In limine. Il caso Moro, la Storia, l’immaginario
1. L’«innere Auge»1 dell’arte aperto sulla storia
A 2022 anni dagli Idi di marzo il genio di Roma onora Cesare 44 a.C.-1978 d.C. Proprio alle Idi di marzo del 1978 il governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo attenderci Bruto? Chi sarà? E chi assumerà il ruolo di Antonio, amico di Cesare? Se le cose andranno così ci sarà anche una nuova Filippi?2
Alla vigilia dei cinquantacinque giorni più roventi della storia dell’Italia repubblicana, fa capolino tra i necrologi del quotidiano «Vita sera» questo commento «sibillino»3: Carmine ‘Mino’ Pecorelli, direttore del periodico OP (Osservatore Politico)4 annuncia, come nel prologo di una tragedia, il destino dell’allora uomo politico più discusso del paese, Aldo Moro. A distanza di poco più di quarantaquattro anni, il tempo ha consegnato alla storia e agli storici l’analisi di un evento i cui contorni sembrano esser stati smussati dalla memoria corrotta dei protagonisti e degli spettatori, piuttosto che dalla necessità di far chiarezza. Se da un lato spetta alla storia riesumare il passato per metterne in rilievo i particolari, alle arti tutte rimane il bisogno primigenio di comunicare, anche nell’immeditato, l’universalità di un gesto, di un vissuto. In forza di ciò, questo contributo intende perseguire l’obiettivo di osservare sotto una nuova lente alcuni dei lavori più significativi riconducibili a quell’evento – o ad ipotesti a quest’ultimo legati – adducendo in particolare un confronto tra la pellicola Buongiorno, notte (2003) e la serie televisiva Esterno notte (2022), osservando con attenzione il cambiamento di prospettiva e di resa del medesimo regista, Marco Bellocchio, nell’arco di un ventennio circa. Questo tentativo consentirà di prendere nota della transitabilità di Moro non solo nella storia, come figura politica cardine dell’epoca coeva, ma oltretutto nella letteratura e nell’arte cinematografica. L’analisi dell’epistolario Moro permetterà di rendere esplicito un fitto dialogo inter artes tra scrittura e cinematografia: in particolare, le produzioni di Bellocchio dovranno intendersi come punto di partenza per nuovi margini di riflessione sull’incontro tra arte e storia, nell’eventualità ricorrendo a considerazioni letterarie del passato.
2. Le trame della Prima Repubblica
Risalire alle pendici di un adattamento di un vissuto e/o di un testo letterario non può prescindere dalla ricostruzione del suo retroterra, soprattutto in considerazione dell’apocalisse istituzionale consumatasi il 16 marzo del 1978 con il rapimento del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro nell’attentato di via Fani, a Roma. Per la verità, esso rappresenta soltanto una delle ore più buie di una gestione politica probabilmente fallimentare già dal principio della sua nascita.
Il sogno di una repubblica democratica, all’indomani della Liberazione, cominciava a sgretolarsi già nei primi decenni della seconda metà del secolo di fronte alla connivenza delle classi dirigenti con organizzazioni criminali, alla progressiva sudditanza politica nei confronti degli Alleati e alle misteriose trame di potere che manovravano il paese5. Alla base dei tentativi di rovesciamento6 della democrazia e delle tensioni socio-ideologiche sublimatesi nella ‘strategia della tensione’ e/o negli Anni di piombo, vi era un’Italia che, da un lato, non aveva mai del tutto elaborato il trauma del proprio passato fascista, assorbendo ex-camerati e repubblichini nella vita politica repubblicana7, e che dall’altro lato presentava il partito comunista con maggior consenso nell’Europa occidentale8 al tempo del profondo contrasto tra il blocco sovietico e statunitense. È in questo clima che la violenza di gruppi extraparlamentari di diverso colore politico si presta ad essere strumento atto al riequilibrio di un ordine sociale fino ad allora non garantito dalle istituzioni. Dinanzi allo stragismo9, a presunti servizi di informazione deviati o nascosti10 e a possibili derive autoritarie, la risposta, secondo il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer, risiedeva nell’inclusione della forza di sinistra più solida in una coalizione di maggioranza11. Malgrado lo scetticismo iniziale, i vertici del partito dei cristiani democratici, in maggior luogo a partire dai Morotei, favorirono nella seconda metà degli anni ’70 un nuovo impasto del governo, rinominato di ‘solidarietà nazionale’, per poter coinvolgere con decisione figure di sinistra nell’azione politica italiana. Nel medesimo giorno in cui la Democrazia cristiana s’apprestava ad eleggere un consiglio dei ministri monocolore con sostegno comunista, le Brigate rosse, con un colpo di mano formalizzato strategicamente nei minimi dettagli, mettevano a segno il rapimento di Aldo Moro, abbattendo gli ufficiali di scorta all’incrocio tra via Fani e via Stresa, nei pressi del quartiere Trionfale. I seguenti giorni di agonia videro l’uomo politico in detenzione presso la Prigione del Popolo12, lì dove si è consumato il processo e la sua condanna a morte, ove prese corpo la più attenta riflessione sulle dinamiche politiche del Bel Paese13 e dove ancora risuona l’accorata richiesta d’aiuto ad intermediari e uomini di potere.
Al di fuori di questo spazio quasi etereo tenne banco un dibattito politico che vide gran parte delle componenti del potere procedere verso l’adesione ad una ‘linea della fermezza’, propugnata dal PCI e dagli esponenti massimi della DC, sostenuta quasi unanimemente dalle rimanenti forze di centro e di destra14. Dopo innumerevoli tentativi di persuasione alla trattativa con scambio di prigionieri, circa otto comunicati ufficiali brigatisti15, coinvolgimenti di parti esterne e altrettante trame oscure16, al di là di quelle vaticane e statunitensi, il corpo dell’onorevole Moro venne ‘recapitato’ senza vita nel baule di una Renault 4 rossa posizionata, simbolicamente, nel cuore del Ghetto ebraico di Roma, in via Caetani, a metà strada tra la sede del PCI e della DC, a riprova da parte dei terroristi della colpevolezza degli uomini di palazzo. Benché la richiesta di Moro prevedesse una celebrazione delle esequie in forma strettamente privata17, ammettendo la presenza di pochi fedelissimi, il governo s’adopererà per una commemorazione religiosa del Presidente senza feretro, il 13 maggio, aprendo ufficiosamente le porte ad una nuova stagione repubblicana18.
