Sul teatro di figura, tra Čechov e Eduardo

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1. Il teatro di figura

La dimensione teatrale, da sempre ricchissima, al punto da essere dispersiva, è un costante pullulare di immagini, ombre e spettri. Proprio sul termine figura, che viene introdotto negli anni ’70 al posto del termine animazione, è opportuno porre un accento. Esso deriva dal verbo latino fingere e comprende nel suo insieme ogni declinazione della dimensione a cui abbiamo accennato poco fa. Racchiude, infatti, un mondo che comprende significati come quelli di struttura, corpo materiale, ma anche atomo, allusione, fino ad arrivare a quelli di ombra e fantasma. Se la scelta appare utile nello spiegarne la ricchezza contenutistica, ad uno sguardo che vada oltre i suoi contorni, oltre il bordo nero della parola, appare utile nell’illustrarne la complessità interna, dal momento che tutte le accezioni proposte risultano sinonimi di una parola non ancora menzionata, e cioè quella di uomo. Tra le forme più conosciute del teatro di figura troviamo le marionette, i burattini a guanto o a bastone, i pupazzi, ma anche il teatro nero fatto di silhouette e giochi illusori. A fare da base a questo mondo vi è in sostanza un archetipo linguistico e religioso, con le prime tracce da ricercare nell’India tra l’XI ed il XII secolo a.C. Proprio in questi territori la figura del sutradhara (letteralmente, colui che tira i fili) era tenuta in altissima considerazione e godeva di un prestigio sociale crescente. L’organizzazione degli spettacoli avveniva verso la sera e riguardava, nella maggior parte delle volte, proprio le vicende di Sutradhara. La lettura storiografica di autori come Erodoto anticipa la tradizione classica del teatro d’occidente. Nelle Storie, la sua inclinazione di logografo lo porta a raccontare degli usi e dei costumi della popolazione egizia, spaziando poi sui riti riservati al dio Osiride e su come questi avessero, secondo l’autore, un carattere di rappresentazione sacra molto affine alla dimensione teatrale. La figura del burattinaio è ripresa similmente nell’antica Grecia dalle figure delle moire, personaggi appartenenti al mito e all’epos greco. Cloto, Làchesi e Atropo, a ciascuna spetta un compito ben preciso: la prima reggeva il filo dei giorni della vita, la seconda decretava la durata e la qualità dell’esistenza umana, mentre all’ultima (laddove il nome rimanda all’ineluttabile) spettava il compito di recidere il filo. La matrice greca ha avuto una chiara influenza sulla cultura latina, sia per quanto riguarda la tradizione del mito, basti pensare alle parche, riproposizione delle moire greche, sia per quanto concerne il teatro, con un progressivo passaggio dall’elemento religioso a quello satirico, dove le marionette caratterizzavano gli spettacoli delle farse atellane. La grande innovazione delle farse sta nell’introduzione delle maschere, elementi che si aggiungono al teatro di figura e che rappresentano, attraverso le più famose di Maccus, Pappus, Buccus e Dossenus, un significativo punto di svolta.

2. Maschera e maschere

Lo sviluppo del teatro di figura passa anche attraverso l’introduzione della maschera, grande elemento, se non silenziosa protagonista della storia teatrale, alter ego dietro al quale camuffarsi.
Essa rappresentò un punto di svolta, se si pensa che in certe culture, in tempi assai remoti, la rappresentazione scenica delle divinità era severamente proibita. Si caratterizzò per il suo impiego nelle messinscene di carattere magico-religioso, coniando un vero e proprio simbolismo.
Una delle prime attestazioni d’epoca romana è in occasione delle calende, feste durante le quali venivano rappresentati numerosi spettacoli teatrali. La tematica più ricorrente era il travestimento in animale. Proprio nelle Georgiche Virgilio ne parla in questo modo:

nec non Ausonii, Troia gens missa, coloni
uersibus incomptis ludunt risuque soluto,
raque corticibus sumunt horrenda cauatis,
et te, Bacche, uocant per carmina laeta, tibique
oscilla ex alta suspendunt mollia pinu1.

