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Milo De Angelis e Lucrezio in tre tempi

DOI

1. Milo De Angelis traduttore di Lucrezio

A pochi anni di distanza dal folgorante esordio poetico di Somiglianze (1976) e appena conclusasi l’esperienza della rivista «Niebo» (1977-1980), Milo De Angelis scrisse di getto un libro di prose assai particolare, che pubblicò poi nel 1982 con l’iconico titolo di Poesia e destino. Si tratta di una scrittura ibrida, a metà tra il saggio, la riflessione estemporanea e la prosa poetica, in cui emerge un «tono guerresco» che «circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate»1. Una breve prosa intitolata Leggi della traduzione – inclusa nella prima sezione del libro, Compleanni – può rappresentare un buon punto di partenza per un discorso sul tradurre in Milo De Angelis:

come la sposa di ogni uomo non si sottrae a una teoria del tradurre, ogni traduzione mostra senza possibilità di scampo, nel suo spasimo interlineare, se sono davvero necessarie le nozze con un poeta. Eppure nozze diversissime tra di loro sono accomunate dallo stesso volgare risucchio dell’altro nell’oroscopo. (Pensiamo a come è stato risucchiato Hölderlin da Pontalis e da Heidegger, e come è stato tradotto in Italia): disinvoltamente qualcosa pianifica la lettera e va a rifugiarsi nel problema a cui rimanda, qualcosa che fa parte di uno stesso contenutismo. Meglio allora la pignola umiltà di un filologo che passa la sua vita a venerare le varianti, quando è possibile spazzare via il garbuglio erudito lasciando intatto il seme dell’erudizione, il rigore che non parla a ruota libera. Meglio – di nuovo – l’entusiasmo ingenuo di un professore che si inginocchia di fronte ai poeti e li lascia grandeggiare, limitandosi ad accompagnare un testo e lasciandolo respirare in solitudine, denudandosi di fronte a esso con la stessa umiltà con cui si scompare di fronte a un cibo, se una fame ordina. Ma forse, traducendo, più che scomparire bisogna essere già scomparsi, perché non si intraveda nemmeno quel mettersi da parte che ripristina il pezzo di bravura, abbellito per omissione o per penitenza. In questo senso si può intendere l’idea mallarmeana che alcune grandi poesie siano la traduzione di un segreto amanuense. È ovvio che vi sono molti modi di scomparire – anche quello che risulta da una violenza forsennata e matematica alla lettera – e ci sono mille fedeltà che risucchiano con l’ottuso rispetto del proprio bigino, come se ci fosse scomparsa dove c’è riverenza2.

Per quanto la scrittura di De Angelis tenti in queste pagine di celare la propria decifrabilità in un «nesso troppo segreto tra due termini o due affermazioni»3, qui emerge chiaramente il tema della sparizione che l’autore-traduttore compie necessariamente all’interno dell’autore-tradotto. De Angelis sembra infatti dirci – con una sicurezza, peraltro, che ancora adesso colpisce, se la si pensa in relazione a un appena esordiente eppure coltissimo poeta – che un traduttore, per restituire tramite un diverso sistema di segni il complesso legame di lingua e contenuto di un altro autore, debba in qualche modo annullarsi in questo altro, scomparire in e per esso, senza mostrargli una «riverenza» o un «ottuso rispetto» che lo condanni alla lettera del testo. Insomma, il mistero che sottostà al tradurre pare proprio essere questa introiezione totale del tradotto, queste «nozze con un poeta», questa «scomparsa» avvenuta già a priori. Nei termini evocativi con cui è scritta la pagina di De Angelis, potremmo quasi dire che il tradurre funziona solo quando il legame tra traduttore e tradotto è in qualche modo predestinato, intessuto da tempo immemore nelle linee più segrete e impalpabili delle storie letterarie.
L’attività del tradurre è stata una compagna fedele, per Milo De Angelis, durante il suo percorso all’interno della poesia. E lo ha riguardato in quanto lettore prima ancora che come autore: lettore onnivoro e di ampie vedute, in grado di spaziare dai classici della tradizione occidentale ai testi fondativi e fondamentali delle culture induiste, sempre mantenendo un atteggiamento disponibile all’ascolto e alla ricezione dell’altro4. De Angelis tenta di riprodurre la cadenza intonativa degli autori da lui prediletti, mostrando sempre un profondo grado di introiezione e di vera ed etimologica confidenza col tradotto – le «nozze» di cui lui stesso parlava in Poesia e destino – nella convinzione che

