L’istanza poetica nel romanzo e nel cinema del Novecento: tra Debenedetti e Pasolini
1. Debenedetti e il romanzo del Novecento
Irrumpit Novecento: così si intitola l’introduzione al libro che raccoglie quaderni preparatori alle lezioni di letteratura tenute da Giacomo Debenedetti – Il romanzo del Novecento. Il nuovo secolo invade il campo della letteratura, e di tutte le arti, mettendo in discussione la storia che ne avevano formato il Sette e l’Ottocento. L’«avvenimento» della Repubblica delle lettere è il romanzo1.
È il genere per eccellenza secondo Debenedetti, quello in cui è più immediatamente riconoscibile un cambio di paradigma. E il motivo sta probabilmente nel fatto che il romanzo, rispetto alla poesia, genere ‘alto’, ‘difficile’, ‘intraducibile’ per eccellenza, resta sempre una categoria letteraria ‘seconda’, e quindi più libera di trasformarsi2. Ciononostante, l’Ottocento è il secolo in cui il romanzo entra a pieno titolo tra i generi canonici, grazie almeno ad un altro avvenimento importante: il naturalismo, prima corrente letteraria che si propone un approccio alla realtà (e, quindi, una scrittura di questa) attraverso gli stessi metodi usati nelle scienze naturali. Un approccio scientifico – o, meglio, positivistico – alla realtà e alle grandi storie che la raccontano e la restituiscono sulla pagina del romanzo. Nel Novecento, poi, tale fiducia nella mimesi della realtà, saldata sul paradigma naturalistico, è travolta da trasformazioni che investono tutti i campi dell’esistente. È questa la premessa del discorso debenedettiano, riassunto da Montale nella Presentazione allo stesso libro di cui sopra:
Morte del romanzo naturalista, avvento del romanzo espressionista e anche del simbolista (Kafka?), irruzione della psicoanalisi nella tecnica o nel cuore stesso dell’arte narrativa, personaggi che sfuggono dalle mani dei loro burattinai, violento o pacifico, esborso di “monologo interiore”, proustiane intermittenze del cuore ed epifanie dei personaggi di Joyce, ecco la materia di lezioni che nei quaderni formano un blocco ininterrotto. Il critico, il docente che forse sorprese gli increduli ascoltatori, giuoca col suo tema centrale: la difficoltà, forse l’impossibilità, di scrivere, come il gatto con il topo: lo prende, lo lascia fuggire, lo riprende. Alla fine (se fine ci sarà) il topo potrà risultare incommestibile3.
In effetti, Debenedetti avvia il suo ragionamento ‘annunciando’ la «morte del romanzo naturalista». I primi anni del Novecento sono, infatti, caratterizzati da una letteratura ‘di passaggio’, e il romanzo nuovo nasce solo nel 1920 con il Tozzi dei Ricordi di un impiegato. È la letteratura degli autori della «Voce», ad esempio, o della «Ronda»: «un periodo di questa nostra letteratura che, per esprimersi, non sentì il bisogno di narrare». È una letteratura che fugge dal racconto, il cui narratore «ha paura» o forse è incapace di scrivere. A volergli dare un nome, è il periodo del frammentismo. Qui ha inizio la riflessione:
(le) classificazioni e categorie con la desinenza in “ismo” sembrano riassumere un fenomeno letterario o artistico, raccogliendolo sotto un’etichetta che ha tutta l’aria di voler essere esauriente. In realtà mettono in pace la coscienza di chi pronuncia uno di questi nomi in “ismo”, gli fanno credere – se è ingenuo – di aver detto tutto, o – se è un po’ meno ingenuo – di averla data a bere a chi ascolta4.
Si tratta di una generazione i cui scrittori giustificano la loro inadeguatezza a scrivere come una volta in nome di un’impossibilità di narrare nel nuovo secolo, in cui chi si sente chiamato alla narrativa – è il caso di Federigo Tozzi, al quale Debenedetti riconosce il merito di aver fatto rinascere il romanzo – è quasi costretto a chiedere il permesso, a chiedere scusa5. Seppur mantenendosi su una forma di racconto ‘frammentata’, l’autore di Bestie (1917) dimostra la capacità di ricongiungere i frammenti e di fare della narrazione un tutto e del romanzo una forma. Il ragionamento del critico è articolato, e passa in rassegna i titoli fondamentali dei grandi autori del XX secolo. Una fase intermedia è rappresentata dalla figura di Pirandello: l’autore di Si gira (1915), infatti, ben si colloca in quella parte del discorso di Debenedetti sullo sciopero dei personaggi, altra caratteristica della letteratura novecentesca6. Nel Fu Mattia Pascal (1904) Debenedetti legge un fallimento del tentato smascheramento del protagonista, e a monte dell’autore. Nel senso che il romanzo egemone sui generi letterari (prima, quindi, del passaggio al nuovo secolo) era «una piena assunzione di responsabilità del romanziere di fronte ai personaggi e alle loro vicende»7, e questa responsabilità resta al più parziale in Pirandello. Debenedetti dimostra una certa ‘preferenza’ per il nuovo romanziere: nella difficoltà del reale egli sa di non sapere e, nella sua incapacità/impossibilità di controllo sui personaggi scioperanti, se ne assume più responsabilità. In tal senso, non è casuale l’uso del termine regista in riferimento all’autore naturalista: «demiurgo e regista del mondo/spettacolo/dramma di vivi che si raffigurava sotto i nostri occhi». Certo, l’autore di Uno, nessuno, centomila (1926) resta un pilastro della letteratura italiana8, ma la direzione del ragionamento riconosce i capostipiti in Joyce e Proust, in rapporto ai quali Il romanzo del Novecento ritrae anche ‘l’altro italiano’ – Svevo ‘psicanalitico’.
James Joyce e Marcel Proust sono i primi veri romanzieri del Novecento. In loro resta, come in Tozzi, lungi dall’essere una giustificazione di incapacità narrativa, una sorta di frammentismo – che è di per sé il riflesso dell’impossibilità nel XX secolo di raccontare un’organicità che non esiste più e dell’incapacità dell’io di (ri)posizionarsi in una realtà sconosciuta quando non ostile. È la cultura del Novecento, la sua Storia. Ed è una potenzialità per la letteratura, laddove il frammento diventa una modalità di ri-approccio dell’io-uomo e scrittore9 alla realtà raccontata, e cambia «il rapporto tra il personaggio e il mondo, il modo del personaggio di esserci nel mondo». Il frammentismo diventa la possibilità per il romanzo di (ri)nascere a partire da uno sguardo che, più che romanzesco, risulta poetico. In Joyce, ad esempio, il dispositivo epifanico diventa anche la possibilità di contaminare la pretesa di organicità della mimesi romanzesca con un’istanza lirico-soggettiva. E in Proust, nei momenti di ‘intermittenze del cuore’ la concatenazione di eventi che produce la cadenza romanzesca viene interrotta per ritrovarne un tempo ‘altro’. Si tratta di momenti in cui i romanzi esprimono una profonda vocazione poetica rispetto alla realtà raccontata: è la svolta del Novecento10.
Il romanzo nella definizione di Debenedetti scopre il «punto di infiltrazione» tra durata interiore – quella generalmente associata allo scrittore lirico – e vita attiva e documentaria – quella dello scrittore epico –; la sua sostanza sta negli «accidenti» (i frammenti) e nella loro integrazione:
Vuol dire che, mentre una volta bastavano i massimi traguardi dell’anima, le mete, i luoghi deputati dove l’anima fa specchio a sé stessa e si riconosce e riassume le note del suo poema eterno, d’ora in poi lo specchio sarà portato lungo la strada: verrà data la caccia ai piccoli fatti, in cui il sentimento via via si sfaccetta sulla continuità del tempo11.
È il sentimento di un tempo esterno, quello della vita nuova a cui è costretto l’io del Novecento. In certi casi, poi, questo tempo incontra quello interno, come nelle epifanie di Joyce e nelle intermittenze del cuore di Proust – veri e propri metodi narrativi12.
Le epifanie sono un «fenomeno di seconda vista per cui la cosa, percepita nell’oggettività materiale, naturale del suo apparire, invita a scorgere ed effettivamente fa scorgere qualche cosa d’altro»13. Ecco la poeticità del romanziere nel secolo del frammento:
Lo sconfinamento di questi oggetti o fatti in qualcosa che sta dietro di loro, di là da loro, e mette intorno ad essi un alone da cui sembrano emanare messaggi: tutto questo dipenderà dal dono poetico del romanziere, non è l’obiettivo della sua specifica ricerca di narratore. […] Il narratore, il poeta, non consentirà con sé stesso, non sarà persuaso di possedere l’oggetto, finché non l’avrà epifanizzato14.
Ritorna il concetto di tempo esterno/interno, laddove i momenti epifanici esulano dalla generica e ‘normale’ cronologia: fanno parte di un’immediatezza altra, non-naturalistica:
l’oggetto per tal modo diventa statico. “Sebbene possa avere tutto il tempo come argomento, è squisitamente senza tempo”. In altri termini ha ghermito un aspetto del tempo eterno, irrelativo, fuori di ogni misurazione, perché sempre uguale a sé stesso, e ha perduto il tempo della clessidra e dell’orologio, ch’era quello specifico della narrativa tradizionale. Tutto questo dipende dall’aver sentito che le cose dicono qualcos’altro da ciò che è scritto nella loro immediata presenza, e che quell’altro, quel segreto, quella realtà seconda è la sola qualità che le renda degne di essere raffigurate. A noi importa che si senta l’esigenza di rivelare quella realtà seconda. È il tema del nuovo romanzo15.
Il pensiero va direttamente, a questo punto, a Proust, autore della Recherche (del tempo perduto e ritrovato). Il tempo perduto è quello in cui i momenti epifanici si negano all’io, che si ammala della loro mancanza, finché realizza la ‘non volontarietà’ dell’epifania, che prende per questo stesso motivo il nome di ‘intermittenza del cuore’. È il momento di rottura, di infiltrazione tra tempo esterno e tempo interno: così, il tempo perduto diventa come un deposito di epifanie interrotte, riscattate dalle intermittenze nel tempo ritrovato:
Ecco, dunque, che cos’è un’intermittenza del cuore: un risorgere del tempo perduto, di un tratto del tempo perduto, grazie all’opera meglio la si chiamerebbe l’intercessione della memoria involontaria stimolata da una sensazione, da un oggetto, che talvolta con quelle immagini, con la viva e folta anima di quelle immagini, ha poca somiglianza, poche analogie, spesso puramente casuali16.