La descrizione non è tra le più felici, ma ci aiuta a comprendere come la maschera esprimesse un carattere tribale e fosse destinata alla celebrazione della divinità.
Ancora, nel termine larva impiegato da Orazio2 si può ritrovare il concetto di persona mascherata. Il vocabolo in origine significava spettro/maschera e solo dal XVIII secolo assunse un’accezione anche zoologica. Su questo duplice significato, l’uso della maschera instaura una relazione tra il mondo dei morti e quello dei vivi. Proprio attraverso di essa, ponte di comunicazione tra le due dimensioni, il terrore degli spettri viene esorcizzato attraverso danze e riti che propiziano la fortuna.
Giunti a questo punto, occorre proporre una distinzione tra “maschera” e “maschere”. La prima è strumento di evocazione di grandi eroi e divinità (come nella tradizione greca), mentre le seconde sono il risultato di una somma di comportamenti, suoni e gesti che confluiscono in un’effigie. Durante l’epoca del cristianesimo entrambe le tipologie non conobbero la fortuna delle stagioni precedenti. La dottrina cristiana, da intendersi come venerazione della singolarità, rigettò inizialmente la cultura del teatro, vedendone all’interno delle sue sovrastrutture il punto di diffusione della cultura pagana. Solo nel Basso Medioevo e con l’avvento della commedia dell’arte, la maschera ritrovò un ruolo fondante nella spettacolarità. L’idea dei commedianti, dall’esito felice e rivoluzionario, fu quella di utilizzarla come parte integrante del proprio personaggio. Nacquero nuove e stimolanti figure, come quelle dello Zanni, declinata ben presto in una veste astuta e in una assai meno, di Pantalone (il nome originario è quello del Magnifico), quella del capitano, in cui si nota l’archetipo del Miles gloriosus di Plauto, fino ad arrivare a quelle di Arlecchino e Pulcinella. Quando la Commedia dell’arte, verso la metà del ’700, iniziò a mostrare evidenti segnali di crisi, le apparizioni della maschera divennero sempre più sporadiche. Nelle Fiabe di Gozzi e nella scrittura di Goldoni cominciarono ad essere intese come la somma degli elementi di cui si è detto prima. Nella scrittura del commediografo veneto, l’aura mitica della maschera cominciò a cedere il posto alle riflessioni di carattere moraleggiante, che vennero ben presto a intrecciarsi con la descrizione di personaggi appartenenti al ceto della borghesia. Contributi determinanti furono offerti dalle esigenze di una società volta all’Illuminismo, realtà in cui la maschera divenne rapidamente un oggetto anacronistico. L’articolazione e lo studio dei comportamenti umani (e quindi anche delle maschere) sempre più legati alla sfera della psiche, portarono, tra l’inizio e la fine dell’Ottocento, a brillanti approfondimenti in campo artistico-letterario:

Quando i lineamenti del viso vengono sottratti alla loro consueta mobilità espressiva, oscurati o alterati da una maschera, l’uomo viene consegnato a una solitudine spaventosa. Di lui rimane solo l’immagine dell’animalità e della morte3.

La metamorfosi ha avuto infine il suo compimento, la maschera si è mostrata come la naturale evoluzione dell’uomo, addentratosi in strati della società sempre più complessi, adattandosi a essi e acquisendo i meccanismi necessari alla sopravvivenza: l’argilla ha infine ceduto il posto alla pelle.

3. Oggetti e feticismo

Uno dei primi testi del ’900 in cui si pone l’attenzione su quegli individui la cui scelta oggettuale è dominata dal feticcio è un breve articolo del 1927 di Sigmund Freud, dal titolo Fetichismus. L’analisi portò l’autore a trarre una conclusione univoca: il feticcio nasce dal rifiuto del bambino nell’accettare l’assenza del membro nella madre. Ad un’analisi più approfondita, esso si rivela essere nient’altro che il suo sostituto e al quale il bambino non vuole né riesce a rinunciare. Eppure, il feticcio, o meglio, il processo mentale che lo genera, è presente nelle differenti declinazioni del linguaggio artistico4:

È curioso osservare come un processo mentale di tipo feticistico sia implicito in uno dei tropi più comuni del linguaggio poetico: la sineddoche (e nella sua parente prossima, la metonimia). Alla sostituzione della parte al tutto che essa attua (o di un oggetto contiguo a un altro) corrisponde, nel feticismo, la sostituzione di una parte del corpo (o di un oggetto annesso) al partner sessuale completo5.

