Rifare Manzoni per liberarsene: Gadda e La cognizione del dolore
Nel 1963, l’ingegner Carlo Emilio Gadda, dopo le prime uscite in rivista degli anni 1938-1941, pubblica La cognizione del dolore. Il romanzo è incompiuto, e rimarrà tale nonostante le aggiunte dell’edizione del 1970. Malgrado ciò, il libro si pone come momento ineludibile, sia per quanto riguarda le lettere nazionali (di cui costituisce, per Corrado Bologna, «l’apocatastasi storico-allegorica»1), sia per la stessa vicenda culturale e umana del proprio autore. La Cognizione, infatti, è opera che si nutre di una marcata componente autobiografica. L’ambientazione, pseudo-sudamericana, ricalca in modo trasparente e geograficamente accurato i luoghi della giovinezza gaddiana: la Brianza in particolare, intrisa di passioni contrastanti. Così Lukones, sede del dramma familiare che agita le pagine dell’opera, non è altro che il paese di Longone al Segrino, dove il padre di Gadda, Francesco Ippolito, fece costruire nel 1899 la propria villa. E questa stessa villa (luogo dalle implicazioni non pacifiche per il giovane Carlo Emilio, tanto da trasfigurarsi in un effettivo luogo dell’anima) si rispecchia fedelmente in quella abitata dai protagonisti del romanzo. La finzione romanzesca avvolge dunque la realtà delle vicende personali, contaminando anche i particolari più minuti (la nomenclatura è un continuo giuoco ammiccante), ma lasciandone travedere le sporgenze, le ammaccature.
Di queste, una in particolare emerge con insistenza programmatica lungo tutta la superficie del testo, imponendo, al di sopra di quello letterale e di quello biografico, un livello ulteriore di significato, quello parodistico: il controcanto manzoniano. I Promessi sposi zampillano sulla pagina come la chiara ossessione che il romanzo costituiva per Gadda. I riferimenti vanno dall’allusione ambigua alla citazione, eventualmente adattata ai luoghi della vicenda: «Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di sulle mura di Pastrufazio….»2, dove l’oggetto del discorso è la montagna del Serruchón, equivalente spagnolesco, naturalmente, del Resegone. Persino il primo uomo del Manzoni, il filatore Renzo, fa una propria comparsata, dopo esser stato ribattezzato per la seconda volta: «certo Filarenzo Calzamaglia o, come dicevan tutti, Enzo, sfuggito di mano della sua giusta giustizia; che gli aveva messo i manichini ai polsi durante certi tumulti di San Juan»3, in cui sono evidenti sia i rimandi lessicali all’episodio dell’arresto di Renzo, sia quelli relativi alla sua professione.
All’identificazione e all’analisi delle riprese manzoniane nella Cognizione, del resto, hanno dedicato importanti sforzi già Raffaello Palumbo Mosca4 e, in particolare, Aldo Pecoraro5, il quale mette a punto, del romanzo, un vero e proprio «alfabeto allusivo»6, esteso lungo una molteplicità di livelli linguistici e narrativi. Il presente lavoro, d’altra parte, vorrà invece insistere sulla significatività che scaturisce dall’atto di connotare in una direzione fortemente manzoniana un’opera come la Cognizione, al tempo stesso testimonianza ed elaborazione del retaggio personale del proprio autore. Si tenterà di dar conto, in special modo, dell’interferenza fra la figura paterna e quella di Manzoni, operante in Gadda e già intuita, ad esempio, da Rusconi7; interferenza da contestualizzare all’interno dell’arco dell’opera gaddiana8, sino al dichiarato punto focale rappresentato dalla Cognizione, e fra le maglie del suo apparato gnoseologico-letterario.
Il rapporto fra il Gaddus e don Lisander è innanzitutto una questione di sangue, che risale a secoli addietro; addirittura a prima della nascita di entrambi, in quello stesso Seicento cui appartiene il dilavato manoscritto, se è vera la notizia per la quale i Gadda discenderebbero dal canonico Giuseppe Ripamonti, che fu cronista della peste di Milano e fonte privilegiata per i Promessi sposi9. Ma è soprattutto una sorta di determinismo ambientale a legare Gadda al proprio sostrato lombardo, come se la nascita specificasse un destino al quale non è possibile sottrarsi: «ci sentiamo radicati alla ceppaia, santamente avvinti alla madre comune, la città, la gente, la casata, la patria»10. Che l’incontro dovesse avvenire, dunque, è un fatto già predisposto dalla storia e dai luoghi, ed è proprio nell’attenzione e nell’accuratezza della topografia che esso si concretizza ad un livello, diremmo così, superficiale. Considerata l’importanza che Gadda riservava alla rappresentazione del proprio ambiente quale atto conoscitivo (si ricordi, a titolo d’esempio, l’ironia con la quale punge, nella Cognizione e non solo, le grossolanità di Carducci11), l’elezione del Manzoni ad autore prediletto non può sorprendere.
