetti ma rimandano invece un’immagine del nuovo assetto mondiale decentrato, caricandosi in questo modo di un fascino ipnotico per la loro supposta capacità di fornirne uno schema rappresentativo sintetico. Riproducendo il mondo, esse si integrano nei processi di produzione estetica, mettendoci a parte di quello che Daniele Balicco riassume nei termini di un «nuovo universo percettivo non antropomorfico», di cui «il postmodernismo è la traduzione simbolica»9.
È a partire da queste considerazioni che Jameson propone dunque di non considerare il postmodernismo alla stregua di uno stile in continuità con il modernismo, bensì come la logica culturale dominante del capitalismo avanzato. Se è vero infatti che anche i capolavori modernisti presentavano caratteristiche spesso oscure o contenuti di contestazione politica e sociale, c’è da dire che essi venivano effettivamente recepiti dal pubblico borghese in quanto scandalosi o sovversivi; nell’età postmoderna, invece, la cultura ufficiale accoglie e insieme neutralizza questi materiali eterogenei, in nome della superiore logica di produzione delle merci. È il nuovo «pluralismo armonioso» di cui aveva parlato Marcuse nel pieno degli anni ’60, un totalitarismo culturale «dove le opere e le verità più contraddittorie coesistono pacificamente in un mare di indifferenza»10. Questo stesso pluralismo per Jameson si sposa con l’ideologia dei gruppi, i movimenti sociali che sono subentrati alle tradizionali classi e che rivendicano una rappresentazione democratica tanto dai media che dal mercato. Il gruppo emergente in questo senso si presenta come un potenziale mercato per nuovi prodotti, e una civiltà basata sul profitto è ben contenta di accordargli questa forma di riconoscimento democratico.
Un’ottima occasione per tornare sulla linea di demarcazione tra modernismo e postmodernismo ci viene offerta dal campo dell’architettura, il quale rende tangibili con le sue innovazioni i mutamenti propri della contemporaneità, al punto di ispirare Jameson nella composizione stessa del libro. È ragionando su dei campioni architettonici dei suddetti stili che egli individua due corrispondenti possibilità di inserimento degli edifici nel tessuto urbano. Se da un lato Le Corbusier, poggiando l’Unité d’Habitation su pilastri in cemento armato (pilotis), svincola il suo progetto residenziale dal «tessuto urbano degradato»11, dall’altro l’Hotel Westin Bonaventure di John Portman non tenta più di inserirsi come «un linguaggio diverso, distinto» rispetto alla città ma ne adopera invece lo stesso «lessico e la sintassi»12. È il superamento di una postura elitaria già individuata nel contesto letterario da Leslie Fiedler con il suo saggio Cross the Border – Close the Gap13, in cui invitava la critica a “farsi pop”, abdicando alla tradizionale distinzione tra arte elevata e di massa. In architettura tutto ciò si traduce nel cosiddetto populismo estetico: il Westin non vorrebbe essere in comunicazione con la città, inserirsi nel suo tessuto urbano, quanto piuttosto porsi come suo equivalente. Dal momento che aspira a essere uno spazio totale, gli ingressi – espressione materiale di quel collegamento con l’esterno che si vorrebbe sopprimere – sono posti in posizione laterale e defilata, e principi analoghi regolano l’organizzazione dello spazio interno. Il corpo principale infatti è circondato da quattro torri assolutamente simmetriche, che rendono «pressoché impossibile non perdere l’orientamento», nonostante la presenza di una fitta segnaletica che rivela il tentativo «di ripristinare le coordinate dello spazio di una volta»14.
Per Kevin Lynch gli individui si muovono all’interno della città alienata15 incapaci di elaborare una mappa mentale che riesca a collocarli nello spazio prendendo contemporaneamente in considerazione le realtà fondamentali della totalità urbana. Queste ultime costituirebbero una sorta di causa assente althusseriana16, poiché sono impossibili da osservare immediatamente e si comunicano piuttosto simbolicamente. Dilettandosi a dare un saggio di questa linea interpretativa in letteratura, Jameson legge il relativismo monadico di certi personaggi modernisti alla Pirandello come figura e sintomo della penetrazione nell’esistenza borghese della relatività globale del sistema coloniale. Ora, la dialettica tra percezione e rievocazione di una totalità assente sarebbe stata riproposta (involontariamente?) da Lynch quando ha messo in evidenza lo scarto tra il soggetto e l’insieme delle strutture di classe che lo circondano pur sottraendosi alla sua consapevolezza. Se storicizzare il presente non è mai stato semplice, va detto che il panorama si è evoluto ulteriormente da quando i media sono subentrati nel processo di informazione quotidiana, sostituendo l’interpretazione storica dei fenomeni con una presentazione dei fatti in rubriche separate: la storia così “spazializzata” e compartimentata neutralizza la presa di coscienza del fenomeno. Un esempio su tutti è rappresentato dal processo di reificazione che ha subito l’oggetto, consistente nella «cancellazione delle tracce della [sua] produzione»17, le quali sole consentirebbero di percepire l’esperienza di fruizione dei prodotti di lusso in continuità con le condizioni di vita delle classi subalterne che li producono.