D’ora in poi l’oggetto non sarà mai solo un oggetto: è la poesia nel nuovo romanzo, ed è l’interruzione del flusso narrativo, del tempo esterno, alla ricerca di una seconda vita. Il romanzo nuovo, dice Debenedetti, arriva alla quasi completa eliminazione della vicenda, perché il suo più tipico assunto è di immobilizzare le cose per estorcerne la rivelazione. Così il cinema: non a caso, Debenedetti associa il discorso cinematografico ai momenti poetici del romanzo – e epifanie e le intermittenze del cuore corrispondono, nel linguaggio filmico, a fotogrammi immobilizzati che hanno l’analogo effetto di distruggere il film come azione17–. L’esigenza non sta più nel narrare le cose, ma le loro epifanie e tempi ritrovati, solo apparentemente a scapito del romanzo, anzi, «disoccultando» ciò che il romanzo naturalista aveva occultato.
Obiettivo che la storia letteraria tende ad associare quasi esclusivamente alla poesia18.
2. Il cinema secondo Pasolini
È quasi immediato pensare, a questo proposito, all’autore più poliedrico del XX secolo, il poeta-regista Pier Paolo Pasolini.
Nel 1972 esce Empirismo eretico, un tentativo di dare ordine al suo pensiero estetico, soprattutto in merito a una teoria ‘letteraria’ del cinema. Il libro, infatti, è diviso in tre sezioni: la terza, Cinema, si appoggia sulle due ‘sorelle maggiori’ – le prime due sezioni Lingua e Letteratura. Il cinema è, per Pasolini, la «lingua scritta della realtà», e per questo motivo se ha dei fondamenti di tipo linguistico li deduce da una fonte altra, non teorica ma estremamente pragmatica: la realtà stessa. E, rispetto alla letteratura, nonostante non comunichi tramite il codice linguistico delle ‘sole’ parole, anche il cinema racconta. E aggiunge le immagini19.
Pasolini arriva a spiegarsi in quanto autore che sceglie di avvalersi di due penne, l’una letteraria e l’altra cinematografica. Ora, essendo il cinema la «lingua della realtà», esso è molto più vicino alla letteratura di quanto sembra. È il mezzo che fa la differenza: il film permette, infatti, di tradurre la realtà – cosa che fa a tutti gli effetti anche lo scrittore – ma permette di farlo allo stesso tempo riproducendola. Il cinema è non-verbale – non ha tra sé e la realtà il filtro scritto-parlato della parola – ma insieme è «altra verbalità». La letteratura, invece, per farsi è proprio nella parola che trova il suo primo e ultimo mezzo a disposizione. E quindi la scrittura traduce, sì, la realtà, ma non può far altro che evocarla, nonostante il massimo sforzo di descrizione naturalistica – sta poi al lettore, capace di produrre cinema mentale20, vederla.
Come la letteratura, dunque, si può affermare con Pasolini che anche il cinema – la cui scrittura ‘normalmente’ si riconosce in fase di sceneggiatura21 – si divide in prosa e poesia e che, se a priori guarda al romanzo, è con la scrittura in versi che raggiunge la forma22.
Anche Pasolini, come Debenedetti, avvia la sua riflessione a partire dal problema del naturalismo. O, meglio, a partire dalla ‘paura’ del naturalismo. Il cinema è una lingua espressiva, astratta, anche se le immagini a cui si riferisce, e che formano di volta in volta il suo dizionario, sono concrete. Rispetto alla letteratura, quindi, il genere del cinema è per forza di cose la poesia, e la sua lingua è una «lingua di poesia». È o dovrebbe essere: storicamente, infatti, la tradizione cinematografica che si è formata è quella di una «lingua della prosa», o almeno di una «lingua della prosa narrativa», comunque una prosa «particolare» perché il cinema resta un linguaggio di per sé irrazionalistico. Secondo Pasolini c’è stata una parabola: il cinema degli inizi era spettacolare pur senza volerlo, per il fatto stesso di essere cinema. La spettacolarità lo ha portato a essere popolare, a una quantità di consumatori inimmaginabile per tutte le altre forme espressive, ma che erano abituati a queste più che al film. Ed ecco l’uniformarsi del cinema con il teatro e il romanzo: a questo punto ci sono casi in cui rimane la giusta distanza, dove la lingua-cinema mantiene le sue qualità particolari, e casi in cui si fa naturalistica e oggettiva:
Tale convenzione narrativa appartiene indubbiamente, per analogia, alla lingua della comunicazione prosastica: ma con tale lingua essa ha in comune solo l’aspetto esteriore – i procedimenti logici e illustrativi – mentre manca di un elemento sostanziale della «lingua della prosa»: la razionalità. Il suo fondamento è quel sotto-film mitico e infantile, che, per la natura stessa del cinema, scorre sotto ogni film commerciale […]. Tuttavia, anche i film d’arte hanno adottato come loro lingua specifica questa «lingua della prosa»: questa convenzione narrativa priva di punte espressive…23
La contraddizione è, dunque, che nei suoi primi decenni di vita la tradizione della lingua cinematografica è tendenzialmente naturalistica e oggettiva. Pasolini la definisce una «contraddizione così intrigante, che va osservata bene» – perché fa del cinema un’arte che è insieme estremamente soggettiva ed estremamente oggettiva. Una contraddizione che in letteratura si risolve distinguendo il «linguaggio della poesia» dal «linguaggio della prosa», ma che al cinema crea una coesistenza così stretta che non permette separazioni: «attraverso le parole io posso fare, compiendo due operazioni diverse, una «poesia» o un «racconto». Attraverso le immagini, almeno finora, io posso fare soltanto del cinema»24.
Nel corso della breve storia del cinema prima di Pasolini, più o meno cinquant’anni, i termini sono questi. Ma la Francia di Godard scatena un’onda nuova, che tende verso un «cinema di poesia». La domanda che ci si pone a questo punto è come sia teoricamente spiegabile e praticamente possibile, nel cinema, la «lingua della poesia». La risposta sta nella volontà di esprimere soggettività, di rappresentarla. Tale volontà accomuna la letteratura poetica (o anche certa letteratura di prosa) con il cinema, che è di per sé la mostrazione di mondi che appartengono ai personaggi25.
Secondo la teoria pasoliniana, il cinema (come suggerisce Alberto Moravia) è, sì, naturalista, ma tale definizione risulta estremamente riduttiva rispetto alle potenzialità che l’autore-regista riconosce nei films:
Tutti sostengono che il cinema è sostanzialmente naturalistico.
Io oso infatti dire: «Se attraverso il linguaggio cinematografico io voglio esprimere un facchino, prendo un facchino vero e lo riproduco: corpo e voce».
Allora Moravia ride: «Ecco, il cinema è naturalistico, come vedi. È naturalistico, è naturalistico! Ma il cinema è immagine. E solo rappresentando un facchino muto (bene) tu puoi fare del cinema in qualche modo non naturalistico.»
«Niente affatto,» dico io, «il cinema è <semiologicamente> una tecnica audiovisiva. Quindi facchino in carne, ossa e voce.»
«Ah, ah, il neorealismo!» fa Moravia.
«Sì, io, facendo del cinema – non un mio film – facendo del cinema, se devo esprimere un facchino lo esprimo prendendo un facchino vero, con la sua faccia, la sua carne e la lingua con cui lui si esprime.»
«Ah no, qui ti sbagli,» è Bernardo Bertolucci che lo dice, «perché far dire a un facchino quello che dice lui? Bisogna prendere la sua bocca, ma dentro la sua bocca bisogna mettere delle parole filosofiche (come suol fare Godard, naturalmente).»
Qui finisce la discussione26.
Pasolini afferma che il cinema è naturalistico, come il romanzo, ma non lo sono i suoi film. Il film è poesia. Ecco, i termini cinema e film non vengono mai usati indistintamente, ma sempre in riferimento a un tipo di approccio al racconto della realtà, e, soprattutto, rispondono al problema del naturalismo27.
Pasolini non è un regista di cinema, o almeno non vorrebbe esserlo. Lui realizza film. E secondo la sua poetica, non solo osserva la realtà e quindi il cinema (piano-sequenza), ma ne fissa le parti (montaggio) sulle quali poi costruisce il film:
Nei miei films il piano-sequenza praticamente non c’è! È quasi del tutto ignorato […] io evito il piano-sequenza: perché esso è naturalistico, e quindi…naturale. Il mio amore feticcio per le «cose» del mondo, mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno intensamente, una per una. Nel mio cinema, perciò, il piano-sequenza è completamente sostituito dal montaggio. La continuità e l’infinità lineare di quel piano-sequenza ideale che è il cinema come lingua scritta dell’azione, si fa continuità e infinità lineare «sintetica», per l’intervento del montaggio28.
Di nuovo c’è da compiere una scelta, che fa la differenza tra il cinema e il film: tra l’essere di quegli autori che, nell’illusione di avvicinarsi al Cinema come pura riproduzione del reale, cercano, per un loro amore bonario e naturalistico delle cose del mondo, di restituire nei loro film la linearità analitica, che abbia il più possibile la durata della realtà; o di quei registi che sono invece per un montaggio che renda tale linearità il più possibile sintetica. Pasolini è un regista.
La differenza sta nello sguardo, che nel caso del cinema è uno sguardo maggiormente oggettivo sulla realtà, naturalista, da romanzo, da film in prosa; al contrario, il film in versi è frutto di uno sguardo fortemente autoriale. Anche in questo caso, come per la poesia, non è la storia a cambiare cinema e film possono avere anche la stessa trama, sempre vera o verosimile: è il discorso a farla da padrone, il modo di raccontare – la tecnica29. E torna anche la questione del lettore, ora spettatore, in rapporto al film e, ancor prima, al suo autore. Registi assai diversi come Antonioni, Bertolucci o Godard, segnalano, attraverso la tecnica, al di sotto della narrazione, la loro presenza autoriale: si fa così un film sotterraneo, che manifesta tutta la sua forza nell’uso delle ‘firme’ dei registi nei loro prodotti cinematografici30.
