Il buco nero della poesia. Versi e vortici celesti in Primo Levi
Tutto quanto io so del mondo mi è pervenuto attraverso i sensi: ma se i sensi mi ingannassero, come avviene nei sogni? Se le stelle, il cielo, il passato che ricostruisco attraverso segni e testimonianze, il presente di cui mi accorgo, le persone che amo e quelle che odio, i dolori che provo, tutto fosse frutto di una mia invenzione non voluta, ed io solo esistessi? Se io fossi il centro di un nulla infinito, inutilmente popolato dai fantasmi che io suscito? Ecco, io chiudo le palpebre e mi tappo le orecchie, e l’universo si annulla.
P. Levi, Contro il dolore
1. La mano che scrive poesie del chimico Levi
In tutte le civiltà, anche in quelle ancora senza scrittura, molti, illustri e oscuri, provano il bisogno di esprimersi in versi, e vi soggiacciono. […] Uomo sono. Anch’io, ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico (II 517)1.
Così Primo Levi giustifica, in apertura dell’opera poetica Ad ora incerta, la sua pratica scrittoria in versi, considerandola tra le espressioni «concise e sanguinose» (I 1375) del sentire, a volte indecifrabili, della sua centauresca identità. L’attività poetica del chimico torinese, come ben evidenzia Enrico Mattioda, «sfugge alla progettazione dell’autore e si presenta come un’emergenza di stadi profondi»2: si alternano, dunque, versi ispirati ora all’esperienza di detenuto ad Auschwitz ora agli interessi scientifici. Questa tendenza a «produrre a folgorazioni» caratterizza tutta la scrittura in versi di Levi, che non procede mai in maniera metodica, piuttosto con fare incerto e curioso parallelamente alla sua produzione in prosa:
Non fa parte del mio mondo. Il mio mondo è quello di pensare ad una cosa, di svilupparla in modo quasi… da montatore, ecco, di costruirla poco per volta. Quest’altro modo di produrre a folgorazioni mi stupisce. E infatti ho poi scritto trenta poesie in quarant’anni3.
Come un meccanismo irrazionale, l’urgenza espressiva del chimico torinese irrompe sulla pagina bianca attraverso l’invenzione poetica, che si presenta come una «curiosa infezione»: «[…] Il mio stato naturale è quello di non fare poesie, però ogni tanto capita questa curiosa infezione, come una malattia esantematica, che dà un rash. Non mi metterò mai a comporre poesie metodicamente. […] È un fenomeno totalmente incontrollato»4. La mano che scrive poesie del chimico Levi si aggrappa alla penna quasi per istinto comunicativo, ricoprendo il ruolo non solo di «esecutrice, ma anche di indispensabile generatrice di idee»: l’autore si abbandona alla scrittura lasciandosi guidare dalla sua mano «come una veggente che guidi un cieco / come una dama che ti guidi a danza» (II 568), vivendo l’esperienza contrastante del momento creativo come una pratica pesante, ma al tempo stesso irrinunciabile. Come si legge in Marco Belpoliti, la mano che scrive è per l’intellettuale torinese «l’apice del processo evolutivo raggiunto dall’uomo, poiché con la scrittura ha inizio la storia, la testimonianza e la memoria»5. Attraverso la mano la memoria supera la dimensione individuale del ricordo e si fa traccia esterna, testimonianza rivolta agli altri. La scrittura in versi di Primo Levi non può che nascere da stimoli imprevedibili, “ad ora incerta”:
Quest’ora incerta è allora un’ora molto precisa, è l’ora dell’incertezza tra il giorno e la notte, tra la veglia e il sogno, è quella in cui il dominio del super-io viene messo in discussione dall’Es; è l’ora in cui nessuna delle opposizioni prevale sull’altra, è l’ora intermedia, delle “zone grigie” in cui scompare la fiducia illuminista nel separare e distinguere, in cui bisogna fare i conti con una realtà complessa, fatta di connivenze, corruzione, abiezione6.