La metonimia, infatti, non esaurisce la sua funzione nell’impiego di un nuovo vocabolo: il termine sostituito viene allo stesso tempo negato ed evocato da quello nuovo. Questo fenomeno è diventato un tassello dell’arte moderna, configurandosi come il non-finito.
Si pensi a Gilpin, che spingeva perché le ville palladiane fossero distrutte a metà o al pensiero di Schlegel, il quale riteneva che molte opere degli antichi fossero divenute frammenti, mentre molte opere dei moderni lo sono al loro nascere.
Un’analogia ancora più calzante per il feticismo può essere considerata la metafora, intesa da Ortega come «el más radical instrumento de deshumanización»6 dell’arte moderna. La metafora opera una sostituzione, ma il suo scopo non è quello di giungere ad un elemento nuovo, quanto fuggire da quello di partenza. La conclusione, che Freud aveva postulato, vede il feticcio allo stesso tempo come oggetto tangibile e intangibile, in quanto riporta continuamente a qualcosa che non può mai essere posseduto. Quest’ambiguità di fondo caratterizza l’essenza del feticcio e rivela il modus operandi del feticista: collezionarne, ossessivamente, diversi nel tempo7. Altra caratteristica importante e che spiega una grande versatilità ed impiego nel campo artistico, è che si tratta di un tema in grado di rigenerarsi all’infinito. Pertanto, il feticista non possiede altro che una fugace apparizione dell’elemento che, per sua natura, si articola in un numero imprecisato di accezioni e risulta sfuggente. La condizione derivante da questo eterno peregrinare e andare alla ricerca di nuovi collezionabili, secondo Freud causa uno stato di malinconia nell’uomo. Questa viene definita come il trionfo dell’oggetto materiale sull’io dell’uomo.
Nel mondo del teatro gli oggetti sono spesso rivestiti di una patina magica, rituale o sacrale. Come per la letteratura, si pensi al caso dell’ekphrasis omerica, anche il teatro corrobora la tematica dell’oggetto inteso come feticcio. Nella tradizione latina, due tra i più grandi esponenti del teatro romano, Plauto e Terenzio, sono fulgidi esempi di come l’introduzione in scena di un oggetto potesse andare ben oltre la semplice rappresentazione di esso. Nel caso dell’Aulularia (la commedia della pentola) di Tito Maccio Plauto, il protagonista è il vecchio Euclione, perfetta raffigurazione dell’avaro; egli ha trovato una piccola pentola (aulula) traboccante d’oro e vive nel terrore ossessivo che gli possa essere sottratta. Dopo essergli stata rubata, gli viene restituita da un giovane che chiede come ricompensa la mano della figlia. Euclione, sollevato per aver riottenuto il suo tesoro, accetta di darla in sposa al giovane. Ancora, nella Cistellaria, una giovane donna allevata da una cortigiana, ottiene la libertà grazie agli oggetti che le erano stati lasciati accanto quando esposta. Siamo dinanzi ad un topos ricorrente nel teatro, ovvero la pratica dell’agnitio, un riconoscimento che garantisce la lieta conclusione della vicenda. Ancora, nell’Hecyra di Terenzio, vengono raccontate le vicende del giovane Panfilo, figlio del ricco commerciante Lachete. Pur amando la cortigiana Bacchide, a causa delle pressioni paterne sposa Filumena. L’amore tra i due sboccia lentamente, ma viene messo a dura prova a causa di un evento imprevisto: Panfilo scopre che Filumena è tornata alla casa dei genitori. Ella sta per dare alla luce un bambino, frutto di una violenza subita prima delle nozze. Segue un allontanamento da parte del giovane, irato per quanto capitatogli. Giunti a questo punto della trama, Bacchide tenta appianare le divergenze fra i due, recandosi personalmente da Mirrina, madre di Filumena. Proprio lei riconosce al dito della donna l’anello che era stato strappato alla figlia durante la violenza. Si viene a scoprire che il gioiello era un dono di Panfilo e che questi, ammaliato dal vino, aveva soggiogato durante la notte una donna per strada. La ricostruzione degli eventi appare chiara: il violentatore di Filumena è proprio Panfilo. Il personaggio di Mirrina, da cui deriva la scelta del titolo dell’opera, consente alla storia di trovare una sua conclusione, ma la pratica dell’agnitio passa ancora una volta attraverso un oggetto in scena. Il nostro discorso adesso tratterrà di due elementi che appaiono nelle commedie di Čechov e De Filippo e di come recitino un silenzioso ed importante ruolo.

