Nelle fauci di Crono. Un’odissea odontoiatrica di radici e subcoscienza
Nelle prime pagine di Anestesia locale l’ipnotica affabulazione di Eberhard Starusch affiora come un racconto al proprio dentista «A fauci spalancate e di fronte al video che, senza suoni come me, raccontava pubblicità»1. La natura fittizia di questa narrazione è tradita proprio nel suo intento di dis-trarre l’interlocutore, ovvero di condurlo altrove, invece che di intrattenerlo. Eppure, lo sguardo è inchiodato sotto agli occhi di Starusch e non può fare a meno di soffermarsi nel punto da cui lui vuole distoglierci: i suoi denti malati. E “distrae” il televisore in possesso dello studio dentistico che, persino da spento, è in grado di svagare favolosamente i pensieri. La fissità dello schermo inerte è disposta ad accogliere i riflessi esterni, così come ogni stimolo può penetrare la coscienza anestetizzata della voce narrante, immaginatrice che riesuma dalle immagini scorci di memorie, e che prima di tutto ne ordisce la trama. Quello che potrebbe apparire infatti come un processo di reminiscenza è, invece, quanto mai consapevole e intenzionale. L’incomoda e minaccevole postura «a fauci spalancate» preclude fisicamente e, forse in contraddizione, la capacità articolatoria, mentre l’identità insinuata tra sé e il video muto, largitore di fascinose pubblicità, ammette piuttosto una scrittura lucidissima, un esercizio di stile, che una sincera confessione. Il racconto si sviluppa accentuando la visibilità dei contenuti narrati, mutuando sia mezzi visivi che audiovisivi. Il randomico affastellamento di pubblicità e la concrezione di depositi minerali sui denti acuiscono il senso di congestione veicolato dall’accumulazione verbale, restituendo un patrimonio di desideri condensati e sconfitte imbottigliate, ovverosia residui fluttuanti d’inconscio. In ciò persiste il proposito di intrattenere un pubblico attraverso una mitologia personale, che compensi e risarcisca l’assenza di vissuto significativo.
L’empito difensivo che circoscrive l’autorialità del racconto di Starusch è intimamente connesso al tema dello sganasciamento. Scrutando i fotogrammi di Denti, è suggerita la medesima impressione di disvelamento, dalla bocca a un imo ventrale, dalla chiostra dentaria al fondo delle loro spaventose radici, dei meandri psichici e corporali più ascosti. In una scena in particolare, il protagonista Antonio assume la stessa posizione di Starusch, con il volto indorato dall’unica luce che blandisce un’oscurità livida, quasi bluastra. Da essa egli emerge sganasciandosi in una posa che pare piuttosto un ringhio animalesco, e che si rivolge totalmente al dottor Cagnano, un dentista quasi sciamanico, attentamente proteso verso la bocca del paziente. Il fatto che queste due immagini, cioè di Grass e Salvatores, possono mergersi e sovrapporsi, sebbene e soprattutto una delle due sia di natura esclusivamente verbale, prova quanto la frontiera letteraria possa intersecarsi con altre strategie espressive. La scelta di comparare Anestesia locale di Grass con Denti di Salvatores, adattamento dell’omonimo romanzo di Starnone, è dettata dal desiderio di osservare ravvicinatamene l’«effetto di rebound», scoperta di Genette, cioè un fenomeno sempre più diffuso di indebitamento della letteratura nei confronti dei mezzi espressivi del cinema.
Lo studio non si esaurisce, poiché è ravvisabile, in questi testi, una continuità sostanziale tra odontologia e psicologia. Occorrerebbe, dunque, inquisire la portata del segreto difeso e al tempo stesso trasparito dai denti.
1. «L’anatomia della psiche»
A ben vedere, anche il geloso Antonio è, a modo suo, un allucinato favolista. Le sue parole serpeggiano fuori campo, dominano le vorticose inquadrature dagli abbagli improvvisi e dalle grottesche distorsioni facciali, al punto da avere l’impressione di brancolare, piuttosto che tra gli studi dentistici, in una lunga e laboriosa fantasticheria. Se in Anestesia locale era stato un romanzo di parole a evocare immagini, ora sono le visioni che necessitano di parole che possano razionalizzarle.