Il «cinema di poesia» è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come ispirazione, nella maggior parte dei casi, poetica. I registi feriscono continuamente i propri spettatori, interrompendo i tempi delle loro storie restituendo al pubblico un film ‘a pezzi’, dove la narrazione supera la mera narratività e guarda altrove, ad uno stile che contribuisce a riposizionare l’io (filmico-poetico) nella realtà novecentesca31. Tutto questo significa una lingua speciale, fatta di stilemi cinematografici in cui «si sente» la macchina da presa al fine di intrecciare alla parola dei personaggi, o alla loro soggettività, in modo spesso indistinguibile, la parola di una seconda istanza soggettiva, che plasma l’occhio stesso della cinepresa, il mondo rappresentato. Nei film in poesia la cinepresa fa le veci dell’autore riconoscibile, invisibile nei film in prosa.
Ecco, dunque, che anche il cinema nel corso del Novecento è in un certo senso costretto al cambiamento, a superare la definizione di racconto per immagini della realtà, oltre la rappresentazione verso una restituzione autoriale di quella stessa realtà. Da romanzesco/naturalistico il cinema deve farsi poetico.
3. Poesie di cinema: La religione del mio tempo
Si è riconosciuto, nell’opera prima del Pasolini-regista, una summa dei due romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Alberto Moravia vi riscontra un tipo di scrittura anticipatrice del cinema di Accattone (1961), in un ragionamento che quindi vede, come al solito, nel romanzo una premessa al cinema32. A ben vedere, insieme alle riflessioni che porteranno Pasolini a voler, effettivamente, ‘tradurre’ o, meglio, ‘riscrivere’ i suoi romanzi in un film, il poeta compone una raccolta che uscirà nello stesso anno di Accattone: La religione del mio tempo33. È, questo, un ulteriore suggerimento di una pratica creativa che pensa, attraverso il poetico, romanzo e cinema come due codici che non si escludono a vicenda.
Certo, gioca un ruolo anche la stessa temperie culturale che porta Pasolini a ‘virare’ verso il cinema (come regista, si ricordi che è già almeno sceneggiatore) probabilmente mentre sta scrivendo La religione del mio tempo (sono gli anni che vanno dal 1955 al 1960). Prima, infatti, di una lettura dell’opera che si intende definire ‘poesia di cinema’, è bene contestualizzarla nel Pasolini degli anni Sessanta.
Il tema centrale di tutta la raccolta è costituito dal rapporto tra ideologia e poesia: il Pasolini della crisi degli anni Sessanta stigmatizza il coevo stadio del capitalismo e, insieme, la «desistenza rivoluzionaria»34, e ambienta le sue poesie nei luoghi – quasi astorici – del Friuli o delle borgate romane35. «Le opinioni politiche del mio libro non sono solo opinioni politiche, ma sono, insieme, poetiche; hanno cioè subito quella trasformazione radicale di qualità che è il processo stilistico»36. Processo riconoscibile sicuramente dalle precedenti opere pasoliniane – l’autore spesso, come a voler riassumere il suo stile, recupera soluzioni formali già usate – ma che segue una nuova direzione e guarda al cinema per avvicinarsi alla realtà. D’altronde, le criticità tematiche delle precedenti Ceneri di Gramsci (1957), le ossessioni di cui Pasolini scrive in ogni sua opera si fanno, nella Religione del mio tempo, ineluttabili e irrisolvibili37: è, dunque, a maggior ragione necessario renderne la realtà, aderirvi sempre di più. Nella lettura critica della Religione, infatti, si è spesso associata la scrittura ‘per strofe’ della raccolta alla rappresentazione ‘per sequenze’ dei film, tutto sotto il segno del voler rendere integralmente l’evento38. In tal senso, il destinatario di questo tipo di scrittura, più che lettore, è un osservatore/spettatore che, insieme alla penna di Pasolini, si ferma sui dettagli delle poesie, e dei loro racconti, come la macchina da presa su quelli di un film, o, come più avanti, lo sguardo su una raffigurazione pittorica.
È evidente che il cinema a cui si fa riferimento è lo stesso teorizzato da Pasolini, il cinema di montaggio, dove le sequenze appaiono costantemente ‘interrotte’ da stacchi/battiti di ciglia dell’autore-regista. Più precisamente, si tratta del cinema di poesia, laddove chi dice io nella scrittura in versi restituisce un racconto certo più autoriale dello scrittore romanzesco. Risulta interessante la contemporaneità delle scritture: della Religione con il primo film Accattone e con la teoria del cinema pasoliniana (la maggior parte degli interventi raccolti nell’Empirismo eretico risalgono agli stessi anni Sessanta). Lo sguardo è singolo ma plurale, è del poeta-regista e dello spettatore: questo è un ulteriore motivo per cui le strofe-sequenze della Religione richiamano anche un linguaggio diverso, meno espressionistico-poetico e più vicino alla ‘dizione della realtà’39: la lingua della poesia ‘si abbassa’ al livello della prosa, e il discorso si mimetizza con il reale. È una messa in discussione di sé in quanto autore ‘normalmente’ poetico, ma anche della poesia in quanto genere ‘alto’: il secondo Novecento «non sa più che farsene né della poesia né dei poeti»40. In tal senso, risulta interessante affiancare il ‘rifiuto del privilegio lirico’ di Pasolini in questa raccolta con la sua immedesimazione, o il suo tentativo di inserirsi, nel mondo del sottoproletariato romano, protagonista non solo del poemetto in apertura della Religione del mio tempo – personaggio di gran parte della raccolta –, ma anche del film Accattone. E il ‘mito’41 del popolo assorbe, spesso autobiograficamente, anche quello scontro tra passione e ideologia che, al di là delle istanze formali, è un ulteriore elemento ‘rivisitato’ almeno dalle Ceneri di Gramsci.
Quella de La religione del mio tempo è una scrittura, specificamente nelle sue sezioni più articolate, ‘in movimento’. Le sequenze di cui si struttura la raccolta restituiscono quella che al cinema è la panoramica: La religione è una lunghissima panoramica del ‘tempo di Pasolini’. In tal senso sono particolarmente eloquenti i poemetti La ricchezza e La religione del mio tempo.
Non è casuale, considerato quanto sottolineato in precedenza, che il ‘protagonista’ del primo dei sei ‘capitoli’ de La ricchezza (1955-59), il poemetto in apertura alla raccolta, sia un operaio romano, «col suo minuto cranio, le sue rase/mascelle». Il personaggio viene raccontato come in un film, in una sequenza in tre tempi/inquadrature: dapprima, l’ingresso dell’operaio nella chiesa di S. Francesco ad Arezzo – ci si potrebbe immaginare, in tal caso, il personaggio inquadrato di spalle, in un campo lungo che per il momento evidenzia l’imponenza dell’ambiente rispetto alla figura umana. Il personaggio ‘ha timore’, è ‘indegno’ rispetto a ‘queste pareti/in questa luce’:
Fa qualche passo, alzando il mento,
ma come se una mano gli calcasse
in basso il capo. E in quell’ingenuo
e stento gesto, resta fermo, ammesso
tra queste pareti, in questa luce,
di cui egli ha timore, quasi, indegno,
ne avesse turbato la purezza…42
Successivamente, Pasolini lo descrive mentre guarda le «volte ardenti» e, in primo piano, «su noi punta un attimo i caldi occhi», come un poetico sguardo in macchina – è un modo per i lettori/spettatori di entrare nella sua soggettiva:
Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penombra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto… Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte…43
Nel terzo tempo della sequenza si ammirerà il ciclo pittorico nel coro della chiesa, della Leggenda della croce di Piero della Francesca. È una questione di sguardo: la soggettiva dell’operaio si sposta, e insieme l’occhio dello spettatore – «Ma di lì già l’occhio cala, / sperduto, altrove… Sperduto si ferma / sul muro in cui, sospesi, / come due mondi, scopre due corpi…». Finché sbircia ‘se sia giunto il momento di uscire’, di tornare ‘al via vai che qui ronza attutito’ che richiama il personaggio ‘agli atti quotidiani, ai gai schiamazzi della sera’.
E non è un caso, sempre in relazione al cinema, che ci si trovi davanti a una raffigurazione pittorica. Sia la scrittura poetica della Ricchezza sia quella cinematografica della «trilogia della borgata», di cui fa parte Accattone, guardano e fanno guardare come si guarda un quadro44: si restituisce, così, una sorta di plasticità ai versi nel momento della lettura, e al ‘personaggio’ protagonista, lui, sì, di fronte a un dipinto. Se il lavoro sul frammento modula il linguaggio filmico adottato dalla trilogia – si pensi alla «panoramica a stazioni», sintagma cinematografico per cui ci si ferma su personaggi e ambienti come si fa davanti a un quadro –, si può affermare che La ricchezza ‘panoramichi’ alla stessa maniera, sempre in movimento, di sequenza in sequenza, con uno sguardo comune: una soggettiva dell’operaio, e del lettore con lui, sul dipinto, in «una struttura itinerante e deambulatoria, che si dichiara come fondante tutti i poemetti di Pasolini, dove il passo, il viaggio, l’andatura rispondono alla funzione argomentativa, che illustra e riflette accompagnando lo sguardo»45. E in tutta la durata del poemetto, in tutti i suoi ‘capitoli’, da Arezzo a Roma, il movimento resta una costante: il lettore/spettatore è un passeggero di qualunque mezzo permetta di percorrere gli spazi-ambientazioni delle varie ‘stazioni’ del poemetto, laddove la panoramica dura quanto il poemetto stesso. In Ricordi di miseria, ad esempio, il ‘vecchio autobus delle sette’ che dal capolinea di Rebibbia arriva – nel successivo La ricchezza del sapere – al Portonaccio, è un espediente che permette un movimento dell’osservatore ideale passeggero. Inoltre, la parabola ‘ascendente’ del tragitto, che giunge alle fermate dei tram ‘che non arrivano mai’ che conducono alle ‘strade dei quartieri tranquilli’46, propone le due componenti di sottoproletariato e borghesia. A tal proposito, la contraddizione tipica pasoliniana:
Ma in questo mondo che non possiede
nemmeno la coscienza della miseria,
allegro, duro, senza nessuna fede,
io ero ricco, possedevo! […]
L’essere povero era solo un accidente
mio (o un sogno, forse, un’inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di Dio…)
Mi appartenevano, invece, biblioteche,
gallerie, strumenti d’ogni studio […]47.