4. La pistola di Čechov

Čechov diceva che se all’interno di una scena compare una pistola, lo spettatore deve aspettarsi prima o poi che questa spari. Quello della pistola è uno dei principi fondanti della narrazione drammaturgica, che essa riguardi la narrazione di stampo romanzesco, cinematografico o teatrale. Può passare in sordina agli occhi di chi guarda o legge, ma rivela ben presto il suo peso scenico e uno snodo cruciale all’interno della trama. Secondo lo scrittore russo, nessuno degli oggetti compare inutilmente, ogni elemento contribuisce attivamente al plot, nessuna pedina viene sacrificata invano sulla scacchiera. Nel corso della sua attività di scrittore, ebbe modo di stilare anche alcuni principî di scrittura per il compimento di una buona storia. Tra di essi, sottolineava in particolar modo: l’assenza di una verbosità prolungata sui temi politico-economici, una descrizione che sapesse rappresentare con concretezza le persone e gli oggetti, la compassione, bisturi con cui cucire ogni cosa, e una brevitas di fondo. La sua inclinazione professionale di medico lo portò a vedere nella letteratura uno strumento d’indagine e, laddove fosse possibile, una medicina utile per mitigare le sofferenze dell’anima. Per Čechov l’artista non deve essere giudice dei suoi personaggi, ma uno spettatore interessato agli avvenimenti. Tutto ciò che conta è mettere a fuoco i personaggi, il loro carattere e un linguaggio che sia il prolungamento del loro modus pensandi.

5. Il giardino dei ciliegi

Prima di addentrarci in un qualsiasi punto relativo alla trama e allo sviluppo del Giardino dei ciliegi, c’è spazio per una brevissima considerazione di stampo filologico. La traduzione del testo a cura di Bruno Osimo chiarisce come l’opera riporti un titolo errato nella versione italiana. Infatti, quelli del giardino non sono alberi da ciliegio, bensì amarene. Il dramma fu scritto da Čechov tra l’inizio e la fine del 1903 e venne rappresentato per la prima volta il 17 gennaio dell’anno successivo. L’intento dell’autore era quello di portare in scena una commedia; tuttavia, la direzione di Stanislavskij diresse l’intera opera come una tragedia.

Sei anni dopo, nel 1904, il suo Giardino viene seppellito sotto una valanga di trine e pizzi, tazzine e vasetti, tappeti e cristalli: da nouveau riche qual è, Stanislavskij ha un’idea cheap del lusso, compra i mobili di scena dall’antiquario di famiglia, senza capire che non è lì che vanno comprati, e trasforma quella svagata commedia (così è il sottotitolo) in un greve drammone larmoyant. Čechov è annichilito, inutilmente protesta («Capite o no che ho scritto un vaudeville?») ma si rende conto che per lui non c’è scampo: quello che vede in scena non è quello che ha scritto, nonostante le ovazioni del pubblico. La volgarità danarosa del figlio di un industrialotto ha schiacciato senza pietà la trasparente leggerezza del testo. Ma che vadano tutti a quel paese. E muore8.

La pièce, composta di quattro atti principali, possiede numerosi elementi autobiografici, si pensi alle difficoltà economiche della madre del commediografo, qui riportate attraverso il personaggio di Ljuba.
Siamo intorno al 1861, ogni elemento che gravita intorno alla trama dipinge con chiarezza l’immagine di una Russia arcaica, avvolta in uno stato di torpore che verrà spazzato via dalle intense rivoluzioni apportate dallo zar Alessandro II. Dopo una rigida politica dei suoi predecessori, il sovrano ha volto lo sguardo al di là dei suoi confini territoriali e ha compreso quanto la Russia fosse arretrata. A fornire indizi, sicuramente, il modo terribile in cui i suoi uomini erano stati sconfitti nella guerra in Crimea, persa davanti al progresso delle armi da fuoco nemiche, e la visione dell’Europa in costante crescita sotto il profilo tecnologico ed industriale.

Nel Giardino Čechov descrive una classe che a fine Ottocento in Europa è quasi estinta ma in Russia è ancora dominante, pur avviandosi a un rapido tramonto: i proprietari terrieri. Paese agricolo, abitato da cento milioni di contadini (ossia schiavi senza diritti civili, comprati e venduti insieme alla terra che lavorano) e da qualche migliaio di proprietari più o meno ricchi (alcuni ricchissimi), la Russia dorme sonni tranquilli (e irresponsabili) in un medioevo che sembra eterno. Da dove venga la ricchezza nessuno se lo chiede, almeno nella letteratura che parla di loro. Sono ricchi e basta9.