In una Napoli stregata da ombre torve, icone di santi, teschi inghirlandati e lucerne, il protagonista di questa dark fairytale porta con sé una maledizione sin dall’infanzia: una bocca da orco con grossi incisivi che, dopo una sfuriata infamante, Mara, la donna per cui Antonio ha lasciato la moglie e i due figli e di cui è estremamente geloso, rompe con un posacenere in un impeto di ira. Da questo momento, che costringe una quête di dentista in dentista, dai monconi degli incisivi di Antonio si sversa un fantasmagorico flusso di memorie ove ricorre, inquietantemente, un corridoio invermigliato da un parato sanguigno che conduce in una stanza luminosa, da cui provengono secchi colpi d’ascia.
Tuttavia, Denti non è un memoir, bensì la storia di pulsioni indicibili ascoste nell’accozzaglia di denti spettrali campeggianti alle spalle del titolo, in rosso, della pellicola. È la storia di istinti finalmente affrancati dal vincolo fisico degli incisivi, tanto imponenti quanto il portato di una coscienza infelice che si purificherà attraverso l’esperienza di un dolore catarchico2.
L’apice immaginativo di quest’anti-epica dell’inconscio e, al contempo, il parossismo della passione dentaria di Antonio, viene toccato nello studio cavernoso di Cagnano, tappezzato da un parato arborescente. Ma poco prima di addentrarsi nella sua selva oscura, un passante ignoto prevede al protagonista il proprio futuro, riassume la parabola del film e, volendo, anche di questa ricerca: «Morte, nascita, perdite, cambiamenti. Tutto si scioglierà danzando»3. Cagnano “strappa” grossolanamente le radici degli incisivi scheggiati di Antonio, al buio e tra le grida atterrite della sua figlioletta, divellendo il peso schiacciante di un drammatico vissuto: la perdita materna, la ferocia emotiva pietrificata. Sì facendo scioglie non solo la «malmagia» che preclude la felicità al protagonista, ma lo prepara anche alla cosiddetta «terza dentizione», raggiunta alla fine del film.
Le ricorsività cromatiche offerte dalla fotografia e l’assidua riproposta di oniriche immersioni offrono preziose chiavi di lettura per un’opera che, nei disegni del regista, avrebbe dovuto proporsi di «filmare l’invisibile»4, ossia quel magma psichico trattenuto nelle ossa alveolari e indovinato per mezzo di alcuni elementi epifanici. Per cominciare, il rosso è il colore associato alla madre di Antonio e rappresenta il sangue, le viscere, la carne e il «pensiero di Mara». Il protagonista dipinge la gelosia come una bestia feroce che lo assale all’improvviso, affondando denti e artigli nella sua carne prima di svanire nel buio ed evocando una scenografia silvestre. Questa prima allusione non è da sottovalutare, poiché ritorna nella carta da parati dello studio di Cagnano, dove il protagonista si immergerà magicamente. Nella foresta immaginaria lo aspetta sua madre, assisa su una tovaglia rossa e vestita di rosso. Tutto si attua su un palco affatto fortuito, ed è possibile ravvisare un riscontro seducente nello studio di Durand5, in cui la foresta figura un centro intimo, paragonabile alla casa, alla grotta o a una cattedrale. Il paesaggio chiuso della selva è fondamentale per questo luogo sacro, spesso iniziato come un «bosco». Essa estende l’archetipo dell’interiorità, tipico della dimora, in un contesto cosmico più ampio, incarnando l’intimità femminile e, ulteriormente, “la costruzione di sé”. In Denti, dove sovrabbondano spazi interni e favoleggianti, la foresta ricostruisce l’identità in cui Antonio vagola smarrito, similmente a Hänsel e Gretel. Ogni stanza è permeata dalla presenza dolce e sensuale della madre e dalle emozioni che provocano le belve feroci che lo assalgono e riecheggiano il ricordo angoscioso (virtuale) dell’assassinio di Fiorenza nella vasca da bagno, alla fine del corridoio: l’insicurezza castrante di Antonio, che lo porta a imbarazzarsi del proprio sorriso e a ricercare ossessivamente la complicità dell’altro sesso, scaturisce da una fragilità pericolosamente incline a una violenza, seppur riflessa, e che sversa tutta l’essenza del personaggio solo dopo la frattura dei suoi denti.