Sospinto dalla ricerca della forma poetica adatta, lo «straccio di es» (II 1577) dello scrittore trova una sua dimensione nella libertà metrica, in versi irregolari scavati nel fondo del significato e del significante, tra allusioni biografiche e letterarie e silenzi, figure ossimoriche e elementi aulici, per urgenza comunicativa delle molte voci del suo Io, in un movimento pendolare tra la precisa disposizione chimica degli elementi-parola e il fascino del ricorso alla rima classica:
Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: […] quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! (I 774)
Il mondo della chimica si configura per lui come un «serbatoio di metafore» a cui attingere, per quella loro evidenza rigorosa, che nulla concede alla vaghezza o al compiacimento sentimentale: «La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia» (II 642). Il mestiere di chimico si trasforma allora in mestiere di vivere, perché esce dai confini del sapere scientifico per investire la Weltanschauung: può, quindi, la poesia davanti agli abissi cosmologici divenire uno strumento umano utile a ricucire l’asimmetria della vita?
2. La poesia di fronte ai misteri del cosmo
Il Levi poeta del “noi” e del “voi”, evocatore di una responsabilità storica e collettiva, convive, a partire dalla metà degli anni Settanta, con il Levi poeta della materia, affascinato e al tempo stesso annichilito di fronte alle nuove scoperte cosmologiche. Gli studi astronomici di quegli anni impongono un ripensamento di quella interpretazione tradizionale del rapporto terra-cielo che anche Levi aveva condiviso:
Le «vaghe stelle dell’Orsa» sono quelle che ridavano pace a Leopardi, la W di Cassiopea, la croce del Cigno, Orione gigantesco, il triangolo di Boote affiancato dalla Corona e dalle Pleiadi care a Saffo, sono ancora sempre quelli, abbiamo imparato a conoscerli da bambini e ci hanno accompagnato per tutta la vita. È il cielo «delle stelle fisse», immutabile, incorruttibile; l’antagonista del nostro mondo terrestre, il nobile-perfetto-eterno che abbraccia e avvolge l’ignobile-mutevole-effimero (II 787).
Continuare a osservare le stelle in modo così ingenuo e primitivo è impossibile:
Il cielo dell’uomo d’oggi non è più quello. Abbiamo imparato ad esplorarlo con i radiotelescopi, ed a mandare in orbita strumenti capaci di cogliere le radiazioni che l’atmosfera intercetta: […] il cielo si sta rapidamente popolando di una folla di oggetti nuovi, insospettati (ibidem).
Le “ultime notizie dal cielo” parlano di antimateria e black holes: non esistono più stelle fisse, ma solo «fornaci atomiche» che annichiliscono lo sguardo e la parola di chi tenta di scoprirne il mistero. Il cielo stellato, dunque, ha perso definitivamente quei connotati «domestici» che per secoli hanno ispirato poeti e filosofi, e si presenta adesso come «sempre più intricato, imprevisto, violento e strano» (II 788). Di fronte ai vorticosi equilibri del cosmo lo stupore primigenio non può che scomparire. L’uomo si scopre una singolarità, perché gli risulta impossibile carpire il significato della nuova volta celeste, decodificandone il linguaggio:
Dal nero alveo primigenio senz’alto né basso, senza principio e senza fine, dalla contrada del Tohu e del Bohu, non ci sono giunte finora parole di poesia, eccettuate forse poche ingenue frasi del povero Gagarin: null’altro se non i suoni nasali, disumanamente caldi e freddi, dei messaggi radio scambiati con la Terra, conformemente a un rigido programma. Non sembrano voci d’uomo: sono incomprensibili come lo spazio, il moto e l’eternità (II 650).