3. Tra ricostruzione e riflessione storica: un primo passo verso Buongiorno, notte
Avvicinarsi alla ricostruzione storica di un evento tanto cocente per la storia recente d’Italia ha significato, nell’economia del presente contributo, offrire al lettore uno spazio approssimativamente delimitato dell’immaginario nel quale affiorano i prodotti cinematografici di Marco Bellocchio. Purtuttavia, è indispensabile sottolineare la frammentarietà che accompagna da decenni ogni dinamica dell’affaire Moro: il caso, di fatti, ha aperto spiragli di inorganiche riflessioni storiche e politiche tutt’ora non ancora verificabili. Il sequestro, la prigionia, così come l’assassinio e gli scritti lasciati dall’uomo politico permangono ineluttabilmente nella dimensione di un ‘possibile’ di kierkegaardiana memoria.
Pertanto, come anticipato, se il tempo ha consegnato alla storia e agli storici dei fatti dalle sembianze fantasmagoriche, a tratti impedendo e ingolfando la ricostruzione evenemenziale, per il mondo delle arti questa temperie rappresenta un terreno fertile per la proliferazione di riflessioni di più ampio respiro, giacché l’arte stessa abita nello spazio del possibile.
Precedentemente al primo contributo del piacentino, la cinematografia, soprattutto, aveva elaborato una serie di produzioni legate all’evento matrice contrassegnati dall’intento documentaristico, se non addirittura investigativo, come in Caso Moro (1986), diretto da Giuseppe Ferrara e con Gian Maria Volonté nei panni del Presidente19 o L’anno del terrore (1991), regia di John Frankenheimer, con ipotesto il romanzo omonimo di Mewshaw. In tutte queste circostanze la carica drammatica dell’evento storico è smorzata: ciascun prodotto pare piuttosto speculare e/o alimentare potenziali complotti dietro le quinte del rapimento. Il percorso intrapreso da Bellocchio nella lavorazione della stessa materia pare invece configurarsi diversamente a partire dal rapporto che egli stabilisce e con l’evento e con l’ipotesto: la capacità indubbia del regista di dialogare con spirito artistico in Buongiorno, notte20 con il romanzo autobiografico Il prigioniero (1998) dell’ex brigatista Anna Laura Braghetti consente di aprire uno «strappo nel cielo di carta»21 di dietrologie e verità impalpabili. Il cineasta italiano è ben consapevole delle complicazioni che possono scaturire dalla riflessione sulla storia evenemenziale, per questo motivo intende muoversi prevalentemente tra le intercapedini della medesima storia mediante la componente umana. L’umanità, dato fino ad allora non ancora rilevato nella valutazione del significato intimo della condanna di Moro, è probabilmente la chiave d’accesso ad una nuova riconsiderazione di tutte le parti coinvolte in un gioco, apparentemente, politico.
In BN il primo, decisivo passo verso quest’obiettivo consiste in un netto ribaltamento del paradigma: il regista immerge gli spettatori interamente nella prospettiva del criminale, dei «folli e stupidi»22 brigatisti, permettendoci di osservare caparbiamente l’annichilimento di ogni pulsione umana in ragione della rivoluzione socialista. Il pubblico, tuttavia, non aveva tardato a manifestare il proprio dissenso per il punto di vista adottato, in grado di umanizzare il male a tal punto da giustificarlo: è il caso di Maria Fida Moro, primogenita dell’uomo politico e che, in occasione di un’intervista successiva alla visione del film sostenne di aver provato «disappunto, contrarietà e schifo»23. Un dibattito simile, parzialmente legato al valore didattico dell’arte, in effetti, aveva già tenuto banco nei salotti, tra intellettuali e letterati di prim’ordine del passato, fino a mostrare instabilità e prime crepe con le voci decadenti e bohémien nella Francia del XIX secolo: ad ingessare il sintagma l’art pour l’art, già in circolazione proprio nella prima metà dell’Ottocento, fu con ogni probabilità Théophile Gautier24 nella prefazione dell’Albertus, nel 1835. La rivendicazione di un’opera d’arte senza scopi politici, didattici e morali divide in parte ancora oggi non solo critici, ma in prevalenza i destinatari dell’opera.
In questa circostanza, tuttavia, le accuse lanciate nella direzione del regista non concernevano esclusivamente il contenuto morale o l’occulta giustificazione brigatista, giacché invero cresceva incessante nel pubblico la necessità di raffrontarsi con un’opera storicamente aderente ai fatti. Bellocchio, alla luce di talune osservazioni, non esitò di far mancare la propria risposta, rivendicando perentoriamente il bisogno dell’artista di «scegliere un punto di vista, uno sguardo»25 per dare corpo alla propria visione e stimolare l’elaborazione di nuovi interstizi di verità: «non nego che il mio film sia politico, tuttavia non ho inteso sposare alcuna tesi […] Può omettere anche molto della cronaca […] Ho fatto un film: chi va a vederlo credo cerchi e forse trovi un’emozione, un coinvolgimento. Non un ragionamento storico politico»26.
A riconoscere l’intrinseco valore artistico del testo vi è dall’altro lato – e per giunta nella stessa famiglia Moro – il fratello minore di Maria Fida, Giovanni:
Trovo che Bellocchio, scegliendo deliberatamente di riflettere sull’esperienza dell’uomo Aldo Moro in carcere senza vincoli o ambizioni di ricostruzione storica o di fedeltà all’insieme dei fatti e degli atti noti, abbia davvero illuminato aspetti importanti di questa vicenda. Questo è un caso in cui una creazione artistica è stata capace, proprio restando tale, di accrescere la conoscenza della realtà27.
