Alberto Moravia e le influenze gramsciane nella lettura critica de I promessi sposi
1. Moravia lettore di Letteratura e vita nazionale
Accostare Moravia alla figura di Gramsci potrebbe sembrare un’operazione inusuale, ma di certo non del tutto nuova all’interno del panorama della critica letteraria. Già Limentani nel 1962 spiegava nel suo Alberto Moravia tra esistenza e realtà che il personaggio di Michele de La ciociara «ha in testa idee di chi Gramsci lo ha letto con passione»1, aggiungendo che anche gli articoli Note sul Comunismo e l’Occidente (1954) e Le risposte a “nove domande sullo stalinismo” (1956) nascono seguendo questa stessa scia. Queste prime osservazioni sono state in seguito ampliate da alcuni critici che hanno in parte indagato l’influenza gramsciana sulla stesura di Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico (1960)2, il noto saggio introduttivo steso per l’edizione Einaudi de I promessi sposi. Salinari in Struttura ideologica dei Promessi sposi, difendendo Manzoni dalle accuse mosse da alcuni autori, tra cui lo stesso Moravia, definisce la lettura da loro fatta come un «errore di giudizio […] alimentato da Gramsci con le sue osservazioni sul “paternalismo” manzoniano nei confronti delle classi subalterne»3. Anche Suitner, Casini e Manica4 ritornano sulla questione e confermano la vicinanza di Moravia al pensiero gramsciano.
Un elemento che attualmente è stato poco sottolineato e che dà conferma di questa ipotesi è che Moravia nel 1951 prende parte come relatore a un ciclo di convegni tenuti su Gramsci. Nel 1951 infatti, un anno dopo la pubblicazione di Letteratura e vita nazionale, vengono tenuti presso il Teatro delle Arti di Roma tre dibattiti: il primo di questi (Carattere non nazionale popolare della letteratura italiana) vede il 30 maggio 1951 la partecipazione dello stesso Moravia assieme a Natalino Sapegno e Carlo Levi5. Nel corso del dibattito Moravia oltre a domandarsi «quali debbono essere le qualità di un’opera d’arte che possa essere letta da tutti»6, aggiunge che Boccaccio, autore che tornerà nelle riflessioni degli anni successivi quando tratterà Manzoni7, «è uno scrittore popolare nazionale in quanto seppe rappresentare la vita della società del suo tempo qual essa era»8. L’espressione “nazionale-popolare”, qui usata in relazione a Boccaccio, non solo rimanda a una terminologia gramsciana, ma anticipa una definizione che tornerà negli anni successivi. In Vita di Moravia (1990) l’autore romano spiega infatti che La romana (1947), La ciociara (1957), i Racconti romani (1954) e i Nuovi racconti romani (1959) nascono dal «mito nazionalpopolare»9, mito che caratterizza quella che è definita dalla critica come la produzione “romana” e che verrà a disgregarsi nel corso degli anni fino a riportare Moravia alle ben note rappresentazioni della borghesia con la pubblicazione del romanzo La noia (1960).
A conferma dell’interesse per il pensiero gramsciano ci sono inoltre le dichiarazioni rilasciate ad Ajello in Intervista sullo scrittore scomodo in cui Moravia afferma che:
[Gramsci] Mi interessa, certo, come fenomeno di cultura, come dimostrazione di quali frutti possa produrre il marxismo trapiantato in un animo nobile com’era quello di Gramsci. Alla sua cultura, che era tutta italiana e tutta tradizionale, il marxismo ha aggiunto un fenomeno, un’illuminazione, uno stimolo insieme ideale e pratico10.
Eppure, nonostante riconosca che Gramsci assieme a De Sanctis e Croce siano «tre personaggi di prima grandezza»11, Moravia se ne discosta non solo affermando che «non hanno molta importanza»12, ma anche che «le Lettere dal carcere non esercitarono alcun influsso»13 su di lui. La critica passata ha però smentito questa lontananza: tracce del pensiero di Croce, De Sanctis e Gramsci sono state riscontrate da Casini, Manica e Suitner negli studi precedentemente menzionati. Sulla scia di questi contributi si è voluto qui proporre un ampliamento di quanto è stato già in precedenza indagato attraverso una ricerca di tipo comparatistico tra il saggio Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico e la sezione Letteratura e vita nazionale de i Quaderni del carcere, in modo tale da comprendere in che misura la lettura di Gramsci abbia influito sul giudizio critico di Moravia in relazione al romanzo manzoniano14.
