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La narrazione tra individuo e collettività in Lotta di classe di Ascanio Celestini

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Approcciarsi a un testo in forma romanzesca nella contemporaneità necessita di un confronto problematico con il suo genere, che per statuto nei secoli si è caratterizzato come quello a maggior tasso referenziale. È una riflessione che non può esimersi dal vedere nei personaggi e nelle loro attitudini una tensione con la realtà. L’affinità della forma romanzo con il discorso storico è stata segnalata sin dall’inizio della ricerca teorica sulle strutture finzionali, subito sottolineandone il carattere di utile strumento euristico, grazie alla sua forte funzione ermeneutica. Tuttavia, nel secondo Novecento si assiste dagli anni Settanta in poi a una più generale tendenza al disimpegno artistico e letterario, lasciando ai margini le cause politiche e sociali che avevano caratterizzato le opere del secondo dopoguerra. Nell’ultimo ventennio, sembra essere invece crescente una rifiorita attenzione per le condizioni della classe lavoratrice; questa considerazione si basa sul riscontro di un rinnovato interesse per le vite particolari e sul ritorno a una più larga necessità di parlare delle problematiche sociali, della Storia e del lavoro in Italia: a questo bisogno si possono addurre ragioni politiche, economiche e giuridiche, che trovano un momento di rottura identificabile nella precarizzazione del lavoro data dai meccanismi contrattuali votati alla flessibilità. Questa cesura è stata riconosciuta nel testo della legge numero 30 del 2003, passata poi come legge Biagi, la cui importanza, anche per l’immaginario, è stata già trattata dalla studiosa Carolina Simoncini nella sua analisi sul mondo del lavoro contemporaneo e la letteratura. In particolare, una delle conseguenze che ha avuto l’articolo 61 della legge è stata definire nuove tipologie di contratto:

Un autre contrat dont les employeurs ont abusé est le contrat de «collaborazione coordinata e continuativa» (co. co. co) et le contrat «a progetto» (co.co.pro). Il s’agit de contrats extrêmement avantageux pour les employeurs qui doivent proposer aux travailleurs la réalisation de «progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato». La protagoniste du roman Il mondo deve sapere est justement embauchée par le biais de ce contrat1.

La letteratura sembra dunque tentare di ridare la voce a storie di lavoratori precari, protagonisti di testi in cui il lavoro non è più una garanzia. Gli individui non si identificano in una comunità, che può assicurare un riconoscimento collettivo, come parte ad esempio del motore della stessa azienda, ma ci troviamo piuttosto in un mondo a predominanza individualista, fatto di persone-monadi, in cui la vicinanza fisica non risolve l’alienazione e l’isolamento: nella società neocapitalista l’individualismo ha vinto su altre concezioni di esistenza. Riuscire a restituire al lettore il disagio della nuova realtà e i codici per recuperare il nocciolo di una dimensione comunitaria sembra essere la missione a cui gli scrittori engagés vogliono pervenire: potremmo interpretare così il caso di Lotta di classe (2009) di Ascanio Celestini, dove la denuncia pubblica dello sfruttamento lavorativo si costituisce come esplorazione creativa e il dispositivo letterario adempie con originalità all’indagine ermeneutica. Salvatore, Marinella, Nicola e Patrizia, i quattro protagonisti del romanzo, occupano uno spazio di prossimità sia paratestuale, succedendosi nelle sezioni in cui è diviso il libro, che narrativo, vivendo tutti nel condominio fuori dal Raccordo Anulare o al call center in cui lavorano; si passano così la parola, raccontando la quotidianità dal loro punto di vista: un’esistenza segnata da finanze risicate e dalla mancanza di tempo libero. Seppure il punto di vista dei personaggi sia individuale, il testo restituisce un diffuso senso di unità dato da un uso condiviso del linguaggio, oltre che dall’intreccio, che incrocia con maestria le vite dei personaggi, nell’arco temporale delimitato che segue gli eventi da poco prima il tentato suicidio di Patrizia, alla convalescenza in ospedale e il ritorno al call center, nel momento di scioperi e tensioni tra l’azienda e i lavoratori.
Nonostante l’evidente ispirazione alla condizione attuale dei lavoratori precari, sarebbe forse generico definire l’opera come realistica, creando un’involontaria equivalenza, seppur solo linguistica, con il romanzo ottocentesco: l’evoluzione dei generi e le tendenze stilistiche hanno risentito dei secoli trascorsi e non si può ignorare come, in questo avvicendamento di correnti, vi siano stati nel Novecento momenti di forte allontanamento degli intellettuali dall’impegno verso la causa sociale, a favore dell’autonomia dell’arte. La riflessione sui generi è complementare, dunque, alla quaestio sul realismo nella nostra contemporaneità, segnata da nuove istanze che riformulano i termini del dibattito: se per definire il contemporaneo si parla di postmodernismo, Frederic Jameson ha provato a interpretarlo «as an attempt to think the present historically in an age that has forgotten how to think historically in the first place»2. La riemersione nel discorso letterario di componenti realistiche risulta allora legata all’acuirsi di una crisi sociale vissuta da una generazione e da un modello basato sulla convinzione che l’impegno basti a emanciparsi dalle condizioni di partenza, sul mito imprenditoriale e sulla fede nel progresso. Lo smaterializzarsi progressivo dell’operaio, delle cause della classe lavoratrice e delle sue rivendicazioni sociali dal dibattito pubblico, dai media e dall’interesse della scena intellettuale trova una corrispondenza nella distribuzione fisica degli edifici urbani: le infrastrutture che racchiudono le nuove forme di lavoro alienante si contraddistinguono per un mimetismo con gli altri spazi urbani, capace di allontanarle da uno stereotipato immaginario di sfruttamento e, al contempo, di rendere sempre più labile il confine tra lavoro e tempo libero. Una struttura nuova, non relegata come la fabbrica alle estremità della città, non permette di immaginare le condizioni di lavoro al suo interno nello stesso codice di sfruttamento che è stato tramandato: così come mimetizzato con il tessuto esterno è l’edificio di un call center, altrettanto mimetizzate e per questo inosservate, se non invisibili, sono le persone che vi lavorano all’interno. Non è un caso che Mark Fisher riconosca nel call center:

un distillato della fenomenologia politica tardo capitalista: la noia e la frustrazione accentuate da campagne promozionali allegramente pompate; la continua ripetizione degli stessi tediosi dettagli da dare in pasto a operatori poco qualificati e male informati; l’irritazione montante ma condannata a restare impotente perché priva di un oggetto concreto, visto che – come chi si rivolge a un call center impara in fretta – nessuno sa niente e nessuno può nulla3.

La frustrazione espressa dallo studioso evidenzia l’aspetto alienante, confuso, per chi in quel momento ha il ruolo del cliente, un’esperienza certo provata da molti; la letteratura interviene allora per restituire vita agli operatori dall’altro capo della cornetta, svelandone il modo di vivere. In Lotta di classe ogni personaggio si costituisce come essenzialmente realistico, proprio per questo è importante sottolineare alcuni aspetti fondamentali al momento di una sua analisi: quando in un testo si dona voce a un personaggio, questo è «un individu social, historiquement concret et défini, son discours est un langage social (encore qu’embryonnaire), non un “dialecte individuel”»4. L’importanza data alla parole dell’individuo in una realtà che condivide con il nostro mondo una medesima logica, ci mostra la visione personale che l’individuo stesso ha del reale, è per questo che:

Il n’est pas possible de représenter le monde idéologique d’autrui de manière adéquate sans lui donner sa résonance, sans découvrir ses paroles à lui ; car celles-ci (confondues avec celles de l’auteur) peuvent seules être véritablement adaptées à une représentation de son monde idéologique original5.

Ma quando gli individui si connotano in prima istanza come lavoratori, il legame tra il vissuto personale, il mondo ideologico e la realtà storica rappresentata dal romanzo è ineludibile: quanto qui si afferma non si ritiene una nuova prospettiva, poiché è stato considerato già in modo esaustivo da Lukács, quando sostiene che «la concezione del mondo è una profonda esperienza personale dell’individuo singolo, un’esperienza altamente caratteristica della sua intima essenza, e rispecchia al contempo i problemi generali dell’epoca»6. La fisionomia intellettuale dei protagonisti li presenta come alienati in una condizione lavorativa sclerotizzata e di cui intuiamo la forza attraverso degli accenni costanti, continuativi e ridondanti in ognuno dei punti di vista che compone il romanzo. Come si diceva, la concezione del mondo dei quattro protagonisti di Lotta di classe ruota attorno alla realtà lavorativa del call center: lontani dal farsi campioni di moralità, i protagonisti si leggono come rappresentazioni fedeli del tentativo individuale, solitario, di sopravvivere a un mondo postmoderno; una rappresentazione cruda di una classe lavoratrice che, dopo aver perso la coscienza di essere classe, sembra intenta a riprenderla. L’autore esprime una forte presa di posizione, quando afferma che:

Quello che mi interessa raccontare non è tanto il precariato, perché non credo che esista il lavoro “precario”: precario è piuttosto l’individuo in sé, e non è il lavoro a renderlo tale. Precaria è la condizione che vive l’individuo ed è dall’individuo che bisogna partire per indagare la precarietà. Ho voluto raccontare una storia, anzi quattro storie che si intersecano, in un romanzo perché questo so fare. Se ne sapessi di più scriverei un saggio, ma non ne sono capace, e mi sembra che anche chi dovrebbe esserlo, in realtà non lo sia7.