In un ultimo, sebbene i succitati interventi paiano certificare e legittimare la ricerca dell’umano nell’affaire, l’opera, in concomitanza con le intenzioni velate dello stesso autore, non si sottrae comunque ad una riflessione storica di ampia portata, profondamente slegata dalle circostanze del sequestro dell’uomo politico. Come era già accaduto nel 1996, col documentario Sogni infranti, ragionamenti e deliri, Bellocchio sposta l’attenzione sul fenomeno socio-politico comunista, evidenziandone gli obiettivi fondativi prima e la deriva rivoluzionaria e psicologica dei suoi partecipanti poi. L’utilizzo della citazione dei fasti cinematografici della propaganda sovietica28 si accompagna alla degenerazione del comitato esecutivo delle BR, riassunta nella reiterazione rituale della frase «la classe operaia deve guidare tutto» di fronte alla visione di una trasmissione televisiva. L’incantesimo della lotta armata ha gettato i brigatisti nel settarismo, nell’utilizzo di un linguaggio svuotato di passionalità, ove il disumano prevale per consentire la salvaguardia dell’umanità. Tale «cecità ideologica»29 fa breccia in un Moretti fisicamente, spiritualmente e psicologicamente sottoposto agli ordini della retorica rivoluzionaria: la razionalità ai picchi più estremi deve ostruire qualsiasi ribollire di pulsioni umane, persino nel momento in cui Maccari manifesta esplicitamente il bisogno di ricongiungersi con la propria ragazza.
I contrasti intestini al comando inaugurano una prima serie di confronti con la realtà bifronte della lotta comunista: accanto alle spinte rivoluzionarie delle organizzazioni rosse degli anni ’70 si erge, quasi inattaccabile, il sacrificio della lotta partigiana. Una comparazione di rilievo con gli esempi precedenti potrebbe emergere osservando i rapporti tra compagni all’interno delle brigate partigiane al tempo della Resistenza e, di conseguenza, recuperando uno dei testi letterari più significativi della stagione neorealista, quale Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino. Tra i membri del distaccamento del Dritto, di fatti, affiorano costantemente le vite di ieri e gli impulsi dell’oggi, entrambi avvolti finemente da una patina di violenza finalizzata alla ricerca del riscatto. In Pelle, in Cugino, così come in Mancino non vi è piena coscienza di classe; velleitario e imparagonabile rispetto a quello di Moretti è il tentativo del Dritto di riportare all’ordine la propria brigata: in un caso l’umanità viene catalizzata tutta verso l’idolatria dell’ideologia e nell’altro l’individualismo emerge come riflesso di una spinta atavica. La distinzione tra le due generazioni comuniste è resa evidente in BN mediante l’espediente del ‘montaggio delle attrazioni’: la teoria del cineasta russo Eisenstein prevedeva, per mezzo dell’inserzione di immagini extra-diegetiche apparentemente distanti dal tessuto narrativo, una sollecitazione alla riflessione, un coinvolgimento emotivo e quindi attrazione diretta dello spettatore agli eventi; il pubblico, in tal maniera, doveva poter essere in grado di stabilire una relazione, di tipo metaforica o simbolica, tra le sequenze mostrate ed il plot di fondo. Bellocchio applica alla perfezione lo stratagemma sovrapponendo la lettera di commiato di un partigiano condannato a morte dai repubblichini30, accompagnata dalla canzone partigiana Fischia il vento, al destino dei brigatisti pronti a condannare a morte Moro. Il sopruso, quindi, non ha frontiera, nemmeno con la conquista della coscienza di classe, che certamente non manca ai giovani brigatisti. Di contro, procedendo nuovamente a ritroso, nel microcosmo partigiano si potevano riconoscere sì fervidi sostenitori della causa comunista, ma persino, più semplicemente, uomini offesi dalla vita, senza una precisa bandiera ideologica, con la speranza di «costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»31, proprio come il Dritto e compagni. L’uso della violenza, giustificata da un progetto sociale e politico differente, è ciò che permette a Kim, uno dei commissari politici del romanzo calviniano, di asserire di trovarsi «nel giusto»32. Posta di fronte al drammatico crinale della guerra civile negli anni ’43-’45, l’euforia brigatista appare in BN anacronistica, estremizzazione schizofrenica di un ideale che aveva già perso da diverso tempo il proprio smalto. È presumibilmente in questo frangente che si nasconde un’altra condanna, questa volta velata, da parte del regista: Bellocchio condensa nella scena succitata il proprio giudizio storico sull’evoluzione, fallimentare, del movimento comunista.
4. I confini dell’immaginabile e della contraddizione in Buongiorno, notte
La pellicola, a partire dal titolo, rinvia immediatamente alla dimensione ossimorica, antitetica, contraddittoria che accompagna l’intera linea del racconto. Di fatti, Buongiorno, mezzanotte è il titolo di un componimento poetico di Emily Dickinson, laddove l’io lirico spalanca le porte alla notte, al sogno per rifuggire dalla realtà, per squarciare liberamente il buco dell’immaginazione. La dialettica realtà-immaginazione domina l’intera diegesi del film in quanto motivo di dilacerazione della giovane bibliotecaria al servizio della lotta armata: Chiara, protagonista sulla quale il regista mantiene la focalizzazione, si serve dell’immaginazione per poter conciliare le proprie spinte compassionevoli con la decisione raccapricciante del comitato esecutivo dell’organizzazione di condannare Moro, recluso nell’appartamento da lei stessa affittato. L’immersione radicale nella realtà brigatista non necessariamente lascia emergere l’algida lucidità con cui i terroristi si muovono nell’operazione, tutt’altro: Chiara diventa emblema della eterogeneità delle sensazioni umane, del tentativo vano di legittimare ad ogni costo la propria scelta politica, di un’esaltazione troppo presto smorzata da legittime incertezze, dalla mole di un gesto così disumano, quale l’uccisione di un uomo.
Su quell’esuberanza violata, quasi vanagloriosa, su quell’«indigenza del “troppo giovane” »33 a lungo aveva insistito Calvino per poter trasporre in letteratura l’esperienza personale nella lotta partigiana; per giunta, in quel contesto la Resistenza veniva osservata di «scorcio»34 dalla prospettiva straniante e divertita del bambino monello35 Pin. Se il fiabesco è il filtro da applicare per un affresco della guerra partigiana ne Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, lo stesso non può dirsi di BN, dal momento in cui l’immaginazione non è unicamente fantasticheria, ma vero e proprio onirisimo e pertanto volontà di compensazione delle lacune etiche poste in essere dalla lotta armata.