Da ciò la decisione di ribaltare tutto, se le cose non andavano più bene con il vecchio sistema, allora il cambiamento doveva essere apportato alle fondamenta: la servitù della gleba veniva abolita. Nonostante la riforma avesse concesso dignità sul piano umano e numerosi diritti civili, finì per causare un ulteriore impoverimento dei contadini. Una piena libertà, infatti, sarebbe giunta solo attraverso il riscatto di piccoli campi a loro concessi dai proprietari terrieri. La situazione comportò un vero e proprio collasso del sistema economico e un lento declino della classe nobiliare, favorendo l’ascesa della borghesia. Proprio lungo questo difficile contesto storico, ci imbattiamo nelle vicende di Ljuba, la nostra protagonista. Dopo una concitata storia d’amore a Parigi, fatta in sostanza di inganni, è di ritorno in Russia, nella vecchia tenuta d’infanzia, il giardino appunto. La sua famiglia, di estrazione aristocratica, è in rovina, ma il suo impiego delle risorse economiche è ben lontano da una gestione assennata e lucida. Quando Ljuba arriva, la tenuta è già sotto ipoteca, il termine ultimo per saldare i debiti è fissato ad agosto. Assieme a lei, abitano nella dimora il fratello Gaiev e le due figlie Anja e Varja, quest’ultima adottata. Vicini al nucleo familiare sono altri personaggi, come il vecchio maggiordomo Firs, che ha deciso di restare al servizio dei suoi padroni e il mercante Lopachin. Proprio su quest’ultimo è doveroso un piccolo approfondimento. Egli è l’unico tra tutti i personaggi a ingegnarsi per trovare una soluzione; nipote di vecchi servitori della tenuta, rappresenta il nuovo ceto sociale, la figura dell’imprenditore che avanza grazie al senso degli affari e a un opportunismo che non si fa scrupolo dagli affetti. Si tratta di un personaggio che segna l’avvento di una nuova era e si impone in mezzo al torpore degli altri. La soluzione che propone, quasi all’inizio dell’opera, è quella di dividere in lotti la tenuta e di costruire delle villette da mettere in affitto. Tuttavia, la sola idea inorridisce Ljuba; per costei il giardino ha un valore affettivo, oltre ad essere il luogo in cui ha vissuto suo figlio Griša, deceduto a pochi passi dalla tenuta, vero motivo del suo allontanamento. Non si cada in errore, l’inerzia dei familiari non deriva unicamente dalla loro incapacità di fondo, dal rifiuto (non è casuale il ritorno alla tenuta d’infanzia) di confrontarsi con il mondo adulto fatto di turbolenze, affanni economici e amarezze. Ma da chi si lascia inghiottire dal tempo. C’è il tramonto di una società a lungo rimasta vigile, abituata ad uno scenario per il quale la vita prendeva forma e si prolungava per strade e sale di palazzi sfarzosi. Dalle rovine di questo mondo emergono i Lopachin:

E spuntano, prontamente, i Lopachin, spesso figli di servi o di piccoli mercanti: abili, furbi, concreti, sicuri di sé. Sanno da dove viene il denaro. Sanno maneggiarlo, contarlo, moltiplicarlo. Speculatori? Avventurieri? Perché no, i Gaiev sono facile preda, in fondo, nella loro totale insipienza. Il loro successo è direttamente proporzionale alla irresponsabilità dei proprietari, dinosauri in via di estinzione10.

Così, quando l’occasione lo consente, dimentico di ogni legame d’amicizia, emerge la sua vera natura. Quando alla fine del terzo atto, l’inevitabile destino del giardino si abbatte sulla famiglia, la trama mostra il suo colpo di scena: Gaiev e Lopachin sono di ritorno dall’asta; il primo fila nella sua camera da letto senza fiatare, stordito per quanto accaduto, mentre il secondo, interrogato sull’asta, risponde di aver acquistato la proprietà:

E adesso il giardino dei ciliegi è mio! Mio! Dio mio, signori, il giardino dei ciliegi è mio! Ditemi che sono ubriaco, che sono fuori di testa, che tutto questo è solo una mia illusione… ma non ridete di me. Se mio padre e mio nonno potessero venir fuori dalle tombe e vedere quel che sta succedendo, che il loro Ermolaj, quello delle bastonate, Ermolaj il semi-analfabeta, che d’inverno andava in giro scalzo, proprio quello Ermolaj lì, ha comprato una tenuta che così bella al mondo non ce n’è un’altra. Ho comprato la terra dove mio padre e mio nonno erano servi, dove non gli era permesso neanche entrare in cucina11.

