Natura e scrittura ne Il sorriso di Caterina
Nel 2023 è stato pubblicato il romanzo d’esordio di Carlo Vecce, Il sorriso di Caterina. La storia della madre di Leonardo da Vinci, basata su alcuni documenti di archivio, è stata un grande successo editoriale, trovando il suo spazio nelle classifiche editoriali italiane, destando l’attenzione dei giornali e dei media di tutto il mondo. La scoperta delle origini non italiane di Leonardo, considerato fino a quel momento un italiano per eccellenza, è stata inaspettata e scoprire che le sue origini fossero non solo non italiane, ma neppure europee, ha lasciato molti interdetti.
Il romanzo ha avuto origine dalle ricerche di Carlo Vecce, filologo, sulla vita di Leonardo1. La vita dell’artista fiorentino e le sue origini sono state avvolte nel mistero fin dagli anni immediatamente successivi alla sua morte. Vasari lo aveva definito come un misterioso nipote di ser Piero da Vinci e solo a partire dalla seconda edizione delle Vite lo aveva definito figliuolo di Piero. A lungo nessuno aveva ritenuto centrale occuparsi della madre di Leonardo, fino a quando nel corso del Settecento una rinnovata attenzione per la biografia dell’artista cambiò le carte in tavola: in un primo momento si parlava ancora delle sue origini, ma non della madre, finché nel 1839 non venne fuori tra le carte del nonno di Leonardo, Antonio, il nome di Caterina come madre di Leonardo. Solo dalla fine dell’Ottocento, però, ebbero inizio le ricerche sulla madre di Leonardo con i primi studi sul nome di Caterina presente nelle carte e nei codici vinciani.
Nel corso del Novecento iniziò ad aumentare l’interesse sulla donna, grazie anche ad un libro del 1901 dello scrittore russo Merezhkovskij dal titolo Voskresšie bogi (“Dèi risorti”), in cui vengono ripercorse le vicende della vita di Leonardo conosciute fino a quel momento, con una parte romanzesca sull’incontro tra Piero e Caterina, un’orfana contadina, di cui non si sapeva molto, se non che in un secondo momento aveva sposato un contadino. Le vicende sulla madre di Leonardo avevano catturato l’interesse addirittura di Freud, secondo cui Caterina era stata decisiva per la sua formazione, in quanto suo unico vero amore. La sua visione ebbe poco rilievo per gli studiosi, ma è stata fondamentale per la lettura della vicenda di Leonardo e sua madre nella ricostruzione di Vecce.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso Renzo Cianchi, poi, iniziò ad occuparsi con cura di Caterina di cui si sapeva solo che aveva sposato un contadino, Antonio, detto l’Attaccabrighe. Nonostante tutte le ricerche tra gli archivi quattrocenteschi, nessuno era riuscito a trovare notizie su giovani donne presenti nel contado che corrispondessero a Caterina, madre di Leonardo. Iniziò, in quel periodo a farsi strada la convinzione che le spese per la sepoltura di una certa Caterina presenti nel codice Forster avrebbero potuto corrispondere a quelle per la madre, che si trovava, ormai vedova, a Milano a trovare il figlio quando morì. Fino ad allora si pensava che la Caterina fatta seppellire da Leonardo fosse una sua serva: «In die Jovis 26 Junii. Porta Vercellina parochia sanctorum Naboris et Felicis. Catharina de Florenzia annorum 60 a febre terzana continua dupla in domo magistri Concordi de Castrono decessit». La grande cura, però, posta da Leonardo nei confronti della sepoltura della donna ha fatto pensare agli studiosi che potesse trattarsi proprio della madre.
Negli anni Settanta del secolo scorso Chianchi è stato probabilmente il primo a capire che Caterina fosse sia sua madre che una schiava: grazie alle carte di Vanni di Niccolò di Ser Vanni aveva trovato prove di ciò, ma questa notizia pubblicata da Neera Fallaci su «Oggi» il 17 novembre del 1975 non aveva avuto alcuna circolazione. A partire da questo, però, si è cominciato a cercare Caterina tra le schiave fiorentine, trovandola al servizio di Madonna Ginevra e di suo marito Donato di Filippo. Quello che ha fatto propendere il filologo Carlo Vecce per l’identificazione con la madre di Leonardo è la presenza di una serie di segni inequivocabili, tra cui il fatto che l’atto che la libera dalla schiavitù è vergato proprio da ser Piero. A partire da questo è stata confermata l’identità di Caterina: sull’atto della liberazione Caterina viene identificata come la serva di Ginevra, figlia di Jacob e originaria della Circassia.