L’allusione ad una realtà alternativa così come all’ossimoro prende corpo fin dalla primissima scena, lì dove la coppia di brigatisti sotto falsa identità s’appresta a visitare l’appartamento in cui s’insedieranno, quello di via Montalcini, 8, teatro del dramma Moro. In questa occasione è il buio dell’abitazione ad accogliere lo spettatore riempito dall’eco del «buongiorno»36 dell’agente immobiliare: è in questa modalità che il titolo dell’opera viene esplicitato, sovrapponendo il canale uditivo37 con quello visivo. Ben presto la scena permetterà poi a luci ed oscurità di raggiungere un perfetto connubio, come quando il campo si frange in due vedendo da un lato, sul versante destro, Chiara nella luce e, dall’altro lato, l’ingegnere in ombra, ad anticipare, se non a testimoniare, il rifiuto ideologico della protagonista rispetto alla causa della rivoluzione proletaria.
La soglia tra il mondo delle contingenze reali e quello della finzione è certamente labile, come dimostrato dalle improvvise penetrazioni delle allucinazioni nella diegesi, tuttavia è significativo individuare una serie di marcatori in grado di far immedesimare lo spettatore nello spazio onirico. Ad esempio, nel momento in cui Chiara è a letto o in dormiveglia irrompono associazioni libere tipiche del sogno, visioni di una realtà ‘altra’ dove spesso le proprie aspirazioni socio-politiche vengono conciliate. È in questo frangente che il campo si riempie di citazioni cinematografiche, come nel momento in cui vengono riportate sequenze del film documentario di Dziga Vertov del 1934 Tre canti su Lenin, opera della propaganda comunista sovietica: la panchina vuota di Lenin, ricoperta di neve, è il corrispettivo del fantasma di un comunismo che ben presto comincerà a non aggirarsi più per il continente europeo. L’altra modalità di rappresentazione dei desideri di Chiara prende corpo, stavolta, per mezzo di vere e proprie allucinazioni visionarie e non sogni di produzione inconscia: l’oggetto delle illusioni è in prevalenza Moro; questi si aggira come un simulacro tra le stanze dell’appartamento, in silenzio, alla ricerca di risposte, di libertà, quasi a nutrire invano le ultime speranze della brigatista.
Il collasso tra il mondo della fantasia e quello della realtà avviene sempre mediante un incontro tra personaggi, un evento dai contorni perturbanti: è ciò che si verifica mediante la mise en abîme del dramma interiore di Chiara nella sceneggiatura di Enzo Pannoscuro, giovane artista in erba e corrispettivo del regista Bellocchio nella pellicola. Il copione di Pannoscuro non è altro che la riduzione in finzione cinematografica della doppia vita di Chiara, a metà tra la lotta armata ed il placido impiego in biblioteca. Quasi corroborando la struttura narrativa delle Kunstmärchen, dei racconti romantici tedeschi38, Enzo legittima la piena promiscuità tra immaginazione e mondo sensibile affermando a chiare lettere: «l’immaginazione è reale!». Il possibile trova così un varco d’accesso, un canale di comunicazione ininterrotto con la realtà, a tal punto da rendere le due dimensioni indistinguibili.
5. Esterno notte e il peso del «controcampo della tragedia»39
Poco meno di vent’anni trascorrono dall’uscita nelle sale di BN al film, diviso inizialmente in due parti, poi reso serie, Esterno notte. Il bisogno di recuperare una materia così proteiforme è sintomo di un’esigenza irrefutabile del regista di aprire una nuova finestra sull’evento e sulle figure coinvolte, di realizzare «il controcampo di questa tragedia».
Stabilire un nuovo contatto con la memoria, specie se legata ad un evento lacerante, può spesso generare, però, la riapertura di una ferita: se Bellocchio intende colmare quel vuoto di materiale umano lasciato in sospeso in BN con una nuova opera, lo stesso non accade in Calvino. Per lo scrittore sanremese, ormai adulto nel 1964, momento in cui procede a ritroso nella propria carriera, far scorrere il dito tra le pagine di uno di quei testi del passato, come Il sentiero, e che rivendicavano un sedicente raccontare di esperienze collettive, significava rimanere folgorati, pietrificarsi di fronte ad un compito mai del tutto portato a termine. L’obiettivo di poter narrare quel «senso di nullatenenza assoluta»40 con quella «voce anonima dell’epoca»41 sfumava di fronte all’incontrovertibile capacità della letteratura e dell’arte di plasmare la memoria fino a deformarla e a tratti renderla irriconoscibile: diventa quindi fallace la pretesa di ritornare a raccontare con esattezza, di restituire un’immagine meno sgranata del proprio vissuto.
Benché Bellocchio non desiderasse realizzare una pellicola corale, né tantomeno elaborare una testimonianza viva dei cinquantacinque giorni, è ben evidente – come anche nel caso di BN – che l’entrata in scena nella serialità del piacentino abbia contribuito a stimolare un nuovo dibattito, più accorto e distaccato, sugli eventi di quella primavera. Immergere la propria mano nell’oblio di un passato a tratti senza verità storica, così come esaminare il coefficiente umano di Moro, della propria famiglia e degli uomini politici invischiati, significa adottare un approccio multi-prospettico che trova il proprio centro gravitazionale negli scritti del presidente: è a partire da questa feritoia che l’artista può lanciare uno sguardo nuovo, stimolare nuove prospettive, ritornare alla storia non con la foga di chi intende speculare, ma con l’umiltà di chi si propone di rappresentare la complessità emotiva di quanto accaduto.
In effetti, se le vicende storiche in sé potrebbero bastare per la sceneggiatura, è probabilmente dalle missive di Moro che invece prende corpo il soggetto. Non a caso, Fabrizio Gifuni, interprete nella serie proprio del prigioniero politico42, aveva operato una drammatizzazione del corpus in occasione del quarantesimo del sequestro dal titolo Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul Memoriale di Aldo Moro43.