Alla fine del monologo, Lopachin si avvicina a una Ljuba sinceramente provata dalla notizia. Egli è consapevole di quanto male le abbia inferto, il suo affetto nei confronti della donna resta sincero, ma non basta a placare la sete, la voglia di rivalsa e di riscatto sociale. Così, quando si separa da lei e urla agli invitati di raggiungerlo all’esterno per vedere come alzasse la scure sul giardino, non ci resta che un interrogativo finale: «Quale delle due cose è più sincera? Le lacrime o la scure? O tutte e due?»12.
Tra le ampie sale e i molteplici oggetti che adornano la tenuta, due sono gli elementi da tenere in considerazione per il nostro discorso: la camera dei bambini e un armadio. Il fatto che vi sia una stanza ancora chiamata come “la camera dei bambini” è indizio di lettura dell’intera opera. I piccoli a cui Gaiev e Ljuba si riferiscono, chiamando la stanza in quel modo, sono proprio loro. Nella versione di Giorgio Strehler, le cose sono rimaste intatte, cristallizzate nel tempo, qualche banco di scuola, delle sedie piccole, giocattoli rimasti lì, un servizio da teiera in miniatura e un armadio in fondo, in posizione centrale, oggetto velato di mistero. Mentre i due giocano, immergendosi nei ricordi di un passato irripetibile, l’armadio si apre riversando il suo contenuto. Cascano come fiocchi di neve i veli, i nastri, le scarpe custodite nelle scatole, carte e lettere. Ora, proprio perché Čechov non lascia nulla al caso, ogni canovaccio dell’opera riporta una precisa azione del primo atto: quando Varja si avvicina all’anta dell’armadio per prendere dei documenti, questa scricchiola. Il suono sta già anticipando le parole di Gaiev:

Ma tu lo sai, Liuba, quanti anni ha questo armadio? Una settimana fa ho aperto il cassetto qui in basso, guardo, e vedo dei numeri a fuoco. Questo armadio è stato fatto esattamente cento anni fa. Che cosa ne dici? Eh? Una ricorrenza che si potrebbe celebrare. È un oggetto inanimato, tuttavia però, in un modo o nell’altro, è un armadio libreria13.

Un armadio da cento anni, un oggetto inanimato, ma che in realtà comunica un messaggio potente e silenzioso. Se il commediografo russo ha deciso di rappresentare il primo e l’ultimo atto nella camera dei bambini, è proprio perché, in quella stanza, l’armadio prolunga gli intervalli di tempo, dilatando l’essenza stessa dei personaggi. Il maggiordomo Firs appare più vecchio della sua età, Trofimov è ancora nelle vesti di vecchio studente, i bambini di cui si parla, Gaiev e Ljuba, sono fantasmi, apparizioni di un tempo remoto e di cui si celebra con nostalgia la spensieratezza. Nulla sfugge al tempo, anzi, tempus edax rerum, come scrisse Ovidio.

6. ‘O presepe e Lucariello

Della genesi di Natale in casa Cupiello ci parla proprio De Filippo in alcune sue lettere. Sappiamo che l’opera si trasformò da farsa in atto unico a dramma in tre atti. Le informazioni cronologiche relative alla composizione del testo sono assai intricate. Qualora dovessimo fissare un punto di partenza, allora potremmo sicuramente partire da una lettera autografa, indirizzata ad Anna Barsotti e datata 22 febbraio 1983, nella quale Eduardo evidenzia tre date simboliche:

Cara Anna, mi scusi se le scrivo assai brevemente, ma sono assai stretto col tempo e d’altra parte non voglio lasciare la sua gentile lettera senza risposta. Dunque, NATALE IN CASA CUPIELLO: è nata nel 1931 in un atto (il secondo odierno). Nel 1932 o 1933 non ricordo con esattezza, dopo aver lasciato l’avanspettacolo e debuttato al Sannazzaro, vi aggiunsi il primo atto; il terzo atto invece lo aggiunsi nel 194314.

Proprio nel 1943 l’opera fu pubblicata all’interno della rivista «Il Dramma». Uno sguardo al manoscritto Vieusseux mostra una struttura non ancora organica, soprattutto dal punto di vista della scrittura:

Il primo (identificato nell’edizione critica come V1) contiene il secondo atto (il più antico) consta di 12 pagine con l’aggiunta di altri due fogli che contengono la celebre lettera del figlio Nennillo: ciò dimostra che la lettera è stata aggiunta dopo. Questo manoscritto contiene la data 23 dicembre 1931. Un secondo manoscritto (V2) presenta il primo atto dattiloscritto, un terzo manoscritto (V3) riporta il terzo atto copiato a mano, ma non dall’autore15.