Il titolo del romanzo, Lotta di classe, soglia del testo, può già fornire un primo momento di analisi rispetto a quella che è l’ipotesi interpretativa che si intende perseguire nello studio e a non considerare del tutto ingenuamente la chiave stilistica offerta dal lavoro e dal precariato, come sembra invece suggerire l’autore. In questa sede, ci si limiterà a porre l’accento sulle costanti presenti nel testo, cominciando proprio dal titolo: il romanzo di Celestini si costituisce come una rete non soltanto per ragioni di intreccio narrativo, ma grazie a una precisa cura autoriale di rimandi e corrispondenze lessicali, fraseologiche e contenutistiche, in tutto il tessuto del romanzo, capaci di restituire un’immagine unitaria al testo. L’io narrante a cui di volta in volta si cede la parola insiste su questo pronome singolare, non consentendo alla dimensione comunitaria un’esibizione linguisticamente forte come in passato aveva fatto invece Nanni Balestrini in Vogliamo tutto, dove l’imperativo, espressione di un’esigenza, è già declinato in senso collettivo alla prima persona plurale. Se negli anni delle lotte dell’autonomismo operaio è stato possibile immaginare e parlare a più riprese dell’individuo singolo, reso piccolissima parte del processo costitutivo della merce nella catena di montaggio, come di un individuo-massa, svincolato da una qualsiasi personalizzazione a lui relativa, e se la letteratura operaia ha trovato talvolta nella scelta formale di una focalizzazione interna anonima, e per questo collettiva, una forma di rappresentazione e rivendicazione politica, consentendo così la maggiore aderenza possibile al punto di vista operaio, in cui chiunque potesse riconoscersi, nell’era del neocapitalismo avanzato tutto questo non si ritiene più perseguibile e la “classe” trova altre forme di manifestazione, più sotterranee.
L’ordine in cui si sono presentati inizialmente i personaggi del romanzo non è arbitrario, ma quello in cui si ordina il romanzo stesso: a delimitare l’intervallo di espressione che ha ognuno dei quattro protagonisti sono la presentazione che fa di sé il personaggio all’inizio e la serialità di alcuni temi che ricorrono ossessivamente, ma questo non basta a fissarne il protagonismo: la struttura di ogni “parte” si presenta sempre più come un dialogo tra la voce su cui l’autore si focalizza in quel momento e a cui viene ceduta formalmente la parola e quelle degli altri personaggi, che con le loro “invasioni di campo” si introducono, interferiscono con l’ordine lineare, creando un dialogismo forte, dove chi parla non parla mai solo per sé: la frammentarietà dell’essere umano, la sua individualità, si annulla nella collettività delle voci.
La scelta formale di una focalizzazione che alterna le varie prospettive su uno stesso arco temporale si avvicina a quella del monologo, un modello che potrebbe aver avuto un influsso non indifferente per un consapevole uomo di teatro come Celestini. Tuttavia, in ambito letterario, questa considerazione non ha un valore capitale e si sceglie piuttosto di ritenerla come parte di un’istanza di interpretazione della realtà: tutto il testo si caratterizza per una trama di temi, immagini e lessico ricorrenti, di cui ogni sezione presenta un campione specifico, ma che ritornano nelle altre, legandole tutte insieme. In chiave di iterazione si trova la scelta stessa di rivolgersi al lettore a inizio del testo, con delle formule assai simili: ne viene dato il nome e un’enunciazione concisa a caratterizzarlo. Se ne fornisce qui un’elencazione in grado di mostrare quanto siano prossime: «Comunque mi chiamo Salvatore. Il fratello piccolo di Nicola»8; «Io sono Marinella e lavoro al call center. Ma solo di giorno. Di notte io dormo»9; «Io mi chiamo Nicola e lavoro al call center»10; «Io sono Patrizia e sono nata il primo giugno»11.
L’altra costante, invece, contraddistingue il momento in cui i personaggi di volta in volta fissano in forma ripetitiva che cos’è la lotta di classe. Emerge qui il fatto che sono cinque e non quattro le volte in cui se ne dà la designazione, poiché la dimensione della lotta di classe, della sua definizione, sembra accessibile da parte del personaggio soltanto nel momento in cui entra nel mondo del lavoro; il testo si apre infatti con il punto di vista di Salvatore che, studente, ascolta il racconto preferito di suo zio sulla fine della Seconda guerra mondiale, la cui conclusione è: «Non che la sua morte fosse giusta, ma almeno mi sembrava un po’ meno sbagliata. Pensai che questo non era un pensiero cattivo. Magari cinico, ma non infame. Pensai questa