Da ciò nasce la consapevolezza che Caterina sia la schiava circassa che Donato, il marito di Ginevra, ha portato con sé da Venezia prima di tornare a vivere a Firenze e di sposare Ginevra. La storia di Caterina e Leonardo è legata a quella di Donato anche in un secondo momento, dato che il padrone, nel suo testamento, si era accordato con il monastero di San Bartolomeo per la sua sepoltura in cambio della sua eredità. Ed è proprio in quel periodo che Leonardo dipinge la sua Annunciazione per il monastero (1472), probabilmente con il padre come intermediario, dimostrando quanto dovesse essere stata fondamentale la relazione negli anni tra il padre e Donato. A proposito di quel quadro Carlo Vecce afferma:
il racconto sacro è interamente avvolto nella rappresentazione della natura. le piante e gli alberi e i fiori, immersi in un’atmosfera miracolosa, tremano di vita propria, a differenza delle fredde illustrazioni d’orto botanico dei pittori contemporanei. La profondità dello spazio è definita dall’attenta costruzione prospettica, in relazione simbolica con il paesaggio lontano: il punto di vista coincide infatti con la base della montagna, il rapporto aureo con l’altezza del dipinto. Laggiù, in uno spazio infinito, appare la prima sublime visione leonardesca, fatto di montagne sospese sulle acque e vapori. Uno spazio aperto. Uno spazio di libertà2.
In quest’ottica si può leggere con uno sguardo completamente nuovo lo sfondo dell’Annunciazione: «È il mondo favoloso di sua madre Caterina, l’altissima montagna sacra del Caucaso bianca di ghiaccio perenne, dimora degli dei e dei giganti, è la città dove lei aveva perso la libertà, è la nave che l’aveva portata via per sempre»3. A partire dalle ricerche del filologo e dal suo lavoro, condotto con puntuali ricerche di archivio nasce, quindi, il lavoro dello scrittore, che, con Il sorriso di Caterina, si colloca nel solco della grande tradizione del romanzo storico italiano. Il tema centrale del romanzo è il rapporto della protagonista con la Natura e il suo anelito alla libertà, fondamentale per una donna che trascorre molti anni in schiavitù. Mescolando filologia e invenzione, lo scrittore racconta la storia di Caterina che, a partire dal Caucaso, inizia un viaggio nel mondo medievale e da un mondo in cui la Natura detta il ritmo della vita passa alle città italiane, per poi tornare, dopo il matrimonio, alla vita nella campagna toscana, in cui trova una nuova concordia con il mondo che la circonda.
Nel corso del Sorriso di Caterina il rapporto della protagonista con la Natura segue la trama e soprattutto caratterizza la costruzione del personaggio fin dalle prime pagine. Caterina è una giovane donna circassa, la cui vita segue una traiettoria geografica molto complessa per una donna della sua epoca e di quella parte del mondo. Non si tratta, però, di un’eccezione: erano tante, troppe per la nostra sensibilità attuale, le donne come lei che venivano condotte in Europa per diventare schiave nelle città occidentali.
Nel corso del romanzo la storia di Caterina rappresenta un continuo contrasto tra la sua provenienza e i luoghi che frequenta durante la sua vita. Caterina considera la Natura parte integrante della libertà di cui viene privata da giovanissima: il suo rapporto con il mondo circostante, infatti, è esemplificativo delle terre remote in cui è nata e nelle quali era abituata ad essere in comunione con un mondo ostile, una relazione che dura fino a quanto Caterina viene condotta a Venezia. La sua comunione con la Natura rappresentava per lei la Libertà, una libertà che non ha saputo di possedere finché non le è stata tolta.