Nonostante ciò, si tratta di una corrispondenza, questa, tutta giocata all’interno di una dialettica assolutamente non pacificata, che passa dello sberleffo all’adulazione, dalla citazione all’insofferenza. Occorre rilevare, innanzitutto, il disprezzo riservato da Gadda nei confronti del Manzoni lirico. La discordanza è inizialmente un fatto stilistico, che si appunta in particolare sull’utilizzo della cosiddetta monolingua, nonché sull’artefatta letterarietà di un testo punteggiato di stilemi di ardua verosimiglianza come il Cinque Maggio12. Proprio in quest’ambito il dissenso si fa anche ideologico, andando a colpire, attraverso la figura di Napoleone, quella, ben più attuale, di Mussolini.
Per quanto riguarda la prosa, vale a dire quella dei Promessi sposi, l’adesione è certamente piena da un punto di vista esclusivamente stilistico, ma rivelerebbe le proprie screziature non appena compissimo l’azzardo di immergerci nella psicologia dell’autore. Gadda rilegge il romanzo per tutta la vita, lo consuma fino alla vecchiaia e, proprio come avviene nella pagina scritta della Cognizione, ne proietta le caratterizzazioni sullo spazio fisico circostante. Ѐ in queste sedi che, attraverso la moralizzazione di un paesaggio, quello manzoniano, già moralizzato dalla mano del maestro, trapela l’inquietudine:
E il grigio e nero monte si spiccava su, feroce, come agugliata schiena d’un sauro, dalle specchiere serene dei laghi, di sopra agli sbrani della nebbia. «Talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte … ». Ero, ero di fronte. E il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levarsi, gastigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli; emerso dal vapore delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo13.
I gioghi del Resegone non rappresentano più la vista familiare e salvifica che si contrappone, per lo spaesato Renzo, alla “macchina” blasfema del duomo di Milano14; essi incombono, invece, terribili sopra le miserie delle occupazioni contadine e dei progetti paterni andati in fumo (i bozzoli dei bachi da seta). «L’idillio si è avvelenato»15, sentenzia Alba Andreini: i drammi di un’infanzia difficile, perversa dalla rigidità dei costumi, la successiva perdita dell’amato fratello minore Enrico, vittima di un incidente occorso durante la Prima guerra mondiale, hanno cancellato la dolcezza dei luoghi. Il Gadda si sente oltraggiato dalla vita stessa. Egli è tragicamente separato dagli uomini («Ero solo: con misere vesti»16), e li osserva, come il Gonzalo della Cognizione, con un misto di commiserazione e disprezzo altezzoso.
Quello che interessa notare, tuttavia, è come, per ogni circostanza di elaborazione (o, se si vuole, di cognizione) del dolore, il morbo del Manzoni sia immancabilmente innervato nella rappresentazione, e quindi inscindibile da essa. Il dolore, per Gadda, prima di esser fatto esistenziale e gnoseologico, è radicato innanzitutto nel proprio contesto familiare, ed è quasi come se da questo non possa mancare l’ombra inquietante dell’autore prediletto. Egli è, in sostanza, padre letterario e culturale, modello ineludibile e quindi sofferto, incombente e minaccioso proprio quanto il suo Resegone. Manzoni è un’ossessione ancipite: come ogni modello letterario. La sua preminenza ideologica nella poetica gaddiana va di pari passo con la necessità terribile del confronto che impone.
È fondamentale, allora, capire prima di tutto quali conseguenze effettive don Lisander abbia avuto all’interno della vicenda letteraria di Gadda, vale a dire in che senso egli possa esserne considerato autentico padre intellettuale. Il primo passaggio decisivo in tal direzione è rappresentato dall’Apologia manzoniana, un breve scritto dapprima accorpato, nel 1924, al Racconto italiano di ignoto del novecento, per poi essere estrapolato e pubblicato autonomamente sulla rivista «Solaria», nel 1927. Esso contiene già, in nuce, le componenti chiave che andranno a strutturare i romanzi maggiori. Pensata per rilanciare l’interesse nei confronti di Manzoni, l’Apologia in realtà dismette presto gli strumenti della critica letteraria per far luogo ad un esercizio di stile che tende alla prosa d’arte, e che realizza così «un racconto di secondo grado che è insieme esegesi, autoesegesi e progetto, sintesi magistrale di molti, se non tutti, i punti-chiave»17. Temi e situazioni dei Promessi sposi sono riarrangiati in una concatenazione di immagini frante ed eterogeneamente giustapposte. Quel barocco, quell’«emulsione seicentesco-lombarda»18 che nell’Urtext informa la prosa dell’Anonimo e fa capolino indimenticata anche in quella di Manzoni, è riscoperta da Gadda attraverso l’inedita mediazione immaginifica della pittura di Caravaggio: «Michelangiolo Amorigi veste da bravi i compagni di gioco. […] Il Signore comandò che Matteo e lasciasse i dadi ed il soldo del mondo (e) lo seguisse e il Caravaggio vide il Signore e Matteo e poi dipinse giovinastri dalle turgide labbra, cocchieri e sgherri e fervidi garzoni. Meglio girare alla larga»19.