Risulta evidente la volontà di adesione ad un mondo che non appartiene all’autore, che ne è consapevole, ma che resta a guardarlo, ad ammirarlo e restituirlo ‘poeticamente’48. E la restituzione assume la forma di piani-sequenza e soggettive di ‘passeggeri quotidiani’ personaggi de La ricchezza. Gli stacchi di montaggio, poi, interrompono la continuità della narrazione – è il caso dei frequenti enjambements: in tal senso, se il cinema è la lingua scritta della realtà, il pensiero metrico è la lingua scritta della poesia. È l’antinaturalismo di cui sopra49.
Il riferimento al cinema si fa palese nella Riapparizione poetica di Roma che ‘cova gli invisibili rioni’: il poemetto apre, nei due capitoli successivi, le porte della città di Rossellini50. Sempre in movimento (discendente) attraverso la capitale, nella realtà:
Dove vai per le strade di Roma,
sui filobus o i tram in cui la gente
ritorna?…
Nel quartiere borghese, c’è la pace
di cui ognuno dentro si contenta,
anche vilmente, e di cui vorrebbe
piena ogni sera della sua esistenza…
Va, scendi, lungo le svolte oscure
del viale che porta a Trastevere…
E come odora, nel caldo così pieno
da esser esso stesso spazio,
il muraglione, qui sotto:
da ponte Sublicio fino sul Gianicolo
il fetore si mescola all’ebbrezza
della vita che non è vita.
Impuri segni che di qui sono passati
vecchi ubriachi di Ponte, antiche
prostitute, frotte di sbandata
ragazzaglia: impure tracce
umane che, umanamente infette,
son lì a dire, violente e quiete,
questi uomini, i loro bassi diletti
innocenti, le loro misere mete51.
La descrizione, come è evidente, risulta accuratissima, piena di particolari che coinvolgono anche altri sensi: oltre allo sguardo, qui viene proposto l’odore/fetore della strada percorsa. E da percorrere ancora, fino alle terme di Caracalla: «Vanno verso le Terme di Caracalla», e il poeta, pur consapevolmente privilegiato, come un testimone, li segue («col mio vecchio, col mio stupendo privilegio di pensare», «Testimone e partecipe di questa bassezza e miseria»), «Vado anch’io verso le Terme di Caracalla». In questo momento della raccolta, Pasolini si definisce ‘osservatore’ e i lettori assumono inevitabilmente il suo stesso punto di vista, la sua soggettiva ‘estranea’: «Li osservo, questi uomini, educati / ad altra vita che la mia: frutti / d’una storia tanto diversa, e ritrovati, / quasi fratelli, qui, nell’ultima forma / storica di Roma». Fino alla Roma nel cinema,
ecco…la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini…
ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano
le tetre forme della dominazione nazista…
Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia52.
Non può non venire in mente al lettore/spettatore di questo movimento la scena dell’urlo a cui Pasolini fa riferimento: Anna Magnani diventa, così, il simbolo di quella disperata vitalità, che nel cinema trova la sua più completa rappresentazione. Pasolini la descrive precisamente, con le sue ciocche e le sue occhiate vive e mute, le stesse di Mamma Roma. Rispetto a La ricchezza, dunque, è possibile una ricostruzione dei capitoli come ‘tempi’ di un film, che in versi si traduce in un viaggio soprattutto romano fino alla Proiezione al «Nuovo» di «Roma città aperta». La visione del film suscita nel Pasolini spettatore, e poi autore dell’ultimo ‘capitolo’ del poemetto, una riflessione sul ‘suo tempo’ (Chi fui? Che senso ebbe la mia presenza in un tempo che questo film rievoca ormai così tristemente fuori tempo?). Si tratta della prima di tante citazioni dirette al mondo del cinema, sempre funzionali al racconto della Religione.
Nella seguente ode A un ragazzo (1956-57), ad esempio, la dedica è a «Bernardo Bertolucci, figlio del poeta Attilio Bertolucci, e ora bravissimo poeta lui stesso», e regista di Prima della Rivoluzione53. Ma A un ragazzo è soprattutto un caso di autobiografismo ‘familiare’, come è frequente in Pasolini, e come già anticipavano le ultime strofe de La ricchezza. Si tratta di un’elegia al fratello Guido caduto partigiano nella Venezia Giulia e il racconto dettagliato di una sequenza che potrebbe intitolarsi ‘l’ultimo incontro’. Dopo una serie di inquadrature sul luogo, la stazione da cui partirà il treno di Guido, un caso di soggettiva dello stesso Pasolini, che lo guarda allontanarsi:
Era un mattino in cui sognava ignara
nei ròsi orizzonti una luce di mare …
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,
la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e degli sterpi, solo sopra l’erba
del binario, attendeva il treno per Spilimbergo…
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,
dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella,
nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta
ch’era stata mia, la nuca giovinetta…54
È l’«altro figlio» di cui si leggerà nell’Appendice alla “Religione”: una luce (1959), dove, sempre mimetizzandosi in una scena reale, e sempre aderendo all’autobiografia dell’autore nella presenza di sua madre, Pasolini racconta di lei che «depone / i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace / intorno, e si sente solo il suo affanno, / pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace»55.
Anche nel poemetto La religione del mio tempo (1957-59), Pasolini adotta una sorta di metodo ‘panoramico’ di scrittura. Figura più evidente una tensione ideologica nei versi che lo compongono, dove la ‘sequenza’ in auto con Fellini56 racconta il passaggio alle periferie, e cioè alla dimensione a cui è destinato il popolo (sottoproletariato). Di nuovo, una consonanza tra il cinema e, in questo caso specifico, la Storia italiana e l’ideologia pasoliniana.
È interessante notare che gli anni della stesura della Religione sono immediatamente successivi all’uscita de Le Notti di Cabiria (Fellini, 1957), film a cui Pasolini partecipa come sceneggiatore57. La ‘sequenza’ rappresentata dai versi del poemetto, sembrerebbe ripresa dallo stesso film: come due autori in cerca di personaggi, Fellini e Pasolini, durante la preparazione de Le notti correvano a bordo di una Cadillac alle periferie di Roma, nelle campagne laziali o a Ostia. È il periodo di più assidua frequentazione tra i due, che ritrovano l’uno nell’altro la medesima volontà di adesione a quella realtà, pur non facendone esattamente parte. Come è noto, però, Pasolini non era un volto nuovo in quei luoghi battuti da ‘anime perdute’, e infatti Fellini racconta di quanto gli fosse utile quell’intermediario, il garante che aveva ritrovato nel poeta:
Giravo con lui per certi quartieri immersi in un silenzio inquietante, certe borgate infernali dai nomi suggestivi, da Cina medievale, Infernetto, Tiburtino III, Cessati Spiriti. Mi conduceva come se fosse Virgilio e Caronte insieme, di entrambi aveva l’aspetto; ma anche di uno sceriffo, di un piccolo sceriffo che andava a controllare ambienti molto familiari. Si divertiva ai miei allarmi, era lì col sorriso di chi ha visto di più, di peggio, anzi si augura che il peggio possa accadere, da un momento all’altro, soprattutto per compiacere l’amico ospite e turista. Tanto c’era lui lì a spiegare e a difenderlo, sceriffo conosciuto. Ogni tanto sbucavano da certe finestre, da certe porte, da angoli bui imprevedibili presenze, ragazzetti che lui si compiaceva di presentare come se fossimo in Amazzonia, tra esseri fantastici, selvaggi, antichi58.
Fellini riconosce inevitabilmente anche quel senso di attrazione ‘spettacolare’ che Pasolini prova nei confronti di quelle stesse ‘anime perdute’, ‘esseri fantastici, selvaggi, antichi’.
Ma gli anni della stesura della Religione sono immediatamente precedenti all’uscita del film, stavolta pasoliniano, Accattone. È l’occasione di uno scontro e primo allontanamento da Fellini, che insieme a Angelo Rizzoli aveva fondato la casa di produzione Federiz, e che, sempre insieme a Rizzoli, aveva rifiutato i provini di Accattone. Fellini prende a difendere Pasolini solo dopo l’uscita dei suoi film, ma quasi mai aiutandolo nelle difficoltà di produzione iniziali. Pasolini lo chiama ‘vescovone’, a sottolinearne l’ipocrisia59.
Ad ogni modo, il legame tra i due si allenta, ma Pasolini continuerà a citare Fellini nei suoi film successivi, avendo ritrovato nel regista la stessa modalità di incontro/scontro con la realtà, specialmente quella delle Notti.
Risulta ancora più evidente, a questo punto, il rapporto tra il poemetto La religione del mio tempo e i film. Il poemetto si apre sull’immagine di due ragazzi, più tardi definiti ‘poveri, allegri cristi quattordicenni / i due ragazzi di Donna Olimpia’: fanno da ‘garanti’, stavolta a Pasolini, che li descrive e ne descrive la ‘pura vita’. Tutta una serie di ‘considerazioni’ del poeta, provano l’incessante tentativo di restituire un mondo, in cui egli, ancora, fa da spettatore, osservatore estraneo (‘Avrei voluto urlare, e ero muto’).
Questi due che per quartieri sparsi
di luce e miseria, vanno abbracciati,
lieti paganamente dei loro passi,
dicono con faccia lieta che mille facce
ha la storia, e che spesso chi è indietro
è primo: così chiaramente incarnate
sono nel loro ingenuo petto
le confuse e reali speranze del mondo,
che possono ogni atto anche abbietto,
ogni miscredenza, ogni inverecondia…
Ma noi?…60
Fino al momento notturno in auto con Fellini: è qui che ritorna, come ne La ricchezza, un forte senso di movimento, sottolineato dall’uso del verbo correre, come dalla precisazione del mezzo di trasporto: una ‘Cadillac di cinematografaro’. E il lettore/spettatore ideale passeggero insieme al poeta e al regista de La dolce vita, si guarda intorno, accompagnato dal ‘garante’ Pasolini. A ben vedere, risalta una dimensione assai straniante nei versi de La religione, introdotta sia dalla ‘febbre’ di cui si dice sin dall’inizio del poemetto, sia da questa passività – fisica, almeno – della postura del poeta. Si potrebbe pensare, in tal senso, alla sequenza più onirica di Accattone: il protagonista sogna di assistere, da vivo, al proprio funerale. È quasi completa la corrispondenza tra i punti di vista dei personaggi – Pasolini nei versi e Accattone nel film – e della scena funebre con i toni che assumeranno i versi successivi del poemetto, dove si raggiunge la più profonda ‘bassezza’ dei luoghi, ‘senza vita alla morte’.
