«Angeli ed aquile». La dolorosa duplicità dell’«io» in Carlo Coccioli

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Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è che una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto quanto non coincide con l’io: l’io è un altro.

T. Todorov, La conquista dell’America

1. Carlo Coccioli, «lo scrittore assente»

«Sono nato nel 1960. Come tanti della mia generazione, ho cominciato a leggere Carlo Coccioli quando i suoi libri erano ormai pressoché tutti fuori commercio»1: con queste parole si apre la prefazione di Giulio Mozzi alla nuova edizione di Davide di Carlo Coccioli, edita nel 2020 da Lindau, parte di un’impegnata e ambiziosa impresa editoriale che propone la ripubblicazione dell’opera omnia dello scrittore livornese, rimasta per anni in Italia silente e pressoché dimenticata. Le disavventure raccontate da Mozzi nel disperato reperimento delle opere di Coccioli, tra mercatini, prestiti e edizioni nascoste nei luoghi più disparati, rendono abbastanza accuratamente l’idea della condizione di isolamento critico ed editoriale in cui lo scrittore ha a lungo giaciuto. Nato a Livorno nel 1920 ma residente a Città del Messico dal 1953, dove pubblicherà gran parte dei suoi romanzi, Carlo Coccioli intrattiene un rapporto peculiare con la classe culturale italiana e i suoi lettori: un rapporto non semplice, un «disamore», come lo definisce Pier Vittorio Tondelli nel suo Un weekend postmoderno, che trova la sua ragione in diversi fattori. In primo luogo «la tematica esistenziale e religiosa di Coccioli certo non poteva essere accettata dall’establishment culturale di sinistra degli anni cinquanta»2: le parole di Tondelli sottolineano immediatamente la prima peculiarità dell’opera di Coccioli, l’ostinato e persistente rapporto Uomo-Dio, quello che è il centro focale della sua narrazione ed anche uno dei motivi della sua estraneità rispetto al panorama letterario a lui contemporaneo. Lontano dall’estetica neorealista che aveva dominato gli anni trenta del Novecento e lontano allo stesso modo dallo sperimentalismo della neoavanguardia, Coccioli appare come un pesce fuor d’acqua, come se le sue opere non condividessero la stessa atmosfera e le stesse ragioni dei suoi contemporanei, ma attingessero esclusivamente da un’interiorità tutta ritratta in se stessa, rispondendo all’esigenza urgente ed ostinata di una ricerca metafisica che fa della scrittura il suo strumento privilegiato. Un’estraneità che si traduce anche in un’effettiva distanza fisica e linguistica: prima a Parigi nel 1949 e pochi anni dopo a Città del Messico, Coccioli scriverà buona parte dei suoi romanzi in lingua francese e spagnola, alcuni dei quali faticosamente giunti in Italia soltanto a distanza di molto tempo, così da mitigare ancor più la comunità di lettori dell’autore livornese (che pur vince il premio Campiello nel 1976 con Davide): ma la ragione per cui a Tondelli piaceva definirlo «lo scrittore assente» non trova in realtà motivo nella geografica distanza, quanto nell’irrequietezza che pare spingerlo sempre verso un’alterità, qualunque forma essa abbia, in una ricerca costante e instancabile. Tutta la sua produzione, che conta nella sua corposità circa quaranta opere, appare infatti percorsa da un persistente desiderio di ricondurre il molteplice all’unità, di riconciliare l’uomo con l’altro ma, soprattutto, con se stesso. Un desiderio che si riflette immediatamente già nel primissimo frammento di Piccolo Karma, opera diaristica e cronaca di un mese vissuto a San Antonio, in Texas: «Vorrei non aver scritto tutti i libri che ho scritto. Vorrei averne scritto soltanto uno: semplice, chiaro, preciso, definitivo. Vivo con la pena di non essere stato capace di scriverlo»3; così anche nella stessa creazione della propria opera, nella consistenza della sua copiosa produzione, Coccioli non riesce a nascondere quella tendenza all’unità, tanto da desiderare l’annullamento di un’intera carriera artistica in cambio di un solo testo capace di dire tutto, di restituire tutto.
Cristiano e omosessuale, italiano ma “in esilio” volontario, romanziere ma esterno a qualsivoglia tendenza letteraria, Coccioli pare confermare col suo dato biografico quella dualità imprescindibile che percorre la sua opera: sarebbe però banalizzante ricondurre tale instancabile Leitmotiv alla sola esperienza di vita; resta qualcosa nel grande ritratto umano che Coccioli tenta di portare in scena nei suoi romanzi che prescinde il mero vissuto, che trova radici filosofiche più articolate, dal neoplatonismo all’idealismo, e che, nella resa romanzata, dà origine ad un «io» narrante che non sa bastarsi, in costante ricerca di qualcosa che sappia finalmente risolvere il suo mistero. Si cercherà quindi di comprendere quali radici e significati abbia tale dolorosa duplicità nell’opera di Carlo Coccioli attraverso la lettura di due opere particolarmente significative e, soprattutto, vicine per diverse ragioni: Davide e L’erede di Montezuma. Entrambe le opere dimostrano infatti un’ambizione all’universale, la prima attraverso la riscrittura dell’epica biblica e la seconda utilizzando invece il romanzo storico; entrambe le opere presentano un’impostazione se non strettamente diaristica, quantomeno “confessionale”, attraverso una narrazione frammentaria in prima persona in cui l’io narrante ripercorre la propria esistenza a ritroso, osservandola con lo sguardo lucido di colui che si trova già alla fine del proprio percorso; infine, i due protagonisti sono uomini che godono di posizioni di prestigio, a capo di regni od imperi ma vicini al termine della loro esistenza, ritratti quindi nell’istante della massima fragilità, chiamati a spogliarsi del loro rivestimento politico e confrontarsi invece con la propria vulnerabilità ma soprattutto con la loro natura dolorosamente biforme.