I nuovi studi scientifici, pur collegandosi alle riflessioni elaborate da sempre di fronte all’incomprensibile furore degli elementi naturali, costituiscono dunque una nuova rivoluzione copernicana, perché costringono a ridefinire non solo il ruolo dell’uomo nell’universo, ma anche a creare un nuovo linguaggio: «Non ci trasmettono messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni. L’anagrafe dei mostri celesti cresce a dismisura: a descriverli, il nostro linguaggio di tutti i giorni fallisce, è inetto» (II 788). Il sovvertimento delle coordinate celesti operato dalle nuove scoperte travolge il linguaggio, determinando uno strappo fin dalle sue radici etimologiche. Se la parola “cosmo” non esprime più ordine e bellezza, tutto il linguaggio tradizionale creato per definire il cielo va risemantizzato. Per tale motivo la penna del poeta vive un’esperienza afasica, smarrita tra i nuovi «strani» eventi stellari. In questa epoca in cui si scopre che tutto può essere risucchiato via dai buchi neri, «presunte tombe ed inghiottitoi celesti», si deve prendere atto che si è giunti al grado zero della poesia: «non è ancora nato, e forse non nascerà mai, il poeta-scienziato capace di estrarre armonia da questo oscuro groviglio» (ibidem). Proprio partendo da tale consapevolezza, Levi decide di vestire i panni del poeta-scienziato: intende indagare l’infinitamente grande con lo stesso rigore etico ed estetico da lui seguito per esprimere l’infinitamente piccolo. La cesura tra la prima produzione “memorialistica” e questa di impianto scientifico, in cui Levi si interroga sulla formazione dell’universo e sulla sua struttura, non appare dunque netta, perché permane anche in questa seconda fase una scrittura «a nervi tesi e con gli occhi spalancati»7. Di fronte al dolore dell’universo, infatti, Levi resta fedele alla scelta etica di una poesia della conoscenza, tanto che spesso nei suoi versi si sente l’eco delle opere di Lucrezio e Leopardi, i poeti che seppero del dolore fare una forza propulsiva all’indagine rigorosa dell’esistente. Consapevole che l’universo tutto è destinato ad una inevitabile conflagrazione, Levi presenta i soggetti delle sue nuove poesie come capaci di rivolgere uno sguardo straniato sul mondo, condizione necessaria per indagarne il significato altro e celato. Ne sono un esempio le poesie Plinio e La bambina di Pompei, poste al centro della raccolta, dove l’autore ricorre fortemente a un lessico visivo. L’osservazione dei fenomeni naturali genera inevitabilmente angoscia, nel momento in cui non se ne comprendono le dinamiche; eppure questa pratica è indispensabile per l’uomo che desideri considerare quale sia il proprio ruolo nell’universo:
Tornerò presto, certo, concedimi solo il tempo
Di traghettare, osservare i fenomeni e ritornare,
Tanto ch’io possa domani trarne un capitolo nuovo
Per i miei libri, che spero ancora vivranno
Quando da secoli gli atomi di questo mio vecchio corpo
Turbineranno sciolti nei vortici dell’universo
O rivivranno in un’aquila, in una fanciulla, in un fiore.
Marinai, obbedite, spingete la nave in mare (II 548).
