Il corpo dell’Altro. Nabokov, Roth, Siti: un’ossessione in forma di prosa

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Per me dentro di me oltre la mente
il suo corpo su me come una coltre
ma oltre il corpo in me furiosamente
in me fuori di me oltre per oltre…

Patrizia Valduga, Poesie erotiche

1. «Ma le tenebre stesse sono tele»: un’introduzione

Costellazione di ossessioni per corpi altri. Iside fu ossessionata dal corpo perso di Osiride, chiuso in un sarcofago e gettato nelle acque del Nilo. Lo cercò a lungo e disperatamente per tutta Biblo; lo ritrovò ma non vi fu verso di far riaprire gli occhi a quell’uomo che amò fin da quando erano nel grembo materno. Quando Seth, poi, ridusse la salma di Osiride in brandelli, disperdendoli per tutto l’Egitto, la dea, come per una tetra caccia al tesoro, si mise alla ricerca di ogni singolo scampolo e, una volta raccolti tutti, ricompose il corpo, mummificandolo.
Medea fu ossessionata dal corpo di Giasone. Non semplice gelosia, ma un pensiero fisso e compulsivo, così delirante da uccidere i propri figli per veder soffrire quel cuore, quel corpo.
Se le leggende non sono solo tali, Giovanna di Trastamara, “La Pazza”, fu ossessionata dal corpo di Filippo d’Asburgo, detto “Il Bello”. Secondo alcuni, alla morte del marito, mentre veniva trasportato da un villaggio all’altro della Castiglia, fece continui controlli sul feretro per esaminarne i resti; per altri, addirittura, la donna conservò la salma sotto al proprio letto.
Didone fu ossessionata dal corpo di Enea. «Gravi iamdudum saucia cura»1, cadde in preda alla sua stessa folle passione per il pius, in matrimonio e in abbandono. Quando il corpo di colui che le fece riconoscere i «segni dell’antica fiamma» si allontanò, sulle navi troiane, per le acque che l’avrebbero condotto in Italia, la regina di Cartagine sprofondò in un dolore vorticoso: si uccise.
Monet fu ossessionato dalle sue Ninfee; dipinse oltre duecentocinquanta quadri raffiguranti questi leggerissimi esemplari di fiori che galleggiavano sulle acque placide del suo stagno, installato in quel giardino assolutamente impressionista. Quei fiori, che lenti attraversavano il ponticello cinese, fautore di ombre e altri colpi di luce su tela, furono il corpo ossessionante: «Non dormo più per colpa delle Ninfee. Di notte sono ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. Mi alzo al mattino piegato dalla fatica. L’alba mi ridona coraggio, ma l’ansia torna non appena varco la soglia dello studio. Dipingere è così difficile e torturante»2.
Insomma, questi sono solo alcuni esempi, forse estremi, di ossessione per un corpo altro. Potremmo continuare all’infinito, magari anche tirando un po’ la corda: Orlando era ossessionato dalla fatale Angelica e la ricerca spasmodica del suo corpo in fuga ne è la prova tangibile.
Exempla a parte, la domanda che appare centrale, probabilmente, è la seguente: cos’è e da cosa è scatenata questa furia affettiva? Non si tratta – a mio avviso – di quell’ amore comunemente definito «malato», nemmeno di perversione o mania, ma piuttosto di una forza dolce e “compressa”, scatenata da un’«immagine» che – come scrive Rilke – «v’entra / ed attraverso le membra in tacita tensione passa / e si spegne nel cuore»3. L’ossessione nascerebbe, dunque, da un’immagine che, una volta attraversato il corpo di colui che se ne impossessa, si ferma nel cuore di questo e non esce più. L’immagine si riproduce in mille copie di essa, si moltiplica e si sovrappone, fino a confondersi con oggetti minuscoli o invadenti, luoghi, stagioni, attimi. Occupa lo spazio mentale e fisico dell’ossessionato, producendo in egli una “metamorfosi emozionale-esistenziale”.
Freud considera l’ossessione una «sindrome» composta da «due costituenti» ovvero «un’idea che si impone con forza nel paziente» e «uno stato emotivo concomitante», caratterizzato da «angoscia, dubbi, rimorso o ira»4. Lungi dal presente scritto il voler tacciare i protagonisti dei romanzi che tratteremo come «nevrotici» o «isterici», le parole del medico austriaco, se prese con le pinze, ritraggono efficacemente ciò che accade ai nostri personaggi. Il primo costituente della loro ossessione è quell’idea che si impone con forza: il corpo dell’Altro. Il secondo costituente è lo stato emotivo o meglio, gli stati emotivi che ne derivano: frenesia, gioia, inquietudine, smarrimento, angoscia, frustrazione, tormento.
La forma attraverso cui nasce e si condensa l’ossessione è quella della prosa dei seguenti romanzi: Lolita (1955) di Vladimir Nabokov; L’animale morente (2001) di Philip Roth e Autopsia dell’ossessione (2010) di Walter Siti.
I nostri protagonisti, rispettivamente ai testi, sono: l’intellettuale francesista Humbert Humbert; il vecchio professore “di desiderio”, David Kepesh; l’antiquario Danilo Pulvirenti e il suo “Doppio”, il Rivale. La loro ossessione “ultima” o meglio, «l’incarnazione dell’ossessione» è il corpo dell’Altro; ma sotto l’ossessione vi è un’altra pulsione, diversa per ognuno di loro; ancora rispettivamente: la «ninfolessia»; il «piacere»; l’«arte mitica». Tutte volontà che, prima dell’«incarnazione», riluttavano.
I soggetti ossessionanti, i corpi altri, gli “incarnati”, in ordine, sono: Dolores Haze; Consuela Castillo e Angelo.
Delineati i giochi di ruolo, guarderemo parallelamente e comparativamente, sottolineando analogie e differenze, lo sviluppo dell’ossessione in ognuno dei protagonisti alla luce di quattro “confronti” – suddivisi in quattro paragrafi – con il corpo degli/delle ossessionanti: racconto, apparizione e contatto, possesso, assenza.
Ultima “avvertenza” sui nostri protagonisti: sono tre uomini nei quali le «tenebre» dell’ossessione per un corpo, che «s’inclina e si allunga come esile vascello»5 sulle piaghe del loro cuore, si sono fatte «tela» per dipingervi storie che, instancabili, continuiamo a leggere.

2. Rewinding the tape: l’inevitabile storia del corpo altro

Tre escamotage per rivivere l’Altro: scrivere, raccontare, osservare. Le storie di Humbert Humbert, David Kepesh e Danilo Pulvirenti partono tutte dal medesimo pretesto: la volontà di ricordare. Nei tre romanzi, tutti i protagonisti intessono la propria narrazione «riavvolgendo il nastro», volgendo lo sguardo ad un periodo della propria vita precedente alla loro contemporaneità, ognuno servendosi di un “mezzo” diverso.
Taglio fontaniano nella tela della loro memoria: tutti, in qualche modo, tentano di “acchiappare” il fantasma.
Partiamo da Lolita. Qui il caso è particolare, poiché siamo dinanzi ad un metaromanzo. La penna raffinatissima di Nabokov ha vergato una storia che nella finzione letteraria è un libro, «la confessione di un vedovo di razza bianca», scritto da Humbert Humbert e destinato alla pubblicazione. Quindi il primo indizio è chiaro: lo strumento privilegiato dal protagonista per ricordare la sua «ninfetta» è la scrittura. Nella penultima pagina del testo:

Quando cominciai, cinquantasei giorni fa, a scrivere Lolita, prima in osservazione nel reparto psicopatici e poi in questa clausura ben riscaldata, seppur tombale, pensavo che avrei usato in toto queste note al mio processo, per salvare non la testa, naturalmente, ma l’anima. A metà dell’opera, tuttavia, mi sono reso conto che non potrei mai mettere in mostra Lolita da viva. Forse userò parti di queste memorie nelle sedute a porte chiuse, ma la pubblicazione dovrà essere rimandata6.