Dal barocco pittorico a quello insinuato nelle pieghe dei Promessi sposi, passando per l’esperienza scapigliata prima di giungere finalmente alla pagina gaddiana. Quel Manzoni segreto, sotterraneo, offuscato da quasi un secolo di normatività linguistica; quel Manzoni espressivo e vernacolare che, nel cap. XXXVII, durante il ritorno di Renzo al proprio paese, nei pantani di un fortunale che insozza le vesti e purifica l’anima, decide di insozzare anche la lingua, tutta ravvivata da dialettalismi fiorentini20. Questo Manzoni offre il destro a Gadda per l’elaborazione di una lingua vorace di realtà, una maccheronea che affermi precisa la verità concreta della vita21. Il debito nei confronti della Scapigliatura è espresso chiaramente nella persona di Carlo Dossi, meritevole di aver inserito, nella prosa letteraria, «fra le più care giùggiole di una toscanità immaginata, sognata, e non raggiunta, alcuni momenti tra i più felicemente espressivi dei dialetti (piemontese e lombardo)»22. Nel rifiuto del monolinguismo, di cui si è detto, nell’abbracciare una tradizione manzoniana secondaria, Gadda forgia la propria formula. E la scelta, in seguito, si farà necessità mimetica, e gnoseologica: «talché il grido-parola d’ordine “barocco è il G.!” potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”»23. L’Apologia è dunque il primo terreno di confronto con la lingua e i modi del maestro; per il quale cede già, a quest’altezza, qualsiasi riserva di pudicizia nei confronti dell’auctoritas testuale: la pagina è piegata, di volta in volta, alle proprie esigenze espressive.
Si tratta di un’adesione che poggia anche, è vero, su di un fraintendimento, messo in evidenza da Giuseppe Nava24: che il grottesco perseguito nell’Apologia sia di natura affine all’ironia manzoniana. Non è una tesi sostenibile. In Manzoni, l’uso ironico ha basi sostanzialmente religiose: si appella ad una fiducia, ancora possibile nell’Ottocento, per la quale esiste una distinzione ben definita fra il bene e il male, ed un principio di coerenza al quale accordare il proprio agire. Il grottesco gaddiano, invece, prende le mosse a partire da premesse ontologiche ed ermeneutiche diametralmente opposte. Esso è riflesso accurato di una visione del mondo tipica del proprio tempo; vale a dire di un mondo frammentario e magmatico, una «frenetica differenziazione»25 di oggetti e sistemi, un “pasticciaccio” all’interno del quale si sfaldano le tradizionali categorie morali. Da un punto di vista strettamente stilistico (e qui meglio si comprende la precisazione sul barocco, di cui sopra), il grottesco in Gadda, quindi, presupporrà l’accostamento sistematico di materiali eterogenei, sia nell’ambito della veste linguistica che in quello dei toni e dei contenuti: nell’Apologia, come nella Cognizione, si passa da latinismi ed arcaismi a dialettalismi o neoformazioni di varia origine, dal tragico al comico nello spazio di una pagina, talvolta di un rigo. Il personaggio di Gonzalo è un capolavoro di opposizioni: in lui divergenti e contrapposti registri stilistici si avvicendano senza alcuna soluzione di continuità, o causalità apparente. Così delineato, il guazzabuglio linguistico della prosa gaddiana ricorda quasi quello arboreo che infesta la vigna di Renzo nel cap. XXXIII dei Promessi sposi. Sebbene a livelli diversi, il contenuto metaforizzato è il medesimo: la legge imperante del caos.
L’apporto conoscitivo ed interpretativo proprio del grottesco, e in senso lato della lingua gaddiana, si comprende meglio nell’ambito di quel concetto fondamentale che l’autore definisce “euresi”. Siamo al cuore della poetica di Gadda, della sua impalcatura filosofico-letteraria. Euresi è l’atto di scrittura, eminentemente mimetica, che ordina il mondo. Se quest’ultimo è, nei termini di Bologna, «Relazione, Organismo-macchina cosmica e memoriale, genealogia interminata di rapporti, concatenazioni, combinatorie complesse»26, allora la soluzione linguistica deve porsi nei termini di un’«ermeneutica a soluzioni multiple»27, di una decifrazione interminata e deformante che tenga ferma la natura aggrovigliata del sistema, senza risolverla in un facile schematismo. Di qui la necessità di cassare dalla pagina soggetto e oggetto, necessità di cui si fa portavoce il Gonzalo della Cognizione, nella sua invettiva contro i pronomi («l’io, l’io!…. Il più lurido di tutti i pronomi!…. […] Il solo fatto che noi seguitiamo a proclamare…. io, tu […] denuncia la bassezza della comune dialettica…. e ne certifica della nostra impotenza a predicar nulla di nulla»28), rei di immettere nel discorso delimitazioni di certezza, laddove questa è costitutivamente impossibile. In accordo con quello che si rivela essere, nei fatti, una sorta di strutturalismo ontologico, il soggetto deve essere considerato parte del sistema relazionale, e in esso insieme determinante e determinato: all’osservatore unico occorre sostituire un punto di vista destrutturato e plurale.