2. Tra i Quaderni verdi e Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico
Per comprendere meglio in che misura si possa parlare di influenze gramsciane, è utile partire da due articoli pubblicati sul «Corriere della sera» nel 1952. Quaderno verde (I) esce il 30 novembre 1952 come «appunti per un saggio sul Manzoni, mai scritto, ritrovato tra altre vecchie carte»15, il quale, come si vedrà in seguito, sarà la base del futuro Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico. Il Quaderno verde (II) viene invece dato alle stampe due settimane dopo, ma, sebbene non siano I promessi sposi l’argomento principale trattato, merita attenzione per ciò che Moravia scrive riguardo al ruolo dei personaggi manzoniani:
I promessi sposi, per quanto riguarda i personaggi, rassomigliano molto ad una di quelle bellissime scatole tutte dipinte e piene di burattini, gioia dei ragazzi, i quali le aprono e ne traggono fuori uno dopo l’altro il Buon Frate, il Cattivo Signore, i Bravi, i Fidanzati, il Parroco, il Cardinale, l’Innominato, la Madre, e così via. Ma il Manzoni che era un meraviglioso prosatore e saggista fece agire queste docili marionette su uno sfondo grandioso e molto reale di guerre, carestie, pestilenze, sommosse e altre vicende della storia. E spesso mise in bocca ai suoi piccoli e legnosi attori le parole della sua poesia personale, come, tanto per fare un esempio, nel famoso passo «Addio monti sorgenti dall’acque…» in cui lo scrittore abbandona quasi subito Lucia per esprimere un suo sentimento universale e se ne ricorda soltanto alla fine del passo, concludendo: «Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia…». «Se non tali appunto»: ma i personaggi dei romanzi si definiscono attraverso i loro pensieri, non attraverso quelli dell’autore. Quanto, poi, alla Monaca di Monza, essa non è certamente una marionetta, bensì una creatura viva e poetica. Ma è viva e poetica nella sua storia che non fa parte della storia dei Promessi sposi se non indirettamente, un po’ come i saggi sulla guerra, la carestia e la pestilenza16.
Manzoni viene così giudicato negativamente e definito come un romanziere incapace di sviluppare adeguatamente i suoi personaggi, tanto da risultare un burattinaio che muove a proprio piacimento i suoi fantocci nel grande scenario storico in cui sono collocati. Si avverte qui l’influenza di Benedetto Croce, sia per la presenza della categoria di poesia, sia per l’allusione a un passo di Giuseppe Citanna che Croce menziona all’interno di Critica manzoniana (1926). Citanna in relazione al famoso passo dell’addio ai monti di Lucia scrive infatti che secondo lui: «il poeta sente la profonda poesia che nasce dalle cose stesse, non riesce a sentirla con l’anima di Lucia, e, staccato com’è dal suo personaggio, canta per conto suo all’improvviso senza neppure avvertircene»17, concludendo che così facendo «si annichila una povera creatura, non la si fa vivere»18. C’è quindi in questa prima elaborazione del pensiero moraviano una vicinanza alla posizione di Citanna: Lucia, figura a cui Moravia allude negli Indifferenti tramite la giovane Carla19, non vive, è un personaggio che non solo diventa il tramite della poesia di Manzoni ma acquisisce anche la forma di un burattino allo stesso modo delle altre figure create nel romanzo ad eccezione della sola Gertrude.
Il saggio Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico viene scritto su commissione di Giulio Einaudi20 e pubblicato per la collana «Millenni» nel 1960, al termine di un decennio particolarmente fortunato per l’autore lombardo: non solo vengono date alle stampe svariate edizioni de I promessi sposi tra il 1959 e il 196021, ma viene proposto anche un adattamento cinematografico da parte di Bassani22. Nonostante l’entusiasmo di Einaudi e di Calvino, il quale lo definisce «un bellissimo saggio»23, la ricezione non è stata delle migliori. Se Nicola Chiaromonte critica i concetti adottati da Moravia quali “propaganda”, “totalitarismo”, “decadentismo”, tacciandoli di anacronismo, al contempo però riconosce che il saggio su Manzoni è uno «fra i pochissimi originali e liberi dal postulato encomiastico»24 che siano stati stesi da un autore italiano. Con toni più severi anche Gadda riconosce il totale anacronismo delle categorie critiche adottate dallo scrittore romano, il quale, dal suo punto di vista, sembra cadere in una sorta di circolo recidivo che lo porta a «collocare I Promessi sposi negli scaffali della nuova biblioteca, guardati a vista dai volumi della nuova critica»25. Sanguineti non si discosta di molto dalle precedenti critiche, avvicinandosi a suo modo alla posizione di Chiaromonte: non c’è dubbio che la lettura di un Manzoni decadente sia una «confusa invenzione»26 eppure riconosce nella stessa il marchio dell’autore, definendola in fin dei conti «molto moraviana»27. La stroncatura e le relative criticità messe in luce dagli autori degli anni successivi nasconde quindi un riconoscimento: Moravia ha saputo rileggere Manzoni a distanza di anni, servendosi di strumenti che risultano anacronistici, ma che permettono a lui stesso di risultare originale. Forse è proprio in questo che risiede, da parte dei critici, il migliore pregio/difetto di tale produzione.