La deflagrazione della forma poetica tradizionale, inadatta al compito di scandagliare gli eventi celesti, procede parallela al disgregarsi della centralità dell’uomo nel cosmo. Se «è strano l’universo per noi, noi siamo strani nell’universo» (II 788); pertanto, alla parola non resta che esprimere tale “stranezza”. La poesia finisce, quindi, per polverizzarsi sotto il peso del vorticare incessante dell’universo, condividendo la cifra di pulvis con l’uomo contemporaneo, che non sa trovare più un suo ruolo tra le «afflizioni donate dal cielo» (II 549). Con la scoperta dei black holes l’uomo si trova a vivere la condizione di non sapere più che cos’è e dove si trova, brancolando in uno stato di disorientamento totale, generato dalla paura e insieme dall’entusiasmo di essere parte di un tutto in trasformazione, come si evince dal frammento empedocleo posto in apertura della poesia Autobiografia: «Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori dal mare» (II 558). Il tema della dissoluzione del corpo umano in vorticosi atomi che si muovono nell’universo viene espresso in modo efficace nei versi di questa poesia, dove a prendere la parola è uno scienziato, Empedocle, intento ad esprimere il suo desiderio inappagabile di conoscenza: «[…] Cieco io stesso: ma già desideravo la luce / Quando ancora giacevo nella putredine del fondo» (ibidem). La pratica della scrittura poetica si inserisce, per Levi, nell’incessante moto dell’universo, come sottolinea Emanuele Zinato nel saggio Primo Levi poeta-scienziato:
Nelle poesie leviane le infime dimensioni degli umani («stanchi, iracondi, illusi, malati, persi») vengono accostate a quelle, cosmiche, della violenza generatrice della materia stellare («Nostro padre comune e nostro carnefice»). L’astrofisica presta a Levi un’immagine definitiva e terminale, capace di veicolare una clausola solenne e disperante non diversa da quella che chiude il leopardiano A se stesso («l’infinita vanità del tutto»)8.
La figura dello scienziato assume, perciò, tratti mitici. Il Galileo Galilei presentato nella poesia Sidereus nuncius, il quale grazie alle «mani sagaci» ha creato il cannocchiale, ricorda per la sua vicenda Prometeo: il cielo che egli ha «sfondato» gli ha bruciato gli occhi, e gli umani, come «avvoltoi», lo hanno costretto a rinnegare la sua scoperta. La vicenda di Galileo diventa tristemente esemplare e annuncia l’impossibilità per lo scienziato di giungere alla conoscenza dell’universo, perché è impossibile sfondare davvero il cielo, ma anche perché gli uomini non intendono rinunciare alle loro comuni certezze, benché false. La tensione conoscitiva che attraversa tutta la produzione di Levi subisce, però, un momento di resa quando il poeta si rende conto che «l’universo […] si fa nemico» (II 573). Levi, interrogandosi ancora una volta sul ruolo della poesia, giunge alla conclusione che forse, come sostiene la chiocciola protagonista dell’omonima poesia datata 7 dicembre 1983, non resta al poeta altra possibilità che «rinchiudersi per aver pace, […] negando il mondo e negandosi al mondo» (ibidem).
3. L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto
Sparita l’illusione di poter rispondere con la conoscenza rigorosa al sentimento del dolore ineluttabile del vivere, il poeta sembra dichiarare la sua resa. Come di frequente avviene nella sua poesia, Levi ricorre ad allegorie etologiche per descrivere il suo senso di straniamento. Nella poesia Vecchia talpa, datata 22 settembre 1982, per esempio, il chimico torinese si paragona al solitario mammifero, riconoscendosi nella sua scelta di vivere nascosto, lontano da un cielo che spaventa:
Che c’è di strano? Il cielo non mi piaceva,
Cosa ho scelto di vivere solo e al buio.
Mi sono fatte mani buone a scavare,
Concave, adunche, ma sensitive e robuste.
Ora navigo insonne
Impercettibile sotto i prati,
Dove non sento mai freddo né caldo
Né vento pioggia giorno notte neve
E dove gli occhi non mi servono più (II 566).