A partire da questa pietra d’angolo, così come sulle base dei documenti audio-visivi dell’epoca, il cineasta costruisce poi un’impalcatura che va ad imperniarsi su tre motivi inscindibili dall’evento ed in continuità con il precedente lavoro: il fantasma mediatico della televisione, l’analisi degli interni e l’inestinguibile immaginazione di un nuovo, possibile destino. Il primo è espressione del racconto, dall’ideale distorto di realtà offerto dai mezzi di comunicazione, sebbene essi siano l’unico strumento mediante il quale il popolo stabilisce una relazione con le contingenze politico-sociali. È un’iperrealtà a tratti anacronistica, sconnessa rispetto alla complessità emotiva dei protagonisti, cui spesso fa da sottofondo e pure accompagna le loro giornate. Dall’altro lato, l’interno, malgrado possa apparire in contrasto con il titolo dell’opera, sottende la ricerca del capitale umano negli attori non ancora scandagliati44 nella loro intimità: ecco che l’esterno, diversamente da BN, non è il solo contatto dei brigatisti col mondo di fuori, ma è l’analisi dell’interiorità di quelle figure al di fuori del covo di via Montalcini. In ultima istanza, l’allucinazione, marchio inconfondibile della mente del regista, è ancora una volta espressione di quel «punto irriducibile di contestazione e di alternativa»45 che l’arte può offrire: al fine di una più congrua comprensione del suo impiego, in parte divergente da BN, è necessaria un’anatomia della figura di Moro in questa pellicola e altresì della sua trasformazione in maschera drammatica.
6. La trasfigurazione di Aldo Moro: lo statista, il martire, la maschera
La scelta di confrontarsi con l’altra tragedia, quella umana, più che politica, equivale in Bellocchio ad un cambiamento di connotati della versione dell’uomo di Stato osservata in BN. In quella circostanza, Roberto Herlitzka offriva agli spettatori l’immagine stilizzata di un Moro paterno46, sintesi della generazione precedente con cui la lotta armata doveva fare i conti: compassionevole nella sua solitudine, vista dallo spioncino dalla prospettiva di Chiara, spettrale nei movimenti, parsimonioso nell’uso della parola.
In EN vengono spalancate le porte al dramma Moro per mezzo di una radicale inversione di tendenza nella rappresentazione della fragilità e instabilità dell’uomo politico. Fabrizio Gifuni, come sottolineato47, si era già precedentemente immedesimato nei panni del presidente48 e del papa – e non solo, potremmo sostenere49 – facendo della fisicità uno dei tratti più prominenti della propria maschera, lo strumento attraverso il quale viene mediata la trasfigurazione interiore: tra tutte le figure rappresentate però, come si evince dagli interventi dell’attore50, è di Moro l’unica vicenda a farsi massima espressione della disfatta di un sistema politico; egli è da concepire come il capro espiatorio del tortuoso percorso democratico dell’Italia del secondo dopoguerra, pertanto, farsi suo interprete significa rispondere ad un dovere civico, entrare nei meandri del peso politico e psicologico da questi portato.
Proprio la profondità psicologica del personaggio trova fulcro nell’evoluzione della sua personalità, dall’«uovo al tegamino»51 alla confessione finale, prima dell’incontro con la morte: vi è in effetti un brusco irrigidimento della sua figura, impensabile rispetto all’immagine che egli aveva costruito nel corso della vita pubblica degli anni precedenti, purtuttavia ineluttabilmente ragionevole. Dall’inizio fino alla fine rimane però una costante tra le variabili dell’umore Moro, quale la solitudine, l’isolamento perenne: dapprima gli incarichi – accettati con riserva52 – per mettersi al servizio dei propri colleghi lo costringono a sacrificare quel contatto stabile con la propria famiglia e, successivamente, col sacrificio di anima e corpo nella ‘Prigione del popolo’, viene estromesso radicalmente dal mondo e dagli affetti, per lavare nel Lete la coscienza dei democratici cristiani.
Che Moro sia stato identificato nell’immagine dell’agnello immolato, del sacrificato, non è testimoniato solo dalle reazioni degli organi di stampa o della società civile53 ma, oltretutto, è lo stesso presidente a dichiarare apertamente nelle proprie missive ai membri del partito di esser stato costretto a dover «pagare con la condanna a morte»54 accuse rivolte alla Democrazia cristiana. Per la verità, è probabilmente l’epistolario stesso, prima ancora dell’opinione pubblica, è designare implicitamente quest’«operazione»55 architettata dai vertici del governo come un martirio. Ogni missiva nelle direzioni di Zaccagnini, Cossiga e Piccoli tuona come un anatema, una condanna alla gogna destinata a perseguitarli fino al giorno della loro morte. Le sue parole sembrano provenire dall’altro mondo ed annunciare una profezia nefasta per le coscienze dei suoi interlocutori e per il partito: «se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, il mio sangue cadrà sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco»56; oppure ancora «so che tutto è difficile ma spero non ti sottrarrai [rivolgendosi a Zaccagnini] a questa responsabilità (il contrario sarebbe disumano e crudele)»57.
Una trasfigurazione così repentina di Moro non poteva prospettarla nessun organo di partito, nessun cittadino, nemmeno alla vigilia del rapimento. L’inizio del decennio e gli anni del governo di ‘solidarietà nazionale’ avevano dato adito all’opinione pubblica di meditare su un’altra versione dell’uomo politico, in parte distante dal martire, in altra parte da quella dell’iracondo: si tengano di riferimento, ad esempio, le due pellicole Todo modo (1976) e Forza Italia (1977). La prima, adattamento dell’omonimo romanzo di Sciascia, è un ritratto macabro della DC e delle trame di potere occulte intessute dalle correnti del partito. Elio Petri, figura di spicco del cinema politico italiano degli anni ’70, quasi a ricalcare un congresso di partito, accoglie ed acclude alcune colonne portanti del giallo del siciliano, concedendosi la licenza di alludere implicitamente al partito democristiano e a segrete confraternite, di stampo evidentemente massonico. Le scene prendono corpo nel fittizio eremo di Zafer, lì dove banchieri, dirigenti di partito e d’azienda, dovrebbero espiare i propri peccati dedicandosi ad esercizi spirituali58. Oscuri omicidi dominano l’intreccio dell’opera fino ad arrivare all’ultimo, più emblematico, del presidente del partito, dietro il quale non è difficile riconoscere l’uomo politico Moro. L’interpretazione quasi caricaturale di Volonté restituisce l’immagine di un inoffensivo, mansueto, a tratti ingenuo Moro, tanto dedito alla preghiera, quanto alla dissimulazione, al consolidamento ossessivo del proprio potere.