2.

Si è detto che la mutazione dello spazio fisico in iperspazio ha superato la capacità individuale di orientarsi, rendendo obsoleto il corredo percettivo antropico, inadeguato a muoversi all’interno dell’ambiente edificato. Il risvolto della medaglia del disorientamento spaziale è per Jameson di tipo esistenziale, un corrispettivo dell’impossibilità – o piuttosto dell’impensabilità, come si è avuto modo di osservare – di mappare la rete globale che ci contiene. Quest’idea di una post-contemporaneità a dominante spaziale la riceviamo da Henri Lefebvre18, che ha osservato come le caratteristiche delle due categorie universali di spazio e tempo (e la maniera di percepirli) siano legate a una specifica età storica e al modo di produzione corrispondente. La tematizzazione postmoderna dello spazio influisce sulla percezione del tempo: uscita di scena la dimensione diacronica, si ha la sensazione di vivere in un perpetuo presente che «cancella dall’attenzione del soggetto il passato storico e il futuro, sia nella sua forma utopica che in quella apocalittica e catastrofica»19. Eppure questo stallo, lungi dal condurre l’individuo alla disperazione, gli spalanca davanti l’infinita possibilità combinatoria del presente. Nei prodotti culturali le epoche trascorse perdono la loro consistenza storica convertendosi in un serbatoio di immagini da cui attingere per cimentarsi in una pratica indiscriminata dell’eterogeneo (parliamo di pastiche o parodia vuota). Già Susan Sontag nel ’66 aveva richiamato l’attenzione su una nascente sensibilità estetica che celebrava l’artificio, da lei battezzata camp20. La realtà che emerge dal trionfo del culturale sul naturale si istituisce come una vasta congerie di testi; in campo teorico, la riflessione post-strutturalista sottolinea la funzione di restituzione mediata del reale svolta da linguaggio e pratiche simboliche, mentre i neostoricisti riconoscono lo stesso ruolo ai sistemi di rappresentazione. A questo stadio, l’espansione della sfera culturale all’intero ambito sociale porta Jameson a decretare la fine della sua cosiddetta semiautonomia, ovvero della sua «esistenza fantasmatica […] al di sopra del mondo pratico dell’esistente, del quale rimanda l’immagine riflessa in forme che variano dalle legittimazioni di una lusinghiera somiglianza alle accuse contestatorie della satira critica»21.
L’impossibilità di formulare un’analisi del prodotto culturale – e a maggior ragione una qualsiasi teorizzazione successiva – separandolo dalla realtà del capitale, impone allo studioso di procedere a un secondo momento di valutazione quantomeno propositiva se non positiva. Un mandato che si fa tanto più urgente quanto più il quadro tracciato minaccia di frustrare fin dalle premesse ogni tentativo incisivo di elaborazione teorica, spianando la strada al declino delle teorie forti e delle utopie. Anche Lyotard, dopo aver esposto nel ’79 la sua posizione sulla fine delle grandi narrazioni in La condizione postmoderna22, aveva manifestato preoccupazioni simili. Per contrastare lo spaesamento duplice prodotto dallo «spazio saturo»23 bisognerà ipotizzare allora un nuovo tipo di arte politica, che sia focalizzata sullo spazio mondiale del capitalismo multinazionale ma che cerchi anche di