“Libertà”, infatti, è una delle parole che torna più volte all’interno del testo. La libertà di Caterina, quindi, è percepita da lei come la sua comunione con la Natura: nelle sue prime descrizioni, la donna è descritta come un’amazzone, in quanto le donne della Circassia andavano a cavallo e tiravano con l’arco, al punto che gli stranieri le vedevano quasi come donne divine. All’interno delle sue descrizioni si intravede in filigrana il mito delle Amazzoni, come dimostra la sua prima apparizione. Nelle prime pagine del romanzo, infatti, la ragazza è rappresentata nel suo ambiente naturale, si tratta di una fanciulla a cavallo che fugge in un bosco di betulle:
Un boschetto di betulle sulle rive di un fiume presso lo Xi Miute, un mattino d’estate
Non voglio perderla. Il cavallo appare e scompare tra le betulle. Posso inseguirla solo con gli occhi. Gli occhi sono mani, mani che si tendono, cercano di afferrare qualcosa che fugge via per sempre. La vita, un lampo di luce, una confusa intermittenza di ricordi e immagini, quel niente che abbiamo vissuto insieme4.
All’interno del romanzo, nei primi anni della sua vita, Caterina è descritta come una ragazza che per avere più possibilità di muoversi in una società retta dagli uomini decide di vestirsi da uomo; in questo modo può mantenere intatta la sua relazione con la Natura:
Mentre scendevo per il sentiero, scorsi una figura ferma sul crinale. Non era un uomo ma un ragazzo, a giudicare dal vestito e dalla corporatura. Non guardava verso di me, e anzi sembrava non essersi accorto dell’avvicinarsi di un cavaliere. La sua attenzione era tutta rivolta all’altro lato, oltre il crinale. Li c’era una piccola valle, una boscaglia, e la selvaggina, anche grossa, non vi mancava mai. Il ragazzo teneva tra le mani un arco troppo grande per lui, non uno di quegli archetti che di solito si davano ai ragazzi perché si esercitassero al tiro con le piccole prede, lepri o uccelli. Era vestito in modo semplice: i calzoni aderenti infilati negli stivali e la casacca stretta alla vita da un cinturone in cui era infilato un piccolo pugnale, e la faretra a tracolla. Quegli indumenti mi sembravano familiari, come se li avessi già visti. Il ragazzo portava un bel berretto di feltro che doveva nascondere dei lunghi capelli, perché delle ciocche ondulate ne uscivano e ricadevano dietro le orecchie.
A poca distanza un bel puledro senza sella, un giovane sauro con una macchia bianca sulla fronte che sembrava una stella, attaccato a un albero con una corda5.
Vestendosi da ragazzo, Caterina può muoversi con facilità nel mondo, andare a cavallo e vivere secondo i tempi della Natura, in una realtà in cui le tribù vivono in concordia con il mondo circostante. In una famiglia in cui non ci sono uomini, travestirsi è un modo per rispondere ai bisogni della sua comunità:
Katia era cresciuta da sola. Non essendo un maschio, non poteva essere affidata in ataliqate a nessun’altra famiglia. Doveva crescere in casa in attesa del ritorno del padre e delle decisioni che sarebbero state prese sul suo futuro. Aveva imparato, da Irina e dalle altre donne, tutto quello che bisognava conoscere per la cura della casa, dei campi e degli animali, e le aiutava in tutto. Sapeva arare la terra, sforzandosi di tirare testardamente l’aratro a mano, anche se il suo solco non era profondo come quello degli altri contadini. Sapeva seminare il miglio, affondando la mano nel sacco e spargendo i preziosi semi a ventaglio, mentre cantava la litania di benedizione del futuro raccolto, e invocava il dio della fertilita Sozeresh e il dio delle messi Theghelej. Sapeva sorvegliare i campi, scacciando uccelli e altre piccole bestie che insidiavano semi e piantine. Sapeva mietere con l’ampio movimento della falce6.
Il padre, Jacob, che normalmente non vive con lei, la osserva ammirando il modo in cui si interfaccia con i ritmi del mondo naturale:
Appena era libera, Katia fuggiva nei prati e nella boscaglia. Scopriva da sola il mondo della natura e degli animali selvaggi, il ritmo delle piante e delle stagioni, le vicende continue di vita e di morte delle creature. Le prime volte entrava nel bosco con paura, socchiudendo gli occhi e invocando la protezione di Mezgwashe, dea delle foreste e degli alberi7.