Il coinvolgimento della donna è cruciale nel dispiegamento della memoria stomatologica. Nella scena iniziale del film, lo spettro della madre rassicura Antonio dicendogli che non la tradirebbe se decidesse di andare avanti con la propria vita. Il senso del tradimento è equivoco, poiché se da una parte significa che Antonio debba consegnarla al passato, ai morti, per scegliere la vita, d’altra parte supera la connotazione filiale. La propensione verso quest’ultimo significato è corroborata dall’identità tra la madre e Cinzia, la moglie (tradita) di Antonio, e con l’amante, soprattutto: Mara, cui aspetto fonetico sembra emulare il francese mère [madre], non a caso la lingua nativa del genitore del protagonista. Antonio deve superare il pensiero ossessivo della madre per liberarsi dall’incantesimo che lo lega a Mara, invalidandolo nel processo di elaborare il lutto e la gelosia, a differenza di suo padre e del marito di Fiorenza, che hanno affrontato la loro perdita in modo diverso. Il protagonista è vittima di un maleficio legato alla sillaba “ma-”, che domina le parole chiave del film: madre, Mara, malmagia, ma anche mascella, male e “ma”, una congiunzione che esprime incertezza e opposizione.
Lo studio di Krappe sulle origini etimologiche delle creature soprannaturali rivela interessanti coincidenze tra diverse entità legate a questa malia linguistica: la mahrt, demone ippomorfo tedesco, la mora (strega) in russo, mora (spettro) in antico slavo, mora in polacco e al ceco mura, che richiamano il francese cauchemar (incubo), suggerendo una possibile derivazione dal latino mors, mortis (morte). Inoltre, “marah” in antico islandese significa “morte” o “epidemia”, mentre il lituano “maras” equivale a “peste”. Il folklorista interpreta le “figlie di Mara”, personificazioni indiane del disastro e del male, attraverso un processo di eufemizzazione etimologica. In antico alto tedesco, “mahra” (stallone) si lega all’immagine della morte derivata dal radicale ariano “mar” (morire). Krappe suggerisce che il termine francese “mère” potrebbe derivare dalla stessa radice, suggerendo che la madre sia il primo oggetto “cavalcatore” del bambino, ma anche che il legame con lei possa assumere un aspetto terrificante. Infine, il quadro etimologico si completa con un’osservazione che rimuove il simbolismo equestre: in tedesco svizzero parlato, “möre” equivale a “ingiuria” o “troia”, termine con cui Antonio apostrofa la sua fidanzata al principio del film. In tutti i casi, emerge un tema universale di animazione, accompagnato dall’angoscia del cambiamento, della partenza senza ritorno e della morte.
A tal proposito, merita considerazione l’alter-ego di Antonio, il dottor Beluga, un dentista sordomuto che opera a domicilio e con cui è condiviso un nesso ontologico con le profondità marine: la bocca di Antonio è paragonata a quella di uno squalo, mentre il nome di Beluga evoca l’immagine del cetaceo bianco. L’inquietudine che investe questa figura è dettata non soltanto dalla specificazione zoologica, indicante, in ambedue i casi, degli animali da preda, ma anche dall’analogia cromatica tra la balena e la sala da bagno dove è stata assassinata una donna. Per il dottor Beluga, il matrimonio con Fiorenza gli ha conferito normalità, mentre il suo omicidio avrebbe dovuto sancire un macabro tentativo di possederla completamente, di uccidere la sua gelosia. E tuttavia, nell’esecrabile estasi di questa proibita affermazione di potere, la morte gliela sottrae: nulla sfugge al cambiamento. Soltanto quando prende atto delle terribili conseguenze delle sue pulsioni bestiali, Antonio riesce a superare il ricordo ossessivo della madre, incarnato da Mara, e la paura del passare del tempo.