…una notte, al confine
della città, battuta dalle anime
perdute, sporchi crocefissi senza spine,
allegri e feroci, ragazzacci e mondane,
presi da ire di viscere, da gioie
leggere come le brezze lontane
scorrenti su loro, su noi,
dal mare ai colli, nel tempo
delle notti che mai non muoiono…
…corremmo come in cerca dell’ignaro
Dio che li animava: lui lo sapeva, dove.
Guidava la sua Cadillac di cinematografaro […]61.
I versi dedicati all’amico Fellini introducono alla ancor più pronunciata ‘tragicità’ dei successivi, che risentono del clima politico coevo: lo sottolinea lo stesso Pasolini in un articolo su «Vie nuove». Nel libro una crisi c’è, e ci sono critiche al Partito comunista per cui vivere e morire:
critiche, naturalmente, nella lingua della poesia: ma comunque facilmente decifrabili e traducibili in termini logici. C’erano critiche al partito, quello concreto e operante, quello che è hic et nunc. Non certo alla ideologia marxista e al Comunismo! […] L’ideologia de La religione del mio tempo, si deduce da La religione del mio tempo: non ne è preesistente in uno schema politico, più o meno rigido. Le opinioni politiche del mio libro non sono solo opinioni politiche, ma sono, insieme, poetiche; hanno cioè subito quella trasformazione radicale di qualità che è il processo stilistico62.
E c’è quello che nelle parole di Fortini è un «raro ateismo»: Pasolini, infatti, rifiuta la società neocapitalista come quella ‘irreligiosa’ dei clericali, entrambe avendo scambiato lo sviluppo – quando non il possesso – per progresso. I toni drammatici del poemetto suggeriscono anche un forte sentimento di nostalgia63.
…
Nessuno perciò è davvero amico o nemico.
Nessuno sa sentire vera passione:
ogni sua luce subito s’oscura
come per rassegnazione o pentimento
in quella antica viltà, in quell’ormone
misterioso che si è formato nei secoli.
Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.
…è uguale in tutti la viltà:
com’è alle grigie origini o agli ultimi
grigi giorni di ogni civiltà…
Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell’empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la governa. Non ha certo rimorso,
chi non crede in nulla, ed è cattolico,
a saper d’essere spietatamente in torto.
Usando nei ricatti e i disonori
quotidiani sicari provinciali,
volgari fin nel più profondo del cuore,
vuole uccidere ogni forma di religione,
nell’irreligioso pretesto di difenderla:
vuole, in nome d’un Dio morto, essere padrone.
…
Non c’è più niente
oltre la natura – in cui del resto è effuso
solo il fascino della morte – niente
di questo mondo umano che io ami.
Tutto mi dà dolore64.
Come anticipato sopra, i componimenti della Religione del mio tempo la cui ‘lingua di poesia’ può corrispondere alla pasoliniana ‘lingua del cinema’ sono i poemetti La ricchezza e La religione del mio tempo. Grazie alla loro articolazione, entrambi si dispongono ad oggetto di un’analisi per ‘sequenze’ non lontana dall’analisi del film, dove, come si è avuto modo di notare, le corrispondenze di sguardi sono per lo più tra il lettore/spettatore e lo stesso Pasolini osservatore estraneo alla realtà raccontata, quando non in soggettiva con i personaggi che vivono nei versi della Religione: gli stessi personaggi ‘dalla vita grama’ che si vedranno nei film coevi di Pasolini: Accattone in primis, poi Mamma Roma e La ricotta.
La seconda e terza parte della raccolta, dall’altro lato, evidenziano una corrispondenza ideologica tra poesia e cinema pasoliniani.
Gli epigrammi di Umiliato e offeso (1958) e i Nuovi epigrammi (1958-59) raggiungono l’apice dell’enfasi ideologica nei componimenti. Risulta interessante, in tal senso, rileggerli con, a fronte, alcuni interventi del poeta in difesa dei suoi versi: è impossibile non notare una somiglianza tra i discorsi di Pasolini in merito alle sue poesie e quelli con cui formula, negli anni del passaggio al cinema, una teoria della settima arte. L’esempio più eloquente è A una nazione – XV dei Nuovi epigrammi:
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo65.
Si tratta di un componimento ‘in odio’ alla realtà dell’Italia negli anni Sessanta, fatta di corruzione, incoscienza, e insieme di fame. Pasolini non si risparmia, e chiude con un senso di profondo pessimismo, che vede nella morte l’unica liberazione: alla ‘sua nazione’ augura di sprofondare in ‘questo suo bel mare’, e così di liberare il mondo. La risposta del pubblico (fascista) in merito a questi versi non tarda ad arrivare, e Pasolini a replicare, in un articolo del 1961 su «Vie nuove»:
I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia (epigramma intitolato Alla mia nazione) di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi – nei casi migliori – perché sono un poeta, cioè un matto. Come Pound: che è stato fascista, traditore della patria, ma lo si perdona in nome della poesia-pazzia…66.
Anzitutto, l’accusa di vilipendio colpirà molti film di Pasolini: caso eclatante La ricotta (1963): il quarto episodio del film RoGoPaG (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti), ha come protagonista Stracci, un sottoproletario affamato che fa la comparsa in un film sulla Passione come uno dei ladroni accanto a Cristo, con lo scopo di poter approfittare dei cestini da pranzo destinati alla troupe del film, e alla fine muore d’indigestione di ricotta in croce. Poi, ancora in parallelo tra l’articolo del ’61 e il cinema secondo Pasolini, il poeta sottolinea la fondamentale distinzione tra significato letterale ed estetico, che fa anche la differenza tra cinema di prosa e cinema di poesia, tra rappresentazione oggettiva e autoriale della realtà. Pasolini, infatti, scrive:
ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante benpensante, ipocrita e disumana67.
Si profilano, in queste parole, le premesse al ‘passaggio’ pasoliniano dalla letteratura al cinema: questo ‘sua patria’ e il mondo neocapitalistico tout court avendo esaurito le possibilità di essere raccontati in versi o in prosa, Pasolini si mette alla ricerca di un altro linguaggio, di un’alternativa – li troverà, rispettivamente, nel cinema e nel mito del Terzo Mondo.
La raccolta si chiude con le Poesie incivili (1960) in cui convivono (si legge nel Frammento alla morte dedicato a Fortini) «una nera rabbia di poesia nel petto / Una pazza vecchiaia di giovinetto»68. Ne La reazione stilistica, si spiega l’abbassamento della lingua della poesia al livello della prosa, abbassamento che inevitabilmente accompagna il passaggio al cinema:
Sono infiniti i dialetti, i gerghi,
le pronunce, perché è infinita
la forma della vita:
non bisogna tacerli, bisogna possederli:
ma voi non li volete
perché non volete la storia69.
Il Pasolini degli anni Sessanta, nella sua fuga da un’Italia sempre più irriconoscibile, da neoregista viaggia nei paesi dell’Africa «unica sua alternativa», in cerca di una risposta alla «disperata vitalità». E lo scrive, nel Frammento alla morte:
Ho avuto tutto quello che volevo, ormai:
sono anzi andato anche più in là
di certe speranze del mondo: svuotato,
eccoti lì, dentro di me, che empi
il mio tempo e i tempi.
Sono stato razionale e sono stato
irrazionale: fino in fondo.
E ora… ah, il deserto assordato
dal vento, lo stupendo e immondo
sole dell’Africa che illumina il mondo.
Africa! Unica mia
alternativa…70
Sembrerebbe quasi che Pasolini stia dichiarando una resa, almeno rispetto a quanto prometteva e permetteva il contesto italiano. Come notato sopra, la parabola del poeta in questo senso è discendente, pessimistica. A dimostrarlo, la disperazione dei toni negli ultimi due componimenti della raccolta: ne La rabbia si legge «non sono più padrone del mio tempo… non avrò pace, mai»71 e, ne Il glicine, «La mia vita non ha più compensi: / non le basta la vitalità dell’aprile, / le pare vana la volontà del capire…»72.
Se all’inizio si era riconosciuta un’eco formale rispetto alle Ceneri, se ne erano riconosciute le ossessioni ne La religione del mio tempo, ora il dramma si divarica ancora di più. Serve un altro mondo, un altro linguaggio. La ‘dimensione’ cinematografica rappresenta, in questa raccolta, una premessa alle tecniche di scrittura filmica che saranno sempre più evidenti nelle opere poetiche pasoliniane successive73, e, insieme, una modalità di visione e racconto di un mondo a cui si cerca un’alternativa74. Come nel caso di Joyce e Proust, delle epifanie e intermittenze del cuore simboli di una ‘seconda vita’ che scorre di là dalle storie raccontate, il cinema per Pasolini è una possibilità per rappresentarla, restituirla attraverso la macchina da presa, dunque poeticamente – in Proiezione al Nuovo di Roma città aperta Pasolini-personaggio ‘subito, alle prime inquadrature’ del film viene travolto e rapito da l’intermittence du coeur. Nel complesso, la stesura de La religione del mio tempo accompagna – laddove i romanzi l’anticipavano – il passaggio di Pasolini al cinema.