L’ultimo pensiero del padre, infatti, dopo essere stato colpito a morte è per la libertà della figlia. L’insegnamento che spera di averle lasciato è quello di essere libera: «Sangue per sangue, vita per vita. Un velo bianco mi scende sugli occhi aperti, prima che si fissi per l’eternità l’immagine di lei che fugge. Libera»8.
Dopo la morte del padre, Caterina sarà catturata e non riuscirà più a vivere in tale comunione con la realtà circostante. Verrà travolta e portata in un mondo in cui non vigono più le regole della Natura, ma quelle della scrittura. Nella sua nuova vita si scontrerà con una società basata su paradigmi culturali totalmente differenti: il suo mondo senza scrittura era libero, nel suo mondo nuovo la comunione con la Natura non sembra essere una priorità. Da questo momento in poi la sua vita sarà divisa in due, con due spinte opposte che si scontrano nel suo animo.
Il suo rapporto con la Natura si intravede persino nella sua vena artistica, messa in luce nel momento in cui lavora nella bottega di battiloro, in cui coltiva le sue abilità artistiche con le sue decorazioni a tema naturale. Già nel corso della sua infanzia questa grande capacità di mettere la Natura nei suoi disegni era stata notata dal padre:
Ma intanto, a poco a poco, osservando la nonna, Katia aveva imparato un’arte che nel nostro popolo era riservata solo alle sciamane, perché catturare il contorno di un essere vivente e come catturarne l’anima: l’arte di riprodurre le figure con delle linee, usando una friabile pietra rossa oppure un pezzetto di carbone su una pezza di lino, oppure incidendo con la punta del coltello o con l’ossidiana una qualunque superficie, una pietra levigata o una tavola di legno. Erano le stesse figure di animali fantastici che si vedevano sui tappeti o sul velo d’oro, intrecciate a complicati motivi stilizzati di piante e di fiori. La nonna era abilissima a riprodurle con la pietra rossa su larghi fazzoletti di lino che servivano da base ai tessuti che venivano eseguiti dalle altre donne. Forse per lei, che non parlava, l’immagine era molto meglio della parola per comunicare9.
Le origini di Leonardo sono fondamentali in questo senso. Caterina è nata nel luogo in cui si dice che si sia fermata l’arca di Noè, una terra di miti in cui l’uomo vive in totale concordia con la natura, un luogo in cui nascono le leggende e i miti. In quei luoghi remoti è presente il cristianesimo, ma è caratterizzato da una religiosità diversa da quella europea, in cui il rapporto tra gli uomini e la religione è mediato dalla Natura e dai suoi cicli. Questo, secondo Carlo Vecce, è, come si è detto, il mondo che fa da sfondo all’Annunciazione e alle sue montagne immerse tra le nebbie.
L’arrivo di Caterina a Venezia è traumatico: è qui che si scontra per la prima volta con un mondo che procede con regole diverse da quelle che governano il suo; si ritrova improvvisamente catapultata nella storia dell’Occidente, una storia di scrittura, in un mondo in cui le regole sono altre, come dimostrano le parole di Donato:
Non erano tanti i banchi di Rialto, cioè quelli importanti, i banchi di deposito e di scritta, dove l’attività fondamentale è quella di scrivere sui libri contabili ogni operazione: e quello che non scrivi non esiste. In questo modo il banchiere, alla presenza dei clienti o in virtù di una lettera di cambio, può trasferire denaro, debiti o crediti, da un conto all’altro, senza bisogno di tirare fuori le monete, che restano al sicuro nelle casseforti della banca: o almeno così credono i clienti meno avvertiti, perché in realtà nelle casseforti ne resta solo una minima parte, e tutto il resto torna a muoversi e a circolare, proprio come una materia vivente, come l’acqua di un fiume o l’argento vivo che usavo per recuperare l’oro dal cimento10.