Continuiamo con L’animale morente. David Kepesh parla ad un “tu” indefinito, probabilmente a un giovane, al Lettore o, osando, alla sua coscienza. Ma anche in questo caso, il primo indizio è chiaro: lo strumento del professore di pratical criticism è il racconto, di cui vi si evidenza l’oralità nel flusso continuo di frasi e immagini. Sin dalla prima pagina del testo lo immaginiamo seduto su un divano o su una poltrona, «completamente vestito», con le gambe incrociate e lo sguardo teso a rimasticare il passato, costantemente focalizzato sul seno di Consuela:

L’ho conosciuta otto anni fa. Frequentava il mio corso. Io non insegno più a tempo pieno, e se volessi essere preciso dovrei dire che non insegno letteratura: già da molto anni tengo un solo corso, un grande seminario di critica letteraria, per i laureandi, che ho chiamato Pratical Criticism. […] Sono passati otto anni, dunque io ne avevo già sessantadue e la ragazza, che si chiama Consuela Castillo, ne aveva ventiquattro7.

Terminiamo con Autopsia dell’ossessione. Danilo Pulvirenti, «un uomo che ha fatto della sobrietà e dell’intransigenza una regola di vita», inizia la sua narrazione a ritroso osservando – è sempre l’occhio ad identificare l’«immagine doppia», a sventrare il corpo della memoria, trovandovi lo scheletro del ricordo – delle foto ritraenti Angelo. Ancora, il primo indizio è rilevato: lo strumento di “Dany” sono le immagini (presenti nel libro), le quali scatenano un’introflessione nel proprio io, fino a tracciare il cammino di tutta una vita; un Bildungsroman abbozzato. Nelle prime pagine del testo:

1° maggio 2009, ore quattordici e trentacinque: dopo una pennica breve come un’imboscata ma densa come un’intossicazione, entra nella stanza detta di Barbablù o delle rondini. […]A rinfrancarsi dai sogni indesiderati, o forse invece perché ancora posseduto da schizzi di fango onirico, l’uomo che stiamo cominciando a conoscere [Danilo] apre dunque la porta della stanza buia, accende un faretto e illumina questa immagine. […] La foto che Danilo sta fissando risale all’estate del 2005. […] D’altronde, quella era l’estate del suo trionfo – finalmente non si sentiva né un doppio, né una metà, l’ombra restava attaccata alle sue scarpe. Non che avesse conosciuto Angelo da poco, ma da poco lo aveva assimilato sublimandolo in una figura del mistico tappeto8.

Tre sono le costanti di ognuno di questi estratti: il riferimento cronologico, la presentazione dell’ossessionante e il loro “attuale” stato emotivo. Nel caso di Lolita notiamo che Humbert inizia a scrivere la storia «cinquantasei giorni fa» ovvero verso la fine di settembre del 1952. I fatti narrati coprono un arco temporale che va dall’estate del 1947 sino a settembre del 1952. Ne L’animale morente non abbiamo una data precisa, ma gli eventi racchiudono tutto ciò che è successo da quegli «otto anni fa», fino al preciso momento in cui Kepesh esce di scena. In Autopsia dell’ossessione, Danilo racconta la storia della sua ossessione per Angelo spiegando un ventaglio che va dal 2004 al 2007.
Sembrerà superfluo questo elenco di date, ma in realtà è esplicativo per una questione che sembra, invece, essere fondamentale. Tutti sentono il bisogno di rintracciare una parte di se stessi che forse è andata smarrita, di ricomporla, di trovarsi faccia a faccia, in un modo o nell’altro, con la loro «tenebra», la loro smaniosa ossessione. Che sia un libro, un racconto o una foto a “espiare il delitto” conta, ma quello che preme evidenziare è la minuziosità che caratterizza la descrizione dei fatti, delle scene, dei ricordi, delle parole. Tutto è accurato, finemente rilegato tra oggetti ed emozioni. Ogni gesto, ogni passo che compiono crea il movimento dell’ossessione, dell’irrefrenabile voglia di riesumare il corpo dell’Altro, di guardarlo negli occhi attraverso il filtro dell’arte, la più «reale delle finzioni». Se nel caso di Lolita e de L’animale morente è la parola che tiene il corpo, lasciando spazio a immaginazioni e sfumature, Autopsia dell’ossessione è previgente: il corpo viene stretto nella morsa dell’obiettivo, lo eternizza già prima di donargli, nel «riavvolgere il nastro», un nuovo aspetto – «la fotografia è l’organo privilegiato dell’ossessione perché è un’impronta […] Eternando un attimo sospeso, ufficializza e rende esclusiva la frustrazione; impone di possedere ciò che non può esistere come vivente»9. Non a caso, la scelta di Siti di inserire le immagini nel libro è – a mio avviso – azzeccata e a tratti geniale; potremmo dire, riscrivendo una chiosa di Roland Barthes10, “stiamo vedendo gli occhi che hanno visto Danilo”. Insomma, anche le scelte formali e gli inserti grafici hanno la loro ragion d’essere.

3. L’«incarnazione» dell’ossessione: prima apparizione del corpo

«L’erotismo è uno degli aspetti della vita interiore dell’uomo. Non deve ingannarci il fatto che esso tende senza posa alla scoperta di un oggetto di desiderio posto al di fuori. Ma questo oggetto corrisponde all’interiorità del desiderio. In realtà, si opta per un oggetto rispondendo sempre alle proprie personali esigenze: anche qualora il desiderio abbia per oggetto la donna che la maggior parte degli uomini avrebbero scelto, ciò che interviene è spesso un elemento inafferrabile, non già una qualità obiettivamente determinabile di quella donna. La donna in questione, se non avesse alcunché capace di toccare il nostro animo, non avrebbe la nostra preferenza. In una parola, anche se conforme a quella della maggioranza, la scelta umana differisce pur sempre da quella animale: si tratta di una scelta che fa appello a quella mobilità interiore, infinitamente complessa, che è la caratteristica dell’uomo. […] L’erotismo dell’uomo differisce dalla sessualità animale, in quanto presuppone l’intervento dell’interiorità dell’uomo. L’erotismo è per la coscienza dell’uomo, qualcosa che ne coinvolge l’essere»11.
Così Bataille definisce l’erotismo, un qualcosa che appartiene alla sfera «interiore» dell’uomo e, pertanto, la scelta dell’oggetto del desiderio si conforma ad una «personale esigenza». Ne viene naturale la domanda: quali sono, in questo senso, le «esigenze» interiori di Humbert, David e Danilo? Per rispondere, recuperiamo quanto detto a proposito di quelle «volontà» che «riluttano» e che stanno alla base dell’ossessione incarnata e, quindi, rispettivamente, la «ninfolessia»; il «piacere»; l’«erotismo compulsivo»; tutte «esigenze» che i tre hanno sperimentato attraverso corpi di altre/i, senza mai, però, condurle al culmine, all’apoteosi dell’ossessione pura.
La «ninfolessia» che colpisce Humbert Humbert, nato nel 1910 a Parigi, da un padre «amabile e indulgente» e da una madre «fotogenicissima», potrebbe affondare le sue radici nell’estate del 1923, quando il giovane Humbert – per il quale, prima dei tredici anni, «gli unici, distinti eventi sessuali»12 furono «una conversazione solenne, scostumatissima e puramente teorica sulle sorprese della pubertà, sostenuta nel roseto della scuola con un ragazzo americano» e «quale interessante reazione, da parte del mio organismo, a certe fotografie, tutte ombre e madreperla e infinite morbide fessure, del suntuoso La beauté humaine di Pichon»13 – incontrò Annabel, una ragazzina «adorabile», dalla «pelle color miele», le braccia esili, capelli alla maschietta, lunghe ciglia, bocca grande e lucente», morta di tifo solo quattro mesi dopo aver incontrato il giovane Humbert. Ora, perché cercare l’origine della «crepa» che «percorre la vita» di «Otto Otto» proprio in questa ragazzina? È lo stesso Humbert, in realtà, a ipotizzarlo:

Eppure, sono convinto che in un certo modo magico e fatale Lolita cominciò con Annabel. […] Ma quel boschetto di mimose – la caligine delle stelle, il fremito, la vampa, l’ambrosia e il dolore – è rimasto con me, e quella bambina dalle membra mare e la lingua ardente non ha mai cessato di perseguitarmi; sinché finalmente, ventiquattro anni più tardi, non ho spezzato il suo incantesimo incarnandola in un’altra14.

La minuzia, la poeticità delle parole di Humbert si autoriflettono e cercano di scorgere nel proprio passato, nei «giorni» della sua «giovinezza», che sembrano «volar via in un turbinio di pallidi, ripetitivi brandelli», l’ombra della ninfolessia – la «scienza esatta». Questa ebbe inizio e coscienza al cospetto di «pallide adolescenti dalle ciglia appiccicate con la totale impunità che ci è data nei sogni», presenti in vari orfanotrofi e riformatori che «Humbert il Terribile» vi visitava, grazie a «conoscenze», quando lavorava in un collegio maschile. Ma esattamente cos’è questa volontà riluttante che precede l’ossessione? È sempre «Lambert Lambert» ad illuminarci, stilando un vero e proprio “manifesto” della perfetta «ninfetta»:

Adesso voglio esporre il seguente concetto. Accade a volte che talune fanciulle, comprese tra i confini dei nove e i quattordici anni, rivelino a certi ammaliati viaggiatori – i quali hanno due volte, o molte volte, la loro età – la propria vera natura, che non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca); e intendo designare queste elette creature con il nome di ninfette. […]. Bisogna essere artisti e pazzi, creature di infinita melanconia, con una bolla di veleno ardente nei lombi e una fiamma ipervoluttuosa perennemente accesa nella sensitiva spina dorsale per discernere a prima vista, grazie a segnali inafferrabili – il profilo impercettibilmente felino di uno zigomo, la snellezza di una gamba appena velata di lanugine, e altri indizi di disperazione e la vergona e le lacrime di tenerezza mi vietano di enumerare – , il micidiale diavoletto tra le brave bambine; e lei, non ravvisata dalle sue compagne, posa tra loro a sua volta ignara del proprio fantastico potere15.

Ora, per come Humbert “mette le cose”, sono le «ninfette» a tessere la trappola in cui l’uomo «possa cader vittima». Un’immagine suggestiva, a questo proposito, ci è data dal celebre dipinto di John William Waterhouse, Ila e le Ninfee (1896). Il mito narra che Eracle, appena vide Ila, se ne innamorò perdutamente e lo rapì. Insieme, poi, si imbarcarono con Giasone per accompagnarlo alla ricerca del vello d’oro. Durante una sosta in Misia, Ila scese dalla nave con Eracle e si allontanò in cerca di una fonte d’acqua dolce. Quando il presunto semidio si accostò alle acque, le Naiadi furono così sorprese dalla sua bellezza che, nel momento in cui Ila vi si chinò per bere, una delle sette ne afferrò il braccio per baciarlo, trascinandolo nel fiume con loro. Di Ila non vi fu più traccia alcuna. Il genio preraffaelita di Waterhouse ripropone su tela una parte centrale del mito: il momento in cui le ninfee restano folgorate dalla bellezza del dio. Tra le pennellate scure che vivificano lo stagno, vi è il cerchio formato dalle ninfette nude, tutte di un candore abbagliante e seducente, con lo sguardo proteso verso l’uomo. Gli occhi delle giovani sembrano incantati e languidi, la sensualità è accentuata dalle labbra rosso amaranto. Una di loro, la più decisa, il «micidiale diavoletto», delicatamente e lascivamente, stringe il braccio di Ila, pronta ad imprimergli il bacio menzognero, pronta alla prossima mossa: tirarlo verso la sua essenza «demoniaca», farlo scomparire nella trappola di un lago senza tempo.
Humbert è il nostro Ila, Lolita è la «ninfetta micidiale», parvenza angelica, «bimba demoniaca». Lolita è l’incarnazione dell’ossessione ninfolettica di Humbert. Tutte le esperienze – le «avventure inventate» su quelle ninfette che «giocavano liberamente», mentre sedeva su «una dura panchina», gli spasmi al «salto della corda», le palpitazioni dovute alla «biglia smarrita», Monique, il vano tentativo di rintracciare parvenze bambine in Valeria, la smania a Central Park – non erano altro che la sola «ninfica eco», tutto da Annabel a Lolita, era stato solo un «susseguirsi di brancolamenti ed errori, di menzogneri embrioni di piacere».
Ed ecco, invece, il vero suono, la prima apparizione del corpo altro.
1947, «anno d’oro»: Humbert Humbert, uscito dall’ospedale psichiatrico, si reca nel New England per cercare «in campagna o in una cittadina sonnolenta» un posto dove poter «trascorrere un’estate operosa». I destini si scorgono nelle stelle e nei giardini. La casa a lui destinata, quella dei McCoo, è rasa al suolo da un incendio, ma per lui c’è un’alternativa: «la signora Haze, Lawn Street 342», offre di ospitarlo. Giunto in quella casa, di cui già gli esterni non appagano assolutamente il senso estetico di Humbert, Charlotte, in tutta la sua civetteria, fa fare al nuovo inquilino un giro turistico dell’appartamento, poi, giungono al giardino. E qui vi è la rivelazione, l’apparizione, l’incarnazione:

Camminavo ancora alle spalle della Heze attraverso la sala da pranzo, quando, più in là, scorsi un improvviso tripudio di verzura – «la loggia!» cinguettò la mia guida –, e poi, senza il minimo preavviso, un’azzurra onda marina si gonfiò sotto il mio cuore, e una stuoia immersa in una polla di sole, seminuda, sdraiata, e poi, in ginocchio, e poi voltata sulle ginocchia, ecco la mia innamorata della Costa Azzurra che mi squadrava al di sopra degli occhiali scuri. Mi è molto difficile esprimere con forza adeguata quel lampo, quel brivido, quell’empio di appassionata agnizione. […] «Quella era la mia Lo,» disse la Haze «e questi sono i miei gigli. «Sì,» risposi «si, sono belli, belli, bellissimi»16.

