Lo spazio femminile nel Titus Andronicus di Shakespeare

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1. «Rome’s rich ornament» and «the lascivious Goth»

Per il condottiero romano Titus il valore di sua figlia Lavinia risiede essenzialmente «in her exchange value as a virgin daughter»1. Unica figlia tra venticinque fratelli, «half of the number that King Priam had»2, definita da Bassianus «Rome’s rich ornament» (I.1.55), la cui mano – e di riflesso, la cui “proprietà” e il potere che ne deriva – viene contesa tra lo stesso Bassianus e suo fratello Saturninus. In effetti l’opera si apre proprio con la disputa tra i due fratelli, figli dell’ex imperatore, per il controllo su Roma. Al ritorno in città di Titus, Marcus e i tribuni propongono di rendergli omaggio per i tanti anni al servizio alla città offrendogli la corona. Nonostante l’enorme supporto, Titus rifiuta, appoggiando la candidatura di Saturninus, in quanto la sua primogenitura lo rende ai suoi occhi il solo legittimo erede. Per sdebitarsi, Saturninus si dice intenzionato a sposare Lavinia, rendendola «Rome’s royal mistress, mistress of my heart» (I.1.244), riuscendo in questo modo sia ad omaggiare il valoroso condottiero che a legarsi indissolubilmente a lui e alla sua fama tramite un legame di parentela.
La situazione si complica quando Bassianus reclama la mano di Lavinia, tirandola a sé e affermando «This maid is mine» (I.1.279). Nell’udire tale pretesa, Titus grida alla folla «Treason my Lords! Lavinia is surprised!» (I.1.287), trasferendo la sua stessa sorpresa sulla figlia, reclamandone implicitamente la proprietà. Come affermato da Bernice Harris, Lavinia «is a means by which power is marked as masculine and is then transferred and circulated»3.
Dal linguaggio utilizzato da Titus, Saturninus e Bassianus ci è subito chiara la considerazione che i tre uomini hanno di Lavinia e, soprattutto, dei loro diritti circa la sua proprietà: Saturninus definisce l’intrusione di Bassianus come rape, quest’ultimo afferma di aver semplicemente preso possesso di ciò che era già suo, «Meanwhile am I possessed of what is mine» (I.1.411). Sia il termine rape che possessed hanno un doppio significato, legato sia ad una qualsiasi appropriazione illegittima che ad un significato marcatamente sessuale. In caso di accordo tra due uomini per lo scambio di una giovane, il passaggio da un ‘proprietario’ all’altro non viene considerato illegittimo, come nel caso del patto tra Titus e Saturninus per la mano di Lavinia, ma se l’accordo viene a mancare, come tra Titus e Bassianus, il “proprietario” originale – e non la ragazza – viene gravemente danneggiato. È anche il caso di Tamora, fatta prigioniera da Titus in un atto che (secondo questa logica) potremmo definire rape. La prigionia di Tamora e dei suoi figli arreca grande disonore ai Goti, disonore che viene riconosciuto dalla stessa Tamora quando afferma «We are brought to, Rome / To beautify thy triumphs and return» (I.1.112-113). Viceversa, quando Saturninus la reclama come sposa, gli viene liberamente ceduta da Titus in un legittimo accordo. Sebbene il termine rape sia utilizzato in più occasioni con diverse sfaccettature, «the violation that remains constant is the violation of the right of the ownership»4.
Prima di lasciare la scena insieme a Lavinia, Bassianus la definisce «his betrothed» e successivamente Lucius, il fratello della ragazza, si riferisce a lei come «another’s lawful promised love» (I.1.289), alludendo ad una qualche forma di accordo precedentemente stipulato tra i due innamorati. Ciò lascia presumere che a stipulare questo accordo sia stata proprio Lavinia, indipendentemente dal parere del padre, sottraendogli la prerogativa basata su norme sociali, familiari e di genere: «as her father, he cannot claim sexual access himself, but he can presume control of sexual access to her body»5. Il silenzio di Lavinia durante l’accesa disputa può essere interpretato come un’arma a suo favore: finché ha la possibilità che scegliere il silenzio (dunque fino alla violenta aggressione del II atto) tacere le risulta essere estremamente conveniente, sia perché il silenzio era considerata una virtù femminile, sia perché in questo modo crea ambiguità in merito alla sua posizione nella vicenda. Con quello che potremmo definire un tacito assenso, Lavinia sfida sagacemente il potere del padre, siccome «it is primarly in regard to Lavinia’s body, and most especially in regard to her meidenhead, that Titus can mark his power as specifically masculine»6.