2. Davide: l’Uomo e Dio

Ascolta: io, Davide, messia, re d’Israele, la notte scorsa ho fatto un sogno. Ho sognato che volavo sopra i monti della Giudea, luminosa trasparenza. Non che mi fossi trasformato in angelo o in aquila: restavo l’uomo che sono. Ma un vigore incomparabile mi circolava di nuovo nelle membra, sicché con l’agitare le braccia mi tenevo sospeso sulle gialle solitudini.4

Nell’evocativo incipit di Davide, pubblicato nel 1976, riscrittura in forma romanzo dell’epopea biblica del secondo re d’Israele, narrata all’interno dei Libri di Samuele e delle Cronache dei Re, è già insito il cuore stesso non solo del romanzo ma dell’opera di Coccioli; in primo luogo, l’esortazione orale, rivolta direttamente al lettore-ascoltatore, rimanda immediatamente ad una dimensione performativa della scrittura, all’intenzione di risvegliare immediatamente nel lettore-spettatore la consapevolezza di assistere ad una narrazione che nasce in seno ad una infinitamente più ampia e complessa, che trova il suo inizio secoli prima. In secondo luogo, l’«io» che impetuosamente prende parola, non lasciando possibili dubbi sull’identità della voce narrante, lascia emergere quello che nel romanzo sarà realmente in primo piano: non la storia di Davide e la sua rinomata epopea eroica, ma la sua interiorità, la sua ricerca identitaria. Attraverso questa prima perentoria affermazione, il personaggio cerca già di “tenersi insieme”, di rivendicare, attraverso i titoli altisonanti di «messia» e «re d’Israele», il suo diritto a definirsi. Eppure, il sogno che segue, l’immagine che Coccioli sceglie per aprire il suo ambizioso romanzo, sembra rinnegare immediatamente tale presa di posizione ed insinuare una prima crepa all’interno di quell’«io» in apparenza tanto saldo: Davide vola sui monti della Giudea restando uomo ma quelle due immagini, di angelo e aquila, anticipano già la sua natura biforme: due aspetti non solo diversi ma soprattutto in netto contrasto tra loro che caratterizzano l’anima del protagonista. L’angelo, da una parte, rappresenta l’anima lucida e controllata di Davide, quella di eletto di Dio e che, nella percezione del re, lo rende specchio della divinità; l’aquila, d’altra parte, rimanda ad un’animalità libera ed assolutamente incontrollata, che obbedisce ad istinti primigeni ed avvicina Davide ad un’umanità che, pur tendendo verso l’alto, resta libera nella sua selvatichezza. Ad esempio, nell’assassinio del suo soldato Uria l’Ittita, indirettamente perpetrato assegnandogli la prima linea in battaglia semplicemente per potere ottenere la mano della moglie, raccontato nel Secondo Libro di Samuele, trova massima espressione la natura istintiva di Davide; l’episodio appare quindi centrale nell’opera dello scrittore livornese perché utile a individuare il personaggio anche nella sua ambiguità morale: elemento già presente nel testo biblico di partenza, ma ripreso e centralizzato da Coccioli nella sua riscrittura. Questa doppia natura è in realtà profondamente connessa alla condizione di “eletto” che Davide non sceglie ma, inevitabilmente, subisce:

Compresi che elezione significa separazione. Separazione uguale a solitudine.
In solitudine, noi gli eletti separiamo interminabilmente il sacro dal profano.
Al tempo stesso, paradossalmente, siamo tenuti a testimoniare il carattere unico della Realtà contro le tentazioni generate dal dualismo apparente: luce-tenebre, vita-morte […]5

Se infatti nell’immagine divina tutti gli opposti trovano conciliazione, la visione umana del mondo appare caratterizzata da una dualità illusoria: allo stesso tempo, Davide è quindi destinato a testimoniare il carattere unico della verità ma anche a separare continuamente la dimensione umana da quella divina. Con nessun altro uomo può condividere tale flagello, se non con colui che l’ha preceduto e con cui, difatti, instaura un rapporto dalla particolare ambiguità. Già esplorata dalla riscrittura teatrale di Vittorio Alfieri, la complessa relazione con il re Saul offre all’autore un ulteriore motivo di riflessione sull’«io» lacerato di Davide: nei sentimenti confusi e contraddittori sperimentati nei confronti di una figura tanto paterna quanto minacciosa (in cui a sua volta si riflette l’immagine stessa della figura divina), il giovane protagonista fa esperienza in prima persona dell’impossibilità umana di ridurre realmente la molteplicità all’unità, l’impossibilità di sfuggire alla contraddizione, che si caratterizza quindi come cifra irriducibile della stessa natura umana. Così, uno dei passaggi più significativi del romanzo è costituito proprio da un confronto tra le due figure, in cui per la prima volta appare possibile una conciliazione: nel momento in cui infatti Saul pronuncia le parole «figlio mio» rivolgendosi a Davide, tutta la tragica tensione che lega i due personaggi così speculari sembra finalmente disciogliersi:

Ma vivere non è accettare, limitatamente al dominio dei sentimenti, l’impero della mescolanza: amore, odio? […]. Questo mondo è l’impero della mescolanza, ma lui mi aveva chiamato «figlio mio», io lo avevo chiamato «padre mio»: che importava il resto?6

Il momento della conciliazione coincide però con quello dell’accettazione: non è anzi possibile concepirlo altrimenti; nella consapevolezza che ogni sentimento confina in un altro, non in un gioco di rigidi opposti ma di confusa comunione, Davide può accettare Saul come sua figura paterna senza rinnegare alcunché del loro rapporto, neppure la parte più conflittuale. Anzi, nella definizione paterna viene condensato efficacemente tutta l’irrisolvibile tensione di tale legame: la ricerca di approvazione, il desiderio di continuità ma allo stesso tempo di distacco, la paura della condanna.
Se complessa appare la dinamica con l’immagine del vecchio Re, lo risulta ancor di più quella che viene a instaurarsi con la figura divina: come già sottolineato, il rapporto Uomo-Dio risulta centrale nell’intera opera di Coccioli, in particolare perché in tale confronto egli ha la possibilità di confrontarsi con un’immagine astratta e perfetta di alterità. Nel rispecchiamento tanto agognato nella figura divina, Davide non può infatti che riscoprire ancora più fermamente la propria umanità, configurandosi come quell’essere in bilico tra quei due estremi: angelo e aquila. Di fronte alla perfetta circolarità divina, egli non può far altro che soffrire ma allo stesso tempo difendere la sua interna contraddizione:

Fino alla mia morte, e molto probabilmente al di là, io sarò Davide, per sempre. No, nemmeno Tu, dissi allora, e continuo a dirmelo oggi, nemmeno Tu, nei Tuoi palazzi dell’assoluto, potresti togliermi il privilegio di essere Davide figlio d’Isai: «questo» frammento di essenza, e non un frammento diverso.7

D’altra parte, sempre nell’incipit è già racchiuso il senso profondo della visione dell’autore: nel volo sui monti della Giudea, Davide resta uomo. In quel singolo passaggio si snocciola l’intero problema: se le due immagini angelica e animale appaiono così polarizzate e significative, risultano allo stesso modo insufficienti, non bastano ad esaurire la natura del protagonista, e quindi di qualsivoglia uomo. Nelle intenzioni dichiarate dallo stesso autore, non è infatti nascosta l’ambizione all’universalità più totale nella scelta del personaggio del giovane re: «Sono convinto che in Davide, figlio d’Isai, vissuto tremila anni fa in terra promessa, non manca nessuna delle frontiere dell’uomo universale ed eterno, e pertanto moderno, nostro contemporaneo»8. Così, nello statuario personaggio di Davide, Coccioli riversa un turbamento che non è circoscrivibile al solo testo biblico di partenza, in cui pure egli si configura come un personaggio a suo modo sfaccettato e non privo di contraddizioni: la sua radice, al contrario, pare essere quasi di origine esistenziale; il dubbio è difatti la cifra ultima che caratterizza il rapporto di Davide con Dio, riflettendo l’irrequietezza spirituale che in egual modo caratterizza il suo autore; così l’autore riutilizza il materiale biblico per una narrazione che è a sua volta doppia: è la fedele storia del secondo re d’Israele ma anche la storia di una ricerca spirituale costante e instancabile, in cui il dialogo con il divino si traduce in un lungo monologo in cui l’uomo è chiamato a colmare l’ingombrante silenzio di Dio. La voce di Davide trascina il lettore in un percorso di fede che non conosce alcuna certezza, ma che al contrario si nutre di una costante insoddisfazione: la modernità rivendicata da Coccioli sta proprio nel suo confrontarsi non con la parola di Dio, come accade nel testo biblico, ma con la sua irrimediabile assenza. Quello di Davide si configura quindi come un continuo slancio verso ciò che è fuori di lui, nel tentativo di riconoscere tracce del divino che possano dargli risposte, cercando in tutto ciò che non è umano, non sapendo come accettare se stesso come continuazione della divinità. Di fronte all’alterità perfetta di Dio, Davide difende la propria umanità, difende quel nome che imperturbabile apre il romanzo. La profonda differenza che lo separa dalla precipitosa caduta di Saul alla fine non è null’altro che questa: mentre il precedente sovrano fa della sua elezione divina parte integrante della sua identità, il suo successore sa che seppur venisse spogliato di qualsivoglia titolo o ruolo, resterebbe Davide, un nome che non potrà essergli sottratto perché non ha i caratteri di un’attribuzione, ma di un’essenza. Così, egli si aggrappa saldamente a quel «frammento» di essenza, e tanto basta a salvarlo.
Anche da un punto di vista stilistico, Coccioli sembra tradurre l’afflato sacro che ovviamente traspare nelle Scritture in una prosa dalla forte impronta lirica: la narrazione si configura soprattutto attraverso immagini dal forte peso simbolico, come quella onirica che apre il racconto, e particolarmente sinestetiche: le «gialle solitudini», le «lacrime violacee» conferiscono al testo una patina quasi allucinatoria, come se in prossimità della fine, Davide avesse la possibilità di ripercorre la sua vita con occhi nuovi, operando un processo continuo di traduzione e riscrittura della sua memoria. Il suo vissuto viene così costantemente trasfigurato, non nella sua veridicità quanto nella sua stessa percezione da parte del narratore; anche attraverso una prosa che non rinuncia in nessun punto della narrazione a una pretesa di solennità, l’autore traccia il profilo di un uomo che costantemente deve rispondere ad entrambi gli della sua persona: quello di re e di eletto, ma anche di un uomo solo dinanzi alla morte. L’operazione ricorda in parte quella realizzata da Marguerite Yourcenar nelle sue Memorie di Adriano, in cui similmente l’autrice restituiva voci e pensieri non solo di una figura storica, ma in particolare di un uomo di potere, nel tentativo di riuscire ad evocare, celata dietro l’immagine immobile sopravvissuta alla storia, una sensibilità incrinata: ed anche in questo caso l’opera ha una marcata connotazione testamentaria, concepita come una lunga lettera al successore designato Marco Aurelio. Yourcenar utilizza Adriano come Coccioli Davide: la maschera del sovrano imperturbabile diviene il filtro attraverso il quale celare le discrepanze di un’interiorità. Ma soprattutto, in entrambi i casi, il processo di racconto della memoria non ha il solo scopo di costruire una narrazione ma soprattutto quello di tracciare, attraverso il racconto, la propria identità:

Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe. L’esistenza degli eroi, quella che ci raccontano, è semplice: va dritta al suo scopo come una freccia. E gli uomini, per lo più, si compiacciono di riassumere la propria esistenza in una formula […]; la memoria compiacente compone loro una esistenza chiara e spiegabile. La mia vita ha contorni meno netti: come spesso accade, la definisce con maggior esattezza proprio quello che non sono stato […] Vi ravviso la mia natura, già di per se stessa composita, formata in parti uguali di cultura e d’istinto. […] In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fortezze si confondono come quelle di un’immagine che si riflette nell’acqua.9

Il racconto diviene allora lo strumento ideale attraverso il quale indagare la propria natura «composita» nel tentativo di restituirle una forma, per poter riconoscere attraverso la costruzione di una narrazione la propria immagine finalmente distinta: la possibilità, attraverso il racconto, è quindi quella di farsi “personaggio”, di osservarsi come soggetto di una narrazione e poter quindi riconoscere un senso, una linearità al proprio vissuto. Una linearità che però continua a negarsi nella composizione frammentaria delle due opere, che procedono per micro-capitoli in cui ad una narrazione lucidamente analitica e cronologicamente ordinata, è privilegiata invece un’impulsività emotiva incontrollata, cui obiettivo è restituire il ritratto di un’anima turbata piuttosto che le autobiografie fittizie di due personaggi storici. La trascrizione delle proprie memorie diviene così l’ultimo sforzo di afferrare quell’immagine, quella «presenza di un individuo» che si cela nel caos e nella difformità di tale turbamento. Come scrive Laura Neri:

La memoria è piuttosto uno spazio dinamicamente orientato, entro il quale l’atto percettivo rievoca e ricostruisce, venendo così a configurarsi, innanzitutto, come un processo conoscitivo. Ecco perché, nel tempo e nello spazio dei mondi possibili, la memoria è innanzitutto un luogo di ibridazione, fonte di falsità, per sua natura, e veicolo di una verità che dà forma e consistenza all’esperienza.10

Anche in tali memorie fittizie la conoscenza di sé si configura infatti come l’ultimo obiettivo: come si vedrà nel successivo paragrafo, anche ne L’erede di Montezuma, ugualmente centrale sarà difatti il tema della costruzione identitaria.

3. L’erede di Montezuma: l’Uomo e gli Altri

L’incipit del romanzo che precede di circa dodici anni la pubblicazione di Davide, risponde in maniera quasi speculare a quello precedentemente citato:

Io Cuauhtemoc, figlio di Ahuizotl, io Aquila-che-Cade, coluicheparla, re di Tenotichlan, capo della Triplice Alleanza, imperatore, undicesimo e ultimo signore del Messico, capo degli uomini, son di nuovo circondato da un colore verde ch’è più vivo, più cangiante, più armonioso, oh mille volte più vivo, e più totale di quello che si stende sulle piume dell’uccello quetzal, uccello verdazzurro di cui sono fatti gli ornamenti del re.11

