Lo scorso 27 maggio, in piena pandemia globale, le strade della Grande Mela sono state sommerse da urla di manifestanti richiedenti giustizia e uguaglianza per il popolo nero. Il movente della sommossa è stata l’uccisione di George Floyd, cittadino afroamericano morto il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis per mano di un poliziotto bianco.[1] Il filmato dell’arresto e del seguente soffocamento dell’uomo hanno in breve tempo smosso l’opinione pubblica e gli animi di chi, da ogni parte del pianeta, ha espresso la propria vicinanza alla causa afroamericana, condividendo l’hashtag #BLM o tingendo di nero la propria bacheca Instagram.
Il forte impatto visivo dell’America messa a ferro e fuoco dai rivoluzionari in mascherina sembra rievocare, a distanza di più di 70 anni, le parole spese da Sartre nel suo Orfeo nero:
Quando toglierete il bavaglio che chiudeva queste bocche nere? […] Ecco uomini neri, eretti, che ci guardano e io vi auguro di sentire come me l’emozione profonda di essere visti. Perché il bianco ha goduto per tremila anni del privilegio di vedere senza essere visto; […] oggi questi uomini neri ci guardano e il nostro sguardo rientra nei nostri occhi; torce nere, a loro volta, illuminano il mondo e le nostre teste bianche non sono che lampioni che ondeggiano al vento.[2]
L’attualità di questo passo dimostra come la missione di redenzione del popolo nero non sia ancora conclusa e che il XXI secolo proceda, sotto questo aspetto, sulla falsa riga del suo precedente, contrassegnato, secondo Du Bois, dal «problema della linea del colore»[3].
Peculiarità della coscienza afroamericana è l’essersi formata e affermata sul piano culturale prima che su quello politico; il Novecento ne ha visto la fioritura letteraria, avvenuta conseguentemente a turbolenti scontri di natura socioeconomica tra cittadini neri e bianchi e a seriali episodi di razzismo[4]. Similmente a quanto accaduto mesi fa, la scintilla rivoluzionaria, scoccata a partire da un caso di violenza da parte della polizia bianca nei confronti di cittadini neri, fece nascere nel 1935 una sommossa a cui presero parte circa 10.000 afroamericani[5].
In questa rivalsa antropologica, siglata sotto il nome di “Rinascimento di Harlem”, rimbombano all’unisono le voci disparate di diversi autori accomunati dalla volontà di rappresentare quell’America che «non è sinonimo di opportunità per tutti i suoi figli»[6]. Sulla data d’inizio del movimento vi sono, in realtà, diverse posizioni; la principale linea di pensiero, tuttavia, propone per la periodizzazione il luglio 1919, passato alla storia come the red summer per l’ingente numero di vittime di rivolte a sfondo razziale.[7] Il 1919 è anche l’anno di pubblicazione del sonetto If We Must Die di Claude McKay, convenzionalmente riconoscibile come punto di partenza della rinascita del New Negro: «Le circostanze erano mature per comunicare al mondo l’arrivo del “Nuovo Nero”, cittadino, uomo perfettamente cosciente dei propri diritti e delle proprie potenzialità che reclamavano rispetto»[8].
Langston Hughes, il protagonista indiscusso della Renaissance, traduce in poesia la condizione dell’afroamericano nel mondo moderno e si fa portavoce di quegli ideali di democrazia e uguaglianza che sono alla base della fratellanza nera:
Anch’io canto l’America.
Sono il fratello più scuro.
Mi mandano a mangiare in cucina
Quando viene gente,
ma io rido,
e mangio bene,
e divento forte.[9]
Dietro il suo caratteristico «humor tragico»[10], Langston Hughes cela un mordente spirito di rivalsa e di sfida a un futuro che immagina non troppo remoto:
Domani,
siederò a tavola
quando verrà gente.
Nessuno
Oserà dirmi:
«Va’ a maniare in cucina»,
allora.
E poi,
vedranno come sono bello,
e sentiranno vergogna:
Anch’io sono America.
Un aspetto caratterizzante della lirica di Hughes è la messa in rilievo di quella che Sartre definisce «negritudine»[11]. L’arma del colore, insieme a quella del riso, viene scagliata contro il suprematismo bianco e posta in prima linea nella guerra al nazionalismo razziale. Manifesto di tale contrasto cromatico è Colore:
Portatelo
come uno stendardo
d’orgoglio:
non come sudario.