La potenza immaginativa ed evocativa di questo passo, nonostante la bellissima riproduzione cinematografica e di Stanley Kubrick del 1962 e di Adrian Lyne del 1997, sarà per sempre insuperabile. Leggere tra le righe di queste parole significa scorgere l’ossessione che serpeggia in ogni singola scelta, nei colpi d’occhio emblematici – il calzino –, nelle metafore, nella difficoltà di «esprimere con forza», nella perentoria affermazione «avrebbe eclissato completamente il suo prototipo», nella voce che veemente e piana pronuncia «bellissimi». La luce di Lolita, per irradiazione, si riflette, cadendo, imperterrita su Humbert. Se volessimo paragonare questo momento ad una scena del cinema americano, non vi sono dubbi, quello spezzone sarebbe da ricercarsi in American Beauty17, quando i petali di rose rosse si staccano dal corpo nudo della sedicenne Angela Hayes (e qui il cognome mi sembra una scelta significativa) e cadono voluttuosi sul volto estasiato di Lester Burnham. Il paragone non sembra azzardato, del resto, anche ciò che accade a Lester, tra moltissime altre interpretazioni, può essere letto come una storia di ossessione e di ninfolessia.
Ma l’apparizione non appaga il desiderio, anzi lo alimenta e lo estremizza. Dopo la prima manifestazione del corpo di Lo, Humbert cade in un intricato labirinto di desiderio. L’arma principale per “fissare” tutto ciò che vede e sente è ancora la parola scritta. Su un’agendina – il «reperto numero due» – annota ogni movimento di Lola. Un vero e proprio diario che scrive due volte, più una terza ovvero quando si appresta a scrivere Lolita. Quest’ultima riscrittura pare la più emblematica e sintomatica: recupera, «per cortese concessione della memoria fotografica», stralci di testo che coprono «la maggior parte del mese di giugno» del 1947; – «so che è da pazzi tenere questo diario, ma farlo mi dà uno strano brivido»18. Ma è proprio in queste strane pagine, ricoperte da una «microscopica grafia», che vi si confessa il voyeur che è in lui: guarda la «ninfetta» dalla finestra del bagno – «il mio osservatorio» –, poi dalla posizione «strategica» offertagli dalla sedia a dondolo nella loggia. Con la pipa e il giornale tra le mani, Humbert scruta:

Domenica. La mia bellezza s’è sdraiata bocconi, mostrando a me e alle mie pupille sgranate del mio sangue occhiuto le scapole appena sollevate, e la peluria lungo l’incurvatura della spina dorsale, e il gonfiore delle sode, strette natiche fasciate di nero, e la balneare esposizione delle cosce da scolaretta. In silenzio l’alunna della seconda media leggeva con diletto i suoi fumetti versi rossi e blu. Era la più bella ninfetta che Priapo – verde, rosso e blu – potesse escogitare19.

Dal progetto di scrutare Lo, Humbert progetta di incontrarla, di toccarla. Scacciare Charlotte, annullare l’intralcio, influenzare le sue decisioni, approfittare delle sue assenze è un primo passo per stare solo con Dolores; farla fuori è l’extrema ratio. Passare dal soddisfacimento visivo e uditivo a quello carnale. Ed infatti, dopo diversi “sfioramenti” – corrispondenze tattili sul sofà e sull’altalena, bruscoli, balli sconclusionati, sotterfugi, combinazioni pericolose, frangenti di disattenzione degli occhi altrui – arriva per Humbert il momento cruciale, il fatale contatto che scatena e infittisce la furia emozionale. Lolita, costretta dalla madre, deve trascorrere due mesi presso il Camp Q. Questa decisione strazia Humbert – «due interi mesi sottratti ai due anni della sua residua età ninfea» – ma il giorno della partenza, quel «giovedì», avrà in serbo «una stilla di miele»: Lolita si fa principio d’azione e l’ossessione, ormai, è pieno atto:

Arrivò Lolita col suo vestitino della festa, ansimando, il passo pesante, e fu subito tra le mie braccia, la bocca innocente che si scioglieva sotto la feroce pressione di fosche mascelle maschili, mio tesoro palpitante! […] Andai con passo fermo nella sua stanza messa a soqquadro, spalancai l’anta dell’armadio e mi immersi in un mucchio di indumenti sgualciti che l’avevano toccata. […] Vi avvolsi l’immenso, congestionato cuore di Humbert20.

Il piacere è, invece, la volontà riluttante di Kepesh, il sottosuolo della sua ossessione. A differenza di Lolita, l’Animale morente, dalla stessa prosa meticolosa, ma più asciutta, scandita in periodi più brevi, accelera il processo di incarnazione. Possiamo scorgere le tracce del «piacere» in poche pagine, dedicate a brevi flashback; l’allusione, eccetto per l’episodio di Miranda, a costellazioni di corpi di studentesse, assetate dalla voglia di vivere un’esperienza con un uomo più grande. Il professor di desiderio, quindi, parte in medias res:

Io sono molto sensibile alla bellezza femminile. Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza, la vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa. Queste 88 ragazze vengono al mio corso, e io capisco quasi subito qual è quella che fa per me21.

Ed infatti, quando vede per la prima volta Consuela Castillo o meglio i seni della bella cubana, subito capisce che quella che «non è come le altre» sarebbe stata la “sua ragazza”:

La camicetta di seta è slacciata fino al terzo bottone, e questo ti permette di vedere che Consuela ha due seni prepotenti, bellissimi. Noti subito il solco tra i seni. […] Un cuore generoso, un bel viso uno sguardo insieme invitante e remoto, due seni stupendi22.

Come per Humbert, anche per il nostro Kepesh la descrizione procede microscopicamente, come chi, guardando una cartina geografica, si munisce di una lente di ingrandimento per leggervi ogni città o paese sconosciuto: «I capelli sono acconciati con naturalezza, ma con cura. Il colorito è pallido, la bocca arcuata, anche se le labbra sono piene, e la fronte è tondeggiante, una fronte levigata di un’eleganza brancusiana». Come una telecamera che da una ripresa ambientale passa al soggetto principale, così David passa dal vestiario all’oggetto princeps del suo desiderio: i seni. In questo caso, l’ossessione di Kepesh sembra assottigliarsi verso un’unica parte del corpo di Consuela, il pretesto capace di condurlo oltre i veli che celano – come egli stesso lo definisce – il «cieco impulso». Eppure, anche Consuela, nonostante la sua notevole diversità rispetto alle altre allieve, inizialmente sembra essere un’altra fiamma di intenso piacere destinata a spegnersi presto.

Gli sto dicendo chi sono, pensa lei, gli interessa sapere chi sono. Questo è vero, ma io sono curioso di sapere chi è perché voglio scopare. Non ho bisogno di tutto questo grande interesse per Kafka e Velázquez. Mentre con lei faccio questa conversazione, penso, Quanto dovrò aspettare ancora?23.

Ecco, questi sono primi pensieri di David mentre parla con Consuela alla festa che, come consuetudine, organizza alla fine del suo corso, presso la sua abitazione. Alla fine della discussione, si accordano per andare a teatro insieme e quella sarà l’occasione per alimentare ancora il desiderio:

Passai la sera seduto accanto a lei, sbirciando il bel solco tra i seni nella scollatura e il bellissimo corpo. Porta una quarta, questa duchessa, ha due seni veramente grossi, molto belli, e la pelle bianchissima, una pelle che, quando la vedi, ti fa venire voglia di leccarla24.