Quello che non scrivi non esiste rappresenta con cura il mondo italiano del Quattrocento in cui ogni operazione commerciale ed economica in generale va appuntata per renderla effettiva; come ricordano anche le parole di Francesco:
Prima della partenza mia madre ha ancora modo di rimproverarmi un’ultima volta, perché non ho ancora registrato nel mio libro di ricordanze l’arrivo di Caterina: non sta bene, ripete, bisogna sempre scrivere tutto, e quello che non scrivi non esiste, dove s’andrà a finire, se non si tiene memoria dei contratti e dei fitti e dei soldi che entrano ed escono, e io, che ho le tasche bucate peggio di mio padre e penso solo a spendere per comprare bei vestiti e libri inutili e magari dannosi e ho una moglie che ora mi tiene bordone e non ascolta più la saggia suocera, manderò in rovina la famiglia.
E così, pazientemente, per tenerla buona, prendo il libro, intingo la penna nel calamaio e scrivo11.
La storia di ogni famiglia veniva annotata con cura, per lasciarne traccia per i posteri e anche chi non ne ha voglia deve scrivere tutto quello che succede, come in questo caso l’arrivo di Caterina come balia. Il padre di Leonardo, Piero, riporta, infatti uno dei principali insegnamenti del padre:
Come è possibile far vivere le parole dopo la morte di chi le ha pronunciate? Con la scrittura, rispondeva mio padre: così, intingendo la penna in questa boccetta chiamata calamaio, tirandone fuori questa goccia di sangue nero che si chiama inchiostro, che bisogna spargere con cura tra i solchi di questa superficie sottile e rugosa che si chiama carta, e che è come un bianco campo da arare e seminare.
In breve mi insegnò a scrivere, prima con una tavola dell’alfabeto, poi facendomi decifrare e ricopiare le sue carte e quelle del nonno e del bisnonno. Io all’inizio imitavo la sua scrittura da mercante, ma poi, andando dal prete e guardando le lettere e le bolle che quello riceveva dalla curia di Pistoia o di Firenze, cercai di crearmi una mia scrittura, più chiara e scorrevole, intermedia fra la mercantesca e la cancelleresca12.
Piero ripercorre gli insegnamenti del padre, per cui mettere nero su bianco è l’unico modo per far sopravvivere una persona dopo la morte. Ripensa al mestiere del notaio che caratterizza la sua famiglia da quattro generazioni, ad eccezione del padre Antonio, che ha scelto di viaggiare, andando contro le tradizioni:
Scrivere per noi è tradizione di famiglia. Una cosa normale almeno da quattro generazioni. Mio nonno era notaio, e anche suo fratello, e anche suo padre: e per i notai, si sa, la scrittura è fondamento e strumento del mestiere. Devono scrivere tutto, devono scrivere sempre: e quello che non si scrive non esiste, perché non ha una realtà giuridica, non è autentico, non si può sapere se è vero o no, se non c’è una sottoscrizione o un signum. Ma purtroppo tutta quella bella tradizione di famiglia si era interrotta. Colpa di mio padre, che aveva rinunciato agli studi e si era messo in testa di fare il mercante in giro per il Mediterraneo, tornando senza fortuna e senza soldi. Non doveva farlo. Non doveva partire e abbandonare suo padre, la sua famiglia, la sua professione. Sentivo crescere dentro di me l’ostilità per lui, e maturare fermamente una decisione.
Non sarei finito come un piccolo proprietario che sbarcava il lunario in un semplice paese di campagna. Sarei diventato un notaio, avrei ripreso e continuato la tradizione di famiglia. Volevo andarmene via, nella grande Firenze. Vinci mi stava stretta13.
Piero racconta del padre che è sfuggito ai suoi doveri e nella narrazione romanzesca Leonardo sembra aver ereditato dal nonno questa disposizione alla curiosità e all’osservazione della natura, come riveleranno le sue opere e la sua stessa vita. Gli atti notarili di Piero – soprattutto il documento della liberazione di Caterina – sono stati centrali, come si è detto, per le informazioni sulla storia di Caterina e sulla sua origine circassa. Le sue indecisioni nella scrittura, sintomo di una forte commozione, hanno fatto capire al filologo-scrittore che quell’atto di liberazione non era un atto qualsiasi, dando importanti informazioni sulla storia di Leonardo.