è lotta di classe»12. Ed è proprio lui che si occupa di stabilire cosa sia per questa prima parte in cui, formalmente, ci troviamo in un altro punto di vista. Soltanto nel momento in cui, alla fine del romanzo, Salvatore ha iniziato a lavorare in una pasticceria, ci permette di conoscere la sua personale interpretazione di cosa sia la lotta di classe13: «Pensai che di tanti morti questo era l’unico giusto, o comunque il meno sbagliato. Ero da biasimare, da accusare. Forse ero proprio da galera. “Però non è un assassinio, – pensai –, questa è lotta di classe”»14. Se da questi due casi si riconosce nella lotta di classe il valore dell’omicidio di un rappresentante, per quanto ormai innocuo, di un’autorità costituita, capace di infondere una rigenerazione vitalistica nei nuovi lavoratori, non è così invece per Patrizia che con la sua personale definizione scardina l’ottica fino a quel punto costituita. Alla fine del romanzo, Patrizia sembra acquisire la capacità di attraversare i muri, un’abilità che usa per fuggire dal call center, restituendo così un immaginario quasi sovrannaturale e rovesciando le leggi della fisica e della realtà; nessuna guardia può fermarla: «Lei che si girerà verso i superiori e dirà “Brigadiere che facciamo? Questa è stregoneria!” E io le risponderò “no, questa è lotta di classe”»15. Patrizia reagisce ponendosi prontamente in dialogo con l’autorità, dando una risposta che lega il suo nuovo potere alla definizione di lotta di classe, avvicinando così il capovolgimento della fisica al sovvertimento dell’ordine costituito.
Il senso di comunità non è costruito solo a partire da questi due dati: l’inesauribilità della forma romanzesca permette una lettura che trascenda il mero dato organizzativo e strutturale per creare unità. Ripartendo dall’inizio, riacquistando la prospettiva di Salvatore, notiamo che sin dalle prime formulazioni introduttive, queste ci inseriscono in medias res nel processo di riflessione del personaggio, occasione di valutare gli strumenti con cui interpreta la realtà, testimonianza di vita finzionale in tutto simile a quella umana. Ci si accorge che quanto testualmente viene presentato una volta trova almeno una sua ripetizione, seguendo delle strutture che non appaiono decretate dal caso. Così, all’inizio del romanzo leggiamo: «Quando il dottore ha aperto mia madre, non ha trovato l’esofago. […] Io ho pensato che il dottore quando aprirà la signorina Patrizia ci troverà dentro una specie di plancton perché in questi dodici mesi di coma l’hanno alimentata col sondino endogastrico»16. Il passaggio ha già creato, nelle righe che anticipano la presentazione di Salvatore, il legame tra l’assenza dell’esofago della madre e il personaggio di Patrizia: una vicinanza non soltanto fornita dalle occorrenze che creano un parallelismo lessicale evidente, ma anche dalla struttura con cui si ripete l’enunciazione che associa l’assenza dell’esofago alla donna. Il lettore non la conosce ancora, eppure la ricorderà a partire dagli elementi chiave forniti da Salvatore. Successivamente, quando le si darà la voce, si introdurrà proprio con una riflessione sull’afasia: «Parli e non ti escono le parole dalla bocca. È un incubo che tutti hanno fatto almeno una volta»17.
Di legami che lessicalmente o semanticamente uniscono i personaggi ce ne sono molteplici: rivenendo sulla frase di presentazione del singolo personaggio, possiamo fare una seconda osservazione sul secondo binomio, Nicola-Marinella. Entrambi, infatti, appiattiscono la loro identità personale su quella lavorativa: la persona è presentata a partire dal suo impiego18, si allontanano dall’ottica di essere , diventa possibile definirsi solo attraverso l’occupazione salariata.
Ma non è semplicemente questo: Marinella nel momento in cui sottolinea di lavorare soltanto di giorno e dormire di notte crea a sua volta un richiamo a Nicola, già introdotto dal fratello minore, per il suo lavoro notturno19, e più tardi nella stessa forma ritornerà la presentazione di Marinella, quando Nicola parlandone dirà: «E io incomincio a fare tutta ‘na descrizione di Marinella che è un’operatrice che lavora al call center, ma solo di giorno, lei di notte dorme»20.
Naturalmente, non ci si limita all’aspetto identitario dei personaggi, poiché l’uso dello stesso lessico per identificare le stesse cose, la stessa prospettiva, si ripete di sovente nel testo, creando una linearità tra tutti i punti di vista. La sezione di Salvatore, difatti, si conclude con il monologo di un’anziana prostituta, la Dentona, una vicina di casa abitante l’ultimo piano del condominio:

E io sento che puzzo talmente tanto che prima o poi divento un copertone pure io. E un’altra battona prenderà questo copertone che sono io e mi brucerà per scaldarsi. […] Poi ammucchieranno i copertoni in qualche sfasciacarrozze sulla via Casilina e noi gli diremo “almeno portateci al camposanto”21.

La narrazione successivamente passa a Marinella, che proprio all’inizio sostiene che «solo nel mucchio dei copertoni siam tutte uguali. Allo sfasciacarrozze dove si brucia la gomma a quintali»22. Di nuovo, la vicinanza lessicale, la ripresa della medesima immagine, potrebbe offrire il destro per una possibile riflessione identitaria, ma le espressioni ripetute non si connotano soltanto in seno a questa, poiché vi si include anche la visione degli oggetti, della politica23 e non solo. Un altro esempio è quanto avviene testualmente quando si cede la parola a Nicola, che definisce i contratti a progetto come bombe a orologeria, salvo poi sperare in un rovesciamento fornito dalla giustizia, sostenendo: «Adesso la bomba sta in tasca al padrone, – pensavo»24. Patrizia, successivamente, benché si trovasse ancora in coma e in ospedale nel momento delle rivendicazioni lavorative dirà, riferendosi a quegli stessi mesi: «E menomale che pensavamo di aver messo la bomba a orologeria in tasca al padrone»25. Il personaggio non poteva aver partecipato agli scioperi, poiché al suo risveglio gli accordi tra l’azienda e il sindacato sono già stati stabiliti, risultano dunque impressionanti la precisione e la pertinenza lessicale.
E proprio sul tempo o, meglio, sulla sua assenza, insiste il punto di vista dei lavoratori, di cui si offre qui uno stralcio grazie alla voce di Marinella, definita spesso di corsa, descritta come a mezz’aria tra un lavoro e un altro: «Mi seguiva e mentre io correvo per fare cento lavori, lui mi guardava senza fare niente. Buttava tutto quel tempo, mentre io di tempo non ce ne avevo mai abbastanza manco per bere un bicchiere di latte. E invece lui si permetteva di buttarlo via fresco il suo tempo»26. Che si ritrova poi nella parte di Nicola, quando afferma che:

non è vero che il tempo è denaro. È solo vero che il tempo è tempo e il denaro è denaro, e certe volte so’ due cose che non si incontrano proprio. Il tempo che perdo non è né denaro né niente. È solo tempo perso. […] Perché il mio tempo è stato denaro solo per pochi minuti27.

E che si conclude invece con l’uscita di entrambi dal call center prima della fine del turno e l’affermazione da parte di Nicola: «E invece siamo rimasti così. Ognuno nel suo tempo senza denaro»28.
Un altro caso di identità lessicale lega Marinella e Patrizia, quando entrambe affermano che «Tutti siamo liberi di cambiare se siamo disposti a peggiorare la nostra condizione»29: quest’asserzione si presenta del tutto identica in momenti diversi, ma che condividono una più grande necessità di ribadire la propria dignità personale in un contesto di continua umiliazione.
Le ripetizioni ritornano e abbondano, dunque, ma accade in particolare nel momento in cui si parla del luogo di lavoro, poiché il centro commerciale e il call center diventano la seconda casa, forse quella veramente vissuta, poiché l’unica in cui i lavoratori passano il loro tempo, spesso improduttivo. Luogo solitario, dove l’alienazione è incoraggiata dalle postazioni singole davanti a un computer e da un esterno costituito di negozi, a più riprese nel romanzo il call center diventa il punto di riferimento principale per calcolare le distanze con il resto della città:

Cinecittà Due si chiama. Il centro, non lo studio. È stato uno dei primi a Roma. C’è la piazzetta con la fontana, le scale mobili e l’ascensore trasparente, i negozietti e i supermercati. Il centro commerciale è una casa di Barbie per pupazzi di carne. Lo conosco bene ‘sto posto perché io per andare al lavoro passo davanti al supermercato, il calzolaio e la pizzeria, prendo le scale mobili accanto al bar e salgo al piano di sopra, supero la Chicco e il negozio di casalinghi, esco dalle porte di vetro, attraverso una grande terrazza privata e vado al lavoro nel call center più grande di Europa30.