Dopo il teatro, a casa di Kepesh avviene l’incarnazione. Sotto la Settima di Beethoven, Consuela balla, adagiandosi sul suo stesso corpo, simulando la direzione di un’orchestra. Inutile sottolineare dove sia lo sguardo del sessantenne, sui seni che si «muovevano sotto la camicetta», ovviamente. Ma qualcosa sovverte gli schemi, Consuela esce dallo status di mera lussuria ed entra nel corpo dell’ossessione: «Vuoi escludere il dominio? Vuoi escludere la resa? Il dominio è la pietra focaia, fa sprizzare la scintilla, avvia il meccanismo. Poi… Cosa? Ascolta. Lo vedrai. Vedrai a che cosa porta dominare. Vedrai a che cosa porta essere dominati»25.
Quella sera stessa i due fanno l’amore e Kepesh ricorda proprio tutto:

Consuela era in comunione con quel corpo proprio nel modo in cui si desiderava. […] Si spogliò e di seta non aveva solo la camicetta, ma anche la sua biancheria. […] Le due cose che si notano nel corpo di Consuela sono due. In primo luogo, i seni. I seni più belli che abbia mai visto26. […] Questi erano tondi, pieni, perfetti. Del tipo col capezzolo che sembra un piattino. Non il capezzolo come una poppa, ma quel grosso capezzolo tra il rosa e il bruno chiaro che è così eccitante. La seconda cosa era che il suo pelo pubico era liscio27.

Ma nonostante Consuela dica «Ti adoro» ed sia ella stessa artefice di alcune mosse «molto pornografiche», Kepesh avverte che la cubana non si eccita tanto quanto lui:

Non posso dire che Consuela si eccitasse sessualmente per qualunque cosa io abbia mai fatto. Questo è in gran parte il motivo per cui, dalla sera di otto anni fa in cui andammo per la prima volta a letto insieme, non ho mai avuto un momento di pace, questo è il motivo per cui, se ne rendesse conto, da allora sono sempre stato incerto e preoccupato, il motivo per cui non riuscivo a capire se la risposta era vederla di più o di meno o non vederla affatto, rinunciare a lei. […] Consuela era sempre nei mi pensieri, con lei o lontano da lei, non mi sentivo mai sicuro di lei. Il lato ossessivo di tutta la faccenda era terribile. Quando sei sedotto da qualcosa, è bello non pensarci troppo e cullarsi nel piacere della seduzione. Ma io non avevo questo piacere; non facevo altro che pensare: pensare, preoccuparsi e… Sì, soffrire28.

Per Danilo Pulvirenti la volontà che rilutta sotto la sua ossessione è l’arte mitica. Tutta la narrazione è intrecciata, comparandosi e sovrapponendosi, tra mitologia e realtà. In questo caso, il libro di Siti è emblematico, anche perché oltre a tracciare una storia dal «difficile ingresso», ci fornisce un vero e proprio studio dell’ossessione: ventitré proposizioni che indicano la sua nascita, la sua evoluzione, la sua resa.

Proposizione 7. L’ossessione allude al mito negandolo e accelerandolo in folle, le curve del maschile e del femminile si sovrappongono in una famelica anamorfosi. L’ossessione è la morte che si rovescia sulla vita disarmata, cancellando la sciocca distinzione tra meccanico e psichico. Volontà e coscienza cessano di agire: egoismo e altruismo, perfino attrazione e repulsione non sono più concetti pertinenti, l’io è riassorbito nella bava di un cane cosmico, che marca il territorio e lecca il sale della pietra29.

Le stesse foto scattate ad Angelo sono una riproduzione di statue di dèi o eroi. Immaginiamo, ad esempio, il David in marmo di Michelangelo. La prima cosa che ci colpisce è la sua muscolatura perfetta, destinata a divenire simbolo della bellezza maschile. Ecco cosa accende il desiderio di quell’arte in Dany: i muscoli. Questa pulsione si manifesta sin dalla giovane età, quando aveva la «mania» di tagliare foto di uomini atletici e «ritoccarle a mano cancellando gli slip»:

Dopo i compiti Danilo si reca in pellegrinaggio al vicino Ercole di marmo che sta a guardia del palazzo ducale e lo prega: «ma tu saresti disposto a diventare di carne?30.

Quella mania diviene già ossessione. Danilo frequenta locali leather in cui, «come se visitasse una gli stand di una fiera, ma con una tachicardia nervosa che non accetta a placarsi», si inoltra «nelle stanzette più buie». A Berlino, in una «sala dei supplizi», nonostante tutti gli attrezzi siano in funzione, lui resta colpito dalla «croce di Sant’Andrea» dove è legato un culturista in chaps di pelle:

Glutei già rigati da solchi rossi di frusta, su cui si scatena la fantasia di Danilo – una frenesia di possedere e di inghiottire insieme, come se le viscere si estroflettessero in un mostro contro il quale non c’è misura e la principessa è divorata senza scampo. Un’attrazione che lo cattura irresistibilmente, come un’astronave che si sia avvicinata troppo al campo gravitazionale del pianeta. […] Danilo si fa coraggio e impone le sue palme sul culo arrossato31.

Anche per Danilo, «Zac!», senza volere, arriva l’incarnazione della sua ossessione. È un escort romano, è un «minotauro» dal fisico estremamente possente a fare breccia nella magrezza del protagonista. Anche in questo caso, tutto ciò che è stato «prima» di Angelo si rivela essere solo il riflesso del riluttante. – Proposizione 8: «l’ossessione appassisce quando non si incarna, vive in uno stato di letargico come certe piante del deserto nei periodi di siccità»32. È il 12 settembre del 2004, Danilo va con il suo amico Giulio a teatro per vedere una pièce del mito di Minosse e Procri:

Ma la folgorazione lo coglie impreparato quando da un’onda di danzatrici in tulle scorge il torace del Minotauro. Terra lunare sotto le corna ferine, lucente fino all’inguine d’olio e di riflettori – breve apparizione prima che ricomincino le intricate peripezie verbali, ma Danilo non le ascolta più: vaga tra assoli di ottoni robusti, ditirambi e inni di gloria, il Giove dipinto da Ingres. Il corpo ciclopico riappare in posizione prona, a suggerire la roccia da cui precipita una ninfa suicidandosi. […] in uno stato a dir poco confusionale, Danilo è già oltre il sipario, giù per le scalette a gomito che portano ai camerini33.

A differenza di Humbert e di Kepesh, Danilo non ha bisogno degli escamotage del primo o dei «veli» del secondo per arrivare a un contatto carnale con Angelo, per quello bastano i soldi. Ciò che, invece, intimorisce Danilo è la paura di essere rifiutato. Ma per lui si apre «una faglia nella calotta celeste» che gli mostra «il corpo eucaristico» non «sotto le forme del proibito». La folgorazione e l’incredulità di Danilo sono palpabili, un’emozione idiosincratica:

Non è brama, lussuria, non è fatalità meccanica – un masso che cade in un crepaccio senza fondo […]. È lui, e fa quel che per tutta la vita Danilo ha immaginato che facesse. L’ansia non è che il corollario, la constatazione dell’inevitabile. Incapace di aspettarlo tranquillo in sala o anche in cucina, Danilo è sorpreso di sé, dell’onda arcaica che lo travolge34.

Vanno a letto insieme e subito Danilo scruta gli occhi di «Engy»: due iridi azzurre, con venature grigie di «un’infinita docilità»35. Un builder dallo sguardo allegro che si sottopone ai supplizi con «la strafottenza di una sfida adolescenziale». Angelo è la perfezione che Danilo non vuole solo contemplare, ma possedere. L’incontro è, ormai, fatale: «[…] è il frastuono di sapere che l’attrazione e il terrore hanno lo stesso profilo: che la ricreazione è finita e l’inseguimento stavolta sarà mortale»36.