Le tracce di una brutalità altresì virtuale rosseggiano pure in alcuni sprazzi delle fantasticherie di Starusch, soprattutto relativamente all’ex fidanzata Sieglinde Krings. Il dolore per il tradimento, reale o presunto, brucia nelle riflessioni successive di Starusch sui casi di omicidio e sul risentimento represso. Così come Antonio non è mai stato testimone diretto dell’omicidio di Fiorenza, ma proiettava la brutalità desiderata su Mara nella virtualità del falso ricordo, così Starusch “uccide” Sieglinde nella letteratura. La sua identificazione con il fotografo, che successivamente ucciderà la sua amata, è tradita non solo dalla caratteristica del mal di denti, ma anche dall’assenza di “Arantil”, sia il nome dell’antidolorifico che quello della vittima. È interessante notare che il colore del confezionamento di Arantil sia lo stesso rosso del film di Salvatores. Queste fantasie compensatorie, violenze inconsce ma mai compiute, si manifestano nei pensieri soprattutto quando la ragione è offuscata dagli antidolorifici. Il dentista di Anestesia locale, diventando il giudice dell’immaginazione visionaria di Starusch, offre significativi spunti di riflessione sul tema affrontato finora, e, forse, sfiora anche una possibile risposta:
Il nemico numero uno è il tartaro. Mentre noi camminiamo, esitiamo, dormiamo, sbadigliamo, ci allacciamo la cravatta, digeriamo e preghiamo, la saliva lo promuove incessantemente. Lui si deposita e adesca la lingua. Lei, sempre alla ricerca di un guscio di conchiglia, ama il ruvido e largisce un nutrimento che rafforza il nostro nemico, il tartaro. Lui si incrosta sui colletti e li soffoca. Lui odia ciecamente lo smalto. Non si illuda di contarmela su. Basta uno sguardo: il suo tartaro è il suo odio pietrificato. Non soltanto la microflora della sua cavità orale, ma anche i suoi pensieri contorti, le sue insistenti sbirciatine retrospettive, che sottraggono sempre dove dovrebbero sommare, nonché la tendenza delle sue gengive in abissamento a formare tasche di raccolta di batteri, tutto ciò – la somma di quadro odontoiatrico e psiche – la tradisce: violenze immagazzinate, propositi omicidi in deposito. – Si sciacqui pure! Si sciacqui pure. Di tartaro ce n’è fin che si vuole…6
2. «Nel morso di Frankenstein»
Con i denti ci precipita nella canicola primaverile della Florida, dove una madre fa una scoperta terribile. Eppure, l’amore vorace per il figlio coabita nei suoi occhi azzurri con un’ombra, una rabbia che brunisce lo sguardo e lo fa collimare fatidicamente con quello di uno squalo. Con questa nuova e profetica occorrenza della bestia dai denti aguzzi, la narrazione assimila questa caratteristica al presagio di una «tremenda vita segreta interiore»7, che Sammie non ha mai potuto presentire finché il suo bambino, improvvisamente, sfigura con un morso il volto di un altro.
Qui principia la parabola autodistruttiva del romanzo, inviluppato nelle convulse dinamiche di una famiglia non convenzionale in uno stato conservatore. La vita irenica di due mogli, Monika e Sammie, viene bruscamente interrotta da una cifra notturna che ne frantuma gli autoinganni. Sammie è la prima a pagarne il prezzo, soffocata nel suo perpetuo ruolo di madre e incapace di connettersi con un figlio all’apparenza ostile, mettendo a nudo le censurate idiosincrasie dei rapporti genitoriali. Questi ultimi, pervasi da istanze aggressive, si trasformano in conflitti tragici e familiari che richiamano le tradizioni mitologiche e, come peraltro è emerso in Denti, seppur con esiti diversi, le complesse teorie freudiane. In effetti, l’eco edipica o, ancora più proficuamente, “orestea”, riverbera soprattutto nella postura del giovane Samson nei confronti della madre. La peculiarità della sua storia non si estingue soltanto nella mancata attuazione dell’atto estremo, ma anche dalla sua presenza in un universo esclusivamente muliebre da cui è fattualmente alienato, al punto da ripudiare il proprio nome che, a ben guardarsi, darebbe l’impressione di un matronimico, e conferirlo invece alla bambola costruita da Sammie per un progetto scolastico. Si tratta di una componente rappresentativa nel romanzo, poiché il fantoccio-surrogato è definito un’«inquietante miniatura»8 del bambino stesso che, a sua volta, è interpretabile come un’espressione in ridotta scala di Sammie. A riprova di ciò, emerge la cognizione del bambino che, attaccandosi al pupazzo per dispetto e tormento di sua madre, presto ne mette a dura prova il fragile equilibrio psicologico e l’induce infine a lacerare definitivamente il tessuto familiare.
Ciononostante, diverrà evidente che Samson non sarà l’unico terribile predatore della storia. La radice del suo astio, invero, affonda nel conflitto generato da Sammie stessa, la quale, nel desiderio frenetico di proiettare l’immagine di una «famigliola felice, benestante, gay ma per il resto uguale a tutte le altre»9, rivela una predilezione per l’illusione piuttosto che per il figlio, il quale sfugge alle sue aspettative e, paradossalmente, finisce per respingere. Più Samson è considerato una minaccia, più si conforma a questa percezione, poiché è ciò che sua madre gli ha trasmesso: comportarsi mostruosamente. E malgrado l’anelito di Sammie alla normalità, ella non riesce a tradurlo in azioni concrete, cadendo in un’inerzia che nel corso del romanzo la spinge verso episodi di sonnambulismo. A questo riguardo, scrive Jung che la notorietà dei fenomeni sonnambulici, come lo sdoppiamento del carattere e la scissione della personalità, ci hanno reso familiare l’idea di una possibile presenza di personalità multiple nello stesso individuo10.