Il legame inscindibile mano-cervello ritorna costantemente nella esperienza poetica del Levi indagatore dei fenomeni celesti, per il quale la penna rappresenta la leva su cui poggia il peso della solitaria condizione umana. Nell’epistola in versi Nel principio, datata 13 agosto 1970 e ispirata dalla teoria del Big Bang, l’autore torinese si rivolge ai «fratelli umani», con cui sa di condividere il medesimo spaesamento. Per tale motivo, nel descrivere gli eventi immediatamente precedenti la conflagrazione generante, decide di non vestire i panni del profeta, riconoscendo che per tutti gli uomini è «lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida / lo stesso tempo che ci partorisce e travolge» (II 544). Neppure è mosso da intenti di ammonimento: l’«udite» al terzo verso del componimento non ha nulla a che fare con il lapidario «ascoltate» della poesia Shemà, poiché adesso condivide con i destinatari della lettera la stessa condizione originaria – «nostro padre comune e nostro carnefice» – e il comune destino di uomini «stanchi, iracondi, illusi, malati, persi» in universo oscuro. La singolarità di questa cosmogonia materialista risiede nell’essere «una catastrofe alla rovescia», perché il fenomeno celeste qui descritto è ribaltato rappresentando l’origine e non la fine dello spazio e del tempo:
Fratelli umani a cui è lungo un anno
Un secolo un venerando traguardo,
Affaticati per il vostro pane,
Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi;
Udite, e vi sia consolazione e scherno:
Venti miliardi d’anni prima d’ora,
Splendido, librato nello spazio e nel tempo,
Era un globo di fiamma, solitario, eterno,
Nostro padre comune e nostro carnefice
Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio.
Ancora, di quest’una catastrofe rovescia
L’eco tenue risuona dagli ultimi confini.
Da quell’unico spasimo tutto è nato
Lo stesso abisso che ci avvolge e ci sfida,
Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge,
Ogni cosa che ognuno ha pensato,
Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato,
E mille e mille soli, e questa
Mano che scrive (ibidem).
Dalla lettura di un articolo dello scienziato Kip S. Thorne dal titolo The Search for Black Holes, apparso nel 1975 sulla rivista «Le Scienze», edizione italiana di «Scientific American», Primo Levi trae spunto per la scrittura di uno dei componimenti centrali della sua raccolta: Le stelle nere. Nell’articolo si legge:
Di tutte le idee concepite dalla mente umana, la più fantastica è forse il buco nero: un buco nello spazio, con un bordo definito al di sopra del quale nulla può cadere e da cui nulla può sfuggire; un buco con un campo gravitazionale così forte che anche la luce è catturata e trattenuta nella sua morsa; un buco che curva lo spazio e piega il tempo. […] Da un punto di vista fisico e matematico un buco nero è un oggetto meravigliosamente semplice, molto più semplice della terra o di un essere umano. […] Tutte le proprietà del buco nero sono determinate completamente dalle leggi di Einstein per la struttura dello spazio vuoto (II 1526-27).
Il cielo a cui Levi leva lo sguardo non ha più lo stesso ordine di quello degli antichi: l’«ordine immobile e insieme fatale, eppure stabile»9 è sciolto. L’universo risulta adesso «cieco, violento e strano», e non è un caso che l’ultima parola della poesia sia «invano», che intende indicare l’impossibilità di comprendere le leggi che regolano il vorticare celeste. L’autore torinese mette in versi la descrizione dei buchi neri letta nell’articolo di Thorne, senza però condividere il piacere della scoperta dello scienziato americano:
Nessuno canti più d’amore o di guerra.
L’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto;
Le legioni celesti sono un groviglio di mostri,
L’universo ci assedia cieco, violento e strano.
Il sereno è cosparso d’orribili soli morti,
Sedimenti densissimi d’atomi stritolati.
Da loro non emana che disperata gravezza,
Non energia, non messaggi, non particelle, non luce;
La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso,
E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla,
E i cieli si convolgono perpetuamente invano (II 546).
Come ben evidenzia Belpoliti:
L’espressione buchi neri non è usata né nel titolo né nei versi. Levi preferisce la dizione classica di stelle nere; la poesia ha un andamento classicheggiante, sebbene costellato di alcuni termini di origine scientifica, entrati tuttavia ormai da tempo nel lessico comune (energia, messaggi, particelle, atomi)10.