Prima della disputa con Bassianus, Titus si mostra pronto a cedere nelle mani di Saturninus tutto ciò che ha: il potere derivato dalla corona offertagli dai tribuni, la mano della figlia Lavinia e la regina dei Goti, sua prigioniera. Come Lavinia, riprendendo quanto detto in precedenza, anche Tamora è un simbolo del potere e dell’autorità di colui che la “possiede” ma, se il valore di Lavinia risiede nella sua verginità, quello della regina prigioniera si colloca nel suo ruolo politico, «[she] serves as a signifier of one group, the Romans, to disempower another, the Goths»7. Nella contrapposizione tra Romani e Goti, Tamora si trova ad essere prigioniera in terra straniera, il suo primogenito ucciso e gli altri due figli catturati con lei. In una simile situazione, non le resta altra arma che il suo corpo e la sua avvenenza. Saturninus rimarca il suo fascino in un aside: «A goodly lady, trust me, of the hue / That I would choose, were I to choose anew» (I.1.264-265); l’attrazione sessuale dell’imperatore nei suoi confronti le dona ora un nuovo potere e un tipo di autorità che non dipendono dagli esiti delle battaglie.
La regina dei Goti ci viene presentata come manipolatrice e lussuriosa, dai forti e “sregolati” appetiti sessuali. La sua lascivia la rende una donna fuori dall’ordinario, in netta contrapposizione con l’ideale di donna della cultura latina e con la stessa Lavinia. Delle civiltà barbariche, infatti, si tramanda il ruolo differente che le donne avevano rispetto a quello della cultura latina, il fatto che venissero tenute in gran considerazione, tanto da far ritenere che nelle donne vi fosse «qualcosa di sacro e profetico»8.
Tamora rappresenta a pieno “l’altro”: appartiene ad una popolazione barbarica, è una donna a capo del suo popolo (in tutta l’opera non c’è alcun cenno ad un re dei Goti), una madre che intrattiene una relazione extraconiugale con un moro, ancor più “altro” di lei. La sua alterità la rende estremamente temibile, in quanto rappresenta una chiara minaccia all’ordine prestabilito; agli occhi dei romani (evidentemente non a quelli dell’imperatore) appare come una donna corrotta e degenerata, quasi mostruosa. Nonostante il matrimonio con l’imperatore Saturninus, Tamora continua la sua relazione con il moro Aaron, relazione dalla quale nasce un bambino dalla pelle scura, «[a] black slave» (IV.2.120). Il colore della sua pelle non lascerebbe alcun dubbio sulla sua infedeltà, dunque l’imperatrice ne ordina la morte, per liberarsi di una prova talmente schiacciante che la porterebbe ad «essere eliminata per la sua funzione riproduttiva mostruosa, autonoma dal maschio»9.
Aprendo una breve parentesi in merito a questa «soppressione della mostruosità femminile»10, Lidia Curti ne ha indagata la frequenza nella letteratura postcoloniale, mostrando come questo motivo spesso si manifesti nel doppio letterario. Tra le opere citate da Curti troviamo Wide Sargasso Sea, riscrittura postcoloniale di Jane Eyre, firmata dalla scrittrice di origini dominicane Jean Rhys. In Wide Sargasso Sea, Rhys ci propone il punto di vista della moglie di Rochester, che in Jane Eyre ci viene mostrata solo brevemente: rinchiusa nell’attico, la donna appare orrenda, il suo aspetto e il suo atteggiamento la fanno sembrare più simile ad una bestia che ad un essere umano. L’opera costituisce un vero e proprio prequel di Jane Eyre, tramite il quale scopriamo che la donna rinchiusa nell’attico è una creola di Spanish Town, «l’innominata altra, la moglie abbandonata, il doppio dell’eroina bianca e anglosassone»11. Nel Titus Andronicus è la donna bianca – Lavinia – ad essere rifiutata da Saturninus in favore di una donna ‘altra’, proprio come accade in un’altra opera citata da Curti, Sula di Toni Morrison, nella quale la giovane afroamericana Sula viene considerata promiscua, anticonvenzionale e accusata di intrattenere relazioni sessuali con dei ragazzi bianchi (in un interessante rovesciamento del caso di Tamora).
Oltre che a quello di Lavinia, Tamora è innegabilmente contrapposta al personaggio di Titus: ci viene presentata come sua prigioniera, diventa poi sua imperatrice e alla fine dell’opera viene da lui uccisa nel macabro banchetto dell’ultimo atto. Entrambi rappresentano figure di spicco all’interno delle loro comunità di appartenenza ed entrambi si ritrovano ad un certo punto, in una ciclica alternanza, alla mercé l’uno dell’altro.
Nell’Età elisabettiana le caratteristiche attribuite al mondo romano vengono ben riassunte da G. K. Hunter, che descrive la romanità come «soldierly, severe, self-controlled, self-disciplined»12, caratteristiche che Titus sembra inizialmente incarnare alla perfezione. Egli entra in scena da eroe vittorioso, orgoglioso per i servigi resi a Roma; quando declina l’offerta della corona rimarca la sua assoluta fedeltà alla città esclamando:

Rome, I have been thy soldier forty years,
and led my country’s strength successfully,
and buried one and twenty valiant sons […].

(I.1.196-198)

Possiamo immediatamente notare come la definizione di romanità di Hunter faccia esclusivamente riferimento ad aggettivi tradizionalmente attribuiti agli uomini, rendendo dunque i valori romani quasi un sinonimo di mascolinità. Come notato da Coppelia Khan, la stessa etimologia di virtus è intrinsecamente legata al genere maschile; il termine deriva infatti dal latino vir, uomo. Khan continua affermando «virtus – Roman virtue – isn’t a moral abstraction but rather a marker of sexual difference crucial to construction of the male subject – the Roman hero»13, eroe che Titus, in quanto uomo, soldato e pater familias incarna alla perfezione. Egli incarna inoltre il concetto di pietas – amore e devozione per la famiglia, i figli, la patria – fatto rimarcato da suo fratello Marcus quando si riferisce a lui come «Andronicus surnamed Pius» (I.1.23).
Al suo ingresso a Roma Titus ritorna trionfante dalla battaglia, dopo dieci anni di dure lotte contro i Goti, ma la gioia per la sua vittoria è scalfita dalla morte dei suoi figli. Appena arrivato in città, si reca alla tomba di famiglia per rendere loro omaggio con una degna sepoltura e lì esclama affranto:

O sacred receptacle of my joys,
Sweet cell of virtue and nobility,
How many valiant sons hast thou of mine in store
That thou wilt never render to me more!

(I.1.95-98)

Per completare i riti funebri e onorare i giovani caduti, gli Andronici esigono il sacrificio «[of] the proudest prisoner of the Goths» (I.1.99), il figlio maggiore di Tamora, Alarbus. La regina dei Goti implora Titus di risparmiare il ragazzo, elogiando il condottiero e tentando di far leva sulla cosa che più li accomuna, l’essere genitori. Per quanto si trovi in un ruolo subalterno e in una fazione opposta, Tamora cerca di rammentare a Titus che «If thy sons were ever dear to thee, / O, think of my sons to be as dear to me!» (I.1.109-110). Ancora, tentando di far appello alla sua pietas, esaltata poco prima da Marcus, implora:

But must my sons be slaughtered in the streets,
For valiant doings in their country’s cause?
O, if to fight for king and commonweal
Were piety in thine, it is in these.

(I.1.115-118)

Nonostante le preghiere della donna, Titus resta fermo sulla sua decisione e Lucius ordina che Alarbus venga arso su una pira e i suoi arti mozzati. A seguito della terribile decisione, la regina dei Goti, facendo ironicamente riferimento alle parole di Marcus, esclama addolorata «O cruel irreligious piety!» (I.1.133). Poco dopo, nella disputa per la mano di Lavinia, Titus, ancora incredulo per l’affronto subito, apostrofa il figlio Mutius dicendo «What villian boy? / Barr’st me my way in Rome?» (I.1.294-295) e, in preda alla collera, lo uccide. Secondo Khan, i due figlicidi possono essere visti in parallelo, in quanto «both sons are sacrificed in the name of the fathers, according to a piety that seems not only cruel and irreligious but also a perversion of virtus»14.
Nella sua Germania – ritrovata nel 1425 e dunque presumibilmente conosciuta da Shakespeare – Tacito descriveva gli usi puri delle popolazioni germaniche ponendoli in contrasto rispetto al contesto della degenerazione dei costumi a Roma durante l’età imperiale. Anche Shakespeare nel Titus Andronicus muove una critica ai costumi romani e al concetto stesso di romanità – o almeno alla percezione che si aveva di essa durante l’Età elisabettiana. Secondo Khan, «the play insists on an antithesis between civilized Rome and the barbaric Goths only to break it down: the real enemy lies within»15. In effetti nel Titus Andronicus non sono soltanto i Goti a compiere gesti efferati: essi si macchiano di orrendi crimini come lo stupro e la mutilazione di Lavinia e l’inganno da parte di Aaron nei confronti di Titus nel III atto – che lo porta a mozzarsi la mano – ma alcune delle azioni compiute dai romani sono altrettanto riprovevoli, come l’omicidio di Alarbus e di Mutius del I atto ed il macabro banchetto finale.
Nell’opera i personaggi femminili sono necessari per la costruzione del personaggio di Titus ̶ patriarca e tragico revenge hero – ma, secondo quanto afferma Douglas Green, l’impresa è tormentata da continue contraddizioni:

the pressure of Shakespeare’s characterization of Titus, of creating this tragic protagonist, are evident in the Others – notably Aaron, Tamora and Lavinia – who surround the revenge play’s central Self […] it is largely through and on the female characters that Titus is constructed and his tragedy inscribed16.

Si potrebbe affermare che anche Titus, proprio come Lavinia, costituisca in qualche modo un doppio letterario di Tamora, ma che nei confronti di quest’ultima, sia per via del suo genere che della sua appartenenza ad un popolo barbaro, si abbia una sorta di pregiudizio, un doppio standard. Già prima del suo aside a Saturninus – «I’ll find a day to massacre them all / And race their faction and their family» (I.1.453-454) – abbiamo una visione negative della donna che, avendo affascinato l’imperatore, rappresenta «the very occasion for sin»17, tanto che Titus arriva ad accusarla di stregoneria, «whether by device or no, the heavens can tell» (I.1.398). Il legame tra Tamora e il moro Aaron diventa qui cruciale: parlando della donna, all’inizio del II atto, egli chiarisce le sue intenzioni esclamando:

To wanton with this queen,
This goddess, this Semiramis, this nymph,
This siren that will charm Rome’s Saturnine
And see his shipwrack and his commonweal’s.

(II.1.21-24)

Questa dichiarazione conferma l’intento di Tamora, esplicitato nel suo aside, e sposta l’attenzione del pubblico dalle motivazioni iniziali della donna: in questo modo Shakespeare ci impone un giudizio negativo nei suoi confronti. Sarà la stessa Tamora a ricordarci le sue motivazioni nella scena dell’aggressione a Lavinia quando, sorda alle preghiere della ragazza, incalza rivolgendosi ai figli:

Remember, boys, I poured forth tears in vain
To save your brother from the sacrifice
But fierce Andronicus would not relent […].

(II.3.163-166)

Secondo Green, questa affermazione riconduce il tormento di Lavinia agli errori di Titus e, al contempo, «transfers Titus’ inhumanity to Tamora’s unwomanly […] nature in the present circumstance»18.
La complessa relazione tra Titus e Tamora, la loro specularità, è ancor più evidente nel V atto, quando l’imperatrice tenta di ingannare Titus presentandosi al suo cospetto insieme ai due figli, sotto le false spoglie di Vendetta, Stupro e Assassinio. Il condottiero, ormai privo di una mano, comprende immediatamente l’inganno, ma decide di stare al gioco dell’imperatrice esclamando:

Good Lord, how like the empress’ sons thy are!
And you, the empress! but we wordly men
Have miserable, mad, mistaking eyes.
O sweet Revenge, now I do come to thee,
And, if one arm’s embracement will content thee
I will embrace thee in it by and by.

(V.2.64-66)

Con queste parole, che lo fanno apparire come un folle, Titus palesa l’ambiguità che circonda lui e Tamora per l’intera opera e riconosce la sua stessa volontà nel perseguire la strada della vendetta. In questa scena, Shakespeare «gives us the emblem of the avenger’s tragedy: the avenger mirrors the enemy, commits the very evils for which retribution is sought»19.