Al di là del titolo, il testo non rimanda a una spensierata celebrazione natalizia, anzi, intorno al presepe, elemento sul quale sarà utile tornare in seconda istanza, prendono forma le vicende di un dramma familiare. C’è da dire che già all’inizio del primo atto si respira un clima di ostilità, seppur lontana da quella derivante da un adulterio. Padre e figlio divergono continuamente, dalla passione per il presepe alle questioni lavorative, di crescita e di prospettive future. Luca Cupiello è un uomo di cui viene messa in evidenza l’ingenuità, un personaggio caratterialmente opposto a quello di Concetta, assorbito unicamente dalla sua preoccupazione per i preparativi del presepe, simbolo di celebrazione, unità e stabilità. Ma anche nella ritardata preparazione del presepe si ravvisa ulteriormente quanto detto poco fa, Luca Cupiello è nella sostanza un personaggio «fuori tempo»16. A corroborare questa tesi è il manoscritto: Concetta, in un primo momento, sveglia il marito alle sei del mattino, ma soltanto in un secondo momento l’orario viene cambiato con le nove.
Relativamente al presepe, elemento di confronto con l’armadio ne Il giardino dei ciliegi, mi sembra doveroso constare come esso sia il prolungamento di Luca Cupiello. Se nell’opera di Čechov il mobilio era l’elemento attraverso il quale richiamare una memoria collettiva, di vicinanza e unione nei momenti difficili, magari fuggendo anche dalla realtà, nel dramma di De Filippo il presepe raccoglie ed esprime le idee di un uomo illuso. Luca è convinto della serenità della famiglia che ha costruito, ma non è grado di vedere la realtà per quello che è, non si ravvede dell’infelicità di Ninuccia, legata a un uomo che non ama, né chiede al fratello Pasqualino di trovarsi una sistemazione per conto proprio. E sa di beffa il no secco di Nennillo ogni qual volta gli viene chiesto: «te piace ‘o presepe?», quel presepe simbolo della natività, ma anche di famiglia unita. Tuttavia, parliamo di un’unione che non c’è, ne è indizio il fatto che Ninuccia, in un momento di collera, si scaglia contro il presepe, distruggendolo. Quando Lucariello torna con la colla per saldarlo, ironia della sorte, dovrebbe rendersi conto che c’è qualcosa che non va, e se non per il presepe distrutto, per la moglie Concetta, in preda a un malore pochi istanti dopo.

7. L’addio ai ciliegi

Si tenterà adesso, come chiosa di questo discorso, un approccio al linguaggio del corpo, prestando attenzione a ciò che giace sulla superficie corporea e a ciò che si muove al di sotto di essa. La scelta di questo titolo si lega al riflesso che la componente oggettistica ha sovente sull’uomo. Negli esempi qui trattati, partendo da Il giardino dei ciliegi, sul finale del III atto, in uno dei momenti più concitati dell’intera opera, Ljuba si lascia cadere su una poltrona alla notizia dell’acquisto della tenuta da parte di Lopachin. Si tratta della prima volta in cui la donna, da amabile conversatrice, si abbandona al silenzio. Davanti a lei, Lopachin mosso da contrastanti sensazioni di gioia e tristezza, le sue mani si muovono concitate al pensiero di aver ottenuto, attraverso la tenuta, un riscatto sociale, una dignità che non era della sua famiglia. A muoverlo è stata la rabbia, la sua voce è rimasta inascoltata per tutta l’opera ed emerge con vigore al momento dell’asta. Il valore dato ai soldi, la frenesia del rilancio, la forza di acquisto che soverchia i contendenti. Insomma, un tratto importante del suo personaggio emerge solo tramite precisi oggetti. E poi c’è Anja, che meno di tutti guarda con felicità alla tenuta. Per lei la perdita della villa è una vera liberazione, un biglietto per una nuova vita, anche quando prova a consolare la madre le sue parole sembrano rivolte più a sé stessa che a Ljuba. Sul maggiordomo Firs, rimasto fedele ai suoi vecchi padroni, è lampante come la sua esistenza sia legata a doppio filo a un mondo antico, ormai in stato di decadenza; non ha altro posto in cui stare se non la villa, dove, morente, torna da solo nel finale dell’opera.