forse tradurre significa rinnovare le leggi dell’ospitalità, adattarle allo “straniero” che abbiamo incontrato e che vogliamo conoscere. Il testo a fronte è dunque un testo – scritto in un luogo diverso dal nostro – di questo straniero che ora ci ospita nel suo universo e che poi verrà ospitato da noi, nella dimora del nostro stile. E infatti la parola “ospite”, in varie lingue, mantiene questo doppio significato di colui che ospita e di colui che viene ospitato, come se le due posizioni fossero strette da un vincolo, come se non fosse possibile tradurre un testo, cioè ospitarlo e rendergli onore, senza essere stati invitati nel territorio da cui proviene, senza avere soggiornato nella dimora del poeta, abitato quelle stanze, attraversato quei corridoi, sentito quei suoni, visto dalla finestra ciò che lui aveva già visto, senza avere udito tra le pareti l’eco della sua voce e senza avere colto nelle sue parole un desiderio di essere “tradotte”, ossia letteralmente “condotte al di là”, “condotte oltre”: trans ducta verba, appunto, con tutta la ricchezza di un verbo latino, ducere, che significa “portare”, “condurre”, certamente, ma significa anche “pensare”5.

In particolare, l’amore di De Angelis per la poesia e il pensiero di Lucrezio ha radici antiche e profonde. Risale, infatti, al magistero di Luciano Perelli, figura di riferimento per il poeta già negli anni in cui pubblica la monografia Lucrezio poeta dell’angoscia (1969). Nel 1970, per l’esame di Maturità, De Angelis dedica infatti a Lucrezio alcune intense pagine, in cui insiste soprattutto sulla tecnica descrittiva del suo poema, in grado di generare momenti di forte tensione anche a partire da un dettaglio apparentemente insignificante. In riferimento al V libro, ad esempio, e al passo in cui Lucrezio descrive la vita degli uomini primitivi, De Angelis osserva che

la descrizione parte in modo realistico, persino dettagliato nel descrivere una mensa o una capanna. Poi, proprio come in un film dell’orrore, basta un aggettivo ripetuto, il soffermarsi su un dettaglio, un’inquadratura troppo lunga su un oggetto, ed ecco scatenarsi l’incubo in tutta la sua forza incontrastabile: gli uomini sentono un rumore sospetto, un fruscio, un passo felpato, intuiscono il sopraggiungere di una belva, lasciano i loro giacigli nelle caverne, si avventurano nella notte in luoghi sconosciuti. Alcuni si salvano, altri vengono sbranati6.