2. Ibridità e frammentarietà del corpo femminile

Tentando di soddisfare il gusto contemporaneo e seguendo le convezioni della revenge tragedy, Shakespeare fa un larghissimo utilizzo della ripetizione e dell’analogia. Come abbiamo analizzato nello scorso capitolo, l’uccisione di Alarbus da parte di Titus scatena il desiderio di vendetta di Tamora che si concretizza nell’aggressione a Lavinia, aggressione che a sua volta condurrà al banchetto finale, ma la ripetizione degli schemi è evidente in moltissime altre occasioni nel corso dell’opera. Ad esempio, come evidenziato da Russ McDonald, il I atto si apre con una disputa tra due fratelli per la corona e per la mano di Lavinia, che verrà assalita da altri due fratelli, i quali cospirano contro di lei nel II atto; nel III atto Quintus e Martius vengono decapitati da Aaron; Marcus e Titus si consolano l’un l’altro durante tutto il corso dell’opera, la quale si apre e si chiude con l’elezione di un nuovo imperatore. All’inizio del I atto viene portata in scena una bara e viene celebrato il funerale dei figli di Titus caduti in battaglia contro Tamora; nel V atto sono i figli di Tamora a morire per mano di Titus e ad esserle serviti in un orrendo pasticcio che funge loro da bara. Gli stessi personaggi fanno costantemente riferimento a svariate opere classiche, inserendo le loro azioni in quello che lo stesso Titus chiama «a pattern, a precedent, a lively warrant» (V.3.44). Sia Chiron che Demetrius conoscono la storia di Filomela, che Ovidio racconta nelle Metamorfosi20, sebbene, invece di trarne un giusto insegnamento, rendano questa storia «a model of surpassing villainy, rather than a tale with a strong moral warning»21; addirittura Lavinia utilizza il vero e proprio testo delle Metamorfosi per spiegare agli Andronici ciò che le è accaduto.
Ritengo che questa attenzione per la ripetizione, che potremmo definire quasi ossessiva, celi dietro di sé il caos che pervade l’opera e che, come analizzeremo in seguito, si esprime nei modi più disparati. Secondo Bethany Packard, la figura attorno alla quale più si concentra la sensazione di scompiglio è Lavinia. Packard identifica in lei una sorta di coautore che, insieme a Shakespeare, dirige la narrazione e ritiene che questo suo ruolo sia «symptomatic of the multiple narratives circulating within and about Rome in the play»22. Attraverso Lavinia, infatti, appare evidente quanto, con i loro obsoleti modelli narrativi, gli altri personaggi facciano fatica a mantenere «a single cohesive narrative for Rome»23, palesando nella sua figura la dispersione di autorità che avviene nel corso dell’opera.
All’inizio Lavinia ci appare come totalmente assoggettata alla narrativa del padre; il suo stesso nome ci rimanda all’omonima Lavinia dell’Eneide, moglie di Enea e madre dei romani, perfetto esempio di donna latina. Titus percepisce la figlia non solo come il futuro di Roma ma come sua vera e propria incarnazione – proprio come la regina Elisabetta I rappresentava l’incarnazione dell’Inghilterra al tempo di Shakespeare. In seguito al suo stupro, Lavinia viene considerata guasta, inquinata, proprio come Roma è considerata infestata dai Goti, e dovrebbe dunque essere sacrificata per riguadagnare la purezza originale, seguendo i numerosi esempi forniti dalla classicità analizzati nel primo capitolo. Ciò non avviene immediatamente, rompendo di fatto lo schema preconfigurato: a partire della sua aggressione e dal suo stupro Lavinia esce dalla narrativa di figlia casta e devota, aprendo molteplici possibilità narrative; «she functions as a coauthor, rejecting the dominant story of suicide and deploying collaborative strategies to insist on her own hybridity and that of Rome»24. In effetti, Titus e gli altri personaggi tentano di dipingere Roma come indiscutibilmente pura, baluardo di virtus e pietas ormai infestata dai barbari Goti; in realtà essi rappresentano, come dimostrato nel capitolo precedente, «not an infestation of a previously healthy state but an additional manifestation of its multiplicity»25. Ciò risulta evidente già nella prima scena, quando la disputa tra Saturninus e Bassianus ci rende immediatamente chiaro che la posizione di imperatore non è né propriamente ereditaria né elettorale, o ancora quando Lucius si ritrova a capo dell’armata dei Goti contro i quali ha a lungo combattuto.
Proprio come Roma, anche Lavinia esula dalla narrativa di figlia casta e obbediente che il padre ha cercato di imporle già dall’inizio dell’opera. Le primissime parole di Lavinia sono rivolte proprio a Titus, per gioire del suo ritorno a casa e omaggiare la memoria dei fratelli caduti. La ragazza conclude dicendo «O bless me here with thy victorius hand, / Whose fortunes Rome’s best citizens applaud» (I.1.166-167), segnalando il suo desiderio di partecipazione nella vita pubblica, seppur in maniera sommessa e liminale. La sua vivacità di spirito si evince anche nella scena immediatamente precedente alla violenza: lei e Bassianus incontrano Tamora ed Aaron nella foresta e la ragazza apostrofa l’imperatrice con parole impertinenti, che non ci si aspetterebbe da un personaggio simile:

Under your patience, gentle empress,
‘Tis thought you have a goodly gift in horning,
And to be doubted that your Moor and you
Are singles forth to try experiments.
Jove shield your husband from his hound today!
‘Tis pity there should take him for a stag.