Scarpa ha presentato la poesia Le stelle nere come versi scritti «a nervi tesi e con gli occhi spalancati […] dalle belle giunture e dai muscoli elastici»11. Molti anni dopo la composizione di questa poesia il chimico torinese recupera gli spunti derivanti dalla lettura di Thorne per condurre una ricerca delle proprie “radici”. La riflessione sui buchi neri gli offre, infatti, l’occasione per mettere a nudo la sua parte in ombra. Per chiudere la sua personale antologia del 1981, La ricerca delle radici, Levi sceglie, per l’appunto, l’articolo dello scienziato americano, facendolo precedere da un breve saggio introduttivo dal titolo Siamo soli, in cui, pur riconoscendo agli astrofisici il merito di aver spalancato le porte del cielo, riflette sulla nuova condizione di solitudine che tali studi hanno causato all’uomo, creatura abbandonata in un cielo sterile, lontano e minaccioso. L’opera presenta in apertura un grafo che affida un ruolo centrale proprio ai buchi neri:
Levi traccia quattro linee di forza, lungo le quali dispone gli autori che considera importanti nella sua formazione. Al vertice in alto dei quattro meridiani colloca Giobbe, «il giusto oppresso dall’ingiustizia», mentre in basso, come punto d’arrivo, pone i buchi neri. Tra Giobbe e i buchi neri, nella rappresentazione grafica delle radici, stanno gli autori che interpretano «la salvazione del capire» (Lucrezio, Darwin, Bragg, Clarke), «la statura dell’uomo» (Marco Polo, Rosny, Conrad, Vercel, Saint-Exupeéry), «la sofferenza dell’uomo giusto» (Eliot, Babel’, Celan, Rigoni-Stern) e «la salvazione del riso» (Rabelais, Belli, Porta, Schalòm Alechém), autori vari, per molti aspetti inconciliabili, ma da ognuno di essi Levi riceve un’eredità. Domenico Scarpa così spiega questa disposizione:
Dal nontempo trascendente di un Libro sacro si perviene al nontempo della fisica teorica e della luce che collassa nelle stelle di neutroni. Ogni pensiero e ogni azione umana collocati in un qui-e-ora non sono altro che ponti sospesi sul nulla, o tuttalpiù poggianti su pilastri impossibili da verificare, su dimensioni paradossali dello spazio-tempo, su aporie dell’intelligenza e disorientamenti degli organi di senso12.
I tre aggettivi usati da Levi in Le stelle nere ritornano adesso nella premessa all’articolo di Thorne:
Siamo soli. Se abbiamo interlocutori, essi sono così lontani che, a meno di imprevedibili svolte, con loro non parleremo mai […]. Ogni anno che passa ci rende più soli: non soltanto l’uomo non è il centro dell’universo, ma l’universo non è fatto per l’uomo, è ostile, violento, strano. […] Ad ogni anno che passa, mentre le cose terrestri si aggrovigliano sempre più, le cose del cielo inaspriscono la loro sfida: il cielo non è semplice, ma neppure impermeabile alla nostra mente, ed attende di essere decifrato. La miseria dell’uomo ha un’altra faccia, che è di nobiltà; forse esistiamo per caso, forse siamo la sola isola d’intelligenza nell’universo, certo siamo inconcepibilmente piccoli, deboli e soli, ma se la mente umana ha concepito i buchi neri, ed osa sillogizzare quanto è avvenuto nei primi attimi della creazione, perché non dovrebbe saper debellare la paura, il bisogno e il dolore? (II 1579-80)
L’esistenza dei black holes sembra determinare, dunque, la definitiva condanna alla solitudine e all’irrilevanza dell’uomo nell’universo e alla infondatezza senza appello di ogni pretesa antropocentrica. Diversi anni dopo, nel 1987, l’espressione “buco nero” compare in un altro scritto di Levi, un articolo pubblicato sul quotidiano «La Stampa» e appunto intitolato Buco nero di Auschwitz. L’immagine dei buchi neri che tutto risucchiano e non lasciano uscire dalle proprie profondità insondabili neppure un raggio di luce richiama alla mente di Levi un’altra immagine, altrettanto terribile, quella dei lager, che inghiottirono nel loro insondabile disegno milioni di ebrei. I black holes diventano, dunque, per l’autore torinese la metafora-immagine della distruzione senza scampo a cui ha assistito. Belpoliti illustra l’evoluzione di questa immagine nella produzione di Levi:
Le stelle nere costituisce un antecedente, ma con una specificità. Là, seppur nei versi disperati, il black hole è in alto sopra la testa del poeta, mentre qui il buco nero sembra aprirsi di colpo sotto i suoi piedi: punto in cui collassa l’intera storia europea. Primo Levi, con tutta la sua passione per la scienza e le sue letture delle pagine di «Scientific American», sta sospeso tra questi due spazi dove: «La luce stessa ricade, rotta dal proprio peso, / E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla»13.