progredire verso un nuovo modo, per ora inconcepibile, di rappresentarlo, in cui si possa ricominciare a intendere la nostra posizione in quanto soggetti individuali e collettivi e a riconquistare una capacità di agire e lottare, che al presente è neutralizzata dalla nostra confusione spaziale e sociale. La forma politica del postmodernismo […] avrà quale propria vocazione l’invenzione e la proiezione di una cartografia cognitiva globale […]24.

La formulazione di cartografia cognitiva qui proposta comporta un’estensione dell’analisi urbana di Lynch all’ambito della struttura sociale e veicola un valore ossimorico, invitando a pensare una mappa in termini non spaziali. Jameson apre una strada di pratica critica, decostruttiva ma non decostruttivista, «che proietta il contenuto fenomenico oggetto di analisi verso una cornice spazio-temporale futura che ha il nome dell’utopia»25. È un tentativo di ripensare il concetto di coscienza di classe nel nuovo sistema-mondo (il che amplia il discorso del marxismo ai campi della critica postcoloniale e della critica alla globalizzazione culturale)26.
In prossimità della conclusione del libro, e del suo ultimo capitolo che prende il nome di Elaborazioni secondarie, questa “strategia” viene esplicitamente contrapposta a un diverso approccio estetico-politico che fiacchi dall’interno la solidità della società dell’immagine, alla stregua di una pratica omeopatica. È interessante notare come, nel quadro delle lettere in Italia, le due figure di Italo Calvino e Franco Fortini abbiano incarnato quasi perfettamente queste opposte posizioni. Per inquadrare il dibattito che li vide protagonisti, è necessario fare un balzo indietro fino al contesto di «il menabò», rivista letteraria fondata e diretta dallo stesso Calvino insieme a Elio Vittorini, che ospitò tra il settembre 1961 e il luglio 1962 gli interventi di numerosi scrittori e intellettuali (tra gli altri Umberto Eco, Gianni Scalia, Ottiero Ottieri, Vittorio Sereni) sulle zone di contatto tra mondo industriale, letteratura e media. Ad aprire le danze fu il saggio Industria e letteratura27 di Vittorini, nel quale il critico si interrogava sulle vigenti forme di rappresentazione del mondo industriale all’interno della produzione letteraria. Nel numero successivo comparve il celebre contributo di Calvino, La sfida al labirinto, un tentativo di sintesi in campo culturale «delle ragioni dell’estetismo e di quelle dell’ideologia socialista»28, quantomai scisse a partire dalla rivoluzione industriale. È prendendo il via da questa tensione che Calvino esorta all’interno del testo a superare la percezione traumatica della cultura contemporanea di massa (e postmoderna), per abbracciarla invece come condizione all’interno della quale si è inconfutabilmente immersi, fino a integrarla tra le immagini del proprio arsenale poetico (la pratica omeopatica jamesoniana). Solo ampliandosi fino a comprendere tutti i linguaggi, gli stili e i metodi, la letteratura potrà riecheggiare ed esprimere la pluralità e la complessità del mondo, di cui è immagine la forma del labirinto dominante nella narrativa contemporanea («il labirinto della concrezione e stratificazione linguistica in Gadda, il labirinto delle immagini culturali di una cosmogonia più labirintica ancora, in Borges»29).
In questo senso, Calvino si include in una linea d’azione, tra chi «affronta tutti i problemi di trasformazione del mondo con la fiducia che ciò che è meglio serve per il meglio», distanziandosi da «chi si chiede ogni momento: “Ma non farò il gioco del capitalismo?”»30, e aggiunge per di più un affondo polemico nei confronti di Franco Fortini, dimostrazione per lui «di come una tensione rivoluzionaria, se alimentata solo dalla passione per la teoria […] si risolve nella scelta del nulla»31. A confrontarsi sono due paradigmi in perenne conflitto, e difatti qualche anno prima – nel corso di uno scambio epistolare – Calvino aveva già rilevato nell’altro la tendenza a «tener le mani nette», «astenersi (sul piano degli “strumenti”), per difendersi dal pericolo di diventare un’opposizione di sua maestà, ovverossia riformista»32. Lo scrittore fiorentino dal canto suo, in nome di una volontà di superamento del sistema vigente, rifiuta ogni manifestazione di “facile” ottimismo progressista, e respinge l’accusa calviniana ribadendo la centralità della prassi nella sua opera e ridefinendone al contempo i confini: «Non si dà marxismo, di nessun genere, senza la domanda “che fare?”, nel più energico senso del verbo; ma, nel medesimo tempo, senza la domanda: “Che pensare?”»33. Una prassi che non è concepita dunque come altro dall’attività intellettuale:

Quando, nel corso del mio intervento, interpretandolo erroneamente come appello ad un immediato attivismo pratico-politico, qualcuno mi ha chiesto con ironia: “che cosa vorresti facessimo?”, il mio stupore interdetto è stato di chi non immaginava possibile una simile domanda. Mi confermava che un certo numero di ascoltatori credeva in buona fede di non star “facendo” nulla, mentre “faceva”, e come, in un felice convegno di metodologia letteraria…34

3.

È proprio nella direzione di una pratica intesa in questa doppia accezione che egli afferma l’impossibilità di continuare a parlare di marxismo «senza una recognizione permanente dei significati e della portata delle nozioni che lo hanno costituito: quali bisogni, proprietà, capitale, imperialismo, sfruttamento, lotta di classi, partito, democrazia, rivoluzione»35. Come ha suggerito Marco Gatto nella prima monografia italiana dedicata a Jameson, è possibile notare una certa affinità tra questa proposta e lo slancio finale del cognitive mapping, volto a testare i presupposti del marxismo a contatto con una nuova realtà da interpretare. Entrambi infatti sono impegnati in una «verifica costante dell’arsenale teorico, mai scissa da un continuo e solerte aggiornamento»36, che coniughi l’eclettismo metodologico con una lettura storicizzata del presente – e non va trascurato che Fortini sia stato estimatore e tramite iniziale della presentazione di Jameson in Italia, nonché prefatore dell’edizione italiana di Marxismo e forma37. Ancora, è interessante che nell’intervento pensato per «il menabò», Astuti come colombe (confluito poi nella raccolta saggistica Verifica dei poteri), egli parli dell’industria come della «manifestazione del tema che si chiama capitalismo»38: se si sostituisce la parola industria col termine postmoderno, avanza Rocco Capozzi, per entrambi ha «altrettanto senso dire che il postmoderno non è un tema ma è la manifestazione del tema tardo-capitalismo postmoderno»39. Stante questa corrispondenza, e appurato il robusto sostrato teorico marxista, non meraviglia che per Fortini il piano letterario sia sempre influenzato da quello socio-economico. Egli è stato tra i primi critici italiani a mettere in luce i rapporti tra intellettuali, scrittori e industria della letteratura, sottolineando l’influenza esercitata da quest’ultima sul campo culturale. Si avverte in queste posizioni tutta la distanza che lo separa da Calvino, il quale invece ammette di tenere ben separati i due ambiti, almeno per quanto lo riguarda, per cui «quando pensa alla politica pensa solo alla politica e quando pensa alla letteratura pensa solo alla letteratura»40.