Portatelo
come un canto
che si leva alto:
non un lutto o un pianto.[12]
La produzione letteraria del Rinascimento di Harlem testimonia la progressiva presa di coscienza dell’uomo nero che, per la prima volta, può dire fermamente a se stesso I am a Negro: «Sono un negro: / nero com’è nera la notte, / nero come gli abissi della mia terra d’Africa»[13]. Sul nero-bianco della pagina scritta si specchia il bifrontismo epidermico dell’afro-americano: «il colore della pelle appare in questo contesto come un riferimento sociale in grado di renderlo Invisible man […] e si spiega così l’esistenza di negri bianchi o di quelli in procinto di diventarlo»[14]. Tale dualismo alimenta la lotta interiore tra due fazioni opposte, l’essere nero e l’essere americano, che si riversano in un animo scisso tra l’impossibile africanizzazione dell’America e l’indesiderato sbiancamento della propria essenza[15].
Langston Hughes apostrofa così un uomo nero che ha rinnegato il proprio colore: «Ora che hai la Cadillac, / hai dimenticato che sei nero. / Come puoi dimenticarmi / se io sono te?»[16]. L’assenza di un’unità di fondo mette in crisi l’idea stessa di esistenza e il fine ultimo di questa. Il componimento Incrocio fa emergere la controparte della ricerca del chi in vita: quella del dove nella morte. «E io che non son nero né bianco, / dove mai io morirò?»[17]. Nell’incertezza locativa alberga anche quella identitaria. Il popolo nero subisce gli sguardi curiosi e indiscreti del pubblico bianco, che reagisce al fenomeno della Rinascita affibbiando loro nomi e caratteri tali da farne un tipo. Filtrato dall’occhio del bianco, l’afroamericano diviene emblema di arretratezza, ingenuità e bestialità. Le longeve tradizioni del Black face e dei Minstrel shows, oltre ad alimentare questo ideale stereotipato, propongono un’immagine clownesca dell’afro-americano che, in procinto di delineare i propri confini sociali, si cuce addosso questi abiti parodici e diviene caricatura di se stesso[18]. Anche Langston Hughes si autorappresenta come un Pagliaccio nero:
Perché la mia bocca
è larga di riso
e la mia gola
profonda di canto,
non credi
ch’io soffra
dopo aver tenuto tanto
il mio dolore?
Perché la mia bocca
È larga di riso,
non senti
il mio segreto pianto?
Perché i miei piedi
sono gioia di danza,
non sai
che muoio?[19]
Una costante della poesia afroamericana è l’indissolubile legame con la madre patria: strofe e versi straripanti d’Africa in una sinestesia continua di suoni, tinte e immagini rievocano il paese d’origine. Nella singolare condizione di esuli interni, gli autori avvertono il nesso tra il proprio status e quello del popolo ebraico in fuga dall’Egitto[20]. La comune ricerca di una Terra Promessa porta alla luce un’altra componente fondamentale di questa nuova letteratura: il nomadismo. «La casa è proprio / là, / dietro l’angolo: / ma in realtà / in nessun luogo»[21]. Può essere interessante notare come Hughes presenti non poche somiglianze con il coevo Ungaretti, a cui è accomunato anche dal riferimento ai fiumi come a punti cardinali del proprio stare al mondo[22]. Con The Negro Speaks of Rivers si pongono le basi di quello che è stato definito «romanticismo razziale»[23]:
L’anima mia è diventata profonda come i fiumi. // Mi sono immerso nell’Eufrate quando l’alba era giovane. / Ho costruito la mia capanna vicino al Congo che al sonno mi cullava. / Ho guardato il Nilo e sopra vi ho innalzato le piramidi. / Ho udito il canto del Mississippi quando Abe Lincoln scese a New Orleans, e ho visto il suo letto di mota farsi tuto d’oro al tramonto.[24]
Nonostante tale punto di contatto con la letteratura nostrana, la poesia di Hughes è intrisa di cultura africana e i suoi stessi versi risuonano al ritmo del Jazz. La musicalità che in quegli anni stava palesando al mondo l’intensità del verbum nero scalando le vette delle classifiche, si presta ora a divenire tecnica compositiva e tematica narrativa. Questo «eterno suono del tam-tam nell’anima nera»[25] viene riproposto dal poeta di Harlem in poesie come Jazzonia, Blues di stanchezza e Blues di nostalgia.