4. La metamorfosi dell’ossessione: la gelosia per il corpo

In un passo de L’erotismo Bataille scrive: «Al momento di fare il passo, il desiderio ci getta fuori di noi, non ne possiamo più, il movimento che ci trascina con sé esigerebbe che ci spezzassimo. Ma una volta che l’abbiamo di fronte, l’oggetto che eccede ci riporta alla vita che il desiderio supera. Com’è dolce restare nell’ambito del desiderio, senza spingersi agli estremi, senza compire il passo. Com’è dolce restare a lungo davanti all’oggetto di questo desiderio, mantenerci in vita nel desiderio, anziché morire spingendosi agli estremi, cadendo all’accesso della violenza del desiderio. Noi sappiamo che il possesso dell’oggetto che ci fa bruciare di desiderio è impossibile. O una cosa o l’altra: o il desiderio ci consumerà, o il suo oggetto cesserà di farci bruciare. […] Nel possesso s’accentua l’aspetto oggettivo di ciò che ci aveva indotti a uscire dai nostri limiti»37.
I protagonisti dei romanzi che stiamo analizzando, come abbiamo visto, non hanno resistito al desiderio; hanno «compiuto il passo», in qualche modo hanno preso «possesso» del corpo altro, ma allo stesso tempo non è pieno possesso, anzi, tutti e tre hanno la costante tensione e paura di perdere per sempre il loro «oggetto del desiderio», il timore che venga “rapito” da un terzo incomodo. Il possesso prevede sempre la pretesa dell’esclusività, brucia dinanzi alla metamorfosi dell’ossessione: la gelosia. Non c’è scampo, questa è un serpente virgiliano che stringe e avviluppa, che conduce alle soglie dell’agonia. Che Nabokov, Roth e Siti prediligano questa «patologia» del sentimento amoroso, fino alle sue estreme conseguenze, è tipico del romanzo moderno; vi è in Goethe, Tolstoj, Svevo, Buzzati, Moravia, del quale un caso eclatante può essere sicuramente La donna leopardo. In termini narrativi lo scrutamento di tale sensazione ha risvolti molto interessanti. «Basata sul sospetto, da una parte consente di dispiegare nella trama strategie investigative che alimentano l’attesa per il dénouement, dall’altra esaspera i conflitti tra la psicologia dei personaggi e i codici vigenti. La gelosia è infatti un sentimento storicizzato: dipende dalla cultura di classe e dalle forme di libertà, dai rapporti tra i sessi, dal mutevole sentimento dell’onore oltre che dalle leggi»38. Dunque, un burrone in cui una volta caduti, la risalita, spesso, sfocia in una solitudine esistenziale.
Per comprendere pienamente come questo sentimento divora Humbert, Kepesh e Danilo, ho scelto dei passi emblematici. Come sempre partiamo da Lolita:

Oh, dovevo sorvegliarla bene, la mia piccola, languida Lo! Forse a causa del costante esercizio amoroso e nonostante l’aspetto infantile, irradiava un singolare alone sensuale che suscitava nei meccanici, nei fattorini dell’albergo, nei villeggianti, nei gonzi con la macchina, negli abbronzati babbei vicino alle piscine azzurrate, degli accessi di concupiscenza che avrebbero potuto inorgoglirmi, e invece esacerbavano la mia gelosia. […]39. Assolutamente proibito era uscire coi ragazzi – non importa se in due, in quattro o in sei, essendo palesemente il passo successivo un’orgia di massa. […] Naturalmente la mia gelosia imbrigliava di continuo gli artigli aguzzi nelle trame sottili della ninfica falsità40.

Continuiamo con L’animale morente:

La gelosia. Quel veleno. E senza motivo. Geloso anche quando mi dice che va a pattinare sul ghiaccio insieme al fratello diciottenne. Sarà lui a portarmela via? in una relazione sentimentale ossessiva come questa non sei più sicuro di te, non quando sei preso dal vortice e non quando la ragazza ha quasi un terzo della tua età. Io sono in ansia se non le parlo per telefono ogni giorno, e sono in ansia dopo che abbiamo parlato. […] Le sere che non è con me, sono sconvolto al pensiero di dove può essere e cosa può combinare. Ma anche quando è stata con me tutta la sera ed è tornata a casa, non posso dormire. […] Mi dava fastidio che andasse in giro con quella camicetta. Toglile la giacca, ed ecco la camicetta. Toglile la camicetta, ed ecco la perfezione. Un giovanotto la troverà e la porterà via e la perderò. […] Come so che un giovanotto me la porterà via? […] Io come faccio a catturare Consuela? Il pensiero è moralmente umiliante, eppure esiste41.

Terminiamo con Autopsia dell’ossessione:

Danilo si avvicina al ponticello sull’Aniene ed eccolo là, il professore bavoso: tondo come un bidone e sgambettante, appeso con mille moine al braccio di Angelo – che è stato magistrale nella tempistica e lo ha condotto senza sospetti al luogo dell’agguato. […] Danilo cercherà distanziarsi in ogni modo dal fantasma intravisto sul ponte; assumerà informazioni, lo collocherà nel tempo e nello spazio per relativizzarlo, ma proprio da questo la sua fissazione prenderà un nuovo alimento. […] Danilo non sa scrollarsi di dosso una sensazione di pericolo: tra tutti i clienti e le infami passioni di Angelo, solo a questo vecchio calvo, grasso e dall’aria inoffensiva non può essere negata una diabolica serietà – non per niente hanno idolatrato la stessa foto. Quando l’Icona Assoluta ti addenta con tale estatica precisione, non puoi più mollare a nessun costo. “Alla ricostruzione del mio mito personale mancava una pedina ed eccola… ci litigheremo lo stesso pezzo di carne putrefatta, ci ritroveremo ai lati opposti della medesima bara42.

Tre modi diversi di affrontare la gelosia: quella di Humbert è un’angoscia morbosa, investigativa, escludente, fatta di perentorie negazioni nei confronti del corpo altro. È il corpo che non deve fuggire, deve mantenere una staticità. Ma la licenziosità che Humbert si concede è più semplice: Lolita è un’adolescente, sola, controllabile per certi versi. Nonostante sia Lo a muovere le fila del cuore-marionetta di Humbert, a trovare soluzioni alternative per scappare – prestazioni sessuali in cambio di soldi – la morsa del molosso è più forte, ma, come vedremo, fino ad un certo punto. La gelosia è possessione e va curata; chi sottrae quel corpo si aspetti la vendetta dell’ossessionante. Humbert non accetterà mai il fatto che Quilty Clare abbia conquistato il corpo di Lolita e il cuore di Dolores. In un momento senza tempo, Cue sarà ucciso da Humbert. Un suo «doppio», come ascriverebbe Siti. Però, Quilty, un «ninfolettico smanioso» è un alter ego di HH dagli esiti completamente opposti rispetto al Rivale del Pulvirenti. Qui c’è la resa, la recessione dell’ossessione. Danilo non può sopportare anzitutto una cosa: che lui e il Rivale abbiano notato, ansimando, la stessa foto di Angelo, l’unica esposta ad una mostra. Per l’antiquario è importante guardare il nemico «non per gelosia banale, ma per conoscere in quanti modi può essere declinato il mito» – «Ci si siede di fronte e si vuotano i primi bicchieri lentamente, / fissando il rivale con l’occhio traverso»43. Serpeggia una bugia, la resa di Danilo può essere letta come la «cessazione di un’angoscia», dolore per quel corpo «unico», la cui ossessione «pur di perpetuarsi» era disposta a «usare perfino l’amore». Quella di Kepesh è invece una gelosia esternamente controllata, ma interiormente turbolenta e frustrante. La sua è la pornografia della gelosia, di cui, però, «le immagini sono estremamente dolorose».