C’è da riconoscere che una delle principali novità del saggio del 1960 rispetto ai Quaderni verdi di otto anni prima riguarda il giudizio sul rapporto tra Manzoni e i personaggi de I promessi sposi. Ad esempio, mentre il giudizio sul personaggio di Gertrude rimane sostanzialmente invariato, quello su Renzo e Lucia presenta un cambiamento rilevante:
Abbiamo voluto serbarci per ultimi Renzo e Lucia perché, oltre ad essere forse le due figure più belle e originali de I Promessi Sposi, essi sono anche la chiave della concezione manzoniana della vita, della società, della religione. Questi due personaggi non sono ricostruiti storicamente, saggisticamente, come Gertrude; sono presentati attraverso il loro agire come Don Rodrigo e l’Innominato; ma al contrario di Don Rodrigo e dell’Innominato, sono ben vivi e reali28.
Lucia e Renzo non sono più burattini ma diventano a tutti gli effetti dei personaggi vivi che vengono presentati al lettore tramite il loro agire. Ma chi sono Renzo e Lucia? Afferma Moravia che sono «due figure di contadini che [Manzoni] aveva probabilmente avuto il modo di osservare a lungo nella realtà […] due personaggi umili»29. Il concetto di umiltà richiamato da Moravia per indagare il rapporto tra Manzoni e i suoi personaggi è assente nei due articoli precedenti. Non è da escludere che la novità nell’utilizzo del termine possa derivare da una nuova ricezione di Letteratura e vita nazionale, dove i curatori hanno raggruppato alcune note gramsciane nella sezione Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana. In occasione della stesura del saggio introduttivo a I promessi sposi Moravia potrebbe aver ripreso alcune delle critiche mosse da parte di Gramsci nei confronti di Manzoni, con l’intento di mettere in luce i limiti di un romanzo che sebbene metta al centro gli “umili”, non riesce mai a essere vicino a loro.
3. Gli “umili” di Manzoni e il popolo di Tolstoj
Nelle riflessioni dedicate alla letteratura italiana sulla questione nazionale-popolare, Gramsci si serve di Manzoni come esempio per meglio comprendere in che modo questo carattere “non popolare” si rifletta nella produzione artistica degli autori italiani. Questa peculiare indagine su Manzoni trae origine dallo studio condotto sull’uso dell’espressione “umili” ne I promessi sposi. Nella sezione Carattere non nazionale popolare della letteratura italiana Moravia potrebbe aver letto le due note gramsciane Gli “umili” e Manzoni e gli “umili”, che redatte dall’intellettuale sardo rispettivamente nel Quaderno 21 e nel Quaderno 11, nell’edizione tematica sono riportate in sequenza. Nella prima delle due note, dove Gramsci indaga l’utilizzo dell’espressione “umili” «per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali verso il popolo»30, si legge:
Nell’intellettuale italiano l’espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da un esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Paupasia31.
In questo senso il concetto di ‘umili’ sarebbe espressione di una particolare postura dell’intellettuale verso il popolo rappresentato. Una postura caratterizzata da un rapporto di superiorità stabilito verso coloro che vivono in una condizione socioeconomica inferiore, i quali vengono osservati con uno sguardo paterno, padronale e paternalistico.
Questa stessa maniera di intendere la condizione di umiltà è presente in Moravia, che sembra conoscere e riprendere l’analisi gramsciana del concetto di umili in relazione ai personaggi di Renzo e Lucia:
In realtà l’ideale del Manzoni […] è l’ideale del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il padrone. L’ideale, per dirlo con Manzoni stesso, del marchese erede di Don Rodrigo, il quale aveva abbastanza umiltà per mettersi al disotto di Renzo e di Lucia ma non per stare loro in pari32.
La postura di superiorità dell’autore rispetto ai suoi personaggi avvalora il giudizio di un Manzoni che, come un buon padrone, guarda i suoi personaggi lavorare per lui. Il giudizio di Moravia, che, come sottolinea anche Franco Suitner, si inserisce bene «nell’ambito della critica di ispirazione marxista»33, evidenzia che la posizione manzoniana è uno dei maggiori limiti de I promessi sposi; limite che invece è assente in un autore che ha saputo vivere a diretto contatto con il popolo e comprenderlo da vicino: Tolstoj. A tal proposito l’autore romano afferma che:
l’ideale della vita povera e semplice, dell’ignoranza e della religione del cuore non è tuttavia nel Manzoni così estremo e perciò rivoluzionario, come, per esempio, l’evangelismo integrale e intransigente di un Tolstoi. Il quale, come è noto, volle vivere quest’ideale fino in fondo, fino a farsi contadino e a lavorare i campi; mentre il Manzoni, come è altrettanto noto, nonostante la sua sincera simpatia per gli umili, non si fece umile e rimase tutta la vita oculato ed economo amministratore della sua proprietà34.