Sulla scia tracciata di Petri si muove invece il Moro di Forza Italia, parte di una più ampia riflessione parodica attraverso alcune immagini di repertorio ed altre acquisite su soggetti reali, protagonisti della gestione politica dei democristiani dal dopoguerra fino al ‘Governo della non sfiducia’. Il film di Faenza, in ragione dell’eccessiva, seppur leggera, carica satirica e delle inquietudini generatisi dal sequestro di via Fani, fu sottoposto a censura a partire dalla primavera del ’78 per circa quindici anni. Il presidente del partito aveva accettato, tra l’altro, di prestare la propria immagine alle riprese malgrado non fosse al corrente del loro effettivo utilizzo, almeno fino alla prima nell’inverno del ’77. È interessante rimarcare in questa sede come, nel memoriale rinvenuto in via Montenevoso, a Milano, nel 1990, Moro rimandasse a Forza Italia per un quadro del comportamento dei vertici del partito: «e per chi abbia visto “Forza Italia”, fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l’altro all’On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili»59.
In buona sostanza, quell’effigie di Moro, cui egli stesso aveva contribuito a plasmare con la retorica nelle tribune politiche60, mediante una quieta, per certi versi impenetrabile affabulazione61 si sfalda di fronte ad un primordiale spirito di sopravvivenza, che grida al delitto e che chiede vendetta.
Nel turbine di disperazione di quei cinquantacinque giorni, col cappio al collo, Moro impiega tutti i propri strumenti retorici, stavolta, per rinsaldare la miseria del supplizio subìto: nelle lettere ai familiari compaiono insistentemente frammenti, simboli riconducibili al grande motivo della Passione del Cristo. Rappresentative a tal proposito sono alcune missive destinate alla moglie Eleonora: tra le immagini più ricorrenti vi è certamente quella del Calvario, « […] dandomi conferma nel mio dolore di un amore che […] mi accompagnerà per il mio Calvario»62, se non addirittura citazioni e/o parallelismi con eventi biblici, come in «Genesi 44-29 […] così Luca [nipote del presidente] lontano fa scendere la mia canizie con dolore nel soggiorno dei morti»63 oppure, più in avanti nella stessa lettera, nel frangente in cui sostiene di aver « […] capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo»64; non compare nelle lettere ai familiari il motivo del sangue sacrificale, in maggioranza utilizzato, come anticipato, soprattutto di fronte ai colleghi democristiani.
La simbologia utilizzata da Moro per rievocare il proprio tragico destino trova debitamente corrispondenza nella serie di Bellocchio: è nuovamente l’allucinazione a restituire con tonalità vivide la passione dell’uomo politico. Un patimento che diventa manifesto soprattutto nelle sequenze in cui questi irrompe nella celebrazione della Via Crucis in occasione della Pasqua del ’78 – cui partecipano diversi democristiani – abbracciando la croce sotto gli occhi di lo sta condannando al Gòlgota. L’onirismo, tuttavia, non traduce solo il delirio del presidente o il fardello della colpa degli amici di un tempo: come accaduto in BN, le visioni si fanno talvolta foriere di una realtà alternativa. È a partire dai primi secondi dell’opera, fino al suo termine, che, accanto al Moro tribolato, si avvicenda quello libero. Vi è un uomo politico straziato, ora accoccolato nel baule della Renault 4 rossa, accolto dall’impassibile stupore dei democristiani presenti, e ora visitato in ospedale dal triumvirato Andreotti, Cossiga e Zaccagnini; in questo esatto fotogramma prorompe il silenzio: arrestando questa volta di colpo la macchina dell’immaginazione, Bellocchio concede allo spettatore la possibilità di figurarsi il confronto. La fattualità, naturalmente, non scompare, né svanisce, essa si accosta bruscamente al possibile, così come quando per la seconda volta viene forzato il bagagliaio posteriore della Renault, riportando alla luce il corpo esamine del prigioniero, o quando vengono proiettati i video-reperti della grottesca commemorazione di Stato. In questa maniera, è l’immaginazione stessa a confermare la natura paradossale della realtà: se la vita è «un’enorme pupazzata»65, il sequestro Moro è allora un grande classico della tragedia italiana.
7. Conclusione: incroci storico-letterari
Nel labirinto di percorsi storici e politici da percorrere attraverso i cinquantacinque giorni, selezionare la chiave interpretativa della letteratura e dell’arte consente di scavalcare qualsiasi scorciatoia possibile verso la fantomatica verità.
I prodotti cinematografici di Bellocchio, in particolare, consentono di dialogare a viso scoperto, senza limiti dettati da contingenze materiali. Esse s’inscrivono in un più ampio simposio artistico che, inevitabilmente, vede la già citata riflessione saggistica di Sciascia profilarsi come una delle più argute, quantomeno nel vasto campo letterario. Se il regista de I pugni in tasca si concede di modellare la fantasia con la realtà – e non viceversa – lo scrittore di Racalmuto preferisce invece rimarcare come sia stata esattamente la letteratura, quindi la finzione, a forgiare, ad esorcizzare la realtà. L’esempio letterario più calzante per descrivere le sorti dell’uomo politico è il celeberrimo racconto delle Ficciones di Borges, Pierre Menard, autore del Quijote, emblema degli infiniti mondi che si schiudono dalla riscrittura: così Sciascia – e chi come lui aveva fino ad allora contribuito a descrivere l’universo delle relazioni politiche italiane66 – degli anni ’70, anticipa e riscrive la storia:
Perché l’impressione che l’affaire Moro sia già stato scritto, che viva in una sfera di intoccabile perfezione letteraria, che non si possa che fedelmente riscriverlo, e però, riscrivendolo, mutar tutto senza nulla mutare? le ragioni sono tante; e non tutte decifrabili. È da dire, intanto, che, come il Don Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto e Todo modo67.
È uno spazio ellittico quello della letteratura, in contatto con la storia e la realtà come in un’antica tenzone. Che la letteratura, la cinematografia, l’arte tutta lavori spesso su materiale umano non ve n’è dubbio, così come non v’è perplessità sulla forza della suddetta di deformare la percezione di un vissuto comune. Parallelamente, tuttavia, è la realtà stessa a presentarsi come parte di un gioco artistico, proprio come l’affaire Moro. Esso è materiale grezzo che già intrinsecamente manifesta connotati di opera d’arte, sarà l’artista poi a restituire un prodotto finito levigando con dovizia di particolari e creatività gli spigoli più coriacei della realtà e della storia: ecco spiegato il perché in BN ed EN «l’immaginazione è reale».