La scrittura è centrale per Piero e per la sua famiglia, mentre per Caterina è un mondo che resta incomprensibile: la donna riuscirà a tornare in unione con la Natura solo dopo la nascita di Leonardo e dopo essere stata liberata dalla schiavitù. Con il suo matrimonio con Antonio, detto l’Attaccabrighe, infatti, Caterina riesce a muoversi di nuovo con una certa libertà. La sua ultima vita è di nuovo in comunione con la terra e con la campagna che la circonda, come dimostra il rapporto del marito con la terra:
La nostra terra. Perché è nostra da sempre questa terra. Nessuno sa da quando siamo qui. Qualcuno dice che i Buti siano scesi dalla montagna di Pisa, quella che si vede li all’orizzonte, stagliata nel tramonto, da un paese fatto tutto di buti, che sarebbe a dire bovari; ma uno dei vecchi invece giurava che il nome di Buto, il padre di Giovanni, significa buon aiuto. Mi sono sempre chiesto: buon aiuto di chi? Non credo del buon Dio, che sembra essersi sempre poco curato di noi. Il buon aiuto e quello che ci diamo noi stessi, con le nostre mani.
Scritture antiche non ne abbiamo, anzi, nemmeno di nuove, nessuno di noi sa leggere o scrivere in modo accettabile, e non s’è mai saputo fare. La memoria passa di generazione in generazione e poi a poco a poco scompare. Chi c’era qui prima di Giovanni e di Buto? Ma del resto a che serve saperlo, se le stagioni tornano sempre uguali su questa terra e il sudore e il sangue degli uomini insieme all’acqua della pioggia e ai raggi del sole penetra nella zolla e la feconda, e anche i nostri corpi ci ritornano, e tornano zolla14.
Caterina conclude la sua vita in modo sereno, dopo aver ritrovato una certa comunione con il mondo che la circonda, in un posto meno esotico e misterioso della Circassia, cioè la campagna toscana. Antonio è un uomo di campagna che trova in lei una compagna adatta alla vita del contado, conducendo insieme una vita semplice e serena:
Forse arrivare fino alla quarta generazione sarà troppo, ma i primi figli delle nostre figlie abbiamo avuto la gioia di vederli. Gli anni sono passati. Nè veloci nè lenti. Al tempo giusto, quello del ritmo della natura e delle stagioni. Il tempo che lenisce gli affanni e le incomprensioni. Come aveva previsto nonno Antonio, mio padre Piero ci chiamo a Campo Zeppi appena fu evidente che la Caterina era gravida. La mia felicita era piena, non solo per me stesso, che tornavo nella terra dov’ero nato, nella casa dov’ero cresciuto, ma soprattutto perché mi accorsi della felicita della Caterina, che evidentemente era fatta come me, nata libera nella terra e nella natura, e ora vedeva avverarsi il suo sogno di tornare a una condizione di vita vera e autentica fra le piante e gli animali. Lasciai la fornace e ripresi il lavoro antico della terra, che il vecchio Piero non riusciva più a portare avanti da solo15.
Caterina sembra nata per vivere in comunione con la Natura, al punto da stupire il marito con la sua innata capacità persino di partorire senza mostrare alcune difficoltà:
Tutti nati quasi senza doglie, perché la via era aperta. Maria addirittura la partorì solitaria dietro un covone, un giorno che stava lavorando nel campo vicino al torrente: fece tutto da sola, taglio il cordone con la falce, lavo la bambina nell’acqua corrente, la avvolse nel suo fazzoletto e me la fece trovare assopita nella culla quando tornai a casa. La Caterina sembrava creata da Nostro Signore per fecondare e dare la vita16.