Sembra essere proprio questa tensione angosciante a incantare e rapire l’immaginazione di De Angelis, che riversa nelle sue poesie un simile fissarsi inquieto sui dettagli per rivelare le crepe dell’esistenza: «come in certi film gialli, fissavo la mia telecamera su un dettaglio, rimanevo fermo lì, creavo uno stato d’allarme»7. In Lucrezio, il poeta milanese sembra avere immediatamente rintracciato il medesimo e proprio «mondo già in partenza inesorabile e tragico»8 cui voleva, sin dall’esordio, dare voce. Ma è anche la «contraddizione»9 da cui Lucrezio è attraversato ad affascinare De Angelis, nella cui poesia, già tra Somiglianze (1976) e Millimetri (1983), è proprio la disarticolazione del linguaggio tra visibile-concreto e astratto-visionario a giocare un ruolo decisivo: per Lucrezio, la fedeltà «apostolica»10 a Epicuro è un pretesto quasi dottrinale da cui però evadere per «esplorare zone oscure e tumultuose dell’essere»11; in De Angelis, invece, la contraddizione sembra il minimo scarto necessario che s’instaura tra situazioni e soggetti, in un tempo che è insieme ciclico e lineare, frammentario e irrisolto12 – ed è in lui la frattura interna al testo, la lacerazione tra vita e scrittura a generare una tale contraddizione in termini ontologici ed esistenziali.
Nel momento in cui la redazione di «Niebo»13 decide di dedicare all’autore latino un numero monografico, il quarto della serie, De Angelis contribuisce traducendo una selezione antologica di passi lucreziani e fornendo un breve saggio sul De rerum natura, intitolato Lucrezio e l’Acheronte. Qui, con la medesima «forza affabulatrice del pensiero poetico»14 che lampeggerà poi nelle pagine di Poesia e destino, il poeta milanese ripercorre alcuni motivi della poesia lucreziana, con particolare attenzione verso le allucinazioni, lo sgomento e il senso di vuoto espressi nel poema, a partire da un’analisi della teoria del clinamen, che è «immotivato»15 e per cui, in Lucrezio, «il vuoto […] non è uno spazio»16: il suo è un «pensare spezzato della materia»17. Emerge con maggiore forza, già a quest’altezza, un Lucrezio molto personale e intimo, che «ha la medesima voce della sua poesia, quel tentativo di sorprendere l’energia del mondo nel punto centrato con il compasso delle forze in campo»18.
Il poeta del De rerum natura continua poi con sempre maggior costanza a penetrare anche all’interno dell’opera in versi di De Angelis, emergendo in particolare in Millimetri (1983) e nel recente Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010), fino ai successivi Incontri e agguati (2015) e Linea intera, linea spezzata (2021). Un nuovo confronto diretto con il testo del De rerum natura si ha poi nei primi anni Duemila, con la pubblicazione di una antologia di frammenti – dapprima per l’editore satyros, nel 2002, e poi, con nuove aggiunte, per SE, nel 2005 – con il titolo di Sotto la scure silenziosa. Frammenti dal ‘De rerum natura’ 19. De Angelis individua qui quattro tematiche fondamentali dell’opera di Lucrezio – natura, angoscia, amore e peste – e rende i versi selezionati veri e propri campioni di poesia, ritagliandone quasi degli epigrammi autonomi e indipendenti20.
Ma la riflessione su Lucrezio non si esaurisce neanche allora. Nel 2022 viene pubblicata la traduzione integrale del De rerum natura, un vero e proprio approdo di un lungo viaggio, esito di un dialogo durato oltre un cinquantennio e comunque destinato a non essere concluso. Sempre nella consapevolezza che tradurre vuole dire contrastare la finitezza di un’opera, aggiungere una tappa al suo percorso spirituale. Alla traduzione, poi, il poeta milanese fa precedere una introduzione di poche, efficaci pagine in cui riassume tutto il senso della propria lettura lucreziana, sintetizzando, con grande chiarezza espositiva, tanti dei punti fino a questo momento discussi. In particolare, sembra arrivare qui alla definizione ultima della propria co-abitazione col tradotto, che è insieme distanza – le «nozze» e la «scomparsa» cui si accennava in precedenza – e soprattutto «dialogo»:

personalmente, posso dire di avere pensato a Lucrezio e di avere abitato nella sua casa per un importante periodo della mia vita; posso dire che c’è stato un fitto dialogo con lui prima di trasformare il suo esametro, che per certe durezze risente ancora di una metrica arcaica, nel verso contemporaneo, lungo e ragionato di questa versione italiana. In questo tempo più recente, dedicato alla traduzione del poema, ho trascorso ogni giorno ore impegnative e felici con il testo a fronte, nell’intimità della distanza, come diceva Hölderlin, nell’ardore del confronto tra creature che sono vicine e al tempo stesso lontane. Perché tradurre un poeta significa proprio questo: prossimità e insieme distanza. I poeti che decidiamo di condurre nella nostra lingua sono al tempo stesso fratelli e maestri: abbastanza vicini da sentirli fratelli e abbastanza lontani da sentirli maestri e osservare ammirati il loro passo, imparare da loro l’arte del cammino. Questa traduzione nasce dunque da un lungo sodalizio con Lucrezio, che ha accompagnato tutta la mia vita […]; un lungo tragitto fatto insieme, tante strade percorse e tante visioni comuni, quasi delle nozze poetiche, con promesse solenni, contrasti, riprese, abbandoni, ritorni21.

Un rapporto e una devozione che hanno prodotto una traduzione da collocare qualitativamente «fra gli esiti sommi del canzoniere in prima persona del De Angelis poeta»22, prima ancora che del De Angelis traduttore.