Anche in questo caso appare evidente l’utilizzo della stessa identica forma: in maniera speculare all’incipit di Davide, ritroviamo anche in questo caso una serie di epiteti che individuano immediatamente il protagonista nell’ultimo designato imperatore azteco, prima dell’invasione e colonizzazione spagnola. Con L’erede di Montezuma Coccioli si confronta con il genere del romanzo storico decidendo di raccontare la fine della civiltà azteca dagli occhi di colui che era destinato ad esserne l’ultimo sovrano: il punto di vista è quindi quello dei vinti, di coloro schiacciati dalla Storia, riassorbiti violentemente dal mondo occidentale, che pure appariva così lontano e sconosciuto da apparire inimmaginabile. Un romanzo storico che non nasconde la volontà di restituire attraverso la narrazione una voce concreta, che trovi la sua validazione attraverso la traduzione di testi indiani e spagnoli del XVI secolo, tanto che «c’è da credere che anche le parole pronunciate dai personaggi siano in maggior parte autentiche; per lo meno sono loro attribuite da un’opinione così antica ch’è come se fossero autentiche»12: di ogni dialogo, ogni brano poetico che arricchisce la narrazione, Coccioli desidera rivendicare l’origine, affinché non venga dimenticata. Fondamentale appare sottolineare tale veridicità, nel tentativo di riportare alla luce voci fantasmatiche, risucchiate non solo dal passare del tempo, ma da un racconto storico che a lungo ne ha azzittito le istanze: ancor più che in Davide, ne L’erede di Montezuma, la narrazione vuole infatti simulare una dimensione di oralità e coralità, restituire la percezione di un racconto che si snoda dei secoli e sopravvive alle brutalità della Storia: l’impegnativa ambizione è quindi quella di restituire al lettore l’epica di un intero popolo. Così il romanzo si configura come una grande e articolata commissione di voci e testimonianze diverse, che sanno però convergere in un unico, potente «io» che prende la parola, in quella ossessiva tendenza all’unità così significativa nell’opera di Coccioli. E se nell’incipit di Davide si nasconde già il profondo senso del romanzo, anche in questa precedente opera, è possibile individuare fin dall’inizio alcuni fondamentali elementi, in primis quello del colore verde, Leitmotiv che attraversa l’intero romanzo. Costantemente associato ad un’armoniosità perfetta e inviolata, il verde diviene simbolo non solo della condizione di pace vissuta prima dell’invasione, ma soprattutto della pacifica e circolare visione del mondo della civiltà azteca prima dell’incontro-scontro con l’Altro. Non solo un’accurata rappresentazione storica, il romanzo di Coccioli vuole in realtà esplorare nuovamente il tema dell’identità incrinata, stavolta indagando l’impatto di due opposti, distanti universi che la storia porta a incontrarsi. Se nell’immagine perfetta di Dio l’identità di Davide si turba riconoscendosi nella sua umanità frangibile, nell’immagine estranea ed inconcepibile dello straniero invasore, inizia a crollare l’identità inizialmente tanto salda di un popolo. Così l’impero crolla sotto l’azione militare dei conquistadores, ma contemporaneamente a tale sconfitta, un’altra, interna e inesorabile, si perpetua: ed è questa quella che all’autore preme raccontare, quella di un mondo che collassa su stesso nel tentativo di integrare in sé un corpo straniero, così da non essere costretto ad intaccare nessuna di quelle certezze che per secoli hanno garantito non solamente equilibrio e continuità ad un popolo, ma un intero sistema per decifrare il mondo circostante.
Anche in questo caso, infatti, il mondo viene letto e concepito all’interno di una struttura rigidamente binaria, sempre in un bilanciato gioco di opposti, di distanze apparentemente irriducibili: non è un caso che il titolo di un’altra opera di Coccioli, La terra e il cielo, riassuma già tale opposizione nel raccontare del dissidio interiore del prete protagonista, che avverte in sé due anime in conflitto. Interna all’uomo, tale tragica opposizione si riflette in realtà esternamente nella stessa composizione del mondo, evidenziando che l’intera storia umana non sia alla fine null’altro che questo: una lunga storia di realtà inconciliabili ma inevitabili. In tale scontro appare centrale la riflessione dello storico Tzvetan Todorov, che alla spedizione dei conquistadores dedica un intero studio:

Si potrebbero distinguere due componenti di ogni colonizzatore rispetto al colonizzato. O egli pensa agli indiani come ad esseri umani completi, con gli stessi diritti che spettano a lui; ma in quel caso non li vede come eguali, bensì come identici, e questo tipo di comportamento sbocca nell’assimilazionismo, nella proiezione dei propri valori sugli altri. Oppure parte dalla differenza, ma questa viene immediatamente tradotta in termini di superiorità: si nega l’esistenza di una realtà umana semplicemente altra, che possa non consistere semplicemente in un grado inferiore, o imperfetto, di ciò che noi siamo. Queste due figure dell’alterità si fondano entrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione […] del proprio io nell’universo: sulla convinzione che il mondo è uno.13

La problematica del relativismo culturale diviene nella narrazione storica di Coccioli fondamentale; come riflette Todorov, il vero errore, la ragione per cui dall’incontro non può che articolarsi il conflitto, sta nell’incapacità di concepire l’altro nella sua alterità: al contrario, questi viene riassorbito dall’io che si fa unità di misura di tutte le cose, filtro attraverso il quale debba leggersi il mondo. Così come l’individualismo di Davide è la sua prima risorsa, ed allo stesso tempo la ragione della sua irrequietezza, allo stesso modo l’impossibilità di “uscire” dal proprio diviene la condanna della civiltà azteca. Nell’approcciarsi a tale complessa materia storica, Coccioli non sottovaluta infatti l’importanza e le conseguenze dell’immagine dell’altro nella percezione del narratore e dell’intero popolo di cui si fa voce; incapace, come argomenta Todorov, di riconoscere una realtà umana semplicemente altra (così come, con opposte conseguenze, lo sono anche gli invasori), il popolo azteco concepisce i conquistadores nell’unico modo che gli è possibile: trasfigurandoli in dei. Non a caso essi vengono dal protagonista il più delle volta indicati semplicemente con l’appellativo di «Esseri»: nell’attenzione ossessiva al dettaglio che caratterizza la scrittura di Coccioli, nella tendenza a non trascurare colori, epiteti ed anche musicalità che conferiscano alla narrazione un’aura sognante ed arcaica, quel singolo termine stona ed emerge nella sua vuotezza; «Esseri» è l’unico nome possibile perché l’unica cosa certa degli invasori è la loro mera esistenza: tutto il resto appare invece illeggibile. Per tale ragione è necessario trasfigurarli in divinità: solo così essi possono essere riassorbiti dall’immaginario azteco, solo così è possibile negare all’altro la sua alterità ed accettarne la pura esistenza. L’«io» è una prigione strettissima, una violenta costrizione di cui i protagonisti di Coccioli vorrebbero potersi liberare, in una tensione verso ciò che ne è esterno: ma questo movimento risulta sempre doloroso, come uno strappo in cui qualcosa debba andare perso.
E qualcosa viene effettivamente perso: entrambe le parti, vinti e vincitori, non potranno più ritornare al momento dell’innocenza, a quel verde primigenio che contamina l’intera narrazione. Al di là, infatti, di schieramenti manichei che vedono opporsi Bene e Male, a Coccioli interessa evidenziare quanto lo scontro con l’altro si traduca sempre in un’esperienza traumatica ed irreversibile, ma allo stesso tempo anche in quella più necessaria. Al termine infatti del racconto delle sue memorie, ciò che resta al narratore è una nuova consapevolezza, che si traduce in una rassegnata resa di fronte all’irriducibile complessità umana:

Quand’ero giovane […] credevo che la saggezza consistesse nel racchiudere tutte le cose, la vita e la morte, in qualche formula; vecchio come lo sono i moribondi, oggi so che è saggio non definire nulla. Lasciamo ciò che è complesso alla sua umana complessità.14