Antonio, come tutti i personaggi del romanzo, racconta una parte della vita di Caterina e alla fine della sua riflette su quanto sia stata serena la loro vita:
Sono seduto sotto il portico della vecchia casa. Guardo il sole che scende rosso dietro le colline alla fine di questa giornata terrena. Vedo la Caterina che sale dal sentiero, seguita dalle figlie Piera e Sandra. Così in fila, una dietro d’altra, mi fanno ricordare quando s’andava tutti a messa la domenica a San Pantaleo, tanti anni fa, seguiti dai bambini in fila ordinata dal più grande al più piccolo, e il vecchio prete ci sorrideva con affetto dal portico della chiesa. Sono andate tutte e tre insieme a raccogliere la legna e le fascine per il focolare. Sento che scherzano e parlano allegre tra di loro, e poi si fanno un po’ più serie, forse pensando al futuro: le ragazze che sono grandi e sole, e la mamma che sempre le rincuora e le conforta. Sono tutte donne qui, in questa casa. Si sostengono e si aiutano a vicenda, per sopravvivere in questo mondo di lupi. I lupi siamo noi uomini, bravi solo a ringhiare e azzannare e fare la guerra. Se alle donne va bene, siamo padroni benevoli. Un giorno forse tutto cambierà. E saranno le donne a farlo17.
Quando riesce a stare in comunione con la Natura la sua vita procede bene: dopo la morte del marito, però, Caterina andrà a concludere la sua vita a Milano, dal figlio, dando origine ad una delle pagine più commoventi del romanzo. Finalmente potranno trascorrere del tempo insieme, da soli, senza nessun impedimento, senza nessun vincolo sociale che gli impedisce di stare insieme, dopo che per una vita intera gli hanno addirittura impedito di chiamarla madre. Nonostante ciò e nonostante la distanza dalla Toscana, nemmeno in questa occasione Leonardo chiama Caterina sua madre:
Tutta avvolta nel sudario, come un diafano bozzolo di seta, la Caterina fu posta sopra un cataletto ricoperto di drappo nero operato e decorato con una morte d’oro. A parte, ben tre libbre di cera, da dare ai frati per le candele. Dal convento di San Francesco, che era anche la sede della parrocchia dei santi Nabore e Felice, vennero i frati, quattro preti e quattro chierici, guidati da un anziano della confraternita che portava la croce, e accompagnati dai portatori che si caricarono del cataletto. Era quasi il tramonto, e il sole rosseggiava dietro i campanili di Sant’Ambrogio. Il mesto corteo percorse il breve spazio dalla casa alla chiesa. Un frate suonava la campanella per avvertire i radi passanti e chiamarli alla preghiera di suffragio per la defunta, gli altri frati portavano i libri sacri e la spugna18.
La morte di Caterina rappresenta una delle prime tracce della vita della donna che gli studiosi hanno avuto a disposizione per ricostruire la storia della madre di Leonardo da Vinci, la cui vita è stata – sia nella vita che nel romanzo – a cavallo tra due mondi. Questa cura mostrata da Leonardo nei confronti della sepoltura di quella che sembrava essere una vecchia schiava è sempre stata la nota stonata che ha fatto pensare agli studiosi che Caterina fosse molto di più per Leonardo. Come si è detto, grazie a questo ed altri elementi, si è riusciti a ricostruire con cura la storia di Caterina fino a scoprirne le origini circasse, ribaltando la narrazione della vita di Leonardo. La scrittura del romanzo di Carlo Vecce parte dalle carte di archivio creando una delle pagine più commoventi della nostra letteratura recente.
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La vicenda che ha condotto alla scoperta delle origini di Caterina è ripercorsa da Vecce sul primo numero della rivista «Leonardiana». Cfr. C. Vecce, Per Caterina, in «Leonardiana», 1, 2023, pp. 11-48. ↑
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Ivi, p. 42. ↑
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Ibidem. ↑
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C. Vecce, Il sorriso di Caterina, Firenze, Giunti, 2023, p. 7. ↑
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Ivi, pp. 19-20. ↑
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Ivi, p. 24. ↑
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Ivi, p. 27. ↑
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Ivi, p. 41. ↑
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Ivi, pp. 26-27. ↑
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Ivi, p. 191. ↑
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Ivi, p. 315. ↑
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Ivi, p. 379. ↑
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Ivi, p. 380. ↑
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Ivi, pp. 426-27. ↑
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Ivi, p. 453. ↑
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Ivi, p. 454. ↑
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Ivi, pp. 461-62. ↑
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Ivi, p. 501. ↑