8. Un colpo apoplettico

Una delle differenze fra Lucariello e Concetta è la velocità con la quale i due personaggi si muovono sul palcoscenico. Oltre alla velocità, ad essere assai diverso è il linguaggio del corpo: il primo appare flemmatico, il modo stesso di scandire le parole, l’uso costante della ripetizione all’inizio di ogni frase sembrano essere l’anticamera del suo malore all’inizio del terzo atto. Uno dei momenti in cui la gestualità di Lucariello appare maggiormente compassata è quando, agli inizi del secondo atto, si trova a parlare del presepe con Vittorio. Della posizione delle zolle d’erba o delle facce dei re magi non interessa più di tanto al giovane, che risponde con brevi frasi ironiche. Eppure, in un lasso di tempo brevissimo, tale da suggerire che vi sia qualcosa in più dietro la passione per un presepe, lo troviamo a dare le stesse identiche spiegazioni a Nicolino. Non è la prima volta, Lucariello inciampa per l’intera opera in una serie meccanica di azioni ripetute. Esse spaziano dalle riflessioni sul tempo, se faccia o meno freddo, dagli appunti sui figli, dalle descrizioni sui pastori a più personaggi della commedia, fino ad arrivare alla domanda sul presepe più volte ripetuta a Tommasino. A evidenziare ulteriormente la lentezza di Lucariello è Concetta, dotata di un dinamismo che regola ogni sua azione. Le appartiene ancora il sacro fuoco mentre organizza da sola la cena della Vigilia di Natale. Il presepe è un po’ il feticcio di Luca, non allestirlo sarebbe presagio di mala sorte; inoltre, è la porta attraverso la quale tornare indietro nel tempo, quando era il padre a costruirlo. Per sua stessa ammissione, collocare il presepe in casa vale a dire vivere il santo giorno in compagnia dei suoi affetti, di quel nucleo familiare che lo ha visto bimbo. C’è una scena, sul finale del terzo atto, che restituisce l’immagine più volte suggerita dal presepe, quella dell’unità familiare. Al padre, colpito da un ictus, e incapace di intendere e di volere, Tommasino risponde che il presepe tutto sommato gli piace. Il figlio è rapidamente cresciuto e, messo di fronte alla realtà dei fatti, comprende come dietro quella domanda si celi molto più di un oggetto, ma la famiglia intera, che da quel momento non sarà più la stessa.


  1. «Anche i coloni d’Ausonia, gente venuta da Troia, / scherzano con versi grossolani e in risa smodate, / traggono da cave cortecce orride facce / e te, Bacco, invocano in liete canzoni e affiggono / a un alto pino per te piccole maschere» (Verg. Georg. II 385-389).

  2. Sat. I 5, 64.

  3. G. Bataille, Le masque, in Id., Œuvres complètes. Écrits posthumes: 1922-1940, Paris, Gallimard, 1970, II, p. 403.

  4. Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 2006, p. 40.

  5. Ibidem.

  6. J. Ortega y Gasset, La deshumanización del arte. Ideas sobre la novela (1925), in Id., Obras completas, vol. II, Madrid, Revista de Occidente, 1947, p. 372.

  7. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, cit., p. 41.

  8. F. Malvocati, I fantocci nel giardino, in Il borghese fa il mondo. Quindici accoppiamenti giudiziosi, a cura di F. de Cristofaro e M. Viscardi, Roma, Donzelli, 2017, p. 339.

  9. Ivi, p. 340.

  10. Ivi, p. 342.

  11. A. Čechov, Il giardino dei ciliegi, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 92-93.

  12. F. Malvocati, I fantocci nel giardino, in Il borghese fa il mondo. Quindici accoppiamenti giudiziosi, cit., p. 343.

  13. A. Čechov, Il giardino dei ciliegi, cit., p. 57.

  14. Cit. in N. De Blasi, Eduardo, Roma, Salerno Editrice, 2016, p. 75.

  15. Ivi, p. 77.

  16. Ivi, p. 82.

The essay is a comparison between the works of playwrighters Anton Pavlovič Čechov and Eduardo De Filippo. Purpose of the research is to analyze the function of the objects in The Cherry Orchard and Christmas at the Cupiellos. Part of the essay is focused on narrative methods and techniques, but, most of all, it is centered on figures like masks, shadows and items on the scenes. The first part introduces the function of the objects through times, the agnitio in Plauto and Terenzio’s comedies, the evolution of the mask from the art of comedy to the industrial society in Gozzi and Goldoni. Also, objects are discussed, from a theoretical point of view, through Agamben’s freudian arguments in Stanzas: Word and Phantasm in Western Culture. The second part discusses the function of the wardrobe in Čechov and the nativity in De Filippo and their reflection on characters. The last part is about the behaviours of the characters, their backgrounds and bonds with the objects on scene.