Anche la contrapposizione tra Tolstoj e Manzoni è evidenziata da Gramsci che nella nota su «Popolarità» del Tolstoj e del Manzoni, riprendendo la posizione di Adolfo Faggi in Fede e Dramma, osserva polemicamente:
Nota il Faggi che in Guerra e pace i due personaggi che hanno la maggior importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pierre Bezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di Pierre Bezuchov.
Nel Tolstoj è caratteristico appunto che la saggezza ingenua ed istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi dell’uomo colto. Ciò appunto è il tratto più rilevante della religione del Tolstoj, che intende l’evangelo «democraticamente», cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subíto la Controriforma: il suo cristianesimo ondeggia tra un aristocraticismo giansenistico e un paternalismo popolaresco, gesuitico35.
Anche se non esplicitamente, Moravia potrebbe aver accolto insieme all’analisi gramsciana del concetto di umili anche questa contrapposizione tra i due autori, che d’altronde nel volume Letteratura e vita nazionale è raccolta nella stessa sezione già menzionata. Il Manzoni di Moravia risulta incapace di immedesimarsi nel popolo, si limita quindi a guardarlo con uno sguardo paterno senza che esso possa diventare portatore di valori positivi, ma anzi, è il popolo stesso che ha bisogno di una guida morale.
In questa contrapposizione tra autore e il popolo rappresentato, un altro elemento indagato è quello dell’ironia. Secondo Moravia questo sguardo paternalistico-padronale adottato da Manzoni «si tempera di indulgente ironia»36 nel momento in cui il narratore si focalizza sui personaggi “umili”. Un esempio può essere la scena di Renzo per strada o all’osteria in seguito ai tumulti causati dalla carestia: quest’ultima è «giocata magistralmente su quest’ironia indulgente ma fortemente limitativa del buon padrone che vede uno dei suoi contadini alzare il gomito e dire una quantità di corbellerie su cose di cui non s’intende e che sono troppo grosse per lui»37. Un simile giudizio rimanda ancora una volta ai quaderni gramsciani: nella sezione dalla quale si ipotizza che lo scrittore romano abbia tratto i precedenti riferimenti per gli umili e Tolstoj, si giunge infatti alla conclusione che «gli umili sono spesso presentati come “macchiette” popolari, con bonarietà ironica, ma ironica»38, lamentando che «non c’è popolano che non sia “preso in giro” e canzonato»39. Sebbene con termini diversi, sia Moravia che Gramsci evidenziano come l’uso dell’ironia da parte di Manzoni sia conseguenza di una postura che rivela quel carattere di superiorità dell’autore lombardo. A conferma di questa lettura Moravia, oltre a citare alcune espressioni usate da Agnese, Renzo, Lucia o il sarto all’interno dei vari capitoli, arriva a inserire un passo dello stesso Gramsci (e individuato da Casini) a conclusione del suo ragionamento quando afferma: “il carattere “aristocratico” del cattolicesimo manzoniano appare dal “compatimento” scherzoso verso le figure di uomini del popolo»40. Sulla scia di tale riflessione Moravia arriva a mettere in luce una contraddizione di fondo: gli “umili” sono spesso derisi, presentati sotto una luce ironica e costretti a dover rispettare i potenti, i quali però sono presentati come «del tutto indegni di rispetto»41. A tal proposito viene preso ad esempio l’episodio della visita del Cardinale Borromeo nella casa del sarto che ospita Agnese e Lucia. Il sarto, prima della visita, prepara un discorso eloquente, ma al momento del suo arrivo balbetta e pronuncia un semplice “si figuri”. Un simile aneddoto, stando a Moravia, «sottolinea la soggezione del sarto di fronte al Cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale anche quella morale e intellettuale»42. Proprio per rimarcare ancora di più questa caratteristica del romanzo manzoniano, vengono citate dal Decameron, con le dovute precauzioni, sia la II novella della VI giornata che la II della III giornata. Il fornaio Cisti e il palafreniere del re Agilulfo sono entrambi esempi che permettono a Moravia di mostrare come Boccaccio abbia creduto pienamente nei principi dell’uguaglianza umana, concludendo che «nella mente del Boccaccio c’era più democrazia che in quella del Manzoni»43.
4. Religione e propaganda
Da quanto esaminato fin qui, dunque, sia Gramsci che Moravia insistono sulla condizione di inferiorità che caratterizza i personaggi appartenenti al popolo. Questa inferiorità è rimarcata non solo dalle parole dell’autore e dal suo sguardo ironico-scherzoso, ma anche dal contrasto che si viene a creare tra il popolo e i rappresentanti della Chiesa cattolica. Questo è il caso non solo del cardinale Borromeo ma anche di padre Cristoforo, il quale viene così descritto da Moravia:
Padre Cristoforo deve la sua esistenza a una specie di sottrazione operata dal Manzoni, per i motivi del realismo cattolico, ai danni del personaggio di Renzo. In altri termini: Padre Cristoforo o fa delle prediche, cioè non fa niente, oppure fa le cose che dovrebbe fare Renzo se quest’ultimo fosse stato sviluppato fino in fondo: si erge contro Don Rodrigo in luogo di Renzo; muove a Renzo i rimproveri che Renzo dovrebbe muovere a se stesso; prende sulle spalle una parte delle persecuzioni destinate in realtà a Renzo. Esso è un intermediario in saio, superfluo come tutti gli intermediari, il quale permette al Manzoni di non lasciar niente all’iniziativa personale del protagonista e di correggerne la condotta in senso precettistico ogni volta che si renda necessario44.