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«[…] und eine innere Stimme sprach, das ist der Traum […], [der] wie ein frommes Kind sich an die Brust des Menschen legt und mit einem süßen Kuß das innere Auge weckt» [“[…] e una voce interiore parlò, è il sogno […] che come un bambino mite si poggia sul petto dell’uomo e con un dolce bacio desta l’occhio interiore”] (E.T.A. Hoffmann, Der Kampf der Sänger (1819), in Id., Poetische Werke, 12 Bde, Berlin-Boston, de Gruyter, 1957-1962, Band VI, Die Serapionsbrüder, Band 2, p. 20, trad. mia). ↑
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M. Studer, Il realismo irrealistico di Buongiorno notte: gli inquietanti 55 giorni della Primavera del 1978, in «Mimesis Scenari», 13 ottobre 2021, URL https://www.mimesis-scenari.it/2021/10/13/il-realismo-irrealistico-di-buongiorno-notte-gli-inquietanti-55-giorni-della-primavera-del-1978/, consultato il 10 febbraio 2025. ↑
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Ibidem. ↑
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Per un approfondimento sulla figura di Pecorelli, una delle vittime più illustri degli Anni di piombo, cfr. R. Fanelli, La strage continua. La vera storia dell’omicidio di Mino Pecorelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 2020. ↑
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Vengono qui accennate l’organizzazione Gladio, resa nota dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti in un discorso alla Camera dei Deputati il 26 febbraio 1990, il Noto Servizio, fino ad arrivare alla loggia massonica coperta Propaganda Due, identificata dalla magistratura attorno al 1981. ↑
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Si rammentano qui i più celebri, come il Piano Solo, il Golpe Borghese, il Golpe Bianco ed il Piano di rinascita democratica. ↑
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Si veda il caso di forze partitiche con chiare ispirazioni neofasciste, come il Movimento sociale italiano. ↑
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Alle elezioni politiche del 1976 il PCI raggiunge il 34,3% circa per la Camera e 33,8% per il Senato, al fronte del 38% dei democristiani. ↑
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L’apertura di questa stagione è notoriamente segnata dall’esplosione di un ordigno in piazza Fontana, a Milano, presso la Banca dell’Agricoltura, nel 1969, cui seguiranno altrettanti spargimenti di sangue, si riportano qui quelli di maggior clamore: dall’attentato a Piazza della Loggia, a Brescia, al treno Italicus, fino ad arrivare alla strage della stazione di Bologna. ↑
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Cfr. supra. ↑
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Si cita a titolo esemplificativo solo l’articolo pubblicato nell’ottobre del ’73, parte di una più ampia riflessione imbastita nei numeri precedenti: cfr. E. Berlinguer, Alleanze sociali e schieramenti politici, in «Rinascita», XXX, 40, 1973, pp. 3-5, URL https://tinyurl.com/archiviopci, consultato il 10 febbraio 2025. ↑
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Secondo le testimonianze dei brigatisti condannati da situare in via Montalcini, 8. ↑
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Proprio negli scritti del prigioniero. ↑
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Fa eccezione probabilmente il tentativo dei socialisti, guidati dal segretario Craxi, di aprire un varco di trattativa con i terroristi, formalizzato in comunicato diffuso agli organi di stampa il 21 aprile. Qui si riteneva necessaria la ricerca di «altre vie che in diverse forme, diversi Stati democratici non hanno esitato ad esplorare» (cfr. A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, p. 87). ↑
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Cui se ne aggiunge uno, il Comunicato n. 7, reso pubblico il 18 aprile 1978, giorno del ritrovamento del covo brigatista romano di via Gradoli, 96. Il documento destò fin da subito particolari sospetti, tant’è che parrebbe non attribuibile alle BR e realizzato ad arte dal falsario legato alla Banda della Magliana Antonio ‘Tony’ Chichiarelli, probabilmente su commissione di figure politiche di spicco ed ufficiali dei servizi segreti italiani. Gli obiettivi dell’operazione erano puntati prevalentemente verso il depistaggio e la misurazione dell’umore dell’opinione pubblica italiana di fronte alla possibile scomparsa di Moro. Nel sedicente comunicato, di fatti, si rimandava all’esecuzione della condanna a morte dell’uomo politico con indicazione precisa sul luogo del rilascio del cadavere: nel lago della Duchessa, situato nel comune di Borgorose, in provincia di Rieti (cfr. M. Gotor, Il memoriale della repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia e del potere italiano, Torino, Einaudi, 2011, pp. 287-301). ↑
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Non di rado si tenta di far convergere sia il sequestro che l’esecuzione dell’uomo politico con l’implicazione di esponenti della criminalità organizzata e agenti coinvolti nell’organizzazione Gladio, oltre alle Brigate rosse. Cfr. ivi, pp. 377-397. ↑
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«Per questa ragione, per una evidente incompatibilità, chiedo che ai miei funerali non partecipino né Autorità dello Stato né uomini di partito» (Cfr. A. Moro, Lettere, cit., p. 100). ↑
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Marcata poi nettamente dall’inchiesta ‘Mani pulite’ del 1992, guidata dai magistrati di Pietro ed il procuratore Borrelli. Successivamente all’arresto di Mario Chiesa (PSI), accusato di aver ricevuto una tangente da un imprenditore, il pool avrà modo di svelare il sistema di finanziamenti illeciti del Pentapartito della Prima Repubblica. ↑
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Volonté aveva impersonato già precedentemente l’uomo politico in un film di Elio Petri del 1976, Todo modo, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Sciascia pubblicato due anni prima. Per un approfondimento cfr. infra. ↑
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Da questo momento indicato come BN per disambiguarlo da EN (Esterno notte). ↑
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L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal (1904), Torino, Einaudi, 2014, p. 164. ↑
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M. Bellocchio, Il coraggio di andare oltre la storia, in «La Repubblica», 15 settembre 2003. ↑
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[S.a.,] Bellocchio, che schifo il suo film, in «La Repubblica», 9 settembre 2003. ↑
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A. Schaffer, Théophile Gautier and ‘L’art pour l’art’, in «The Sewanee Review», XXXVI, 4, 1928, pp. 405-417. ↑
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M. Bellocchio, Il coraggio di andare…, cit. ↑
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Ibidem. ↑
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[S.a.,] Giovanni Moro: è un film che accresce la conoscenza, in «L’Unità», 5 settembre 2003, URL https://archivio.unita.news/assets/main/2003/09/05/page_021.pdf, consultato il 10 febbraio 2025. ↑