Preposizione 17. L’ossessione affonda le radici nell’attimo reiterato in cui il soggetto è spettatore; il racconto eterno comincia da una stanza sbarrata, da un tesoro nascosto e da qualcuno che lo vuole rubare. Un estraneo (o un alter ego) può entrare nel gioco solo in quanto ladro, in quando si impadronisce del corpo amato e lo possiede in un fulgore insopportabile. È notte, il futuro ossessionato spia da una finestra: si pietrifica, per sempre, nell’istantanea dell’esclusione44.

5. L’assenza del corpo: movimenti, fuga, mancanze

Quando tu non ci sei
e l’aria non risuona dei tuoi richiami segreti
allora l’ombra si stende come un manto
la sera diventa feroce
e gli uccelli mi cadono ai piedi stecchiti
come percossi da una peste improvvisa
perché la mancanza di amore
è la mia pestilenza45.

Iniziare il presente paragrafo con questa poesia di Alda Merini è risultato inevitabile. La poetessa dei Navigli mette in luce quattro aspetti fondamentali che andremo a tracciare in quest’ultimo confronto con il corpo altro: l’assenza, il suono del nulla, la ferocia della mancanza, la pestilenza.
In tutti e tre i romanzi c’è un momento, un lasso di tempo, che separa i protagonisti dal corpo ossessionante. L’assenza comporta, anche se esteriorizzata in modi diversi, una convulsione emotiva straziante per Humbert, Kepesh e Danilo. L’assenza si palesa in tre modi: nella fuga e scomparsa (Lolita), nella sospensione (L’animale morente), nell’allontanamento totale (Autopsia dell’ossessione). Riportiamo, sempre rispettivamente, i passi più esplicativi.
Prima fuga. Lolita, dopo una furiosa lite con Humbert dovuta ai continui sospetti di questo, scappa:

Al piano di sotto la porta a zanzariera sbatté. Lo? Fuggita? Dalla finestra sulle scale vidi un piccolo fantasma impetuoso che scivolava tra i cespugli; un puntolino argenteo nel buio – il mozzo di una ruota di bicicletta si mosse, rabbrividì, e Lolita era scomparsa. Proprio quella notte la macchina si trovava in città, nel garage di un meccanico. Non avevo alternative: dovevo inseguire l’alata fuggitiva a piedi. Attenzione! A una decina di passi di distanza Lolita, attraverso il vetro di una cabina del telefono, la mano a coppa, china sul microfono con aria confidenziale, mi vide, strinse gli occhi, mi voltò le spalle con il suo tesoro, riattaccò in fretta e furia e uscì con aria baldanzosa. […] Lolita mia46.

Seconda fuga. Semplice sosta, ma se l’occhio non vede, qui, il cuore duole:

Ci eravamo fermati a un distributore sotto l’insegna di Pegaso, e Lo era sgusciata via per fuggire verso il retro dell’edificio, mentre il cofano alzato, sotto il quale mi ero chinato per osservare le manipolazioni del meccanico, la nascondeva per un momento alla mia vista. […] E così, dopo il controllo alla macchina, mi ero allontanato dalla pompa di benzina per cedere il posto a un camioncino quando, in quel ventoso grigiore, cominciò a gravarmi addosso il volume crescente dell’assenza di Lo47.

Dolores disparue. Lo si ammala e Humbert è costretto a portarla in ospedale. Dopo circa una settimana, Lolita, è portata via da un uomo che dichiara di essere suo parente, lo zio Gustav. Scompare nel nulla. Inizia la disperazione di Humbert – «dopo qualche eclissi e qualche lapsus da sequenza onirica mi trovai all’accettazione, dove cercai di picchiare il medico, e ruggii contro la gente nascosta sotto le sedie […] A me stesso bisbigliai che avevo ancora la pistola ed ero ancora un uomo libero – libero di rintracciare la fuggitiva, libero di uccidere mio fratello». Dunque, inizia la spasmodica ricerca di Lola per «millecinquecento chilometri di strada», in «trecento registi ispezionati», nella memorizzazione di numeri di targa di auto, attraverso soste presso tappe già solcate, false piste, ipotesi. E, poi, la resa:

Questo libro parla di Lolita; e adesso […] avrebbe poco senso analizzare i tre anni vuoti che seguirono. […]. Raramente, se non mai – cosa piuttosto singolare – sognavo Lolita come me la ricordavo, come la vedevo in modo costante e ossessivo nella mia mente consapevole durante gli incubi del giorno e le insonnie della notte48.

«Consumami il cuore; malato di desiderio / E avvinto a un animale morente / Che non sa cos’è»49. Consuela consuma il cuore di David con la sua assenza. La loro “relazione” dura «poco più di un anno»; termina “definitivamente” quando la ragazza invita il professore alla propria festa di laurea e lui non vi si presenta:

Naturalmente fu un bene per entrambi che finisse, ma questo non era nei miei piani, e nei giorni che seguirono scoprii di essere disperato. Per quasi tre anni ebbi saltuarie crisi depressive. Tormentato per tutto il tempo che ero stato con lei, cento volte più tormentato per averla perduta. Fu un brutto periodo, e non finiva mai. George O’Hearn si comportò benissimo. Mi aiutò, con i suoi discorsi, a passare molte sere, quando mi sentivo troppo giù. E avevo il mio pianoforte, che fu la cosa che mi fece superare la crisi50.

David più che investigare il mondo esterno, investiga nel suo Io; ispeziona il ricordo dei seni. Comprende di aver «violato la legge della distanza estetica», di aver «personalizzato l’esperienza estetica» durante la sera in cui Consuela si tolse l’assorbente e lui le praticò un cunnilingus. Kepesh ha «incorporato» la studentessa, il suo corpo, la tua tensione verso la cultura, l’arte, le sue mani che fingevano di dirigere un’orchestra, ha incorporato ogni cosa e si è ridotto alla «disperazione», alla «pestilenza d’amore»; s’inventa una nuova ossessione, la libertà:

Questo bisogno. Questa follia. Non avrà mai fine? Dopo un po’ non so nemmeno io qual è la causa della mia disperazione. Le sue tette? La sua anima? La sua giovinezza? La sua semplicità? Forse è peggio di così: forse, ora che mi sto avvicinando alla morte, anch’io segretamente desidero non essere libero51.

A pagina 279 di Autopsia dell’ossessione ci troviamo dinanzi ad una foto singolare. Questa volta, Angelo non è nudo. Abbiamo un’inversione di rotta, un cambio di prospettiva. Siamo nel 2007 e tra i due è finita; terminano le sessioni di foto, i rituali, la violenza e i sentimenti – sempre occultati – di Danilo. Quest’ultimo si arrende, molla la presa. Il minotauro avvolge le membra del Rivale. Scade l’incarnazione dell’ossessione e si attiva la consapevolezza che quel modello «non tornerà mai più». Ma davanti a quella foto, rivista nella stanza delle rondini due anni dopo, Danilo, scorgendo e notando un’espressione mai vista prima sul volto di Angelo, è «sopraffatto dall’angoscia per ciò che non potrà vedere mai più: non il suo corpo, ma quel lampo di reazione negli occhi». Il «difficile ingresso» era quello dentro se stesso, e Angelo era la sua «chiave».