Renzo, in quanto personaggio umile, è in questa prospettiva incapace di agire in maniera autonoma, ma necessita di una guida morale incarnata dal moralismo cattolico di padre Cristoforo. Come è già stato in precedenza sottolineato, rispetto a un Tolstoj evangelico, Manzoni non crede che i popolani possano essere portatori di messaggi positivi, ma devono essere invece guidati da una figura esterna; l’inferiorità del popolo si manifesta dunque anche su un piano prettamente religioso. In Manzoni la difesa dei valori tipicamente cristiani esprimerebbe un conservatorismo cattolico che Moravia designa con la formula di «realismo cattolico»45. Per comprendere il significato di questa espressione coniata dallo scrittore romano occorre tener conto dei tre strati da cui I promessi sposi (secondo Moravia) traggono origine: arte di propaganda, su cui «cresce e lussureggia la vegetazione del realismo cattolico»46, sensibilità politica e sociale dell’autore e in ultimo il decadentismo. In questa tripartizione il realismo cattolico risulta interno all’arte di propaganda, lo strato più superficiale, e designa il ruolo propagandistico che ha la religione. Quest’ultima, definita «eccessiva, massiccia, quasi ossessiva»47, riconosciuta in seguito come un limite del romanzo manzoniano48, è strettamente connessa con la necessità di stendere un romanzo che difenda e promuova gli ideali tipicamente cattolici tramite le figure positive di fra Cristoforo e del cardinale Borromeo e le note conversioni dell’Innominato e di don Rodrigo.
Date queste premesse risulta più comprensibile la collocazione storica del romanzo in un secolo come il diciassettesimo:
il Manzoni voleva tuttavia scrivere questo romanzo, nel quale cattolicesimo in realtà si identificassero, e le forze avverse al cattolicesimo non potessero aspirare a una positività storica ed estetica, e la propaganda fosse poesia e la poesia propaganda. Bisognava perciò rinunziare al proprio tempo e indietreggiare nel passato, fino a un’epoca storica più propizia. Quale? Con sicuro istinto, il Manzoni non cercò quest’epoca nel Medioevo a cui pure si era ispirato per l’Adelchi, come troppo remoto e diverso dall’età moderna; e scelse il diciassettesimo secolo, durante il quale il cattolicesimo aveva aggiunto per l’ultima volta con la Controriforma, una sembianza di universalità49.
Secondo Moravia, Manzoni sceglierebbe allora l’epoca della Controriforma perché è la più plausibile per raggiungere il primo intento propagandistico ne I promessi sposi. È con la Controriforma che il cattolicesimo riesce ad acquisire un valore di universalità, tanto da travolgere ogni aspetto della vita del popolo. Questo elemento è però già presente all’interno di Quaderno verde (I) quando Moravia spiega che Manzoni «scelse l’epoca della Controriforma perché essa era stata l’ultima epoca di grandezza della Chiesa»50. Anche l’insistenza sul legame di Manzoni con la Controriforma potrebbe essere stato ispirato dal Gramsci di Letteratura e vita nazionale51 che in una nota raccolta sempre nella sezione sul Carattere non nazionale-popolare della letteratura italiana afferma che Manzoni «ha subíto la Controriforma»52 e che, riprendendo le parole di Faggi, «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il cardinale Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida»53. Nella lettura di entrambi gli intellettuali la scelta di un periodo storico come quello della Controriforma dipenderebbe dal bisogno da parte di Manzoni di delineare uno scenario storico in cui al popolo viene negata la sua libertà e autonomia morale. Proprio perché privi di tale autonomia, i personaggi appartenenti al popolo sono costretti ad agire secondo principi eteronomi, elargiti da figure di rappresentanti religiosi come padre Cristoforo o il cardinale Borromeo.