La sinfonia malinconica che accompagna il popolo afroamericano sin dagli albori è il canto disperato della schiavitù. Come un insuperabile trauma generazionale, «l’urlo ritmico degli schiavi»[26] riecheggia negli animi e nelle composizioni di coloro che sentono ancora bruciare dentro il dolore inflitto ai propri antenati e l’umiliazione delle proprie madri.
Il tragitto che parte dagli Spiritual, traduzioni di salmi biblici portatrici di speranza nella liberazione e giunge al Blues, derivante dai cori Gospel delle chiese degli anni Trenta[27], traccia il percorso evolutivo afroamericano verso la legittimazione della sua arte. Mentre la prima fase musicale si presenta integralmente in lingua africana, già dalla seconda si ravvisa una fusione tra i due idiomi, fino ad arrivare a un’ulteriore fase in cui è addirittura la musica bianca ad essere influenzata dalle melodie nere[28].
L’esperienza della schiavitù risulta dunque essenziale per la comprensione del concetto stesso di Rinascimento. La sola “morte” individuabile come anticamera della “rinascita” a cui il nome allude è quella della sottomissione; tuttavia, il termine è stato motivo di dispute e contestazioni da parte di chi faticava a individuare una precedente “nascita”[29].
Se non è certo il legame con un vivo passato letterario – che, comunque, esiste e trova il suo primo esempio in Phillis Wheatley, poetessa africana del XVIII secolo[30] – è però appurato che i temi della poesia finora analizzata non siano specie specifica dell’America del Nord ma richiamino valori interiorizzati dall’intera cultura nera.
Nel 1954 Carlo Bo ha realizzato una raccolta di componimenti francofoni e ispanofoni intitolata Antologia di poeti negri, (autori e titoli poesie) che propone un viaggio nei meandri delle discrepanze etniche attraverso diverse tappe continentali. Seguiamolo in uno scalo a Cuba:
Negro, fratello negro
sei in me, parla!
Negro, fratello negro
sei in me, canta!
La tua voce è nella mia voce,
la tua angoscia è nella mia voce,
il tuo sangue nella mia voce,
il tuo sangue nella mia voce…
Anch’io sono la tua razza![31]
Il fulcro della «poesia collettiva»[32] si condensa in questa interconnessione sottesa all’intera stirpe africana, indipendentemente da luogo ed epoca di appartenenza. Il sentore collettivo di essere figli di una primordiale genitrice è particolarmente vivido, ma quello della fratellanza universale non è il solo oggetto poetico che la poesia afroamericana condivide con la restante lirica nera.
Il robusto cordone ombelicale che lega i poeti alla patria natia resta intatto anche in suolo portoricano (Stanotte mi ossessiona la visione / remota di un paese negro)[33] ma il luogo tanto agognato non sempre coincide con la realtà storica della colonizzazione:
Io non amo quell’Africa
L’Africa dei «qui».
L’Africa dei «silenzio!».
L’Africa degli «è finito!».
L’Africa degli yes e degli oui.[34]
Il sogno smanioso della terra d’origine viene espresso attraverso una poesia «orfica»[35], di scavo introspettivo e di riemersione degli istinti primordiali:
Il desiderio selvaggio, certi giorni,
Di mescolare sangue e ferite
Ai gesti contratti dell’amore
E di cogliere, sotto i morsi
Che perpetuano il sapore dei baci
I singhiozzi dell’amante, i suoi rantoli…
Ah, rudi desideri inappagati
Dei miei neri e cannibali antenati…[36]
Immersi in questo clima di repressione, il comun denominatore risulta essere, ancora una volta, la schiavitù. Come popolo nato dal servigio e segnato dalla fatica, anche dalla Guadalupa giunge con voce soffocata la Preghiera di un bambino negro:
Signore sono stanco. / Sono nato stanco. […] / I negri, voi lo sapete, hanno lavorato fin troppo. / Perché dobbiamo imparare nei libri / Che ci parlano di cose lontane da qui? / E poi è davvero troppo triste la loro scuola, / Triste come / Quei signori delle città, / Quei signori bene educati / Che non sanno più danzare la sera al chiaro di luna / Che non sanno più camminare sulla carne dei piedi / Che non sanno più raccontare favole alle veglie.[37]
In questo continuo confronto-scontro col mondo bianco, ciò che conta è il mantenimento della propria integrità nera: «Ma se fossi un gran signore / sempre nero resterei»[38]. Vista l’interscambiabilità tematica tra i diversi livellamenti cronotopici delle genti africane, il Rinascimento di Harlem è stato funzionale alla messa a fuoco dell’intero repertorio letterario nero. Avendo partorito autori come Langston Hughes, James Baldwin, Nella Larsen, Zora Hurston e attirato su di sé l’attenzione di critici del calibro di Du Bois e Sartre, il movimento ha solo parzialmente raggiunto l’obiettivo prefissatosi. Persiste la lacuna dell’incompiuta emancipazione socioculturale per cui, come dimostrano le rivolte degli ultimi mesi, la poesia afroamericana ha ancora tanto da dire.