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G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, La Nave di Teseo, 2019, p. 1. In apertura alla raccolta di quaderni e lezioni, un testo intitolato La nascita del romanzo descrive l’avvenimento destinato a cambiare il ‘destino’ della letteratura. «(Il romanzo è) prima di tutto un nuovo metodo di esplorazione dell’uomo, il risultato di un nuovo sentimento che l’uomo ha della propria psicologia. Mentre di certi suoi fatti più specialmente personali, l’uomo dei secoli precedenti aveva preso come confessori la propria coscienza e Dio, da un certo momento in poi sente invece il bisogno, per quegli stessi fatti, di prendere come confessore la società, e come misura le regole e le leggi della convivenza. Da questo momento, tutti gli atti attraverso cui l’individuo si manifesta di dentro e di fuori assumono valore di indizi ai fini di quella perpetua confessione. È nato il romanzo». ↑
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È la stessa caratteristica che Pasolini (P.P. Pasolini, Empirismo eretico, prefazione di G. Fink, Milano, Garzanti, 2015) riconoscerà nel cinema, arte ‘libera’ in quanto troppo giovane per ubbidire alle regole che invece vigono in letteratura. ↑
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G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. XV. ↑
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Ivi, p. 41. ↑
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E, certo, restando vittima della stessa situazione, nel caso più preciso del verismo per l’Italia: «tutti gli sforzi, i presagi, le aspirazioni in parte ancora confuse degli scrittori qualificati che si volgevano a esprimersi in forme narrative tendevano verso una narrativa altra da quella verista, ma subivano ancora l’ascendente dei modelli veristi, per quanto li sentissero stancati, esauriti e in qualche modo inservibili. In quegli anni 1921-1922 il romanzo italiano rinasceva (ché di rinascita bisogna parlare) in questa situazione polemica e contraddittoria» (G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 98). ↑
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Insieme a quella che il critico definisce, nei Quaderni del 1963-64 del Romanzo, l’«invasione dei brutti». ↑
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Ivi, p. 98. Prima, «il narratore poteva addirittura stringersi nelle spalle, mostrare che lui non era in grado di far nulla contro l’inesorabilità di certi comportamenti, di certi avvenimenti; alla fine si eclisserà per non dover nemmeno stringersi nelle spalle. Ma, insomma, nel rapporto tra i personaggi, tra vicenda e romanziere, le cose, in sostanza, erano sempre regolate in tal modo che potevano pure, nella vicenda, succedere gli imprevisti più bizzarri e in apparenza incalcolabili, e i personaggi potevano pure sgarrare negli atti più gratuiti, facinorosi, capricciosi e in apparenza inspiegabili: il romanziere si metteva sempre in condizione di garantirci per lo meno che quelle bizzarrie e imprevisti erano ineluttabili, che quegli atti, a guardarci meglio, obbedivano a qualche motivazione: irresponsabile, semmai, era il personaggio, non il suo autore» (ivi, p. 99). «[…] il romanziere fino a tutto il naturalismo incluso può anche raffigurare le vicissitudini governate da una fatalità apparente o reale: ma sempre si assume la responsabilità che tutto avviene in un mondo di cause e di effetti, magari di cause inspiegabili. Al limite, potrà accettare come causa la fatalità» (ivi, p. 100). ↑
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Debenedetti sottolinea che per rintracciare i fili delle origini del nuovo romanzo italiano bisogna risalire a Pirandello, l’autore della «crisi della persona» e quindi del personaggio naturalistico. ↑
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Si pensi, a tal proposito, al De Sanctis della Storia della letteratura italiana (1870). In particolare, alla distinzione che il critico stabilisce tra poeta, artista, uomo e scrittore, proprio in riferimento al rapporto con la realtà e al racconto che ne risulta. Debenedetti aggiunge la «particolare specie zoologica» del personaggio (‘dipendente della vita e estraneo tra gli uomini’) «non classificata né registrata dalla storia naturale, perché è reperibile solo in un continente del quale non si trova cenno in nessun libro di geografia, dal momento che a formarlo concorrono unicamente le pagine dei romanzi e dei racconti» (G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 535). «Per quanto adulto, per quanto costretto ad azioni tremendamente responsabili, guerre, rivoluzioni, scoperte di nuove energie che possono trasformare il mondo terrestre, l’abitabilità di questo mondo, allargarne i confini nel cosmo, ma possono anche disintegrarlo in poche ore o in pochi attimi, questo personaggio sembra tuttavia abbia disimparato a vivere, nel senso che egli si trova in uno stato cronico di perplessità circa il proprio essere, di dubbio o addirittura di incredulità circa il proprio potere di comunicare con gli altri e col mondo, di miscredenza dolorosa e spesso acritica circa l’esistenza, la consistenza, l’accessibilità delle cose. È ricco di esperienze, di scienza, di dottrina, conosce la storia del passato, che è anche una trasmissione di problemi, eppure i suoi problemi non gli paiono più quegli stessi di cui i suoi padri o i suoi nonni stavano elaborando la soluzione, con una serie di risultati successivi e tra loro connessi nel senso che ciascuno di quei risultati costituiva una risposta storicamente adeguata alle varie e consecutive posizioni che la storia veniva affacciando di quei problemi» (ivi, p. 361). Con Pasolini, si aggiungerà l’uomo-spettatore. ↑
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Anche qui, si ricordi la natura, oltre che letteraria e associabile a singoli autori, culturale di tale svolta: «la mentalità degli anni Venti era che il romanzo non bastava a sé stesso, doveva ottenere il lasciapassare presentandosi come un pretesto per tenere insieme una raccolta di brani lirici». G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 47. ↑
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Ivi, p. 2. ↑
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È necessario aprire una parentesi sul ‘padre’ del romanzo nuovo, Federigo Tozzi. Debenedetti, leggendo i Ricordi di un impiegato, riconosce all’autore la manzoniana capacità di «liricare», nei «conseguimenti poetici» che permettono la lettura di alcuni brani del romanzo (quelli in cui è più evidente il punto di vista di un io-personaggio estraneo, escluso, impossibili da riassumere secondo modi narrativi) in parallelo alla Sera del dì di festa di Leopardi. Certo, in Tozzi lo schema è lirico solo in apparenza, tuttavia nasconde un approccio poetico del narratore al proprio racconto. Il verismo e il naturalismo hanno retto finché si è voluta dare un’organizzazione narrativa ai propri spunti, ai propri ‘accidenti’. Non è il caso del romanzo nuovo. Pensando al cinema (in Pasolini di prosa e di poesia), si pensi alla differenza tra storia e discorso (G. Genette, Figure III. Il discorso del racconto, Torino, Einaudi, 2006): come in questo caso, non è il ‘contenuto’ delle storie a cambiare ma il modo di raccontarle. ↑
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G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, cit., p. 250. ↑
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Ivi, p. 253. ↑
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Ivi, p. 255. ↑
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Ivi, p. 259. ↑
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Ivi, p. 261. «Sarebbe come immobilizzare i fotogrammi di un film: da ciascuno si otterrebbero quelle rivelazioni straordinarie di cui ha parlato Cocteau, notando che le figure dei personaggi colte in una frazione dei loro gesti sfidano, quanto a espressività e plasticità, i più sorprendenti ed emozionanti risultati della scultura: ma il film come azione, come narrazione andrebbe distrutto». Si noterà l’affinità con la riflessione pasoliniana sul cinema che porta ad una formulazione anche nella settima arte tra poesia e prosa, dove il discrimine è il montaggio ‘anti-narrativo’. Per il momento, basti per ritornare al Pirandello dei Quaderni – parabola della fine del romanzo naturalista – e alla scena del romanzo in cui Varia Nestoroff si guarda sullo schermo di una sala di proiezione. «Resta ella sbalordita e quasi atterrita dalle apparizioni della propria immagine su lo schermo, così alterate e scomposte. Vede lì una che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella, ma almeno conoscerla». Vede cioè il suo oltre; quello che nella pagina successiva è chiamato «il di là da sé stesso», ma lo vede realizzato sullo schermo, ritornato anch’esso enigmatico, nella sua evidenza, come il suo di qua (ivi, p. 239). ↑
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E non solo: anche i personaggi di queste vicende eliminate, questi «estranei» è possibile incontrarli nei versi dei poeti novecenteschi. «Da anni è stata stabilita, e merita di circolare ancora, un’equazione tra personaggio estraneo e personaggio ermetico. Noi tutti sappiamo che uno dei momenti più specifici della poesia del nostro secolo è stato l’ermetismo. E allora: se il personaggio “uomo” del romanzo moderno è un estraneo, egli adombra anche il personaggio del poeta ermetico: ne raffigura l’atteggiamento, il comportamento. Ecco, dunque, un nesso tra la storia del romanzo recente e quello della recente poesia. Ecco perché la storia, l’esame del romanzo, soprattutto se condotta come una storia del personaggio, dei personaggi, vale anche come presupposto della storia della poesia: la implica, le si connette in un gioco di continue rispondenze, reciprocità, simultaneità». Ivi, p. 363. La riflessione di Debenedetti continua in due volumi di lezioni, quaderni preparatori, saggi e interventi: Poesia italiana del Novecento, Milano, La Nave di Teseo, 2022 e Cinema: il destino di raccontare, Milano, La Nave di Teseo, 2018. ↑
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Il cinema è audiovisivo: immagine e parola vanno insieme, mai separate, in una coesistenza che fa significare ancora di più il racconto del film che costruisce. L’idea retorica e romantica del cinema come pura immagine, e quindi del cinema muto, riduce tale significare, e toglie certo valore alla parola: «fare del cinema muto non è che una restrizione metrica, come per esempio, in poesia, la terza rima, che riduce infinitamente la possibilità di parlare il parlabile, crescendo smisuratamente la possibilità di parlare l’imparlabile» (P.P. Pasolini, Il cinema e la lingua orale, in Empirismo eretico, cit., p. 282). L’impostazione del discorso poetico non è certo un caso in Pasolini, che crea una stretta relazione tra la parola al cinema e la parola nella poesia. Quello che le accomuna è la loro ambiguità: sono inserite in testi dove recitarle in un modo permette loro di significare sempre. ↑