Gli studi scientifici di Thorne rivelano a Levi il non-senso del cielo, della Storia e della sua stessa vita. Nel nulla si compie il destino dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo.
4. I buchi neri come dimensione del Chaos
La poesia scientifica di Levi giunge a conclusioni che rivelano un risvolto nuovo del “capire”: non la salvazione, come è possibile cogliere in tanti suoi maestri, in primis in Lucrezio, ma la caduta. D’altronde, a partire dagli studi sulla curvatura della luce di Arthur Eddington, si è cominciato a pensare all’universo come sottoposto alla legge di gravità, proprio come l’uomo: «Come l’uomo in terra, anche il firmamento in cielo sembra subire una forza di attrazione verso il basso, contemplando tra i suoi movimenti la caduta, aprendosi cioè alla possibilità di trascinare in giù e sommergere, addirittura di precipitare»14. Forse è questo il significato delle direttrici disegnate da Levi nel grafo in apertura de La ricerca delle radici: la direzione verso il basso si impone come unica legge universale. La «salvazione del riso» e quella del «capire», pur seguendo traiettorie parallele, trovano un punto di incontro nell’origine, Giobbe, e nella fine, i buchi neri. In questo punto d’arrivo «l’ordine donde il cosmo traeva nome è sciolto» (II 546). La Legge che governa l’universo si presenta come una tensione verso il basso: il finito, quello che, come giustamente ricorda Levi, gli antichi chiamarono kosmos, ammirandone l’ordine come espressione evidente del logos, si annulla nell’infinito, in quel chaos di cui si parla, agli albori della letteratura occidentale, nella Teogonia di Esiodo: «Dunque, per primo fu il Chaos»15. Levi considera questo sbocco come scioglimento dell’ordine, ma non tanto nel senso di “disordine”, quanto di “spazio aperto”, “voragine”, secondo l’interpretazione che Jean-Pierre Vernant16 propone del termine chaos nell’opera esiodea. Lo studioso francese fa risalire, infatti, l’etimologia del termine alla radice *cha, che si collega al verbo cháino/chásko, che significa “aprire la bocca”. La parola chaos, dunque, suggerisce l’idea di qualcosa che si “spalanca”, perciò viene associata all’oscurità: «Va notato che il Caos esiodeo non esiste da sempre: si manifesta d’improvviso e perdura, anche dopo che si sono sviluppati gli esseri divini, come uno spazio di fondo, un buco nero dell’universo»17. Questo non impedisce di ipotizzarlo anche come “vuoto”: «Caos il vuoto primordiale, una specie di gorgo buio che risucchia ogni cosa in un abisso senza fine paragonabile a una nera gola spalancata (χάσκω, “inghiotto”)»18. L’«animale da esperimento» che è Giobbe, «il giusto oppresso dall’ingiustizia», vede compiersi il suo destino nei buchi neri, nella voragine buia che tutto risucchia. La freccia di direzione non sembra ammettere altre possibili soluzioni. E il destino di Giobbe è quello degli uomini contemporanei, il cui cielo si è inabissato: «Invertendo la prospettiva della nota epigrafe kantiana, “il cielo stellato” della modernità appare non più “sopra” ma sotto chi, inabissandosi, ancora si affaccia nel vuoto, in cerca di infinito»19. La storia dell’universo è, però, segnata anche da una voragine primordiale, dalla cui conflagrazione tutto si è generato e ogni mutamento ha preso inizio:
Venti miliardi d’anni prima d’ora,
Splendido, librato nello spazio e nel tempo,
Era un globo di fiamma, solitario, eterno,
Nostro padre comune e nostro carnefice,
Ed esplose, ed ogni mutamento prese inizio (II 544).