2. Una traduzione in tre tempi

Il quarto numero di «Niebo», apparso nel gennaio 1978, presenta la traduzione di dieci passi lucreziani, raccolti sotto il titolo di Atomi, nubi, guerre e curati dalla redazione della rivista. Si tratta perciò di una traduzione collettiva, in cui senz’altro De Angelis ebbe il fondamentale ruolo di guida. I passi vengono accompagnati dal testo a fronte e sono disposti in ordine non progressivo: II 109-12823; VI 108-120; VI 189-203; VI 821-824; IV 987-1014; IV 138-140, 414-425, 547-48, 799-801, 818-822; III 642-656; V 801-804; II 317-332; IV 1107-1120. Si va perciò dalla teoria atomistica del II libro ai fenomeni atmosferici descritti nel VI, dal sonno e dai simulacra di cui si parla nel IV alle scene di guerra feroce descritte nel passo dal III libro. La versione tenta in questo caso di mantenere una certa fedeltà al testo di partenza, traducendo sì in maniera evocativa, tramite una «resa sintetica del testo latino»24, ma in certo grado appunto ‘fedele’ e tesa il più possibile a riprodurre – con alcune soluzioni vicine al calco o al grado zero – la voce di Lucrezio. In un tale assemblaggio di porzioni di testo appaiono d’obbligo gli interventi traduttivi vólti a consolidarne l’unitarietà, che vanno da un più libero utilizzo della punteggiatura alla soppressione di alcuni nessi testuali divenuti superflui o fuorvianti. Nonostante le lievi aggiustature di tipo anche sintattico, la traduzione rimane tutto sommato fedele al testo originale, seppur con un suo margine di autonomia e reinventività.
Anche il successivo riavvicinamento e confronto testuale di De Angelis con il De rerum natura25 si verifica, in effetti, nel segno della rilettura frammentaria del poema, con lacerti che sono però in questo caso «più vicini alla riscrittura che alla traduzione»26. Questa nuova traduzione, dunque, fa trasparire uno stadio di maggiore intimità nel rapporto di appropriazione poetica e di avvicinamento tra il poeta tradotto e il poeta traduttore, che si serve in questo caso del testo di Lucrezio come un vero e proprio luogo di consolidamento della propria poetica e – ciò che più conta – del proprio stile. La scelta dei frammenti, suddivisi in quattro tematiche – natura, angoscia, amore e peste – e posti in un ordine che non segue quello del poema, fa pensare a una vera e propria selezione epigrammatica dei momenti salienti, per il traduttore maggiormente significativi all’interno del poema lucreziano. La nuova disposizione, poi, rimanda a una vera e propria rilettura in chiave tutta personale dei motivi sotterranei che attraversano l’opera di Lucrezio, alla ricerca anche di quella «letteratura assoluta»27 che De Angelis sempre si è proposto di indagare, sia come lettore sia come autore. Come ha ben sottolineato Camilla Tibaldo, rispetto alle traduzioni per «Niebo», De Angelis approda qui a una forma più libera, meno legata alla lettera del testo e che ne tenta «una resa sintetica e fulminea»28. Il dettato non manca di assumere, in questo caso, un «tono oracolare»29 che pure appartiene al maggior De Angelis, almeno da Somiglianze (1976) a Distante un padre (1989). Soprattutto, emerge lo stesso «rallentamento patetico»30 che si rintraccia pure nelle liriche del contemporaneo Tema dell’addio (2005). Con questi frammenti, dunque, si verifica una sovrapposizione tra tradotto e traduttore. Colpiscono, in particolar modo, le chiose che sigillano i singoli testi, vere e proprie sentenze – spesso tramite iterazione di un sintagma già presente nel corpo della traduzione – che trasmettono al lettore un’atmosfera evocativa e sospesa, oracolare appunto.
Assai diversa rispetto a entrambe le precedenti versioni appare la traduzione integrale del poema portata a termine da De Angelis nel 2022, quando è comparsa nella collana de «Lo Specchio». Salta immediatamente all’occhio «il “passo indietro” del traduttore rispetto all’originale, il suo desiderio di rispetto del testo»31, che si esprime in una maggiore aderenza al verso di Lucrezio. In primo luogo, De Angelis approda a una traduzione metrica, in versi e non più in prosa: una scelta nel segno della leggibilità (e quindi della vicinanza tra il lettore e il tradotto) e del ritmo. È infatti una versione

imperniata su un verso “lungo” – dalle quattordici alle ventisei sillabe – che da una parte tenta di mantenere intatta la densità del ragionamento lucreziano e dall’altra cerca di abbreviarsi nelle parti più liriche, giostrando sulle varie combinazioni possibili di endecasillabi e settenari, oppure puntando sui versi dalle sillabe pari per certi finali ieratici che sono tipici del poeta latino e che vogliono imprimersi nella memoria del lettore con la forza di un’epigrafe, specialmente quando prevale l’andatura solenne degli spondei32.