(II.3.66-71)

Secondo Packard, la sopravvivenza di Lavinia a seguito della violenza rappresenta il fallimento delle strategie emulative di Titus e degli Andronici; «she highlights the dispersal of authority and stories in the play’s hybrid word»26. Alla vista della ragazza sola e ferita, suo zio Marcus comprende ben presto ciò che le è accaduto, arrivando persino a chiamarla «Fair Philomela» (II.4.38), ma nelle scene successive sembra ignorare del tutto l’aggressione. Nel IV atto è Lavinia stessa a rivelare l’accaduto a suo padre, suo zio e a suo nipote tramite l’utilizzo del testo delle Metamorfosi. La ragazza utilizza un modello facilmente riconoscibile per i suoi familiari, che Packard definisce rischioso, in quanto la reinserisce nella narrativa del sacrificio, dalla quale sembra essere sino ad ora sfuggita grazie a quella che Coppelia Khan chiama «Marcus’s amnesia»27. Una volta compreso l’accaduto infatti, gli Andronici giurano vendetta e Marcus paragona la loro promessa a quella fatta dal padre e dal marito di Lucrezia a seguito del suo suicidio, collegando così i due avvenimenti e, implicitamente, i destini delle due ragazze. Nonostante ciò, «what Shakespeare gives with one hand, one might say, he takes away with the other»28; infatti il ruolo di coautore che la Packard riconosce a Lavinia, in questa scena è quanto mai forte ed evidente. Sebbene sia suo zio Marcus a suggerirle di scrivere nella sabbia utilizzando un bastone da tenere in bocca – «enacting fellatio, […] reenacting her own violation»29 – Lavinia scrive «Stuprum. Chiron. Demetrius» (IV.I.78). Come sottolineato da Packard, al contrario di rape, la parola stuprum indica una violenza senza collegarla ad un rapimento e non viene mai utilizzata nelle Metamorfosi:

This word disassociates Lavinia from “raptus” and its variants as used by other characters, its implication of theft and of women as property of husbands or fathers […] Lavinia’s “stuprum” effectively claims a place in Roman society for women taken out of the reproductive, repetitive chain30.

L’ibridità e lo scompiglio che circondano la figura di Lavinia sono evidenti anche nel III atto, nei momenti precedenti alla violenza e in quelli immediatamente successivi. Dopo l’uccisione di Bassianus, Chiron e Demetrius progettano di gettarne il corpo in «some secret hole / And make his dead trunk pillow to our lust» (II.3.129-130), «by fusing the scene of marital consummation with the scene of rape, making it obscene»31. Tamora approva una simile violenza, ma avvisa i giovani di prestare attenzione, dicendogli «But when ye have the honey we desire, / Let not this wasp outlive, us both to sting» (II.3.130-132). Lavinia la implora di ucciderla e risparmiarle ciò che «womanhood denies my tounge to tell» (II.3.174) e al suo rifiuto, la apostrofa dicendo «No grace? No womanhood? Ah, beastly creature!» (II.3.182). Con queste battute Shakespeare fa espliciti riferimenti al mondo animale mescolandolo con quello umano ed in particolare con quello femminile – simili creature ibride continueranno a popolare la letteratura fino ai giorni nostri32.
I fratelli Quintus e Martius vengono condotti da Aaron presso «the loathsome pit» (II.3.193) dove giace Bassianus, e Martius vi cade all’interno. In preda alla confusione, Quintus chiede al fratello:

What, art thou fallen? What subtle hole is this,
Whose mouth is covered with rude-growing briers,
Upon whose leaves are drops of new-shed blood
As fresh as morning dew distilled on flowers?
A very fatal place it seems to me.