Tale atteggiamento incarna per Fortini il riformismo letterario contro cui è necessario reagire, evidenziandone l’allineamento con la logica capitalistica. Nel contesto di un apparato politico-economico che ingloba persino la sua opposizione – dal momento che essa non è «immediatamente politica», non è insomma «una possibilità di antitesi vera»41, e con il fine «di mantenere l’illusione della spontaneità e della indipendenza, fondamento morale del sistema»42 – il ruolo dello scrittore è sempre più circoscritto. L’industria culturale incorpora nella sua produzione l’«autogestione capitalistica dell’egemonia, non più affidata al ceto mediatore degli intellettuali»43, che rinuncia a formulare un discorso letterario universale, e quindi umanistico. Questo indebolimento complessivo passa anche per la scelta dei soggetti da rappresentare in narrativa e per i modi della loro rappresentazione. L’immagine dell’industria che si dà in letteratura, ad esempio, non mette a fuoco il reticolo di rapporti e idee da essa generati né tantomeno sottolinea l’origine umana degli oggetti prodotti (di nuovo, la reificazione marxista della merce). Ciò favorisce la perdita di centralità del tradizionale conflitto tra capitale e lavoro all’interno di un contesto dominato da un potere diffuso, reticolare e perciò sostanzialmente privo di un centro gerarchico. Una simile visione del reale lascia gli individui sprovvisti degli strumenti per collocarsi correttamente sulla scala delle forze in gioco, alimentando un senso di smarrimento simile a quello descritto da Jameson. Per tradurre questo concetto in immagini, Fortini ricorre in un altro luogo44 a una parabola allegorica: si figura una formica intenta ad attraversare il suo tavolo da lavoro, mentre lui, con una matita, le impedisce ripetutamente il passaggio. L’animale ricalcola freneticamente il percorso eppure non considera mai la possibilità di salire sulla mina per liberarsi dal labirinto di grafite. La metafora è scoperta: la formica, come l’individuo isolato della società contemporanea, non è in grado di riconoscere che l’ostacolo, sebbene si manifesti in modi e luoghi diversi, è sempre il medesimo.
Alla luce di questa cornice teorica, per Fortini il primo errore dei suoi interlocutori all’interno del dibattito su «il menabò» è stato commesso tralasciando di sottolineare che «le forme, i modi, i tempi della produzione industriale e i suoi rapporti sono la forma stessa della vita sociale» e che «le strutture economiche – nel nostro caso, capitalistiche e quindi industriali – sono né più né meno che l’inconscio sociale»45. La rivista, considerata in sede polemica come un soggetto unitario, rifletterebbe per tali omissioni l’immagine progressista prodotta dall’ideologia che l’«attuale fase di sviluppo dell’industria neocapitalistica induce nella società italiana»46. È importante ricordare che queste riflessioni nascono negli stessi anni in cui il Partito Socialista Italiano – al quale Fortini era stato iscritto fino al 1957 – si unisce alla Democrazia Cristiana per dar vita alla coalizione di centro-sinistra al governo, allontanando inesorabilmente ogni prospettiva rivoluzionaria.