Ed è poi una traduzione in cui l’originale in latino viene significativamente riavvicinato: una rilettura meditata, senza che sfoci nella riscrittura, tenendo anzi fede a quella che è la lunghezza di tono dell’originale. A ciò va aggiunta anche la significativa presenza, alla fine di ogni libro del poema, di un commento «fra il tematico e l’ermeneutico»33 scritto da De Angelis in prima persona. Da un lato, vi traspare il punto di vista interpretativo (e quindi anche storico-critico) del traduttore, qui in una veste tra il filologico e il divulgativo; mentre dall’altro lato, molto emerge anche del De Angelis poeta.
A voler ragionare tramite le categorie della dialettica hegeliana34, si potrebbe sostenere che la versione completa del De rerum natura sia un vero e proprio capolavoro di sintesi traduttiva del rapporto tra Lucrezio e Milo De Angelis, partito da una fedeltà quasi letterale con i frammenti per «Niebo», passato per una fase di feroce e personalissima riscrittura con Sotto la scure silenziosa, e infine rientrato, con questa finale e complessiva traduzione (commentata) del poema, a una dimensione di maggiore fedeltà al testo originale, ma pur sempre mediata da una forte introiezione del tradotto e da una vivamente riuscita disposizione metrica del dettato nella lingua d’arrivo – ulteriore spia di una personale rielaborazione, specie quando la si confronta con la simile prosodia di molti testi del coevo Linea intera, linea spezzata (2021)35. Fermo restando, comunque, che è il secondo tempo traduttivo – quello dei frammenti di Sotto la scure silenziosa (2005) – a rappresentare senz’altro la versione più deangelisiana e personale (quindi autorialmente più sua) di Lucrezio.


  1. M. De Angelis, Poesia e destino, Milano, Crocetti, 20192, p. 7.

  2. Ivi, pp. 33-34.

  3. Ibidem.

  4. A partire dagli anni Settanta, dunque, De Angelis si è misurato in particolar modo con la traduzione da testi della poesia latina e francese. Già al 1978 risale una sua versione dei Paradisi artificiali di Baudelaire e del racconto L’attesa, l’oblio di Maurice Blanchot; per quanto riguarda la poesia latina, De Angelis traduce, assieme a Marta Bertamini, il De raptu Proserpinae di Claudiano, apparso nel 1984 per Marcos y Marcos, e poi, prima di dedicarsi a un confronto duraturo e significativo con l’opera di Lucrezio, traduce per «Poesia» una piccola antologia di testi dedicati alla figura della donna guerriera, tratti da Virgilio, Ovidio e Properzio. Sono da segnalare anche le varie traduzioni apparse su «Niebo» e le versioni da Maeterlinck, La Rochelle, Racine, oltre a un’interessante selezione di epigrammi tratti dall’Antologia Palatina, uscita nel 2005 per la casa editrice ES.

  5. M. De Angelis, De rerum natura di Lucrezio, Milano, Mondadori, 2022, pp. VIII-IX.

  6. Id., Lucrezio, la notte, l’incubo, in M. Rizzante, C. Gubert (a cura di), La scoperta della poesia, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 45-46. Il testo è stato ripreso, con lievi modifiche, anche in un più recente contributo: M. De Angelis, Lucrezio nell’incubo, in P. Piffaretti (a cura di), Caos, cosmo, colore. Tre capitoli lucreziani, Bellinzona, Matasci, 2019, pp. 38-41.

  7. M. De Angelis, Tutte le poesie (1969-2015), Milano, Mondadori, 2017, p. 410.

  8. L. Tassoni, I ritorni della contemporaneità. Lettura di Millimetri di Milo De Angelis, in «Forum Italicum», 48, 2014, p. 103.