Come in Davide, anche in questo caso la fine che si avvicina dona al protagonista la possibilità di osservare, forse per la prima volta, l’intera dinamica di cui il suo popolo si è trovato protagonista da una prospettiva più ampia: è questo il momento in cui egli riesce a riconoscere ed accettare anche l’impossibilità di comprendere. L’erede di Montezuma si configura infatti anche come un atipico romanzo di formazione: il narratore ripercorre la sua intera esistenza a partire dalla prima infanzia, ma il suo vissuto si configura come una sorta di percorso a ritroso, in cui non vengono costruite le certezze sulle quali andrà a formarsi la sua personalità, ma al contrario lentamente distrutte. Se nella prima parte del romanzo, Coccioli è così attento nel sottolineare come la visione del mondo della società azteca poggi su una rigorosa e fiduciosa lettura dei segni, in un sistema di credenze in cui quindi ogni singolo elemento è un significante da riempire, nella parte finale la nuova consapevolezza del protagonista risulterà ancora più sorprendente: egli riconosce al contrario l’impossibilità di leggere il mondo, individuando stavolta un sistema di significanti vuoti, tra cui l’uomo si muove animato dall’illusione di poterli ricondurre ad un unico senso. Tale processo gnostico, che passa attraverso l’incontro con il diverso, implica quindi sempre un rischioso quanto imprescindibile spalancarsi di fronte all’ignoto che è l’altro: in tale maniera si espandono i confini dell’«io», come sottolineava già il filosofo Emmanuel Levinas, nel suo studio Totalità e infinito:

Nel semplice incontro di un uomo con l’Altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’ “epifania” del volto dell’Altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’Altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.15

Epifanico è l’impatto tra due popoli, come tra l’uomo e il suo silenzioso Dio: ed è questo che interessa all’indagine letteraria di Coccioli, cosa sopravviva dell’Uomo nel dissidio. Ciò che è certo è come l’identità di un uomo o di un intero popolo si sottragga a qualsiasi istanza di uniformità ed al contrario abbracci la fluidità e la contraddizione, definendosi paradossalmente proprio nella sua instabilità: la tendenza alla totalità resta invece appannaggio del divino o dell’utopico. L’immagine che pare sopravvivere non è invece che questa: né un angelo né un’aquila, ma qualcosa di profondamente altro, un «io» che non conosce altra maniera per definirsi che non sia la sua voce che parla e che, soprattutto, racconta. Così i protagonisti delle opere di Coccioli non possono che muoversi nell’«impero della mescolanza» cercando la propria immagine, tenendosi uniti solamente attraverso quell’unico e irriducibile strumento che è la parola, accettando il caos che regna al di fuori di essa. Ed alla fine, come affermerà l’ultimo designato imperatore, «i misteri s’aggiungono ai misteri, ma la vita resta vivente»16.


  1. G. Mozzi, Dichiarazione di innamoramento, in C. Coccioli, Davide, Torino, Lindau, 2020, p. 5.
  2. P. V. Tondelli, Un weekend postmoderno, Firenze, Bompiani, 2018, p. 479.
  3. C. Coccioli, Piccolo Karma, Torino, Lindau, 2020, p. 5.
  4. Id., Davide, cit., p. 13.
  5. Ivi, p. 55.
  6. Ivi, p. 185.
  7. Ivi, pp. 359-360.
  8. Ivi, p. 399.
  9. M. Yourcenar, Le memorie di Adriano, trad. it. di L. Storoni Mazzolani, Torino, Einaudi, 2014, p. 54.
  10. L. Neri, Il valore finzionale della memoria, «Between», IX, 18, Finzioni. Verità, bugie, mondi possibili, eds. R. Galvagno, M. Rizzarelli, M. Schilirò, A. Scuderi, 2019, url: <https://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/3752> consultato il 15-11-2022.
  11. C. Coccioli, L’erede di Montezuma, Torino, Lindau, 2020, p. 11.
  12. Ivi, p. 5.
  13. T. Todorov, La conquista dell’America, trad. it. di A. Serafini, Torino, Einaudi, 1984, p. 51.
  14. C. Coccioli, L’erede di Montezuma, cit., p. 514.
  15. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di A. Dell’Asta, Milano, Jaka Book, 2006, p. 218.
  16. C. Coccioli, L’erede di Montezuma, cit, p. 515.