Ripercorrere mentalmente la strada compiuta tutti i giorni, seguendo le insegne dei negozi che abitano lo stesso ambiente, crea un senso di familiarità, ma che non cede nulla all’oggettificazione percepita dal lavoratore; è una casa, sì, ma per bambole, una struttura artificiale, di plastica, i cui abitanti non sono senzienti, capaci di esprimere la propria autonomia rispetto al sistema e alla struttura31: «Quel giorno dei cinque centesimi ci guardavamo i capi che guardavano noi. Avrebbero voluto smontarci per capire quale meccanismo s’era rotto dentro alla bambola, rimandarci in fabbrica con la garanzia. Ma ecco che Barbie si incazza e sfonda la sua casa perfetta»32. Ed è interessante quest’ultimo caso in particolare proprio perché si ribadisce come la ribellione della bambola, del pupazzo di carne sia stata interpretata come un meccanismo rotto: qualcosa che non funziona come dovrebbe di solito, a riconfermare come l’unica reazione accettabile fosse l’obbedienza. Nei termini di vita di sopravvivenza si torna ripetutamente per parlare del lavoro al call center da parte di tutti i protagonisti, un luogo disprezzato dove si riconosce la pericolosità delle leggi spietate che vi vigono: «Noi lavoravamo da anni in quella casa di Barbie assassine, potevamo considerare che fosse tutto sbagliato e violento, una porcheria, ma ne facevamo parte»33. Ma anche:

Ecco la casa di Barbie.
Lo pensavo attraversando il centro commerciale, mentre mi avvicinavo al supermercato dove avevo lavorato per più di un anno.
[…]
Gli alti sono i primi a morire.

Lo diceva mio nonno. Parlava di Auschwitz, ma qui nella casa di Barbie, l’ariana tascabile, non era molto differente. Lo pensavo uscendo dal centro commerciale, mentre guardavo il palazzo rosso del call center oltre la terrazza, l’altra casa delle bambole in cui stavo per rientrare un anno dopo l’esplosione34.

Tutti i personaggi riconoscono nel call center e nella sua struttura l’equivalente di una casa delle bambole: i punti di vista si alternano, ma l’interrogativo su chi sia a parlare nei precedenti esempi elencati risulta del tutto improduttivo, poiché i termini della questione restano gli stessi, si ripropongono in modo del tutto equivalente e annullano le differenze identitarie tra i vari personaggi, creando piuttosto dei forti legami tra loro. Considerando quanto sostenuto dai teorici sulla parole del personaggio nel testo romanzesco, possiamo notare un’uniformità linguistica che si frammenta nelle diverse identità autonome che si presentano35, un tentativo obliquo e celato tra le pagine di ricostruzione di una collettività.
L’uso della bambola per antonomasia si offre come buon esempio per una riflessione coerente con l’importanza che nel testo hanno gli oggetti: si è già visto in alcune occasioni precedenti come a guidare l’uomo verso il lavoro siano una serie di insegne di catene di negozi; questa è una costante nelle pagine del romanzo, in cui sfila una serie di nomi di prodotti, di cose che si hanno o che si potrebbero avere, di oggetti che si osservano e con cui ci si identifica. Nelle case descritte vi è un’oggettistica del consumo, nuova perché inutilizzata e che finisce per scadere, ammuffire all’interno delle proprie credenze o addirittura sparire dalle possibilità di acquisto, poiché non si ha il tempo di consumarla. La frequenza con cui si nominano gli oggetti nel testo ne crea un caleidoscopio ammassato di plastica e lattine, che non funziona da palliativo dell’esistenza, ma che ai suoi margini, piuttosto, si deposita come scarto. Il lavoro che si potrebbe svolgere nel negozio di una catena e il lavoro che si compie al call center si equivalgono per improduttività, nel cameriere e nella commessa si riconosce la stessa disperazione e l’inesistente separazione tra ciò che il lavoratore produce e ciò che consuma, ed è proprio per questo che, come sostiene Calvino, «il nuovo individualismo approda a una perdita completa dell’individuo nel mare delle cose»36 e che «la coercizione del sistema non si attua solo sull’operaio in quanto tale, nelle ore di lavoro, ma continua fuori dalla fabbrica sull’operaio in quanto consumatore, costretto a soddisfare bisogni artificiali che lo allontanano sempre più dalla realizzazione di se stesso»37. I lavoratori sono alla stregua di un oggetto che è consumato e insieme consuma, sono la rappresentazione di un’umanità che tenta di sopravvivere al neocapitalismo con gli strumenti e le idee offerti dal capitalismo stesso, a partire da una pretesa garanzia di libertà di scelta, di potere di azione sul mondo, che non si compie mai davvero, poiché non se ne ha il tempo: le soluzioni suggerite sono allora la distrazione e l’acquisto.
L’insistenza e la ripetizione si caratterizzano allora come un fenomeno testimone delle coscienze alienate nella società neocapitalista: si riconoscono nel momento in seguendo il punto di vista del personaggio notiamo la ricorrenza di tematiche per parlare di sé, del mondo e della società. Queste legano strettamente insieme le maglie della propria narrazione, lasciando come uniche eccezioni le incursioni dei racconti degli altri personaggi, ma che pure si caratterizzano per una riconoscibilità denotata proprio dalla ripetizione.
Un ulteriore elemento unificante del testo si presenta attraverso la reiterazione di scene che si trovano del tutto identiche in tutti i punti di vista e che di volta in volta si fanno spunto di riflessione per l’osservatore. Vediamo forse l’esempio più rappresentativo, che è il caso di una collega del call center, vista da tutti i personaggi:

Sua madre pensionata passava sei ore ogni giorno al centro commerciale col ragazzino. E la brava operatrice si prendeva le pause per allattarlo. Timbrava il cartellino, passava i tornelli e usciva dal call center, traversava la terrazza, correva lungo la vetrina del negozio di casalinghi e dopo Benetton e Chicco si andava a sedere al bar accanto alla madre, davanti al discount degli elettrodomestici per dare il latte a suo figlio38.

[H]o salito le scale mobili e sono passata davanti al discount dell’elettrodomestico. Seduta al bar c’era una ragazza che allattava il figlio. Era una che stava in azienda da noi39.

O ancora, si ripete in modo quasi identico la conclusione del racconto della morte del nonno di Patrizia, prima anonimamente presentato da un personaggio secondario, Roberto Casoria, un vicino di casa che racconta a Marinella la storia del cliente abituale del bar in cui lavorava. Soltanto alla fine avverrà l’agnizione da parte del lettore di quell’anonimo cliente cieco nel nonno di una delle protagoniste, grazie a un’affermazione che, ancora una volta, ritorna identica: Patrizia dirà infatti che suo nonno «non volle che nessuno di noi andasse al suo funerale. Non ci andai io, non ci andò mio padre, non ci andò nessuno. Mi pare che non lo fecero proprio»40, in modo esatto a come già il vicino ne aveva parlato.
Possiamo trovare riscontro di una di quelle che già abbiamo definito come “invasioni di campo” da parte di una seconda voce che, per un po’ di tempo, acquista il protagonismo nel punto di vista di qualcun altro, in ognuna delle parti. I narratori di secondo grado intervengono dando a loro volta le chiavi interpretative della loro realtà, che servono a chi ne ascolta il racconto per introiettare parte del loro lessico specifico. È anche il caso dello zio di Nicola e Salvatore e del nonno di Patrizia. Ma non si tratta solo di questo. Prendiamo come esempio di nuovo l’inizio del romanzo, dove abbiamo la presentazione di Patrizia citata da Salvatore, proprio come se fosse lei a parlare; una presentazione che ritornerà identica alla fine del romanzo:

Fino a quando ho studiato mi pareva che non facevo niente. Forse eravamo dieci per davvero e lavoravano le altre nove. Nove attaccavano il turno al supermercato. Nove correvano al call center. Nove Patrizie che facevano la spesa, andavano alla posta, davano le ripetizioni, facevano le baby-sitter, tiravano avanti41.

Perfino questo breve stralcio di testo può rappresentare la sfida intellettuale portata avanti dall’autore: non soltanto formalmente, per le ragioni prima descritte, ma ritornano qui tutte le caratteristiche specifiche del romanzo e in particolare la sua attenzione alla condizione lavorativa precaria, che diventa precarietà soprattutto per l’individuo, diviso tra molteplici lavori e la necessità di «tirare avanti», una democratica versione di «sopravvivere».