Questa visione, che si richiama alla teoria del Big Bang, rende ancora più evidente la nobiltà di Giobbe, e dell’uomo, che dalla voragine generante precipita verso l’altro polo, verso la voragine nera, senza possibilità alcuna di ostacolare tale legge.
5. La salvazione dello scrivere chiaro
Di fronte a questa visione del cosmo e della condizione umana Levi avrebbe potuto scegliere di «vivere solo e al buio» (II 566), di «sigillarsi silenziosamente / dietro il suo velo di calcare candido / negando il mondo e negandosi al mondo» (II 573). Non è questa la strada scelta dal nostro autore, che fino alla fine vive il suo mestiere come «un servizio pubblico» (II 678), nel rispetto totale dei suoi lettori. Per questo motivo rifiuta una scrittura oscura, che «avvince come avvincono le voragini, ma insieme […] defrauda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato» (II 680). Levi non condivide l’opinione di chi ritiene «che solo attraverso l’oscurità verbale si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo» (ibidem), anzi lo considera un vizio proprio del «secolo insicuro» in cui vive. Levi ritiene, infatti, che la condizione oscura del vivere vada espressa con un linguaggio chiaro e uno stile piano, perché chi scrive ha una grossa responsabilità sociale. La riflessione estetica, dunque, non può prescindere dalla consapevolezza etica. Perciò nell’agenda di un poeta non può mancare un’annotazione che gli ricordi questo impegno:
In una notte come questa un poeta
Tende l’arco a cercare una parola
Che racchiuda la forza del tifone
Ed i segreti del sangue e del seme (II 613).
E la salvazione dello scrivere chiaro diviene la nuova linea di tensione tra Giobbe e i buchi neri.
- Si cita direttamente a testo P. Levi, Opere, 2 voll., a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, con la sola indicazione di volume e numeri di pagine. ↑
- E. Mattioda, Levi, Roma, Salerno Editrice, 2011, pp. 173-74. ↑
- P. Levi, G. Grassano, Intervista con Primo Levi (1979), in G. Grassano, Primo Levi, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 16. ↑
- Ibidem. ↑
- M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, Milano, Guanda, 2016, p. 293. ↑
- E. Mattioda, Levi, cit., p. 181. ↑
- D. Scarpa, Calvino, Levi e la scoperta letteraria dei buchi neri, in «Sinestesie», I-II, 2006, p. 299. ↑
- E. Zinato, Primo Levi poeta-scienziato, in «Cono-scienza», 23 luglio 2009, URL <http://cono-scienza.fisica.unipd.it/articoli.php?id=50>, consultato il 20 febbraio 2022. ↑
- M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 579. ↑
- Ibidem. ↑
- D. Scarpa, Calvino, Levi e la scoperta letteraria dei buchi neri, cit., p. 298. ↑
- Ivi, p. 300. ↑
- M. Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo, cit., p. 581. ↑
- S. Acocella, Cosmologie novecentesche: dai buchi neri ai cieli di carta, in «Leússein», II, 2010, p. 101. ↑
- Hesiod. Theog. 116. ↑
- Cfr. J.-P. Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini. Il racconto del mito, trad. it. di I. Babboni, Torino, Einaudi, 2001. ↑
- G. Guidorizzi, Il mito greco. Gli dèi, Milano, Mondadori, 2009, p. 1168. ↑
- Ivi, p. 5. ↑
- S. Acocella, Cosmologie novecentesche: dai buchi neri ai cieli di carta, cit., p. 105. ↑