Diversamente da Starusch, che compensa la vacuità di vissuto con la fantasticheria, Sammie reagisce con un’impoetica depersonalizzazione che, gradualmente, le impedirà di accettare lucidamente il mondo reale. Lottando per integrarsi nelle strutture tradizionali, si trova costantemente oppressa dai pregiudizi e dall’ossessione di un miraggio di perfezione.
Torniamo allora al nostro punto di partenza, all’acme di questo inesorabile decorso famigliare, di quando Samson morde il viso di un altro bambino. Durante il viaggio in macchina verso la psicologa, Samson esplode in una crisi nervosa per un capriccio e affonda i denti nel braccio di sua madre con un morso feroce. Questo gesto rivela la sua rabbia repressa, già suggerita dall’associazione con lo squalo, con cui a volte sembra identificarsi. La reazione di Sammie è immediata: morde Samson a sua volta. In questa scena del libro, i due personaggi subiscono una repentina regressione dal linguaggio verbale umano, perdendo la capacità di comunicare attraverso le parole. Questa mancanza di comunicazione strutturale sottende il loro amor-odio tormentato, distruttivo e viscerale, manifestandosi in un duello animalesco e dentale. Quindi, mordere la carne con i denti assume il significato metaforico di appropriarsi fisicamente del corpo, di penetrare per accedere agli spazi interiori fino ad allora inaccessibili. In una posizione analoga in Denti (romanzo), il protagonista, separato dalla moglie e padre di tre figli, gioca con loro a una lotta greco-romana. Improvvisamente, i bambini si scagliano contro di lui con ferocia, cercando di accecarlo e mordendogli la pancia, in un impeto di trasporto incontenibile. Nelle pagine in questione emerge un legame umano rinvigorito attraverso i denti, strumento di comunicazione che sostituisce ogni altra forma verbale.
In Starnone, il rapporto genitore-figlio supera la mera volontà di dominio, trasformandosi in un’autentica eredità dentaria. Il protagonista, opportunamente anonimo, da bambino è descritto con epiteti come «zannato, zannuto, zannoso»11 a causa della sua «bella boccaccia da pescecane». Questa descrizione non si limita a una mera anomalia estetica, dal momento che suggerisce una connessione con una sorta di maleficio, chiarito più volte con un termine precedentemente incontrato: «malmagia». Tale riferimento getta un’ombra sulla terribile dentatura del personaggio, come una lettera scarlatta che evidenzia l’infamia del viso.
In siffatto tramaglio di odontalgie e zanne grifagne, Durand esplora l’impatto degli archetipi mitologici legati ai morsi di creature come squali, tigri e cani nell’immaginario infantile, sottolineando come questi simboli complessi possano compensare e trasformare i sentimenti di inferiorità dei bambini. Questi animali non solo evocano l’idea di inafferrabilità, ma anche quella di una forza divorante e distruttiva. Creature come rettili, orchi, leoni, lupi e cani assumono connotazioni malefiche, riflesse in aggettivi come “zannuto” (applicato anche a Samson), “zannato” con un’implicita connessione al “dannato”, e “zannoso” che evoca il concetto di “dannoso”. Questo fenomeno mette in evidenza una mostruosità intrinseca, rivelando una degenerazione dell’umanità che trascende il semplice linguaggio verbale. Il protagonista-padre starnoniano descrive i denti della figlia come strumenti che le rodono il viso malevolmente, equiparandoli a marchingegni in agguato nel corpo e a cromosomi che inseguono come cani rabbiosi. Questa personificazione dei cromosomi come un’orda di animali inferociti rappresenta metaforicamente una patologia spirituale feroce e implacabile.