  1. C. Simoncini, La littérature italienne du travail au tournant de la «flexibilisation» des contrats, in «Νότος», 4, 2017, p. 128. Simoncini fa riferimento all’opera di Michela Murgia, pubblicata per ISBN nel 2006.
  2. F. Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, Durham, Duke University Press, 1991, p. IX.
  3. M. Fisher, Realismo capitalista, Roma, Nero, 2017, p. 126.
  4. M. Bachtin, Esthétique et théorie du roman, Parigi, Gallimard, 1987, p. 153.
  5. Ivi, p. 155.
  6. G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Torino, Einaudi, 1975, p. 326.
  7. L’autore intervistato alla trasmissione Fahrenheit, Rai, Radiotre, 4 maggio 2009.
  8. Ivi, p. 6.
  9. Ivi, p. 52.
  10. Ivi, p. 118.
  11. Ivi, p. 169.
  12. Ivi, p. 32.
  13. La struttura con cui Marinella e Nicola formulano l’espressione si presenta in tutto simile, come si vede rispettivamente nei casi: «Tra me e lui uno doveva morire. Meglio lui. Non che la sua morte sia giusta, ma almeno mi sembra un po’ meno sbagliata. Ti pare che è un pensiero cattivo? Magari è cinico, ma non infame. Questa è lotta di classe» (ivi, p. 112) e di: «Pensai che farlo morire e salvargli la vita era la stessa cosa. L’importante era uccidere la sua autorità. Pensai che forse era un pensiero cattivo. Magari cinico, ma non infame. Pensai «questa è lotta di classe» » (ivi, p. 165).
  14. Ivi, p. 223.
  15. Ivi, p. 229.
  16. Ivi, pp. 5-6.
  17. Ivi, p. 169.
  18. A questo proposito, è interessante evidenziare come Patrizia, benché sia collega di lavoro di Nicola e Marinella, al momento della presentazione si sleghi dall’immaginario lavorativo per ripartire dal momento della sua nascita: «Io sono Patrizia e sono nata il primo giugno. Da ragazzina dicevo “uno giugno”. Tutti erano nati in giorni che si identificavano con numeri naturali come il quindici o il venti o il tredici, eccetera, mentre io ero un numero ordinale» (ibidem).
  19. «Mio fratello grande lavorava di notte. Gli pareva che in questa maniera si godeva la vita» (ivi, p. 28).
  20. Ivi, p. 119.
  21. Ivi, p. 48.
  22. Ivi, p. 52.
  23. Si segnala come nel testo vi siano frequenti occorrenze di questo tipo di cui offriremo un esempio, tratto dalla vicenda del Calendario della ministra Mara Carfagna: «Barbie mostra il culo sul calendario. […] Su quello che sta in sala break nel call center c’è una mora che è diventata ministro» (ivi, p. 51); «Come se il ministro scendesse dal calendario attaccato sul muro del bagno» (ivi, p. 161); «Un po’ di pettegolezzi sul calendario che era andato a sedersi sulla poltrona di ministro» (ivi, p. 184).
  24. Ivi, p. 138.
  25. Ivi, p. 208.
  26. Ivi, p. 111.
  27. Ivi, p. 124.
  28. Ivi, p. 162.
  29. Si trova rispettivamente nel testo ivi, pp. 59 e 220.
  30. Ivi, pp. 81-82.
  31. Non è dunque un caso, infatti, che spesso i personaggi si identifichino con la bambola, di cui si riporta qui soltanto l’occorrenza relativa a Patrizia per la forte vicinanza tra la condizione inanimata che si crea tra il coma, l’oggetto bambola e il lavoratore altrettanto ridotto alla condizione di oggetto inanimato, sostituibile, anonimo: «In fondo Barbie sembra una donna in coma» (ivi, p. 213).
  32. Ivi, p. 85.
  33. Ivi, p. 163.
  34. Ivi, pp. 216-217.
  35. A ciò si unisce una certa prossemica da parte dei personaggi che ne unifica la gestualità. Oltre alla corsa, è interessante notare come si presenti più volte questa tipologia di gesto con questo significato: «Gli ho risposto di con la testa, perché non era proprio vero» (ivi, p. 195) e «Ma ho fatto con la testa perché non era vero» (ivi, p. 128).
  36. I. Calvino, Una pietra sopra, Milano, Mondadori, 1995, p. 111.
  37. Ivi, p. 126.
  38. A. Celestini, Lotta di classe, Torino, Einaudi, 2009, p. 88.
  39. Ivi, p. 190.
  40. Si trova per la prima volta quasi identico nella parte di Marinella ivi, p. 74 e di nuovo ivi, p. 188.
  41. Ivi, rispettivamente a p. 12 e poi a p. 177.

In the landscape of studies that have critically addressed the historic relationship between literature and labor, Ascanio Celestini’s Lotta di classe situates itself peculiarly, almost slipping under the radar. However, it offers no less fertile avenues for investigation. Through the tools provided by the theory of literature and the stylistic analysis, the article will demonstrate the presence of a line connecting the shared perspective of the subordinate, critically subsumed as the «mass-worker», whose most emblematic representation is perhaps in Balestrini’s Vogliamo tutto. The novel bases its foundations on this individual focalization, serving as a device for adaptation to the era of advanced neoliberal capitalism. Unable to propose a path that formally restores a choral voice, the focalization becomes fragmented, and the reconstruction of a strong opposition nucleus that is also a community opening passes through the proximity of the characters’ paths, the mechanical reuse of scenes, statements, and declarations, in the intersection of narrative threads that tend to link the protagonists together. Different voices speak, but they testify to the same experience of discomfort and exploitation. The frequent references to consumerist reality do not offer a chimerical refuge in the fleetingness of goods but are reversed in their revolutionary potential. They become objects of the same struggle as men, who are in turn already subjects to incessant work reification.