Negli ultimi dieci, quindici anni […] ognuno di noi è entrato a far parte dell’amalgama, della concrezione cementizia, del conglomerato. Dove passano la crepa, il solco, la spaccatura? Quella che, secondo il Vangelo, mette padre contro figlio e fratello contro fratello; e, secondo Hegel, gli uomini in lotta mortale per il riconoscimento; e, secondo Marx, le classi in conflitto fino alla negazione delle classi? Eppure questo, di “portare la spada” nel mondo, è pur stato ed è anche uno dei compiti della poesia47.

Se si è persuasi che la maggiore caratteristica ideologica delle forze economicamente e politicamente dominanti sia la neutralizzazione di ogni contestazione sistemica, per sottrarsi a questo meccanismo sarà necessario preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio in un nuovo tipo di straniamento. Da qui parte il lavoro sulla forma, alluso fin dal titolo del saggio, che contiene l’esortazione a farsi candidi come volpi e astuti come colombe (rovesciamento del passo evangelico Matteo 10, 16): si tratta di un «virtuosistico esercizio di impossibilità», motivato dalla volontà non di negare la propria parola, bensì di essere al tempo stesso «non adoperabile e utile»48. Concepisce così l’immagine di una poesia “affilata”, che possa farsi strumento di liberazione come una «lima fine d’acciaio nascosta nella pagnotta dell’ergastolano»49.
Fortini chiude rilanciando con una soluzione ad alto tasso poetico, pienamente inscritta nella «dialettica tra la sua appartenenza al contesto reificante del capitalismo e la sua capacità di sottrarsi all’ordine imposto, di riformularlo e riedificarlo in direzione diversa»50. Per lui, come per Adorno – che nei suoi saggi musicali prendeva a modello le disarmonie tonali e sperimentali di Schönberg – la poesia e l’arte possono dunque essere portatrici di un’alternativa alla massificazione culturale quando sono dissonanti. Si è detto che il marxismo trova nel postmoderno un nuovo terreno di sfida, uno stimolo a «registrarne i contorni», «segnando i luoghi dell’antagonismo sociale», e a «tracciare i lineamenti del nuovo potere costituente che emerge»51. Lungi dall’essere un proponimento semplice, esso conduce Fortini e Jameson alla formulazione di teorie indipendenti che pure si incontrano in alcuni punti. Da un lato, infatti, c’è la difesa di una postura disarmonica che porti a riconoscere la propria posizione nella meccanica dei rapporti di forza; dall’altro, la ricerca di un orientamento spaziale e strutturale nel conglomerato informe e uniforme di immagini: per entrambi, «nominare ha conseguenze»52 ed è questo che li spinge a cercare di «dare un nome al sistema»53.


  1. F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico (1981), trad. it. di L. Sosio, Milano, Garzanti, 1990.

  2. Id., Il postmoderno e la società dei consumi, in Aa. Vv., L’antiestetica. Saggi sulla cultura postmoderna (1983), a cura di H. Foster, Milano, Postmedia, 2014, pp. 130-145.

  3. Id., Postmodernismo, ovvero La logica culturale del tardo capitalismo (1991), trad. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007. Di molto precedente, invece, la traduzione del saggio, per cui vd. Id., Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, trad. it. di S. Velotti, Milano, Garzanti, 1989.

  4. «Lo si è accusato (da destra) di restare mitologicamente attaccato al marxismo […], di essere un dinosauro […] sopravvissuto al marxismo paleolitico, […] di essere una vittima soddisfatta (per sadomasochismo) dell’impulso a inventare discorsi totalizzanti. […]  Ma lo si è anche accusato (da sinistra) di essersi completamente perduto, o disorientato, dentro le analisi di Lyotard sulla frammentazione dell’esperienza e della conoscenza, […] e di essere ricorso troppo tardi, e in modo meccanico al vecchio armamentario marxista, per cercare disperatamente di dare un significato totalizzante a quelle esperienze frammentarie». R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, p. 71.

  5. Id., Il postmoderno a infinite dimensioni, in «il manifesto», 29 dicembre 2007, URL https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003121286, consultato il 6 febbraio 2025.

  6. E. Mandel, Der Spätkapitalismus, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1973.

  7. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 1105.

  8. Ivi, pos. 1127.

  9. D. Balicco, Fredric Jameson. Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, in «Allegoria», 56, 2007, pp. 201-212: p. 207.

  10. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1964), trad. it. di T. Giani Gallino, Torino, Einaudi, 1999, p. 74.

  11. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 1219.

  12. Ivi, pos. 1185.

  13. L. Fiedler, Cross the Border – Close the Gap, in Id., The Collected Essays, New York, Stein & Day, 1971, pp. 461-85.

  14. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 1254.

  15. K. Lynch, L’immagine della città (1960), trad. it. di G. C. Guarda, Venezia, Marsilio, 2001.

  16. L. Althusser et al., Leggere Il Capitale (1965), Milano, Mimesis, 2006, p. 270.

  17. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 7294.

  18. H. Lefebvre, La produzione dello spazio (1974), trad. it. di M. Galletti, Milano, Pgreco, 2018.

  19. R. Ceserani, op. cit., pp. 87-88.

  20. S. Sontag, Note su“Camp”, in Ead., Contro l’interpretazione (1966), trad. it. di E. Capriolo, Milano, Mondadori, 1967.

  21. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 1357.

  22. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere (1979), trad. it. C. Formenti, Milano, Feltrinelli, 1981.

  23. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 9383.