Ora, in quanto tensione continua ad ordinare la realtà, l’euresi è, prima di tutto, un atto dal contenuto etico. Ed è qui che viene alla luce la chiave di volta del manzonismo di Gadda. Il congiungimento degli intenti è possibile innanzitutto dal momento che la volontà di spiegarsi la maniera delle cose, e rappresentarne il disordine, è anche il proposito esplicito del Manzoni, espresso nell’Introduzione ai Promessi sposi: «e ci siam messi a frugare nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo andasse allora a quel modo»29; e ancora, nella riformulazione che fornisce Ermes Visconti in una lettera del 1821 a Victor Cousin, dove informa che l’amico aveva iniziato a rappresentare, nel proprio romanzo, «i Milanesi del 1630, le passioni, l’anarchia, il disordine, le follie, il ridicolo, di quel tempo»30. Non è privo di interesse che gli aspetti citati da don Lisander, e dunque considerati preminenti nella propria indagine, siano tutti riconducibili ad un quadro generale di scompiglio, di cui la scrittura si fa indagatrice.
Il punto di partenza di Gadda è allora inequivocabilmente manzoniano: si riassume in particolare in quel celebre assunto dell’autore prediletto, per il quale «il vero solo è bello»31. La risoluzione della questione, che per il cattolico Manzoni rappresentava un cruccio estetico e soprattutto ideologico, al suo erede, disinteressato alle implicature di ordine religioso, pare più semplice, anzi necessaria. Essa si riduce all’identità rigorosa di letteratura e morale: «Quando scriverò la Poetica, dovrà, ognuno che si proponga intenderla, rifarsi dal leggere l’Etica: e anzi la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica»32. Per entrambi, dunque, creare equivale, in un modo o nell’altro, a dipanare il disordine, a cercare il vero, a farsi insomma morali (e non moralisti).
Per il Gadda offeso dalla vita, tuttavia, il problema dell’essenza del vero, e di dove trovarlo, non è certamente di facile risoluzione. L’inanità e l’equivalenza di tutte le cose impediscono appigli certi al pensiero, il caos getta fumo negli occhi. È allora la scrittura a farsi scandaglio di ordine gnoseologico: ad essa il compito di ritrovare nella rete smagliata della combinatoria infinita un “qualcosa” che permanga identico all’inesauribile farsi e disfarsi. È chiaro che si tratta, per statuto, di un’attività di carattere anzitutto creativo («anche a costo di crearlo, di inventarlo, questo qualcosa»33, aggiunge Gadda), che tende a forzare la cosalità degli oggetti, la loro ruvida concretezza, all’interno dello spazio interpretabile (e quindi passibile di euresi) del testo. L’operazione di ordinare corrisponde allora a quella di stipare quanto più possibile del mondo non scritto, per usare la terminologia di Calvino, all’interno dello spazio angusto della pagina scritta. Si tratta di una transcodificazione di ordine morale. L’intento, lo si capisce bene, finisce poi per configurarsi come enciclopedico; ed in ciò non troppo distante dall’originario progetto del Fermo e Lucia, in cui lo strumento della digressione sterniana si faceva mezzo cumulativo ed espansivo, tentazione totalizzante34. Quello stile digressivo, che Manzoni avrebbe attenuato nel passaggio ai Promessi sposi, si presenta ora a Gadda nel suo formidabile statuto conoscitivo; nelle sue opere rivive la lezione del Fermo.
Le ricadute sono chiare nelle pagine dei romanzi, in particolare in quelle della Cognizione del dolore, dove trovano espressione e compimento tutte le riflessioni teoriche degli anni precedenti, nonché l’elaborazione del rapporto con Manzoni, di cui l’opera, sebbene incompiuta, costituisce il frutto più maturo e più amaro. Le fondamenta del libro paiono già essere gettate nelle prime pagine del Racconto italiano, allorché Gadda dichiara di voler realizzare «una continuazione e dilatazione del concetto morale Manzoniano»35. Laddove l’ipotesto dei Promessi sposi era, semplificando brutalmente, vicenda di anime deboli miseramente trascinate e corrotte dalla Storia, e di anime forti che vi resistono («Alte anime vivono fra quella grigia plebe e quei mali…»36), la Cognizione, sequel ideale, è invece «la tragedia di una persona forte che si perverte per l’insufficienza dell’ambiente sociale»37.