Le motivazioni dietro la scelta dell’ambientazione storica della Controriforma consentono di cogliere meglio il significato di arte di propaganda riconosciuto da Moravia ai Promessi sposi a cui si è fatto cenno. Vale la pena ricordare che nei precedenti articoli del 1952 questa chiave di lettura non è ancora presente, mentre sono operative le categorie crociane di poesia («Senza la conversione, il Manzoni, con ogni probabilità, si sarebbe contentato della sola poesia, senza perseguire altri fini, come il Boccaccio scrittore»54) e oratoria («Gli orrori della guerra e della peste sono descritti non soltanto con obbiettiva serenità di storico. Forse la costruzione oratoria e dimostrativa del romanzo ha contribuito a nascondere questi aspetti»55). La nozione di propaganda, come chiave interpretativa dei Promessi sposi, ha origini nella critica manzoniana dei decenni precedenti: come osserva anche Simone Casini già De Sanctis e Citanna hanno parlato di propaganda a proposito de I promessi sposi56. In Moravia il primo utilizzo del concetto avviene solo qualche anno dopo, nel 1956 con la pubblicazione di Note sul romanzo su «Tempo presente». All’interno di queste annotazioni compare una sezione dedicata al romanzo saggistico: qui Moravia cita come esempio il romanzo di Manzoni osservando che I promessi sposi sono «sempre in pericolo di essere giudicati opera di propaganda»57. È solo in Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico che Moravia accoglie l’idea che il romanzo manzoniano nasca da un intento per l’appunto propagandistico. Questa presa di posizione coincide con un distacco dalle categorie crociane di poesia e oratoria che sono già state in precedenza menzionate nel 1952. Proprio all’inizio del suo saggio introduttivo per I promessi sposi scrive:
si è parlato, è vero, in passato, a proposito de I Promessi Sposi, di arte oratoria; ma sempre in maniera più o meno conforme alla tradizione, cioè distinguendo oratoria da poesia e intendendo la prima nel vecchio e preciso senso umanistico e didascalico. Che noi si sappia, nessuno ha mai visto che l’arte di propaganda manzoniana ha niente a che fare, così nei mezzi come nei fini, con la vecchia arte oratoria anche intendendo quest’ultima in senso molto generico; e che essa è invece originata da un concetto molto moderno, per dirla in breve: […] l’arte di propaganda del Manzoni anticipa per molti aspetti i modi e i metodi dell’arte di propaganda quale l’intendono i moderni, ossia gli scrittori del realismo socialista58.
Distaccandosi dal concetto crociano di oratoria, Moravia rinnova il concetto di arte di propaganda, utilizzato dalla precedente critica manzoniana con originali intuizioni derivate dall’atteggiamento propagandistico dell’arte socialista. In Moravia, tuttavia, la categoria di propaganda religiosa si salda a quella di propaganda socialista e in questa scelta interpretativa è individuabile lo scarto più forte tra Moravia e Gramsci, rivelatore anche del suo posizionamento politico, che sfugge a qualsiasi categorizzazione netta59. Nella sua visione la propaganda socialista è da collocare sullo stesso piano della propaganda cattolica promossa da Manzoni; una propaganda che tuttavia ha un esito opposto a quello dei socialisti ovvero quello di frenare le rivolte popolari. Del resto, lo stesso finale del romanzo60 non è altro che un’ulteriore conferma della morale insita nel realismo cattolico che spinge Renzo ad affermare «ho imparato a non mettermi nei tumulti…a non predicare in piazza»61: Renzo, in quanto popolano, deve quindi contentarsi di ricevere le prediche e di non farle, perché questo è compito della Chiesa e dei suoi rappresentanti. Il parallelismo tra la propaganda religiosa e la propaganda socialista istituita da Moravia porta a concludere questa indagine sulla ripresa moraviana di alcuni motivi della critica gramsciana di Manzoni, sottolineando che lo scrittore romano non intende assolutamente presentarsi come suo diretto erede. Moravia, ad ogni modo, mostra di essere un lettore attento di Gramsci e dei suoi Quaderni, interessato ad approfondire le annotazioni dell’intellettuale comunista, di riprenderle e di rielaborarle a suo modo in quel magma di idee in continua evoluzione, senza però condividere le sue posizioni politiche.