Più del “pensiero di Mara”, nel romanzo emerge una malmagia ancorata alle parole e all’uso del napoletano, che talvolta irrompe nel discorso con una violenza irosa riflettendo l’indole inquieta del protagonista. Questa furia indomabile è diretta sia verso se stesso sia verso un mondo che lo emargina per il suo aspetto. A differenza del film, dove il legame era con la madre, qui il protagonista si identifica con il modello paterno, sprezzatore degli altri uomini, convivente con loro solo per trattarli male e umiliarli. Frattanto, e in un modo più sofferto, in Con i denti Sammie si scopre sempre più somigliante alla madre spietata ed è incapace di sfuggire all’inevitabilità di compiere lo stesso destino. Questo rapporto somma un’ulteriore ragione alla paura ossessionante di rivelarsi una madre disamorata. Sammie cerca in Samson l’affetto che non ha mai ricevuto da sua madre, ma è intrappolata nella maledizione materna poiché ogni tentativo di connessione con il figlio è respinto. Il primo mostro ha avuto origine soprattutto nella mancata educazione della madre di Sammie, che l’ha trasformata in una donna accanita a inghiottire metaforicamente suo figlio, in un atto di violenza, ma anche di assimilazione.
Il simbolismo teriomorfo che pervade queste storie e si annida talvolta nella sineddoche nel tema dentario ricorre, in verità, sin dall’infanzia, rammentando una certa istintualità dell’uomo verso l’animalizzazione. La familiarità dell’immaginario umano con i significati dell’astuzia delle volpi, ad esempio, o i morsi dei serpenti, comprova l’interazione ingenita nell’umano con l’animale e si estende a temi emotivi e simbolici come la caduta e il peccato.
L’archetipo animale è emanazione del movimento biologico ed esercita la propria fascinazione segnatamente sui bambini e le bestie stesse, più sensibili al dinamismo che alla mera presenza degli elementi circostanti. Curiosamente, l’aumento delle risposte animali nel pensiero riflette un invecchiamento contrassegnato dal ripudio dell’adattamento, contrastando con l’accettazione fluida dell’infanzia. La repulsione primordiale verso l’agitazione si manifesta nello schema dell’animazione, simbolizzante l’irrequietudine nei confronti del cambiamento. Quest’ultimo, allora, viene compensato dagli adattamenti animali, come la fuga. Il processo di mutamento e assimilazione rappresenta le prime esperienze dolorose del tempo durante l’infanzia, segnate dalla nascita, dall’ingresso nel mondo esterno e dal distacco progressivo dalla madre, che profondamente influenzano la coscienza infantile12.
Non v’è soltanto la traccia di un complesso edipico nel rapporto instaurato tra i romanzi, ma di un legame molto più profondo ed esistenziale, connaturato nell’uomo: l’azione devastatrice e mortale del Tempo. Nella madre, simbolo dell’Eros, coabita l’animazione che asconde il simbolo di Thanatos. Nella propria opera, Durand riscontra un isomorfismo tra lo schema dell’animazione e l’archetipo delle fauci dentate. Le stesse fauci con cui Crono divorava i propri figli onde impedirgli la crescita e di ostacolare così l’indeprecabile declino della vecchia generazione. La seconda epifania dell’animalità è pertanto rappresentata da fauci terribili, sadiche e devastatrici.
3. «Il volto teriomorfo del Tempo»
Strizzando l’occhio al dentista di Anestesia locale, nel corso di quest’odissea dentaria si è potuto scoprire che, all’interno della trama del tessuto osseo, è trattenuto un brulichio anarchico smaniante perché indisponibile al decadimento e alla morte. Devasta i padri e le madri che, nell’istinto di divorare i figli attraverso l’imposizione dei loro desideri e delle loro pulsioni più inconfessabili, si slanciano nel titanico tentativo di appropriarsi della loro vita, come il pesce gatto in agguato nel profondo degli abissi della fantasia di Starusch, che ingoia i denti del latte per scampare al deperimento ineluttabile.
La natura di quest’inquietudine smargina la soggettività e profila, invece, un’innata peculiarità umana che non è sfuggita a Zadie Smith in Denti bianchi.
Il romanzo ha una collocazione specifica, il «Felice Paese Multiculturale», ossia una Londra globalizzata e crogiolo, cioè “melting pot”, delle identità culturali più disparate, che incontrandosi e convivendo finiscono per creare un luogo dove è neutralizzato non solo lo spazio, ma anche – e forse soprattutto – il tempo.