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In prima linea Vertov, cfr. infra. ↑
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M. Fabre, Buongiorno, notte: ‘approfondire la storia attraverso l’infedeltà’, in «Società e rappresentazioni», XXIX, 1, 2010, pp. 127-136, URL https://shs.cairn.info/revue-societes-et-representations-2010-1-page-127, consultato il 10 febbraio 2025. ↑
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Nell’opera si tratta del padre della protagonista Chiara, cfr. infra. ↑
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I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Milano, Mondadori, 2020, p. 101. ↑
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Ibidem. ↑
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Ivi, p. XX. ↑
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Ivi, p. XI. ↑
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Ibidem. ↑
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M. Studer, Il realismo irrealistico di Buongiorno notte, cit. ↑
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I protagonisti non sono ancora visibili. ↑
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Si osservino i casi di Der Blonde Eckbert di Ludwig Tieck e Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann: la soglia tra sogno, realtà e follia viene deformata a tal punto da non essere più empiricamente percepibile. ↑
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A. Purgatori, L’intervista di Andrea Purgatori a Marco Bellocchio e Fabrizio Gifuni, in «Atlantide», La7, 18 marzo 2023. ↑
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I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XX. ↑
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Ivi, VI. ↑
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In passato aveva già interpretato un altro protagonista del racconto di Bellocchio, Paolo VI, nella miniserie Paolo VI. Il papa nella tempesta nel 2008. ↑
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Cfr. F. Gifuni, Con il vostro irridente silenzio. Le lettere e il Memoriale: voci dalla prigionia di Aldo Moro, Milano, Feltrinelli, 2022. ↑
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Al netto di quanto rappresentato fino a BN. ↑
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A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 100. ↑
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Cfr. G. Waeger, Buongiorno, notte: Marco Bellocchio, in «Zeitschrift für Film und Kino», XLVI, 255, 2004, p. 38; L. Perrone, «L’imagination, c’est réel!» L’affaire Moro dans Buongiorno, notte de Marco Bellocchio, in Imagination et histoire: enjeux contemporains, a cura di M. Panter et al., Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2014, pp. 143-152. ↑
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Cfr. supra. ↑
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Gifuni ha impersonato il presidente nel film Romanzo di una strage (2012) di Marco Tullio Giordana, oltre che in occasione della già citata drammatizzazione (cfr. supra). ↑
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Si pensi alla miniserie televisiva De Gasperi. L’uomo della speranza (2005), regia di Liliana Cavani. Qui Gifuni aveva interpretato proprio il protagonista, patriarca del partito democristiano in Italia. ↑
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A. Purgatori, L’intervista…, cit. ↑
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M. Belpoliti, L’uovo al tegamino di Aldo Moro, in «Doppiozero», 9 giugno 2022, URL https://www.doppiozero.com/luovo-al-tegamino-di-aldo-moro, consultato il 10 febbraio 2025. ↑
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A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 16: «È peraltro doveroso che […] io ricordi la mia estrema, reiterata e motivata riluttanza ad assumere la carica che tu [Benigno Zaccagnini, segretario della D.C.] mi offrivi e che oggi mi strappa alla famiglia […]». ↑
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«La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al “momento giusto”». È con questa lapidaria epigrafe, tratta dai quaderni di appunti Die Provinz des Menschen (“La provincia dell’uomo”) di Elias Canetti, che Leonardo Sciascia inaugura il l’Affaire Moro; l’allora senatore della Repubblica e fervido oppositore della linea della fermezza, si prodigò ad esaminare a caldo, nel corso del 1978, le missive del presidente sdoganando il pregiudizio della sua infermità mentale; cfr. L. Sciascia, L’affaire Moro (1978), Milano, Adelphi, 2016). ↑
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A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 16. ↑
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Ivi, p. 104. ↑
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Ivi, p. 17. ↑
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Ivi, p. 85. ↑
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«Todo modo […] para buscar […] la voluntad divina» (“ogni modo per cercare la volontà divina”), frase da cui è tratto il titolo, è una asserzione contenuta negli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. Cfr. I. di Loyola, Esercizi spirituali, ricerca sulle fonti, con testo originale a fronte, a cura di P. Schiavone, Cinisello Balsamo, Edizione San Paolo, 1995. ↑
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Il memoriale di Aldo Moro (1978), ed. critica, coordinata da M. Di Sivo, Roma, Direzione generali archivi-De Luca, 2019, p. 299. ↑
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Si tenga di riferimento lo stesso discorso pronunciato da Moro nel primo episodio di EN di fronte alle diverse correnti di partito: la retorica dell’uomo politico predilige l’utilizzo dell’antitesi, dell’astrazione, quasi volto ad applicare uno stile non dissimile da quello di Tucidide. ↑
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Pregnante è in questo senso la battuta pronunciata da Volonté nei panni di Moro in Todo modo: «Meglio oscurare, prima di sciogliere le riserve». ↑
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A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 31. Cfr. ivi, p. 50, una lettera destinata alla figlia Maria Fida e al genero Demetrio Bonini: «credo di essere alla conclusione del mio calvario». ↑
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Ivi, p. 59. Questa missiva non lascia escludere che Moro intendesse la propria morte come un sacrifico necessario per evitare che il male potesse abbattersi sulla propria famiglia e, in particolare, sul nipote Luca Bonini (cfr. ivi, p. 61). ↑
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Ivi, p. 60. ↑
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G. Giudice, Luigi Pirandello, Torino, Utet, 1963, pp. 94-95. ↑
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Sciascia allude, nel campo letterario, in prevalenza a Pasolini, cfr. L. Sciascia, op. cit., p. 29. ↑
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Ibidem. ↑