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I. Calvino, Visibilità, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988. A proposito della lezione, e del cinema secondo Italo Calvino, si veda Stefania Parigi: «Nella ‘lezione americana’ dedicata nel 1985 alla ‘Visibilità’ l’immagine cinematografica viene sganciata da ogni immediatezza e oggettività riproduttiva e vista come il risultato di un complesso processo che prevede vari strati: la fissazione della visività nella forma scritta della sceneggiatura, l’attivazione del «cinema mentale» del regista che ricostruisce materialmente l’immagine sul set e la riprende con la macchina da presa. Con l’espressione «cinema mentale» Calvino indica una facoltà interiore che riguarda tutte le arti, precedendo la nascita della settima arte e la novecentesca civiltà dell’immagine. Il «cinema mentale» si forma all’incrocio di vie diverse che intrecciano «l’osservazione diretta del mondo reale», «la trasfigurazione fantasmatica e onirica», «il mondo figurativo trasmesso dalla cultura» e «un processo d’astrazione, condensazione e interiorizzazione dell’esperienza sensibile, d’importanza decisiva tanto nella visualizzazione quanto nella verbalizzazione del pensiero» (S. Parigi, Calvino e il cinema italiano del dopoguerra, in «Arabeschi», 22, 2023, URL http://www.arabeschi.it/calvino-e-il-cinema-italiano-del-dopoguerra/, consultato il 4 febbraio 2025). Su Calvino e il cinema anche V. Di Martino, “La storia della nostra vita”. Autobiografia di uno spettatore di Italo Calvino, in «Critica Letteraria», XLVI, 1, 2018, pp. 85-102 e M. Palumbo, «Quell’altro mondo che era il mondo». Calvino e il cinema, in «Italies», 16, 2012, URL https://journals.openedition.org/italies/4554, consultato il 4 febbraio 2025. ↑
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Pasolini al cinema nasce sceneggiatore – scrittore di film. La sceneggiatura è scrittura (P.P. Pasolini, La sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura» in Empirismo eretico, cit., p. 197). C’è sempre un momento in cui è tutta su carta e a priori indistinguibile da una ‘normale’ opera letteraria – quando è già scritta ma non è ancora diventata lavorazione di un film da farsi. È il momento in cui il legame principale tra letteratura e cinema sembra evidente. Ma, a un’osservazione più ravvicinata, si capisce che la sceneggiatura è sostanzialmente il passaggio da un testo scritto a parole a un testo scritto per immagini. Guardandola, leggendola, è chiaro un fatto che la allontana inevitabilmente dalla letteratura: essa allude sempre al film che deve nascere. È una tecnica narrativa, non un genere letterario, e in quanto tale va considerata. Ed è, tra l’altro, una tecnica dove il ruolo del lettore è fondamentale: perché per apprezzarla o in ogni caso per capirla, sta a lui leggere tra le righe qualcosa che ancora non esiste – il film. Si tratta di un’ulteriore relazione tra il cinema e la poesia – Pasolini affianca la sceneggiatura a certe altre «scritture». In particolare, si riferisce alla poesia simbolista di Mallarmé o di Ungaretti, dove il lettore non ha semplicemente da leggere dei versi, ma deve «fingere» di sentirli: si integra quindi il significato seguendo due strade, «una normale e l’altra anormale». ↑
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La libertà del cinema sta nella sua non-codificazione come lingua: questa ‘indifferenziazione’ è l’occasione per il cinema di farsi insieme in versi e in prosa: «Si stanno delineando almeno una «lingua della prosa» (differenziata in lingua della prosa narrativa, e lingua della prosa saggistico-documentaria – il «cinéma-vérité» ecc.), e una «lingua della poesia» (P.P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Empirismo eretico, cit., p. 225). ↑
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Id., Il «cinema di poesia», in Empirismo eretico, cit., p. 181. ↑
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Ivi, p. 182. ↑
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Si pensi agli esempi sul discorso libero indiretto e sulla «soggettiva libera indiretta», di cui pure in F. Cocco, Lingua e cinema di Pasolini: idea di cinema e piano-sequenza. La libertà stilistica, in «Centro studi Pier Paolo Pasolini Casarsa», 2013, URL https://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/approfondimenti/lingua-e-cinema-di-pasolini-di-franco-cocco/, consultato il 4 febbraio 2025. ↑
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P.P. Pasolini, La paura del naturalismo, in Empirismo eretico, cit., p. 261. ↑
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Restando ad un livello di teoria definitoria, il film sarebbe parte del cinema, e cioè l’oggetto con cui lo spettatore ha a che fare e che l’autore costruisce. Il cinema è invece tutto il resto: è la realtà rappresentata attraverso la realtà e i suoi oggetti che la macchina da presa, momento per momento, riproduce. Non interviene e non modifica, il cinema mostra qualcosa che già è, insegue ossessivamente e affannosamente la realtà: le azioni della vita continueranno, e dureranno quanto la vita. Ma ci sarà sempre un occhio virtuale che le seguirà: una invisibile macchina da presa: il cinema è dunque, come nozione primordiale e archetipa, un continuo e infinito piano-sequenza e, perciò, un implicito rifiuto del montaggio e dell’intervento autoriale sul film. Pensando alla letteratura, il cinema è il corrispettivo del romanzo naturalista (cinema di prosa); e il film è poesia (a questo punto, Pasolini sottolinea che il cinema di poesia è comunque di poesia narrativa, e ipotizza anche la possibilità di una cinema di poesia-poesia, che produce Films con l’iniziale maiuscola): lungi dall’essere una differenza di valore («Tutto ciò che è fissato in movimento da una macchina da presa è bello: è la restituzione tecnica, e perciò poetica, della realtà»), quella tra cinema di prosa e cinema di poesia è una separazione di tipo tecnico che corrisponde ad una diversa modalità del guardare. Empirismo eretico risente, è ovvio, di quella prima carriera letteraria di Pasolini, che negli anni Sessanta ‘vira’ al cinema con la sua opera prima Accattone (1961). Ancora, il punto di partenza è il romanzo: il film è, infatti, una summa delle due opere narrative Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), motivo per cui Moravia vi leggeva in nuce una scrittura cinematografica ad anticipare il passaggio alla regia. ↑
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P.P. Pasolini, La paura del naturalismo, in Empirismo eretico, cit., p. 242. ↑
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In G. Genette, Figure III, cit., si ‘scompone’ il racconto nelle sue componenti fondamentali: la ‘storia’, la trama del racconto stesso, e il ‘discorso’, cioè il modo – fatto di tecniche – di raccontarlo. ↑
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Si considerino due film: Il tempo si è fermato, film in prosa di Ermanno Olmi (1959), e Prima della rivoluzione, film in poesia di Bernardo Bertolucci (1964). Pasolini ne osserva delle sequenze e scrive: «se dovessi riprodurre, per analogia, linguisticamente, il brano di Bertolucci dovrei ricorrere a delle figure che sono tipiche della poesia, mentre se dovessi fare la stessa cosa per il film di Olmi, metterei insieme una prosa, anche se una prosa dolcemente intrisa di poesia delle cose» (P.P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Empirismo eretico, cit., p. 237). Il film di Olmi è in prosa perché la qualificazione profilmica non esiste: come in un documentario, l’autore ha lasciato intatta la realtà. Riguardo al filmico, la macchina da presa non si sente, e ciò che conta è l’azione reale. Questo implica una forte fede di Olmi nella realtà, di cui la macchina da presa è in funzione e a servizio. In Bertolucci, invece, la presenza del soggetto autore è assai prevalente sull’oggettività della realtà. Il montaggio è espressivo, e ne risulta un racconto assolutamente irregolare nel linguaggio del cinema: Prima della rivoluzione non può che essere un «film in poesia». ↑
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P.P. Pasolini, Il cinema impopolare, in Empirismo eretico, cit., p. 285. Si ritorni, su questo ragionamento, alla nota 17 sulla lettura debenedettiana della pagina dei Quaderni di Luigi Pirandello. ↑
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A. Moravia, Immagini al posto d’onore, in «L’Espresso», 1 ottobre 1961. ↑
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La raccolta, dedicata a Elsa Morante, prende il titolo da un sonetto/satira alla società di Gioacchino Belli, La rriliggione der nostro tempo (1835). È già indicativo, anche rispetto ai discorsi sul cinema, che sia scritto in dialetto romano: «Che rriliggione! è rriliggione questa? / Tuttaquanta oramai la riliggione / conziste in zinfonie, ggenufressione, / seggni de crosce, fittucce a la vesta / cappell’in mano, cenneraccio in testa, / pessci da tajjo, razzi, priscissione, / bbussolette, Madonne a ’ggni cantone, / cene a ppunta d’orloggio, ozzio de festa, scampanate, sbaciucchi, picchiapetti, / parme, reliquie, medajje, abbitini / corone, acquasantiere e mmoccoletti. / E ttratanto er Vangelo, fratel caro, / tra un diluvio de smorfie e bbell’inchini, / è un libbro da dà a ppeso ar zalumaro». ↑
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Concetto che Pasolini chiarirà in due articoli pubblicati su «Vie nuove» il 9 novembre e il 16 novembre 1961: «La religione del mio tempo esprime la crisi degli anni Sessanta. La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l’azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell’evasione, del sogno (“Africa, unica mia alternativa”) o una insorgenza moralistica (la mia irritazione contro certa ipocrisia delle sinistre: per cui si tende ad attenuare, classicisticamente, la realtà: si chiama ‘errore del passato’, eufemisticamente, la tragedia staliniana ecc.» (P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 978). ↑
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Rispettivamente, destinati a ‘mitizzarsi’, nella «trilogia del mito», in set cinematografici per la trilogia Edipo re (1967), Medea (1969), Appunti per un’Orestiade africana (1970); e restituite poeticamente nella «trilogia della borgata»: Accattone (1961), Mamma Roma (1962), La ricotta (1963). ↑
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P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 972. ↑
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Interessante, in questo senso, il ragionamento di Massimo Fusillo sul pessimismo crescente nei film pasoliniani, in particolare nella trilogia del mito: se l’Orestiade crede ancora nell’utopia dell’unione tra cultura e natura, con la costruzione del primo tribunale ad Atene, e le Erinni che diventano Eumenidi, Medea pronuncia come ultima battuta «Niente è più possibile, ormai» (M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Roma, Carocci, nuova ed. 2022). Ma si pensi anche alla ‘cosmicità’ dello stesso pessimismo nel film-testamento di Pasolini: Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). ↑
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A. Tricomi, Pasolini, Roma, Salerno editrice, 2020, p. 139. ↑
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S. Agosti, Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano, Feltrinelli, 1982. ↑