Pertanto, con la variegatura che vivacizza il libro, è conglobata un’ulteriore polifonia di individualità diverse, incontratesi soltanto in virtù di un miracolo contemporaneo dove tutto è contaminato. Visto da quest’angolatura, allora, la complessa struttura di Denti bianchi ne mima il composito contenuto: la fervida intensità con cui è esperito il contatto tra la storia di Archibald Jones e Samad Iqbal, al contempo simulacri della storia dell’Inghilterra e del Bangladesh, e poi dai loro figli, era la medesima che Zadie Smith ha visto fluidificare la società circostante e che ha condotta verso la costruzione di un’identità condivisa.
Denti bianchi è un romanzo di radici, e come cita luminosamente il suo esergo, tratto dall’iscrizione nel Washington Museum, «ciò che è passato è prologo»13. In un mondo che non resta mai uguale a se stesso, l’uomo stenta a stare al suo passo vivace e ghermisce ferocemente le proprie radici per garantirsi uno stabile appiglio. Ma ogni vicenda umana si inserisce in una sconfinata costellazione storica che conduce sempre più addentro, e che non cesserà mai di raccontare storie. Sono “denti bianchi” perché nonostante tutto, è il candore che lega uomini e donne d’ogni etnia, ma sono pure “bianchi” perché appartengono agli immigrati di Londra, una tra le città nevralgiche della cultura occidentale, la quale ha da un lato accolto e dall’altro neutralizzato la molteplicità. Sicché i figli dell’ibridazione esperiscono un’incapacità di movimento, perché l’eccesso di velocità ha annullato la velocità stessa.
In una scena cardinale del romanzo, il signor J.P. Hamilton condivide con Irie Jones e i gemelli Iqbal un adagio che echeggia il tema centrale di Anestesia locale: le bugie sono nocive per i giovani perché col tempo fanno marcire i denti. Starusch, come è stato notato, si lascia coinvolgere in un racconto che mescola la crisi della società tedesca occidentale con la sua crisi personale e le sue fantasie disordinate, riflettendo sulle azioni mai compiute che tenta di compensare con il racconto stesso.
Le sue parole sono impregnate di una volontà mai tradotta in azione, interpretata dal dentista come desideri omicidi potenziali. I “denti del giudizio” di cui parla invece il signor J.P. Hamilton, rappresentano metaforicamente quelle radici che avrebbero dovuto essere protette con l’onestà, ma che Starusch sceglie di soppiantare con un passato opportunamente inventato, accompagnato da idee sulla possibilità d’azione, lasciando congelate le “sconfitte imbottigliate” nel freezer. Purtuttavia, e a riprova della lucidità con cui Starusch tesse le sue menzogne, la scrittura di Grass è motivata dalla consapevolezza che gli analgesici, così come l’anestesia, desensibilizzano, ma non estirpano il problema delle radici.
È di notevole interesse che l’intreccio di Denti bianchi si centri sul tema dei denti fin dentro la propria architettura, evocandone la materia attraverso il titolo di ciascun capitolo. Il libro è strutturato in quattro parti, ognuna focalizzata su diverse prospettive (Archie, Samad, Irie, e infine Magid, Millat e Marcus insieme), creando connessioni intricate tra famiglie come i Jones, gli Iqbal, i Bowden e gli Chalfen.
E perciò, in un siffatto crogiolo di personaggi, vicende e simbologie, intercorre un isomorfismo tra i denti e gli uomini, portando a compimento il nostro nóstos. Vale a dire che nell’esperibilità d’essere marcescenti, di avere radici, di guastarsi o rimanere intatti, tanto i denti quanto gli umani ne sono coinvolti. I supposti e pericolosi incidenti comportati dallo scudo dentario replicano null’altro che i destini a cui è soggetto l’uomo, perché così come la negligenza guasta i denti, altresì può contaminare e corrompere le persone.