- A. Limentani, Alberto Moravia tra esistenza e realtà, Venezia, Neri Pozza, 1962, p. 114. ↑
- Moravia in realtà avrebbe preferito pubblicarlo nell’aprile del 1960. Dal carteggio con Calvino emerge infatti che l’autore fosse intenzionato a darlo alle stampe già tra l’estate e l’autunno del 1959. Giulio Einaudi però nega il consenso come viene anche scritto nella lettera inviata a Moravia il 16 ottobre 1959 da Calvino: «Poiché sarà (oltre alle illustrazioni di Guttuso) l’unica novità del libro, è chiaro che dobbiamo tenerla come una sorpresa e non possiamo pubblicarlo prima, se no che spinta ci sarebbe a comprare il libro? Perciò Einaudi non ha consentito a pubblicarlo su «Nuovi argomenti» e ha fatto dire di no naturalmente anche a Vigorelli che lo voleva per «Successo» (I. Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000, p. 607). ↑
- C. Salinari, Struttura ideologica dei Promessi Sposi, in Manzoni scrittore europeo. Atti del Congresso Internazionale di Studi Manzoniani, a cura di P. Borraro, Salerno, Jannone, 1976, p. 111. ↑
- F. Suitner, Moravia critico e la sua idea del narrare, in «Studi novecenteschi», XVI, 37, 1989, pp. 111-131. S. Casini, Introduzione, in A. Moravia, L’uomo come fine, Milano, Bompiani, 2019, pp. 5-62. R. Manica, Moravia e Manzoni, in «Studium», 6, 2017, pp. 44-59. ↑
- Accanto a questo primo dibattito vengono in seguito tenuti: Gramsci e il folclore con gli interventi di Ernesto de Martino, Vittorio Santoli e Paolo Toschi (2 giugno) e Gramsci e il teatro, con la partecipazione di Luciano Lucignani e Alfredo Zennaro (cfr. Ciclo di dibattiti sull’opera di Gramsci, in «L’Unità», 24 maggio 1951, p. 3; F. Giasi, La «risonanza» degli scritti di Gramsci, in Il Gramsci di Pasolini. Lingua, letteratura e ideologia, a cura di P. Desogus, Venezia, Marsilio, 2022, p. 46). ↑
- Il dibattito su Gramsci, in «L’Unità», 31 maggio 1951, p. 3. ↑
- In Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico (1960) Moravia scrive infatti: «Ora noi sappiamo che non è molto illuminante paragonare al Manzoni uno scrittore così diverso come il Boccaccio; […] Perché questo confronto? Perché mentre il Manzoni pare quasi compiacersi nel confermare che i poveri sono anche inferiori, il Boccaccio invece non ha paura di mostrarci, sotto la scorza variopinta dell’importanza sociale, il nocciolo grigio dell’eguaglianza umana. Probabilmente l’asservimento della plebe era maggiore al tempo del Boccaccio che cinque secoli più tardi, al tempo del Manzoni. Ma nella mente del Boccaccio c’era più democrazia che in quella del Manzoni» (A. Moravia, L’uomo come fine, cit., pp. 386-387). Va comunque osservato che già un primo confronto tra i due autori emerge in Boccaccio, pubblicato sulla rivista «L’immagine», nel 1949 e revisionato per la pubblicazione del 1953 su Il Trecento. All’interno di Boccaccio i due autori vengono confrontati in merito alle differenti tipologie di rappresentazione che danno della peste: «Nel Manzoni il gusto sadico della morte, della strage e del flagello è veramente vinto da una pietà cristiana; nel Boccaccio invece si sente la delizia di chi di lontano, al riparo da ogni pericolo e in un luogo ameno, contempli una catastrofe stupenda e speculi sognando ad occhi aperti sugli effetti e sulle particolarità della calamità» (ivi, pp. 196-197). Sull’influenza di Boccaccio nella narrativa romana di Moravia rimando a M. Favaro, Il potere subdolo delle passioni. Su Il naso di Alberto Moravia, in «Griseldaonline», XVIII, 2, 2019, pp. 88-102. ↑
- Il dibattito su Gramsci, cit., p. 3. ↑
- A. Elkann, A. Moravia, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 2018, p. 191. ↑
- N. Ajello, Intervista sullo scrittore scomodo, Bari, Laterza, 2008, p. 27. ↑
- Ivi, p. 28. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 27. ↑
- Quello tra Manzoni e Moravia è un rapporto che è stato indagato più volte dalla critica passata; rimando a tal proposito a: A.R. Daniele, Un episodio di critica manzoniana: I promessi sposi tra Alberto Moravia e Giovanni Testori, in «Bollettino ’900», 1-2, 2010, URL https://boll900.it/numeri/2010-i/daniele.html, consultato il 13 febbraio 2025; S.S. Nigro, Il braccio della morte: arte in parola e arte in figura, in «Annali manzoniani», 1, 2018, pp. 26-42; L. Pertile, Moravia, Manzoni e il realismo, in «Studi novecenteschi», X, 25-26, 1983, pp. 95-114. ↑
- A. Moravia, Quaderno verde (I), in «Corriere della sera», 30 novembre 1952. ↑
- Id., Quaderno verde (II), in «Corriere della sera», 14 dicembre 1952. ↑
- G. Citanna, Il mondo ideale e l’arte di Alessandro Manzoni, in «La Critica», XXIV, 1926, p. 230. ↑
- Ibidem. ↑