Preposizione 23. Anche l’ossessione può morire, se la società in cui respira non è più in grado di nutrire racconti – se la negazione del mondo non avviene in nome dell’eterno ma in nome di una competizione istantanea e idiota, di una onnipotenza di plastica. Senza metafisica, l’ossessione diventa stupido collezionismo, accumulazione robotizzata. L’ossessione (con la sua ansia di mito garantita dal desiderio di morte) è paradossalmente l’ultimo guizzo, l’estremo schermo prima della Tautologia52.

Tutti i nostri protagonisti, dopo queste assenze, rincontreranno i corpi altri, ma cambiati: Humbert sarà al cospetto non di Lo-Li-Ta, ma di una Dolores Schiller (cognome derivatole dal marito) incinta; Kepesh ammirerà una Consuela ammalata di cancro al seno; Danilo si sentirà fuori posto nel vedere insieme il Rivale e «lui». Ad H. e a D. resta un oggetto dell’Altro: una forcina vecchia di tre anni per il primo; una maglia larga per il secondo. A K. resta, invece, una speranza: soccorrere Consuela in ospedale, se non altro per tenere fede a quell’abbraccio, quasi schieliano, consumatosi sul suo sofà durante il loro ultimo incontro.
Tornare a galla eternizzando. L’ultimo atto di tutti i nostri protagonisti è il racconto delle storie che abbiamo analizzato. Tre penne magistrali, quella di Nabokov, Roth e Siti che, oltre a descrizioni di corpi e di ossessioni, ci hanno mostrato anche possibili storie di «insaziabili amori illeciti».

Conclusioni

Giunti alla fine di questo percorso, possiamo dire di aver almeno in parte descritto il motivo dell’ossessione del corpo che i romanzi di Nabokov, Roth e Siti mettono in scena. Sarebbero tantissime le cose da aggiungere, altri “sintomi” dell’ossessione; penso, ad esempio, agli acquisti compulsivi – caramelle, gelati, vestiti, riviste – che Humbert Humbert regala a Lolita; alla ripetizione estenuante della parola “seno” nelle pagine de L’animale morente oppure alla descrizione di ogni singola foto ritraente Angelo. E tante, tante altre sfumature. Ma la selezione era d’obbligo. Si perdoneranno all’autrice alcune licenze “creative”. Si è provato a delineare il processo attraverso cui il motivo dell’ossessione emerge, dalla sua scaturigine alla sua dissoluzione, in relazione all’azione dei protagonisti “ossessionati” e rispetto a quella del “corpo ossessionante”. Ne è emerso che i tre romanzi, seppur ad alcuni decenni di distanza tra loro, fanno dell’ossessione del corpo dell’altro il loro minimo comune denominatore, il fantasma che li agita dall’interno.


  1. Verg. Æn. IV 1.
  2. Claude Monet, Mon histoire. Pensieri e testimonianze, a cura di L. Giudici, Milano, Abscondita, 2009, p. 51.
  3. Rainer Maria Rilke, La pantera, in Poesie, trad. it. di P. De Nicola, L. Traverso, R. Prati, Novara, De Agostini, 2001, p. 33, vv. 11-13.
  4. Cfr. Sigmund Freud, Ossessioni, fobie e paranoia, Roma, Newton Compton, 2017, p. 33.
  5. Charles Baudelaire, Ossessione, in I fiori del male, a cura di M. Colesanti, trad. it. di C. Rendina, Roma, Newton Compton, 2014, p. 111, vv. 26-27.
  6. Ivi, pp. 382-383.
  7. Philip Roth, L’animale morente, Torino, Einaudi, 2002, pp. 3-4.
  8. Walter Siti, Autopsia dell’ossessione, Milano, Mondadori, 2010, pp. 9, 11-12.
  9. Ivi, p. 178.
  10. «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’imperatore» (Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 2003, p. 5).
  11. Georges Bataille, L’erotismo, Milano, Mondadori, 1969, p. 22.
  12. V. Nabokov, Lolita, cit., p. 19.
  13. Ibidem.
  14. Ivi, pp. 23-24.
  15. V. Nabokov, Lolita, cit., pp. 26-27.
  16. V. Nabokov, Lolita, cit., pp. 54-55.
  17. Il film è del 1999, scritto da Alan Ball e diretto da Sam Mendes. I personaggi da me citati, Angela Hayse e Lester Burnham, sono interpretati rispettivamente da Mena Suvari e Kevin Spacey.
  18. V. Nabokov, Lolita, cit., p. 57.
  19. Ivi, p. 58.
  20. Ivi, pp. 87-88.
  21. P. Roth, L’animale morente, cit., p. 3.
  22. Ivi, pp. 4-6.
  23. Ivi, pp. 13-14.
  24. Ivi, p. 15.
  25. Ivi, p. 16.
  26. Ivi, p. 22.
  27. Ivi, pp. 21-22.
  28. Ivi, pp. 18-19.
  29. W. Siti, Autopsia dell’ossessione, cit., p. 126.
  30. Ivi, p. 50.
  31. Ivi, p. 25.
  32. Ivi, p. 137.
  33. Ivi, p. 148.
  34. Ivi, p. 150.
  35. Ivi, p. 151.
  36. Ibidem.
  37. G. Bataille, L’erotismo, cit., p. 125.
  38. Introduzione al convegno malatestiano “La gelosia. Metamorfosi di un’ossessione nel romanzo”, tenutosi il 27 e il 28 maggio 2022.
  39. V. Nabokov, Lolita, cit., pp. 201.
  40. Ivi, pp. 233-234.
  41. Ivi, pp. 29-31.
  42. W. Siti, Autopsia dell’ossessione, cit., pp. 203-205.
  43. Cesare Pavese, Gelosia, in Id., Poesie del disamore, Torino, Einaudi, 1968, p. 43.
  44. W. Siti, Autopsia dell’ossessione, cit., p. 213.
  45. Alda Merini, Il suono dell’ombra, a cura di A. Borsani, Milano, Mondadori, 2010, p. 189.
  46. V. Nabokov, Lolita, cit., pp. 258-259.
  47. Ivi, pp. 264-265.
  48. Ivi, p. 317.
  49. W.B. Yeats in P. Roth, L’animale morente, cit., p. 75.
  50. P. Roth, L’animale morente, cit., pp. 68.
  51. Ivi, p. 78.
  52. W. Siti, Autopsia dell’ossessione, cit., p. 281.

This article aims to investigate the formal organization of the theme of obsession in Vladimir Nabokov’s Lolita (1955), Philip Roth’s The Dying Animal (2001) and Walter Siti’s Autopsia dell’ossessione (2010). A close comparison allowed us to grasp the different formalizations of the theme, starting from the relationship that each protagonist maintains with the body of the Other, i.e. the haunted body. The article, after an introduction, develops in four sections which correspond to four stages of the evolutionary process of obsession. Each of the novels opens by rewinding the tape: each of the protagonists looks back to the past using a different medium: writing, oral tale, photography. These strategies are understood as symptoms of the need to recognize the obsession as a will to ‘relive’ the body of the Other. Furthermore, it can be noted that each text appeals, directly or indirectly, to the reader; as if it invites him to sit down to ‘listen’ – literally – to a story.