- Cfr. Alberto Flores D’Arcais, «Usa, afroamericano fermato dalla polizia muore soffocato. “Non riesco a respirare, non uccidermi”», «la Repubblica», 26 maggio 2020. ↑
- Jean-Paul Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, trad. di S. Arcoleo, Milano, Marinotti, 1948, p. 23. ↑
- William E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, trad. di R. Russo, Firenze, Le lettere, 2007, p. 5. ↑
- Cfr. Giulia Fabi, America nera: la cultura afroamericana, Roma, Carrocci, 2002, p. 53. ↑
- Cfr. ivi, p. 69. ↑
- W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, cit., p. 125. ↑
- Cfr. G. Fabi, America nera: la cultura afroamericana, cit., p. 53. ↑
- Sara Antonelli e Giorgio Mariani, Il Novecento USA. Narrazioni e culture letterarie del secolo americano, Roma, Carrocci, 2009, p. 101. ↑
- Langston Hughes, Anch’io sono America, in Poesie, trad. di S. Piccinato, Milano, Lerici, 1968, p. 47. ↑
- Pius Ngandu Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, trad. di R. Ricca, Torino, L’Harmattan Italia, 2001, p. 50. ↑
- Cfr. J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, cit., p. 32. ↑
- L. Hughes, Colore, in Poesie, cit., p. 179. ↑
- Id., Negro, in Poesie, cit., p. 19. ↑
- P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., p. 21. ↑
- Cfr. W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, cit., p. 9. ↑
- L. Hughes, Inferiore-superiore, in Poesie, cit., p. 143. ↑
- Id., Incrocio, in Poesie, cit., p. 43. ↑
- Cfr. P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., p. 31. ↑
- L. Hughes, Pagliaccio nero, in Poesie, cit., p. 39. ↑
- Cfr. W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, cit., p. 11. ↑
- L. Hughes, Bambino al parco, in Poesie, cit., p. 163. ↑
- Cfr. Giuseppe Ungaretti, I Fiumi, da Vita d’un uomo, in Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1969, pp. 43-45. ↑
- P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., p. 51. ↑
- L. Hughes, Il Negro parla di fiumi, in Poesie, cit., p. 5. ↑
- P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., p. 52. ↑
- W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, cit., p. 205. ↑
- Cfr. P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., pp. 28-29. ↑
- Cfr. W.E.B. Du Bois, Le anime del popolo nero, cit., p. 209. ↑
- Cfr. S. Antonelli e G. Mariani, Il Novecento USA. Narrazioni e culture letterarie del secolo americano, cit., p. 100. ↑
- Cfr. P.N. Nkashama, Introduzione alle letterature africane: le origini della negritudine, cit., p. 33. ↑
- Regino Pedroso, Fratello negro, in C. Bo (a cura di), Antologia di poeti negri, Firenze, Parenti, 1954, p. 81. ↑
- J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, cit., p. 36. ↑
- Luis Paleés Matos, Paese negro, in Antologia di poeti negri, cit., p. 101. ↑
- Paul Niger, Non amo l’Africa, in Antologia di poeti negri, cit., p. 229. ↑
- J.-P. Sartre, Orfeo nero. Una lettura poetica della negritudine, cit., p. 35. ↑
- Léon Laleau, Cannibale, in Antologia di poeti negri, cit., p. 113. ↑
- Guy Tirolen, Preghiera di un bambino negro, in Antologia di poeti negri, cit., p. 221. ↑
- Alberto Ortiz, Non so, in Antologia di poeti negri, cit., p. 265. ↑