  9. M. De Angelis, Lucrezio, la notte, l’incubo, cit., p. 47.

  10. Ibidem.

  11. Ibidem.

  12. Anche per questo, De Angelis si è più volte definito, sulla scorta della distinzione operata da Marina Cvetaeva, un ‘poeta del lago’, proprio perché «senza sviluppo, senza storia», affezionato e fedele alle proprie «consuete ossessioni» (A. Baldacci, Dioniso a Milano. Le atopie di Milo De Angelis, in «Studia Romanica Posnaniensia», XLI, 4, 2014, p. 7).

  13. Informazioni molto utili su «Niebo» vengono fornite da Carla Gubert su circe – Catalogo Informatico Riviste Culturali Europee, attivato dall’Università di Trento e liberamente consultabile online. Qui sono disponibili anche le scansioni digitali di tutti i numeri di «Niebo».

  14. I. Vincentini, Colloquio con Milo De Angelis, in M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, a cura di I. Vincentini, Milano, Mimesis, 20132, p. 47.

  15. M. De Angelis, Lucrezio e l’Acheronte, in «Niebo», II, 4, 1978, p. 92.

  16. Ibidem.

  17. Ibidem.

  18. L. Tassoni, I ritorni della contemporaneità, cit., p. 103.

  19. Sotto la scure silenziosa è anche il titolo di una poesia presente in Terra del viso (1985), ora in M. De Angelis, Tutte le poesie (1969-2015), cit., pp. 136-137.

  20. Cfr. A. Torino, L’Acheronte nelle versioni di Milo De Angelis, in E. Cavallini (a cura di), Scrittori che traducono scrittori: traduzioni “d’autore” da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2017, pp. 151-171.

  21. M. De Angelis, De rerum natura di Lucrezio, cit., pp. IX-X.

  22. A. Bertoni, Voci del grande stile. Poesie e prose del Novecento, Bologna, il Mulino, 2023, p. 218.

  23. Con la significativa omissione dei vv. 123-126, come nota C. Tibaldo, Quasi cursores vitai lampada tradunt. Fra traduzione e riscrittura: Milo De Angelis traduttore di Lucrezio, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 18, 2022, p. 3.

  24. C. Tibaldo, Quasi cursores vitai lampada tradunt, cit., p. 3.

  25. M. De Angelis, Sotto la scure silenziosa. Frammenti dal De rerum natura, Milano, SE, 2005.

  26. C. Tibaldo, Quasi cursores vitai lampada tradunt, cit., p. 6.

  27. L. Chiuchiù, A oriente della voce, in M. De Angelis, Poesia e destino, cit., p. 162.

  28. C. Tibaldo, Quasi cursores vitai lampada tradunt, cit., p. 6.

  29. Ibidem.

  30. Ibidem.

  31. M. Natale, De Angelis e l’incanto di Lucrezio, intimo ma distante, in «il manifesto», 24 luglio 2022.

  32. M. De Angelis, De rerum natura di Lucrezio, cit., p. XV.

  33. A. Bertoni, Voci del grande stile. Poesie e prose del Novecento, Bologna, il Mulino, 2023, p. 217.

  34. Qui si applica questa categoria pur conoscendo il rischio che un tale schematismo possa significare, specie se applicato ai fatti letterari. Chissà che però non vi sia un avvallo proprio all’interno di De Angelis, quando descrive la dimensione temporale più propria della poesia proprio con quella figura geometrica a spirale che pure tanto appartiene alla filosofia hegeliana (cfr. M. De Angelis, Tutte le poesie (1969-2015), cit., pp. 414-415).

  35. Su quanto di rielaborazione personale – nel senso di interiore ricerca di un tono e di un ritmo – sia presente all’interno dei procedimenti ‘creativi’ che sottostanno alla metrica liberata propria della poesia contemporanea e novecentesca, cfr. l’ancora indispensabile saggio di A. Bertoni, Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano, Bologna, il Mulino, 1995.


This article investigates the relationship between Lucretius’ poem De rerum natura and the poetry of Milo De Angelis, focusing on the three different translations De Angelis made of Lucretius’s verses: firstly collaborating with other poets for the journal «Niebo» (1978), then proceeding by fragments for his book Sotto la scure silenziosa (2005) and finally facing the poem in full (2022).