Abbiamo già detto del carattere autobiografico della rappresentazione; Gadda ne iniziò la stesura a seguito della morte della madre, avvenuta nel 1936, e alla conseguente (e sospirata) vendita della villa di Longone. L’occorrenza non è casuale: centro nevralgico della Cognizione è proprio il rapporto fra Gonzalo (il cui nome parrebbe derivare dal manzoniano governatore di Milano), trasparente maschera di Gadda, e l’anziana madre. Dei due è seguito il drammatico percorso di elaborazione dei rispettivi dolori, il primo profondamente esistenziale e metafisico, il secondo volto alla propria determinazione nella collettività; entrambi ripiegati sulla dimensione dell’interiorità e su un passato irrecuperabile. In una cornice caratterizzata da una drastica riduzione delle forme narrative evidenti, e di conseguenza del grado di letterarietà, a favore della digressione serpentina, apparentemente irrilevante, e del monologo interiore; in accordo con i dettami di una poetica che rifiuta sia il convenzionale letterario, gratuito, sia la finitezza della rappresentazione38. Il rapporto conflittuale fra madre e figlio raggiunge la propria acme con l’aggressione ai danni dell’anziana, incidente di cui non è chiaro se Gonzalo sia l’esecutore o il mandante.
La complessa psicologia del protagonista si addossa, per certi aspetti, un portato simbolico, e permette di aprire una breccia su quella del suo autore. Gonzalo è, sostanzialmente, personaggio della negazione:
Lo hidalgo, forse, era a negare sé stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro. […] Egli allora si riscosse; come a rompere, bruscamente, lo stanco, l’inutile ordito degli atti: quasi che una rancura segreta gli vietasse di conoscere la tenerezza più vera di tutte le cose, il materno soccorso. Si separò dalla mamma. La gratitudine appassionata di cui germina ogni coscienza pareva spegnersi in lui. Anche questo, forse, bisognava negare? andare soli verso la notte?39
La vita non si offre, al limpido alter ego gaddiano, se non per negazione. E solo per negazione gli è concesso definirsi. La sua condizione è totalizzante; il suo dolore (quell’unica cosa che davvero possa dirsi sua) è metafisico. Estraneo, quasi bestiale, nei confronti del consorzio umano, da cui lo separa un disprezzo radicato ed aristocratico, di un’aristocrazia dello spirito. Ne è correlativo la germinazione onomastica di Giuseppi e Giuseppine: una turba graveolente e anonima, battezzata all’unisono «nel nome del marito di Maria Vergine»40. Della separazione è insieme causa e conseguenza un’insormontabile incomunicabilità. Tutta la conversazione col medico, che occupa la maggior quota della Parte Prima, è un continuo andirivieni di fraintendimenti, fra i suoi tentativi, goffi e a tratti deliranti, di raccoglier comprensione, e le risposte condiscendenti e terra terra del proprio interlocutore, impossibilitato ad afferrare la portata e le implicazioni dei gesti cui assiste.41 Anche il puro amore filiale, che egli pur prova, è corrotto dal dolore portatogli dalla vita, e il dolore abbrutisce e uccide, «poiché ogni oltraggio è morte»42. La negazione di Gonzalo, non è arduo avvedersene, è anche quella di Gadda, la quale si riflette, programmaticamente, nella negazione dei meccanismi letterari dell’opera: il maggiore romanzo del Novecento è un antiromanzo.
L’iter riflessivo del protagonista permette di interpretarne la vicenda, secondo Manzotti, nella chiave di un atipico Bildungsroman, un’educazione al dolore ed alla mancanza di cui è ben ravvisabile la progressione43. Dei due modelli romanzeschi conviventi nei Promessi sposi, il novel di Renzo e il romance di Lucia, Gadda pare operare un’ambigua sintesi: dal primo attinge, appunto, il modello del romanzo di formazione (ma sarebbe forse più opportuno parlare di de-formazione), dal secondo, invece, la dimensione esclusivamente interiore della vicenda, di cui i tribolamenti dell’anima costituiscono il focus.
Lo scarno avanzarsi narrativo e meditativo è collocato, quasi sempre, nello spazio breve della terrazza, il «luogo deputato della vita dimidiata»44, ma anche il luogo dove si condensano i momenti apicali della vicenda spirituale di madre e figlio, rivelati talvolta da inavvertite epifanie. È «dalla terrazza di sua vita»45 che, ad esempio, la madre sogna di far parte, di nuovo, della sera e del mondo. Ed è sempre sulla terrazza che Gonzalo perviene alla compiuta cognizione del dolore, in un passaggio di tremenda intensità:
Il figlio guardava, guardava, come per sempre. Di certo anche, ascoltava.