  24. Ivi, pos. 1477.

  25. M. Gatto, Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008, p. 201.

  26. Non a caso Jameson ha dato vita in quegli stessi anni a un contributo sugli studi postcoloniali, insieme a Terry Eagleton e Edward Said, per cui vd. T. Eagleton, F. Jameson, E. Said, Nationalism, Colonialism, and Literature, Derry, Field Day, 1988.

  27. E. Vittorini, Industria e letteratura, in «il menabò», 4, 1961, pp. 13-20, poi in Id., Letteratura arte società. II. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, pp. 955-962.

  28. I. Calvino, La sfida al labirinto, in «il menabò», 5, 1962, pp. 85-99, poi in Id., Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 2023, pp. 101-120: p. 108.

  29. Ivi, p. 117.

  30. Ivi, p. 109.

  31. Ibidem.

  32. I. Calvino, F. Fortini, Carteggio Calvino-Fortini. Lettere scelte 1951-1977, a cura di G. Nava, E. Nencini, in «L’ospite ingrato», 1, 1998, pp. 93-118: pp. 101-102.

  33. F. Fortini, Bilancio di un trentennio: il marxismo e le prospettive della critica, in Teoria e critica letteraria oggi. Atti del convegno internazionale «1960-1990: la teoria letteraria, le metodologie critiche, il conflitto delle poetiche» (Siena, 10-12 maggio 1990), a cura di R. Luperini, Milano, FrancoAngeli, 1991, pp. 261-268: p. 265.

  34. Ivi, pp. 267-268.

  35. Ivi, p. 265.

  36. M. Gatto, Fredric Jameson, cit., p. 113.

  37. F. Jameson, Marxismo e forma: teorie dialettiche della letteratura nel XX secolo (1971), trad. it. di R. Piovesan, M. Zorino, Napoli, Liguori, 1975.

  38. F. Fortini, Astuti come colombe, in «il menabò», 5, 1962, pp. 29-45, poi in Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Torino, Einaudi, 1989, pp. 34-53: p. 41.

  39. R. Capozzi, Dalla “letteratura e industria” all’industria del postmoderno, in «Annali d’italianistica», 9, 1991, pp. 144-157: p. 149.

  40. I. Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Id., Una pietra sopra, cit., pp. 347-357: p. 347.

  41. F. Fortini, Astuti come colombe, cit., p. 38.

  42. Id., Verifica dei poteri, in Verifica dei poteri, cit., pp. 11-26: p. 14.

  43. D. Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Roma, Manifestolibri, 2006, p. 126.

  44. F. Fortini, Il muro del rischio, in Id., Insistenze. Cinquanta scritti difficili sui nostri dilemmi: memoria difficile e oblio organizzato, anarchia conformista, dissenso e reazione. Gli imperi e noi, Milano, Garzanti, 1985, pp. 15-19.

  45. Id., Astuti come colombe, cit., p. 44.

  46. Ivi, p. 45.

  47. Ivi, p. 48.

  48. D. Dalmas, Temerari come serpenti. Commento di un saggio “imprendibile”, in «Allegoria», 86, 2022, pp. 54-69: p. 55.

  49. F. Fortini, Astuti come colombe, cit., p. 52.

  50. M. Gatto, Critica dell’inespresso. Letteratura e inconscio sociale, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 97.

  51. M. Hardt, A. Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello stato postmoderno, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 37-38.

  52. F. Fortini, Che cos’è la reazione, in Insistenze, cit., p. 36.

  53. F. Jameson, Postmodernismo, cit., pos. 9514.


The essay presents a comparison between two analyses of the contemporary age conducted by the American cultural critic Fredric Jameson and the Italian poet and essayist Franco Fortini. Both Marxist intellectuals, they have emphasized the correlation between aesthetic object and modes of production, which has led them to articulate independent theories that do however converge on certain assumptions. Specifically, Jameson’s focus on spatial and existential disorientation in Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, finds a counterpart in Fortini’s advocacy of a disharmonious posture that preserves the revolutionary potentialities of poetic language, leading to recognize one’s position in the grid of power relations.