(II.3.199-202)

In queste parole individuiamo una chiarissima metafora che collega la fossa ai genitali femminili e un richiamo alla verginità ed alla deflorazione, inducendoci ancora una volta a pensare a Lavinia come ad una figlia vergine e non ad una donna sposata. Questa volta sono immagini legate al mondo vegetale a mescolarsi con il corpo umano: questo tipo di commistione non è nuova, potremmo anzi definirla tipica dell’epoca rinascimentale. Grazie ai nuovi strumenti disponibili, come l’utilizzo della prospettiva e gli studi di anatomia umana, nel XVI secolo nasce un nuovo tipo di naturalismo basato su studi scientifici33. Ad una prima occhiata, i lavori dei manieristi sembrano ordinari quadri raffiguranti esseri umani, ma avvicinandoci si nota chiaramente che le figure umane rappresentate sono in realtà composte da diversi tipi di frutta e ortaggi. A questa corrente si ispireranno, più di recente, anche le opere di Jan Švankmajer: in particolare, nel suo cortometraggio Flora (della durata di appena 30 secondi) una figura dalle sembianze umane costituita da argilla, frutta e ortaggi giace inerme legata ad un letto mentre le sue parti marciscono velocemente, condannando l’essere “umano” alla morte. È proprio in questa immagine che possiamo rivedere quella del corpo politico della Roma del Titus Andronicus, che già dall’inizio dell’opera, con l’ibridità riguardante la forma di governo e i disaccordi nella famiglia degli Andronici, dimostra di non rispecchiare il ritratto idilliaco che i personaggi tentano di dipingere in quanto «when the parts do not mutually service the whole, they also sacrifice their ability to harmoniously relate to one another»34.
Secondo Caroline Lamb, il Titus Andronicus mostra «[a] persistent interest in how the parts of a body ̶ whether political (Rome’s body politic) or tangible (Titus and Lavinia’s bodies) relate to the whole»35 e si sofferma sull’importanza del concetto di corporeità e unità nell’opera. Nell’offrire la corona a Titus, Marcus sottolinea la centralità di questi due concetti, ribadendo l’importanza «to set a head on headless Rome» (I.1.189) ma Titus ribatte dicendo «A better head her glorious body fits / Than his that shakes for age and feebleness» (I.1.190-191). Nonostante l’elezione di Saturninus ad imperatore, l’integrità del corpo politico di Roma così come quella del potere patriarcale del pater familias viene ufficialmente distrutta quando Titus entra in aperto conflitto con i suoi figli e respinge Lucius dicendo «Nor thou, nor he [Marcus], are any sons of mine» (I.1.297). Sebbene Saturninus rappresenti «a head on headless Rome», il suo regno è caotico e disfunzionale in quanto le varie parti che lo compongono lavorano l’una contro l’altra, rendendosi dunque inadeguate a servirlo propriamente.
Lamb analizza il parallelismo tra la frammentarietà del corpo politico di Roma e quella dei corpi fisici dei personaggi, causata dalle numerose ferite inflitte nel corso dell’opera. Sebbene vi sia un orrendo smembramento – quello di Alarbus – già nel primo atto, è con la figura di Lavinia che Shakespeare si focalizza sulla frammentarietà del corpo, la sua disabilità e adattabilità. La ragazza subisce una terribile violenza e i suoi aggressori, distorcendo la lezione fornitagli dalle Metamorfosi, le tagliano sia la lingua che le mani, facendosi poi beffe di lei:

demetrius
So, now go tell, an if thy tongue can speak,
Who ‘twas that cut thy tongue and ravised thee.

chiron 
Write down thy mind, bewray thy meaning so,
An if thy stumps will let thee play the scribe.

(II.4.1-4)

Proprio come la Filomela ovidiana – la cui lingua viene tagliata da Tereo – riesce a comunicare la violenza subita tessendola su una tela, così Lavinia «adapts her ‘disabled’ state in a way that challenges the equation of physical mutilation or loss with inability»36. Durante l’incontro con la nipote, Marcus le propone di parlare al suo posto dicendo «Shall I speak for thee? Shall I say this so?» (II.4.33), mentre Titus si ritiene capace di interpretarne suoni e gesti, ma la ragazza trova un modo per rendere “attivo” il corpo mutilato:

to redeploy her body’s resources [in order to] reinstate a functional relationship between the parts of her body using them to service her ends in new ways that account for her altered physical state37.

Lavinia, così come Titus (il quale perde la mano destra, la sua «victorious hand» nel III atto per un crudele inganno di Aaron il moro), dimostra più volte la propria capacità di reinventarsi e di partecipare attivamente al compimento della vendetta, non solo svelando il nome degli aggressori ma anche partecipando al loro omicidio. Infatti nel IV atto Titus taglia la gola ai figli dell’imperatrice e la ragazza assiste il padre tenendo tra i denti una ciotola nella quale raccoglie il sangue dei suoi assalitori. Secondo Lamb, la morte di Titus e Lavinia non rappresenta un fallimento, in quanto «the death of the revenger is a vitually unbreakable rule in English Renaissance revenge play»38. Inoltre, la figura di Lavinia apre una prospettiva, fino a quel momento inesplorata, per una narrazione ibrida e frammentata, che si slega da quella tradizionale, distorta e immobile degli Andronici.