Per intervalli sospesi al di là di ogni clausola, due note venivano dai silenzî, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci ed ombre. E, sommesso, venutogli dalla remota scaturigine della campagna, si cancellava il disperato singhiozzo46.
Un cuculo di pascoliana ascendenza47 si fa nunzio della raggiunta consapevolezza, che corre sul filo delle metafore naturali e attraverso la mediazione maieutica, come anticipato, della terrazza.
La scissione, il «disperato singhiozzo», lo si è già detto, son quelli di Gadda. Il cui carattere nevrotico si manifesta, con sicura intenzionalità, nell’assillante coazione a ripetere che costella tutto il romanzo. Certe espressioni ne richiamano puntualmente altre, con infallibilità terminologica, e con un portato di senso che è proprio del narratore, e dunque di Gonzalo: il peone della villa, disumanizzato, si aggira ogni volta rumorosamente “zoccolando”, e con le brache pericolanti; del mandorlo si ricorda sempre, rabbiosamente, di come nottetempo sia stato celatamente bacchiato dallo stesso peone. L’ossessione narrativa contribuisce a moltiplicare il significato convenuto; fissa un appuntamento testuale con il lettore, che riconosce un codice reiterato, quindi noto, e ne prende parte. In altri casi la ripetizione concede uno spaccato sui drammi familiari del Gadda. È il caso delle pere butirro, la varietà coltivata dal padre nella villa di Longone, e da lui odiata. Le butirro, oltre a dare il nome alla famiglia del protagonista (i Pirobutirro), ricorrono continuamente accompagnate da precisi stilemi: la durezza del frutto e l’intervento di San Carlo, cioè dei giorni di maturazione: «le pere butirro, a spalliera, erano più dure di certo del più duro sasso del Serruchón. Ma San Carlo avrebbe rimediato a ogni cosa»48. L’ossessività è il ritratto di un passato irrisolto.
Il risentimento gaddiano nei confronti delle colture paterne, tra l’altro, trova un’ulteriore ed interessante valvola di sfogo: all’inizio della seconda sezione della Cognizione, Manzoni viene chiamato in causa, nei panni inusuali dell’agronomo, in quanto responsabile della diffusione in Italia delle robinie, piante «senza nobiltà di carme»49. Anche Gianfranco Contini ricorda l’episodio, e ne fornisce un giudizio netto: «nell’odio amore per le cui ondulazioni prealpine [della Brianza ndr.] aveva una parte condensatamente simbolica il profluvio delle robinie, da lui ricondotto – ed era questa l’acme delle sue riserve – alla predicazione di Manzoni»50. Agli alberi paterni si sovrappongono e si sostituiscono gli alberi del padre letterario, parimenti detestati. Le due figure slittano l’una nell’altra ed entrano in corto circuito; l’ombra manzoniana rinnova l’inconscia tensione ad invadere gli spazi privati del dramma familiare, proprio nel romanzo che ne rappresenta il resoconto.
Di un’infanzia angosciosa il testo conserva infatti non poche tracce: lo stesso Gonzalo, tentando di spiegare sé a sé stesso, parla di «una infanzia malata»51, corrotta da una sensibilità eccessiva e mostruosa. Si ricordino, a proposito, le allusioni al freddo patito a scuola ed alla negligenza paterna. Ma in altri passi si entra nel dettaglio della rigida educazione:
Il Marchese padre, amorosamente, ogni mattino, gli preparava lui stesso la refezione […]. E il bottiglino dell’acqua e vino. Col turacciolo. Guai se il bimbo avesse smarrito il turacciolo. Ore di angoscia, in certi giorni tristi, per il recupero del turacciolo: sullo smarrito sughero severità sibilante della maestra, che entrava allora con sopraccigli sollevati, in uno stato di tensione sadica, bavando internamente. La pedagogia di Pastrufazio non ammetteva repliche. Le implorazioni del bimbo riuscirono vane52.
Carlo Emilio Gadda è un uomo lacerato, che porta ancora sanguinanti le cicatrici dei traumi patiti; e la Cognizione del dolore è interpretabile, in questo senso, come il suo maggiore tentativo di recupero memoriale del passato. Il libro aspira, sin dalle soglie del titolo, ad attraversare il dolore e ad addomesticarlo: è, sostanzialmente, una catarsi, che durerà tutta la vita.