I molari, descritti nel settimo capitolo di Denti bianchi in relazione a Samad, sono i denti masticatori capaci di triturare grazie alla loro grande dimensione e alla capacità di sostenere molteplici radici. In precedenza, il romanzo ha narrato come Archibald Jones, salvato da un tentativo di suicidio, abbia deciso di cambiare radicalmente la sua vita sposando Clara Bowden, molto più giovane di lui e di origini giamaicane, che ha perso tutti i denti superiori in un incidente in moto cruciale ma purificante. Inoltre, si è raccontato del coinvolgimento di Archie nella Seconda guerra mondiale e dell’incontro, durante quel periodo, con Samad Iqbal, musulmano bengalese, in Russia. Quest’ultimo ripete costantemente, lungo il libro, che i loro figli sarebbero stati il risultato delle loro azioni e che le loro sfortune avrebbero determinato i loro destini, sottolineando che le azioni avrebbero avuto conseguenze durature. Tuttavia, il peso della storia trasmesso di generazione in generazione, le radici profonde cui ci si aggrappa per affrontare il presente, vengono interrotte dai Canini. Le nuove generazioni dei Jones e degli Iqbal, immerse in una mescolanza tumultuosa di lingue giamaicane, bengalesi e inglesi, non riescono a continuare il ciclo generazionale. Irie Jones, desiderando fuggire dalle sue radici, si scopre incinta verso la fine del libro, senza preoccuparsi di identificare il padre tra i gemelli con cui ha avuto rapporti. Questo rifiuto del riconoscimento costituisce il fulcro del messaggio finale del romanzo, delineando una cesura netta. La negazione, l’antitesi e il rifiuto della paternità e, soprattutto, di perpetuare una discendenza segnata da un’ostinata resistenza al cambiamento, tracciano un futuro in cui sacrificare i figli è impensabile. È un gesto di rottura di un ciclo e di una storia, incarnato dai contemporanei “canini” immersi nella fluidità di un sistema diverso dal passato, intrappolati in un movimento perpetuo e caotico che cerca di sradicare le radici.
4. Conclusioni
Starusch termina il proprio racconto con le parole «Niente dura, sempre nuovi dolori», rinsaldando in una certa misura la reciproca coincidenza tra odontalgia e malessere esistenziale, implicando che il dolore che aggredisce i denti possa ripercuotersi sull’intera psiche. E difatti, par proprio che la morfologia dentaria si ponga non solo come rappresentazione anatomica dell’interiorità, ma conservi anche l’impronta di una vera e propria colluvie di istinti e pulsioni. Sono segregati dalle ossa dentali proprio perché percepiti come immondi e sconvenienti; eppure concrescono attorno a esse, le guastano e le deformano, fino a tramutare i denti umani in zanne mostruose quanto più si prova a sopprimerle. Sicché, per una dinamica fondamentalmente psicologica che induce a sprigionare tutto ciò che si cerca di asservire, le bocche ripugnanti dei personaggi appena incontrati fungono da memento di quell’aspetto bestiale, spesso mortificato, che è parte imprescindibile dell’essere umano.
L’uomo stesso si tradisce per la propria fantasia teriomorfa, come illustratoci dal monumentale lavoro antropologico di Durand, e per quelle ostinate chirurgie dentistiche che vertono a migliorare la tonalità dei denti, lustrandoli e imbianchendoli, correggendone le imperfezioni, allineandoli, conformandoli in perfetti sorrisi. Neutralizzandone le radici, estinguendo gli istinti, combattendo la paura del tempo, ma l’uomo, come altri animali, reagisce spaurito all’esistenza, continuando a triturare e a lacerare la Storia ogni qualvolta si sente incalzato dalle fauci del tempo, nel tentativo di inghiottire il cielo, come fanno emblematicamente le colonne pompeiane di Denti, riassumendo in modo simbolico lo slancio per la vita.
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G. Grass, Anestesia locale [1969], trad. it. di B. Bianchi, Torino, Einaudi, 1971, p. 9. ↑
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C. Paternò, Intervista a G. Salvatores, in «Cinecittà News», 2 settembre 2000, URL https://cinecittanews.it/gabriele-salvatores-8/, ultima consultazione 15 dicembre 2024. ↑
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G. Salvatores, Denti, Italia, Cecchi Gori Group-Colorado Film, 2000, min. 00.47.45. ↑
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C. Paternò, Intervista a G. Salvatores, cit., URL https://cinecittanews.it/gabriele-salvatores-8/. ↑
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G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, trad. it. di E. Catalano, Bari, Dedalo, 1972, p. 304. ↑
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G. Grass, Anestesia locale, cit., p. 34. ↑
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K. Arnett, Con i denti [2021], trad. it. di B. Gallo, Torino, Bollati Boringhieri, 2023, p. 44. ↑
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Ivi, p. 33. ↑
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Ivi, p. 23. ↑
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Cfr. G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, La nave di Teseo, 2019, p. 413. ↑
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D. Starnone, Denti (1994), Milano, Feltrinelli, 2012, p. 42. ↑
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Cfr. G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, cit., pp. 73-99. ↑
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Z. Smith, Denti bianchi [2000], trad. it. di L. Grimaldi, Milano, Mondadori, 2021, p. 6. ↑