  1. C. Khan, Roman Shakespeare. Warriors, Wounds and Women, London, Routledge, 2002, p. 49.
  2. W. Shakespeare, Titus Andronicus, I.1.83. Si cita dall’edizione a cura di R. McDonald, New York, Penguin Books, 2017. D’ora in poi in forma abbreviata nel testo.
  3. B. Harris, Sexuality as a Signifier for Power Relations: Using Lavinia, of Shakespeare’s Titus Andronicus, in «Criticism», xxxviii, 3, 1996, p. 385.
  4. Ivi, p. 389.
  5. Ivi, p. 390.
  6. Ibidem.
  7. Ivi, p. 387.
  8. […] sanctum aliquid et providum (Tac. Germ. VIII 2).
  9. L. Curti, La voce dell’altra. Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale, Roma, Maltemi, 2006, p. 77.
  10. Ivi, p. 42.
  11. Ibidem.
  12. G.K. Hunter, A Roman Thought. Renassance Attitudes to History Exemplified in Shakespeare and Jonson, in An English Miscellany. Presented to W. S. Mackie, a cura di B.S. Lee, Capetown-New York, Oxford University Press, 1977, p. 94.
  13. C. Khan, Roman Shakespeare, cit., p. 14.
  14. Ivi, p. 42.
  15. C. Khan, Roman Shakespeare, cit., p. 47.
  16. D.E. Green, Interpreting “Her Martyr’d Signs”. Gender and Tragedy in Titus Andronicus, in «Shakespeare Quarterly», xl, 3, 1989, p. 319.
  17. Ivi, p. 320.
  18. Ivi, p. 321.
  19. Ibidem.
  20. Nel mito ci viene raccontato lo stupro di Filomela da parte di suo cognato Tereo che, per assicurarsi che il suo crimine resti impunito, le taglia la lingua (Ov. Met. VI 424-570).
  21. V.G. Dickson, A pattern, a precedent, a lively warrant. Emulation, Rhetoric and Cruel Propriety in Titus Andronicus, in «Renaissance Quarterly», lxii, 2, 2009, p. 390.
  22. B. Packard, Lavinia as Coauthor of Shakespeare’s Titus Andronicus, in «Studies in English Literature 1500-1900», l, 2, 2010, p. 282.
  23. Ibidem.
  24. Ivi, p. 283.
  25. Ivi, p. 284.
  26. B. Packard, Lavinia as Coauthor, cit., p. 288.
  27. C. Khan, Roman Shakespeare, cit., p. 58.
  28. Ivi, p. 62.
  29. H.S. Clark, Wresting the Alphabet. Oratory and Action in Titus Andronicus, in «Criticism», xxi, 2, 1979, p. 116.
  30. B. Packard, Lavinia as Coauthor, cit., p. 239.
  31. C. Khan, Roman Shakespeare, cit., p. 53.
  32. Angela Carter nel suo Nights at the Circus ci propone l’immagine ibrida di Fevvers, una donna-uccello dotata di enormi ali che diletta gli spettatori «sulla soglia tra animale e umano, verità e finzione, natura e artifizi» (L. Curti, La voce dell’altra, cit., p. 47). Ancora, in L’altra passione di Eva, Carter ci presenta una “dea mostruosa” le cui forme «sono un miscuglio di umano, animale e pianta» (ivi, p. 48) che «rappresenta la fertilità auto-sufficiente» (ibidem), una figura femminile al contempo mostruosa e sublime.
  33. Cfr. A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia: dal Rinascimento al Manierismo, trad. it. di L. Moscone Bargilli, Torino, Einaudi, 1966.
  34. C. Lamb, Physical Trauma and (Adapt)ability in Titus Andronicus, in «Critical Survey», xxii, 1, 2010, p. 43.
  35. Ivi, p. 42.
  36. Ivi, p. 48.
  37. Ivi, p. 49.
  38. K.E. Maus, Introduction, in Four revenge tragedies, Oxford, Clarendon, 1995, p. XXI.

In Titus Andronicus, it is immediately clear from the language used by Titus, Saturninus and Bassianus how the three men regard Lavinia and, above all, their rights to her property: Saturninus defines Bassianus’ intrusion as a «rape», the latter stating that he has simply taken possession of what was already his, «Meanwhile I am possessed of what is mine». Both the terms «rape» and «possessed» have a double meaning, linked both to any illegitimate appropriation and to a markedly sexual meaning.