E poi c’è Alessandro Manzoni. Il quale, attraverso una pervasiva “vischiosità” (per giunta svincolata da giustificazioni tematiche)53, è lì per l’intera durata dell’elaborazione. E probabilmente, più che catalizzatore di quest’ultima, l’autore prediletto è parte del trauma, della famiglia, del dolore. Il suo volto si staglia terribile come quello del padre, o dei maestri di scuola: in fondo, lo si è detto, è padre anch’egli. La parodia che Gadda allestisce nei suoi confronti non deve esser letta necessariamente in termini ironici. Piuttosto, seguendo l’etimologia del termine stesso, essa rappresenta un controcanto, una lettura dell’ipotesto che scorre parallela, ma non per questo neutra, fra gli interstizi del testo. D’altronde, ogni parodia è, di necessità, un’interpretazione: non può essere divertissement disinteressato, giacché il fatto stesso che l’operazione sia stata compiuta ci dice qualcosa, se non dell’opera, perlomeno dell’autore. Seguendo la classificazione di Giannetto, la parodia di Gadda pare rientrare nel sottotipo della demitizzazione, la quale, pur scaturita da ammirazione, prevede un intento dissacratorio nei confronti dell’inviolabilità di un autore, dunque il suo scoronamento. Ciò soddisfa i parametri ermeneutici finora utilizzati, soprattutto qualora il destinatario sia «lo stesso parodista, che vuole con il suo gesto affrancarsi da una suggestione troppo vincolante»54. È il caso di Gadda, e l’intenzione è portata avanti in diversi modi. Nella Cognizione, infatti, le citazioni irrisorie e corrosive si accompagnano ad altre di semplice ripresa, utili a raddoppiare il fondo della caratterizzazione dei personaggi, o ad istituire un dialogo polifonico con l’antecedente.
Fra le prime, la già ricordata variazione del manzoniano «Talché…», dove il grottesco nasce dalla semplice giustapposizione della ripresa alta con il contesto formalmente basso. In altri casi, invece, ad essere irrisa è la sottotraccia linguistica vernacolare dei Promessi sposi: «La lavandaia Peppa arrivò dunque a poter egutturare, con dei glu glu manzoniani da tacchino femmina»55. È la stessa lingua, come abbiamo visto, cui Gadda si riallaccia per rifinire la propria: la parodia è ambivalente quanto il rapporto con il parodiato. Per il secondo tipo di citazioni avremo invece, come detto, un raddoppiamento semantico, privo di carica ironica. In una delle ultime scene dell’opera, ad esempio, il silenzio che accoglie i due cugini penetrati in casa dei Pirobutirro, durante la notte, ricorda da vicino le movenze di quell’altra spedizione notturna, compiuta dai bravi di don Rodrigo per rapire Lucia. L’iterazione dei “Nessuno”, man mano che la ricerca riesce infruttuosa, certifica la parentela56.
La cognizione del dolore rappresenta allora, dei Promessi sposi (e del Fermo), la maggiore ripresa, e la maggiore liquidazione. Essa porta avanti, insieme col progetto morale manzoniano, anche il seme del suo programmatico superamento, nell’atto stesso della parodia. Ma la questione è innanzitutto personale: per Gadda, occorreva dissipare il fantasma dell’amatissimo don Lisander, dalle parole e dai paesaggi di Brianza. Ci provò per tutta la vita. Nel romanzo, la maschera di Gonzalo partecipa, con l’evidenza degli atti, all’oltraggio della memoria paterna:
Staccò dalle pareti un quadro, un ritratto, (come usò anche in un altro accesso, dopo anni), lo appiastrò al suolo. La lastra di vetro si spaccò. Dopo di che vi montò sopra: calpestandolo come pigiasse l’uva in un tino, ridusse il vetro in frantumi. I talloni disegnarono come dei baffi al ritratto, due spaventose ecchimosi del ritratto57.
Il vituperio del ritratto del padre (quello genetico o quello culturale, o entrambi) condensa così le intime inclinazioni del Gadda, la sua volontà di pacificazione. La scena, allora, non si rivelerà esser altro che un’acuta mise en abyme del romanzo tutto. Il gesto di Gonzalo si rispecchia in quello più ampio del proprio autore: calpestare il quadro equivale, metaforicamente, a calpestare il Manzoni, a parodiarlo, a scrivere, in altre parole, La cognizione del dolore.