- L’episodio dell’addio ai monti di Lucia ha un’eco nell’ottavo capitolo degli Indifferenti, quando Carla decide di fuggire con Leo (Cfr. L. Lilli, Voci dall’alfabeto. Interviste con Sciascia, Moravia, Eco nei decenni Settanta e Ottanta, Roma, I quaderni di minimum fax, 1995, p. 68; L. Parisi, Alessandro Manzoni’s I promessi sposi: A Chaste Novel and an Erotic Palimpsest, in «The Modern Language Review», CIII, 2, 2008, pp. 431-433; F. Suitner, Moravia critico e la sua idea del narrare, cit., p. 45). ↑
- Giulio Einaudi nel 5 maggio 1959 scrive infatti a Moravia: «Caro Moravia, vorrei pubblicare nell’autunno una edizione dei Promessi sposi, ma vorrei che fosse un’edizione fuori del comune e che significasse qualcosa». Rimando a S.S. Nigro, In braccio della morte: arte in parola e arte in figura, cit., p. 26. ↑
- Nel 1959 per la casa editrice Le Monnier viene pubblicata l’edizione col commento di Enrico Bianchi. Tra il 1959-1960 Domenico Bulferetti cura l’edizione per la casa editrice Fattorini, la quale viene arricchita da centocinquanta illustrazioni di Gustavino; per il 1960, oltre all’edizione Einaudi, è da segnalare quella di Armando Curcio Editore con le illustrazioni di Gaspare De Fiore e Gaetano Proietti. ↑
- Rimando a tal proposito a: C. Tenuta, Fuga, Ritorno. I Promessi sposi di Pasolini e Bassani, in «Paragone», LXVIII, 2017, pp. 120-132; S.S. Nigro, S. Moretti, Promessi sposi d’autore: un cantiere letterario per Luchino Visconti, Palermo, Sellerio, 2015. ↑
- Lettera scritta ad Alberto Moravia il 16 ottobre 1959, contenuta in I. Calvino, Lettere (1940-1985), cit., p. 607. ↑
- N. Chiaromonte, Moravia e Manzoni, in «Tempo presente», V, 6, 1960, p. 430. ↑
- C.E. Gadda, Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia [1960], ora in Saggi giornali favole e altri scritti, vol. I, Milano, Garzanti, 1991, p. 1179. ↑
- E. Sanguineti, Il Manzoni di Moravia, in «Lettere italiane», XIII, 2, 1961, p. 223. ↑
- Ibidem. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 379. ↑
- Ibidem. ↑
- A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 72. ↑
- Ibidem. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 383. ↑
- F. Suitner, Moravia critico e la sua idea del narrare, cit., p. 124. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 383. ↑
- A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 76. Qui Gramsci mostra di essere stato lettore di Adolfo Faggi (1868-1953), psicologo e filosofo, che oltre a dedicarsi allo studio critico della lettura russa, si è cimentato nella stesura di una serie di saggi su Manzoni. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 384. ↑
- Ibidem. ↑
- A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 75. ↑
- Ivi, p. 76. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 385. Nell’edizione curata da Simone Casini viene specificato che il passo è tratto da A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 84. ↑
- Ivi, p. 386. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 387. ↑
- Ivi, p. 368. ↑
- Scrive a tal proposito Moravia: «noi abbiamo ne I promessi sposi ciò che chiameremo per comodità un tentativo di realismo cattolico. […] realismo socialista e realismo cattolico sono il prodotto estetico per eccellenza del conservatorismo» (A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 352). ↑
- Ivi, p.358. ↑
- Ivi, p. 357. ↑
- Ad Ajello, Moravia, infatti, dichiara che «ciò che rovina I Promessi Sposi è la Provvidenza. Ma non si tratta solo del libro di Manzoni. Io direi che il romanzo cattolico, in sé, è un nonsenso. Il cattolicesimo è il contrario del romanzo, il quale è basato sull’autonomia dei personaggi. Se invece c’è la Provvidenza che decide per tutti…» (N. Ajello, Intervista sullo scrittore scomodo, cit., p. 104). ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 355. ↑
- Id., Quaderno verde (I), in «Corriere della sera», 30 novembre 1952. ↑
- Ci si riferisce alla nota «Popolarità» del Tolstòj e del Manzoni. ↑
- A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 76. ↑
- Ibidem. ↑
- Id., Quaderno verde (I), in «Corriere della sera», 30 novembre 1952. ↑
- Ibidem. ↑
- Cfr. S. Casini, Introduzione, in A. Moravia, L’uomo come fine, cit., pp. 49-50. ↑
- Ivi, pp. 319-320. ↑
- Ivi, p. 351. ↑
- In Processo a Moravia, articolo uscito su «L’Espresso», Moravia dichiara: «Non ho partito, odio i partiti. Non mi ci iscriverei neppure morto. Diventerei uno strumento e non potrei essere utile a nessuno neppure al partito al quale aderissi» (A. Moravia, Impegno controvoglia. Saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici, Milano, Bompiani, 2008, p. 100). ↑
- Proprio il finale de I promessi sposi viene assunto all’interno del romanzo La vita interiore (1978) come simbolo di tutta la cultura italiana che viene impartita nelle scuole italiane. In un rito scatologico portato a compimento da Desideria, per volere della Voce, in nome di quella che viene definita la “rivolta”, si riscontra un netto rifiuto di quella morale cattolica impartita da Manzoni nel suo romanzo. ↑
- A. Moravia, L’uomo come fine, cit., p. 387. ↑