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Prefazione di G. D’Elia a P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 2001: «L’impressione è quella di un grande poeta che abbia posto il tema dei limiti della poesia verso la vita, in un mondo che non sa più che farsene né della poesia né dei poeti. Pasolini, scegliendo la compromissione con la realtà, si è tenuto al corpo vivo della propria singolarità, narrandone l’urto con la Storia. Ha rifiutato il privilegio lirico, mettendosi in discussione come singolo anonimo e comune, prendendo su di sé, insieme alla grazia e a una squisitezza che possedeva d’elezione, tutta la nostra storica miseria individuale e di popolo. Ha deluso, è andato in una direzione contraria alla politica e alla cultura istituite e d’opposizione». ↑
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Che già dalle Ceneri (1957) era in realtà motivo di esclusione del popolo stesso dalla Storia, esclusione ‘positiva’ per Pasolini, laddove significa anche esclusione dal mondo capitalista. Nella Religione, è il sottoproletariato nell’era del neocapitalismo, di cui si sottolinea pure un ‘abbassamento del livello culturale’. Nell’epigramma Alla Francia, è il sottoproletariato africano, reincarnazione della mitologia popolare pasoliniana, fondamentale nel momento del passaggio al cinema. Agli stessi anni della Religione, risale, infatti, il progetto di un film dal titolo Appunti per un poema sul Terzo Mondo, e, più strettamente guardando al mito, nel 1970 (ma l’ideazione è di molto precedente) escono gli Appunti per un’Orestiade africana. ↑
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P.P. Pasolini, La ricchezza, in Id., Le poesie, Milano, Garzanti, 1975, p. 149. ↑
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Ibidem. ↑
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«Accattone, ad esempio, mostra una messa in scena assai particolare, che s’ispira figurativamente all’austerità della pittura di Masaccio […]. In Accattone e Mamma Roma, inoltre, rivestono un ruolo determinante i carrelli (soprattutto a retrocedere, anticipando le camminate dei protagonisti per le borgate), e il modello della frontalità, anche questo d’ispirazione pittorica, per descrivere frontalmente quella corporeità distintiva dei personaggi pasoliniani» (G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, Realismo e sacralità: la trilogia della borgata di Pier Paolo Pasolini, in Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Roma, Carocci, 2015, p. 116). ↑
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Prefazione di G. D’Elia a P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 2001. Si notino, in particolare, i riferimenti alla proustiana concezione del tempo e al collegamento a Leopardi, entrambi riscontrabili nell’analisi sul romanzo di Debenedetti. «Il primo capitolo o movimento del racconto (tutta La ricchezza si sviluppa a lasse di libere strofe, in versi sciolti dall’obbligo di misura e di rima, con un sommario in frontespizio di capitolo) si chiude con la dizione di Nostalgia della vita, ad indicare un viaggio dal di dentro al di fuori, dal tempo allo spazio, dalla memoria alla presenza. È il tema eminentemente pasoliniano – e, certo, già proustiano – del passato presente, e di quella struggente partecipazione dell’escluso che fu già nel paradigma sentimentale di Leopardi». ↑
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Ne La religione del mio tempo sarà visibile, in auto con Federico Fellini, il percorso opposto: i due, su di una Cadillac, arrivano di notte al confine della città. ↑
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P.P. Pasolini, La ricchezza, in Le poesie, cit., p. 162. ↑
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Si ricordi, in tal senso, l’affermazione pasoliniana «Tutto ciò che è fissato in movimento da una macchina da presa è bello: è la restituzione tecnica, e perciò poetica, della realtà». P.P. Pasolini, Il «cinema di poesia», in Empirismo eretico, cit., p. 191. ↑
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Chiaramente riferito anche ai film ‘di montaggio’ pasoliniani. ↑
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Roma città aperta fu realizzato da Roberto Rossellini nel 1945. Considerato il manifesto del neorealismo italiano, è la prima opera della «trilogia della guerra» diretta dal regista romano, seguita da Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). ↑
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P.P. Pasolini, La ricchezza, in Le poesie, cit., pp. 173-175. ↑
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Ivi, p. 189. ↑
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Dalle Note a La religione del mio tempo. Si ricordi che in Prima della Rivoluzione di Bernardo Bertolucci Pasolini riconosceva il cinema di poesia. ↑
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P.P. Pasolini, A un ragazzo, in Le poesie, cit., p. 207. ↑
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Id., Appendice alla “Religione”: una luce (1959), in Le poesie, cit., p. 243. ↑
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Dalle Note a La religione del mio tempo: «La persona con cui “…andavo per l’oscura / galleria dei viali, una notte, al confine / della città, battuta dalle anime / perdute, sporchi crocefissi senza spine…” ecc., fino a raggiungere il mare di Torvajanica, è Federico Fellini». Si pensi alla sua filmografia ritratto-rotocalco del mondo contemporaneo (G. Carluccio, L. Malavasi, F. Villa, Fare ed essere autore: La dolce vita di Federico Fellini, in Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Roma, Carocci, 2015): da La dolce vita (1960) a Amarcord (1973). ↑
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«Pasolini esprime la condivisione con Fellini del ‘sentimento sacrilego’ per quelle ‘forme dell’esistenza’, le ‘anime perdute’ di «ragazzacci e mondane», ossia i diseredati, gli emarginati, i reietti condannati dal moralismo convenzionale» (R. Chiesi, Pasolini ‘personaggio’ di Fellini e viceversa, in «Arabeschi», 20, 2022, p. 61, URL http://www.arabeschi.it/una-dolcezza-ferita-pasolini-personaggio-di-fellini-e-viceversa-/, consultato il 4 febbraio 2025). Si pensi, in tal senso, alla storia raccontata nelle Notti di Cabiria, e alla somiglianza col mondo di Accattone: è il percorso di redenzione di una prostituta, Cabiria, che, dopo essere stata vittima del tentato annegamento da parte del fidanzato, si salva e va (cinicamente) in cerca della felicità. ↑
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F. Fellini, ‘Pier Paolo’, a cura di R. Cirio, in «L’Espresso», 19 gennaio 1992, p. 83. ↑
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In generale, Fellini non provava troppa stima verso il Pasolini-regista: è quanto si deduce da alcuni interventi, tra cui la seguente intervista: «“Cosa ne pensate di Pier Paolo Pasolini?” Fellini getta uno sguardo sull’ometto come se lo vedesse per la prima volta: “È un grande, un grandissimo poeta”. “Ma oltre a ciò…?” Fellini, sgranando gli occhi: “Forse non le basta?” […] “Ma cosa pensa del Pasolini uomo di cinema?” Fellini, girando i pollici: “Non vado mai al cinema”» (J.-L. de Villalonga, Ho sognato Anita Ekberg. Intervista con Federico Fellini, Milano, Medusa, 2014, pp. 51 e 117). ↑
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P.P. Pasolini, La religione del mio tempo, in Le poesie, cit., p. 228. ↑
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Ivi, pp. 230-232. ↑
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Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 972. Dal poemetto: «Felici ti mostrano un paio di scarpe / nuove, un quadruccio buono all’appena civile / parete della casa, una bella sciarpa / natalizia per la moglie: ma dentro, / dietro quell’infantile palpito, / quello stento, ti misurano col metro / della loro fede, del loro sacrificio. / Sono inflessibili, sono tetri, / nel loro giudicarti: chi ha il cilicio / addosso non può perdonare. / Non puoi da loro aspettare una briciola / di pietà: non perché lo insegni Marx, / ma per quel loro dio d’amore, / elementare vittoria di bene sul male, / ch’è nei loro atti» (Id., La religione del mio tempo, in Le poesie, cit., p. 234). ↑
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Non c’è più l’antica religione, quella de «l’Usignolo / dolceardente della Chiesa Cattolica! / Il suo sacrilego, ma religioso amore / non è più che un ricordo, un’ars retorica» (ivi, pp. 239-240). ↑
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Ivi, pp. 236-238. Qui, è un’evidente premessa al verso «Africa, unica mia alternativa». Per il momento, l’unica ‘luce’ resta la figura (autobiografica) della madre, in ‘primo piano’ dell’Appendice alla “Religione”: una luce: «so che una luce, nel caos, di religione / una luce di bene, mi redime / il troppo amore nella disperazione…». È una povera donna; piccola, come una bambina, con le braccia magre, capelli radi e vesti dimesse, custode di «quei sopravvissuti / segreti che sanno, ancora, di violette». Una povera donna «che sa amare / soltanto, eroicamente, ed essere madre / è stato per lei tutto ciò che si può dare». Mentre «tutto intorno ferocemente muore» (Id., Appendice alla “Religione”: una luce, in Le poesie, cit., p. 241). ↑
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Id., Alla mia nazione, in Le poesie, cit., p. 279. ↑
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Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 972. Si pensi, a proposito della poesia-pazzia, al saggio sul cinema di poesia in Empirismo eretico: qui, Pasolini, scrive dei ‘film sotterranei’ di registi come Antonioni, Bertolucci o Godard. A tal proposito, si afferma che la presenza di un personaggio ‘non normale’ facilita tale rappresentazione, ancora più soggettiva e autoriale, delle storie raccontate. ↑
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Ibidem. ↑
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Id., Frammento alla morte, in Le poesie, cit., p. 304. ↑
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Id., La reazione stilistica, in Le poesie, cit., p. 295. ↑
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Id., Frammento alla morte, in Le poesie, cit., pp. 304-305. ↑
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Id., La rabbia, in Le poesie, cit., p. 308. ↑
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«Il mondo mi sfugge, ancora, non so dominarlo / più, mi sfugge, ah, un’altra volta è un altro… / Ho perduto le forze; / non so più il senso della razionalità; / decaduta si insabbia / – nella tua religiosa caducità – / la mia vita, disperata che abbia / solo ferocia il mondo, la mia anima rabbia» (Id., Il glicine, in Le poesie, cit., p. 315). Non è casuale, in questi versi, l’uso alternato dei termini ‘vita’ e ‘disperata’, soprattutto se si considera che, nella raccolta successiva alla Religione, Poesia in forma di rosa (1964), la «disperata vitalità» è proprio la componente che si riconosce nel linguaggio del cinema e nelle storie che, a questo punto, solo la settima arte può ancora provare e riuscire a raccontare. ↑
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Successive, certo, alla Religione, ma anche all’affermarsi del Pasolini-regista, dunque alle sue teorizzazioni parallele sul cinema. ↑
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La si troverà, non a caso, nel mito riscritto dalla trilogia Orestiade–Edipo re–Medea; e la Roma ‘scritta’ nella Religione la si vedrà nella trilogia della borgata Accattone–Mamma Roma–La ricotta. ↑