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C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani (1986), vol. II, Torino, Einaudi, 1993, p. 757. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore (1970), Torino, Einaudi, 1987, p. 429. Pastrufazio equivale, nella corrispondenza col reale, a Milano. ↑
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Ivi, p. 103. ↑
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R. Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento, vol. III, Roma, Inschibboleth, 2020. ↑
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A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della Cognizione del dolore, Pisa, ETS, 1996. ↑
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Ivi, p. 11. ↑
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Cfr. F. Rusconi, Per una intertestualità manzoniana nella Cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, in «Revista Italiano UERJ», 6, 2015, pp. 16-17. ↑
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Se è vero, con Pecoraro, che «Gadda, anche più di altri, è autore di un unico libro. Ecco la chiave per la comprensione dei diversi testi gaddiani. Il lettore non può limitarsi a leggere le pagine per contiguità ma deve annodare i fili del messaggio sparsi nelle varie opere» (A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della Cognizione del dolore, cit., p. 9). ↑
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Cfr. A. Andreini, Studi e testi gaddiani, Palermo, Sellerio, 1988, p. 18. ↑
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C.E. Gadda, La cenere delle battaglie (1951), in Id., I racconti, Milano, Garzanti, 1972, p. 292. ↑
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Cfr. Id., La cognizione del dolore, cit., pp. 176, 400 e 413. ↑
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Cfr. A. Andreini, Studi e testi gaddiani, cit., pp. 29-34. ↑
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C.E. Gadda, Dalle specchiere dei laghi (1941), in Le meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino, Einaudi, 1964, pp. 19-20. ↑
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Cfr. S.S. Nigro, La tabacchiera di don Lisander (1996), Torino, Einaudi, 2012, pp. 64-65. ↑
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A. Andreini, Studi e testi gaddiani, cit., p. 23. ↑
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C.E. Gadda, Dalle specchiere dei laghi, in Le meraviglie d’Italia. Gli anni, cit., p. 21. ↑
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R. Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento, cit., p. 92. ↑
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G. Contini, Premessa su Gadda manzonista, in «L’approdo letterario», nuova serie, XIX, 1973, p. 52. ↑
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C.E. Gadda, Apologia manzoniana, in Racconto italiano di ignoto del novecento (1924), a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 1983, pp. 207-208. ↑
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Cfr. Note, in A. Manzoni, I promessi sposi (1840), a cura di F. de Cristofaro, G. Alfano, M. Palumbo, M. Viscardi, saggio linguistico di N. De Blasi, Milano, Rizzoli, 2014, p. 1073. ↑
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Cfr. R. Palumbo Mosca, L’ombra di Don Alessandro. Manzoni nel Novecento, cit., pp. 96-99. ↑
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C.E. Gadda, La Scapigliatura milanese, in «L’illustrazione italiana», 1949, p. 117. ↑
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Id., L’editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore, in La cognizione del dolore, cit., pp. 481-482. ↑
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Cfr. G. Nava, C. E. Gadda lettore di Manzoni, in «Belfagor», XX, 3, 1965, p. 343. ↑
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C.E. Gadda, Meditazione milanese (1928), a cura di G.C. Roscioni, Torino, Einaudi, 1974, p. 29. ↑
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C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, cit., vol. II, p. 751. ↑
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C.E. Gadda, Meditazione milanese, cit., p. 187. ↑
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Id., La cognizione del dolore, cit., pp. 175 e 178. ↑
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A. Manzoni, Introduzione, in I promessi sposi, cit., pp. 83-84. ↑
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Cfr. M. Viscardi, Scheda dell’opera, in A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 48. ↑
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A. Manzoni, Del romanzo e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (1845), in Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, diretta da G. Vigorelli, vol. XIV, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000, p. 12. ↑
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C.E. Gadda, Meditazione breve circa il dire e il fare, in I viaggi e la morte (1958), Milano, Garzanti, 1977, p. 24. ↑
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Id., Meditazione milanese, cit., p. 251. ↑
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Cfr. C. Bologna, Il filo della storia. «Tessitura» della trama e «ritmica» del tempo narrativo fra Manzoni e Gadda (1998), in «The Edinburgh Journal of Gadda Studies», URL https://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/archive/influences/bolognfilo.php, consultato il 10 dicembre 2023. ↑
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C.E. Gadda, Racconto italiano di ignoto del novecento, cit., p. 8. ↑
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Id., Apologia manzoniana, in Racconto italiano di ignoto del novecento, cit., p. 205. ↑
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Id., Racconto italiano di ignoto del novecento, cit., p. 8. ↑
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Cfr. E. Manzotti, Introduzione, in La cognizione del dolore, cit., pp. XXIII-XXVI. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., pp. 355-356. ↑
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Ivi, p. 226. ↑
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Non priva di interesse, a proposito, la costruzione strutturalmente manzoniana del personaggio del medico Higueróa, per la quale cfr. A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della Cognizione del dolore, cit., pp. 119-126. ↑
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Ivi, p. 79. ↑
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Cfr. E. Manzotti, Introduzione, in C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., pp. VIII-IX. ↑
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Ivi, p. XX. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 284. ↑
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Ivi, pp. 421-423. ↑
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Cfr. E. Manzotti, Note, in C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., pp. 421-423. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 421. ↑
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Ivi, p. 112. ↑
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G. Contini, Premessa su Gadda manzonista, cit., p. 51. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 432. ↑
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Ivi, pp. 424-425. ↑
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Cfr. A. Pecoraro, Gadda e Manzoni. Il giallo della Cognizione del dolore, cit., pp. 123-126 e p. 134. ↑
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N. Giannetto, Rassegna sulla parodia in letteratura, in «Lettere italiane», XXIX, 4, 1977, p. 469. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 393. ↑
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Cfr. ivi, pp. 453-461, e cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cit., p. 287. ↑
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C.E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., pp. 374-375. ↑