Le corruzioni particolari. Alcune circostanze di un Novecento picaresco

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Setteformaggi, avvocato dei poveri dell’imperial borgo di Acchiappavacche, aveva passato l’intera nottata alla finestra dell’abbaino a spiare l’arrivo della sposa […].

Jean Paul, Siebenkäs

1.

È curioso che in Germania, al giro di boa di una possibile periodizzazione del romanzo di secondo Novecento, le parabole creative di due autori simbolo di un passaggio generazionale s’intersechino, all’esaurirsi dell’una e al nascere dell’altra, intorno alla prova del picaresco1. Imparentati entrambi con l’archetipo del Simplicissimus, nel romanzo d’esordio di Günter Grass, Die Blechtrommel (1959), e nell’ultima fatica di Thomas Mann, il Felix Krull (1954), i protagonisti condividono un’origine familiare dubbia e ‘devastata’. L’Oskar Matzerath del Tamburo di latta mette in dubbio la genitorialità di suo padre attribuendola invece al cugino e amante della madre e introducendo il problema con una palese parodia del modello monumentale dell’autobiografia goethiana:

Era il principio di settembre. Il sole si trovava nella costellazione della Vergine. Lontano brontolava nella notte un temporale di tarda estate, come uno smuovere di casse e di armadi. Mercurio mi predisponeva alla critica, Urano alla ricchezza di fantasia, Venere mi faceva credere nelle piccole gioie, Marte nella mia ambizione. Nella casa del mio ascendente sorgeva la Bilancia, ciò che mi rese sensibile e portato alle esagerazioni. Nettuno entrò nella decima casa, quella degli anni di mezzo, e mi ancorò fra meraviglia e illusioni. Fu Saturno che nella terza casa, in opposizione a Giove, mise in dubbio la mia origine2.

I suoi due padri possibili, il tedesco Alfred Matzerath e il polacco Jan Bronski, rappresentano le due etnie che si oppongono in una città-simbolo delle border narratives: Danzica. Oskar non vuole sapere chi dei due sia il vero padre perché «questa incertezza gli permette di sfuggire a ogni precisa collocazione etnica, di scavare nell’ansia della bastardaggine, e di mostrarsi alieno a ogni legittimità, a ogni purezza e qualità di sangue e di razza»3. Si lascia cadere in una botola e si procura lesioni tali da pregiudicare la sua crescita fisica, come a voler rimanere bambino dopo la conclusione anagrafica dell’infanzia. Rinchiuso in un manicomio perché accusato dell’omicidio della propria infermiera, dipanerà retrospettivamente il filo della propria memoria assumendo la prospettiva autodiegetica tipica della convenzione picaresca, rievocando sullo sfondo una serie di vicende con forte pertinentizzazione storica, dalla progressiva nazificazione della piccola borghesia tedesca, alla caduta della Repubblica di Weimar, alla catastrofe della guerra. Nella sua atipica vicenda, sembra scorgersi il tentativo di elaborare l’impossibilità di individuazione di una colpa collettiva.
Invece Felix Krull viene «da una famiglia della buona borghesia, se anche da una casa poco seria»4. Il padre distilla e commercia uno champagne, non proprio di ottima fattura, che porta il nome «Loreley» e, come la mitica ondina ammalia e fa sprofondare i suoi amanti nel Reno, trangugiarlo è pericoloso per l’ordine pubblico e privato:

«Krull» soleva dire il mio padrino Schimmelpreester a mio padre «io non vorrei mancarle di rispetto, ma il suo sciampagna dovrebb’essere proibito dalla polizia. Otto giorni fa mi son lasciato indurre a berne una mezza bottiglia ed ancor oggi non mi son rimesso dall’attacco […]»5.

Se nel Tamburo di latta di Grass il dispositivo ‘magico’ di Oskar, il tamburo appunto, serve coerentemente per sfuggire all’ordinamento borghese, all’alternativa di portare avanti l’attività del padre, in Mann lo stesso esito è raggiunto con soluzione tragica: quando l’azienda Engelbert Krull va in malora, il papà di Felix si ammazza. Poi sua madre aprirà una modesta pensione per forestieri a Francoforte. Ma d’altronde il tamburo di Oskar è anche uno strumento poietico: Oskar scriverà le sue memorie con l’aiuto rammemorativo del suo strumento. Trova così conferma quella tendenza, che ritroveremo altrove, all’ipostatizzazione ‘drammatica’ del processo scrittorio nel tessuto tematico del neopicaresco. Fra l’altro nel Tamburo di latta si conferma anche il fatto che l’antiromanzo tedesco come antiromanzo di formazione spesso si compromette col Kunstlerroman, perché Oskar utilizza anche la sua seconda facoltà, ai limiti col soprannaturale, quella di distruggere i vetri con la voce, come abilità artistica6. Per quanto riguarda il rapporto irrisolto con gli istituti del potere costituito7, nella scena della parata nazista a Danzica, Oskar riesce nell’impresa di sostituire al macabro rituale di guerra il ritmo mite di un valzer al quale sono costretti a cedere anche i soldati. Finita la guerra, poi, si guadagna da vivere suonando il tamburo e diventa famoso. In un locale notturno gli avventori, stregati dalla sua musica, regrediscono ‘beotamente’ a uno stato infantile tanto da insudiciarsi delle loro deiezioni.
Anche nel Felix Krull il protagonista entra in contatto con la sfera del tempo creativo contrapposto al tempo del lavoro, ad esempio attraverso il sistema dei personaggi con cui si rapporta, la pittrice Zazà e la scrittrice Madame Houpflé, nome d’arte Diane Philibert. In Mann del picaresco si riprende, come ha osservato Massimo Fusillo, anche «la struttura topica dello scambio di identità»8, perché Felix si accorda con un giovane aristocratico, il marchese di Venosta, per una beffa che sta bene a entrambi: il rampollo vuole sfuggire a un viaggio d’apprendistato prescrittogli dai genitori che non approvano l’inebriante tresca parigina con Zazà; Krull si fingerà marchese e farà il viaggio al suo posto in direzione Portogallo. Il Krull che mercanteggia la sua identità è picaro anche per le sue tendenze all’appropriazione indebita: finisce per rubare i gioielli alla ‘matura’ Madame Houpflé con cui si intrattiene. Nel viaggio per l’Europa sotto mentite spoglie, la sua debolezza per le donne un po’ avanti con gli anni si ripete nel finale a Lisbona con Dona Maria Pia, moglie del dotto amico Kuckuck nonché madre di Susanna, detta Zouzou, che a sua volta fa da doppio di Zazà e sarebbe più adatta a Krull, se non fosse promessa a Dom Miguel. Alla fine del romanzo tutta l’ambigua compagnia assiste a una corrida in cui, mentre Kuckuck erudisce la famiglia e Krull sullo sfondo rituale del sacrificio del toro, lo pseudo-marchese non riesce a distogliere lo sguardo dal petto di Dona Maria Pia. Il romanzo si chiude col finale estatico che è prosecuzione del rito. La matrona decide di consolare Krull per l’impossibilità di giovarsi delle grazie della figlia:

«[…] Susanna presto o tardi, probabilmente presto, diverrà la sposa di Dom Miguel, il benemerito assistente di Dom Antonio José, secondo il suo autorevole desiderio e volere. Misuri da questo quale follia abbia commesso il suo bisogno d’amore scegliendo la strada della puerilità […]. Venirle incontro con fortuna non è facile, esige virile coraggio. Se la piacevole giovinezza lasciasse intravedere tale animo virile, invece di cercar fortuna in fanciullaggini, – essa allora non avrebbe bisogno di partirsene mortificata, di allontanarsi senza un conforto…»
«Maria!» esclamai. Ed ella mi fece eco con un grido di giubilo:
«Holé! Heho! Ahé!» Un turbine di forze primordiali mi trascinò nel regno della voluttà ed io vidi quel petto regale ansimare sotto le mie ardenti carezze ancor piú intensamente che durante l’iberico rito del sangue9.

Un aspetto di ritualità ancestrale si manifesta, come vedremo, in più tradizioni imparentate col picaresco. In ogni caso, Károly Kerényi ha discusso divertito la scena della ‘festa’ conclusiva del Krull, dell’estatico accoppiamento fra Felix e la ‘suocera’ in una atmosfera da tauroctonia mitraica, in una delle ultime lettere spedite a Mann10. Krull giunge a quest’incestuoso esito ‘provvisorio’ – perché il romanzo di Mann è incompiuto – dopo un viaggio peregrino per l’Europa. Se nel Novecento, in cui l’altrove è a portata di mano, il tema odeporico persiste per la sua connaturata tensione a figurare una crisi dei paradigmi conoscitivi, è come se nel Felix Krull si condensasse a un nomadismo, una Wanderung dell’eros che a sua volta figura uno scompenso nella solidità borghese. La sintomatologia culturale del neopicaresco sembra nella sfera d’attrazione della décadance. Se nel Tamburo di latta di Grass, come ha scritto Maurizio Pirro, contrapponendosi «alla mitologia aurorale dell’“era Adenauer” il ritratto di un’infanzia spenta e mutilata, persa tra le rovine abbandonate dai bombardamenti, attira l’attenzione sul vuoto morale che si stende sotto l’ingannevole superficie del boom economico»11, il Felix Krull è in effetti la «storia di tutta la società borghese, non soltanto tedesca, nel suo stadio finale»12, tant’è che ci si interroga sul perché di quella gestazione così lunga, perché pubblicare nel 1954 una storia concepita prima del 1914? Mann in effetti rimugina sul progetto sin dagli anni Dieci: è come se la stessa parabola di Felix, «destatosi da un letargo di decenni»13 ha scritto Lukács, attraversasse mezzo Secolo breve.

2.

Concediamoci un balzo diatopico. È stato notato che la fenomenologia del personaggio del primo Gianni Celati è quella dei prototipi del cinema muto, della slapstick comedy: Keaton, i Marx, Harry Langdon, Jacques Tati14. Il protagonista delle Avventure di Guizzardi (1973) – che sulla copertina Einaudi era introdotto proprio da una foto di Langdon e dal sottotitolo Storia d’un senza famiglia – è un brigante emarginato confinato in un infantilismo irrimediabile, ma come gli altri personaggi del primo Celati non va confuso con la categoria convenzionale dell’inettitudine, che sottende una complessa vita interiore. Piuttosto è un coacervo di pulsioni corporali e convulse. I personaggi che incontra, Ida Coniglio, Clò, gli rinfacciano l’incomprensibilità di quanto pronuncia. La minaccia di un fraintendimento generale nei rapporti sociali lo volge a una fuga perenne che lo ripresenta puntualmente davanti all’ostacolo dell’incomunicabilità. Come il Felix Krull di Mann, Le avventure di Guizzardi gioca sullo scambio d’identità e sullo straniamento del telos del romanzo di formazione. Sin dalle prime battute si struttura la funzione dell’allontanamento dal paese natale e dall’amata signorina Frizzi:

C’era un tempo in cui ammiravo la signorina Frizzi instancabilmente come chi abbia riconosciuto i meriti di una persona e non intende poi pentirsene mai. E lei naturalmente essendo insegnante di lingue estere non mi voleva smentire di questo fatto15.

Se il ‘c’era una volta’ figura il tempo di un’iteratività del passato, poco dopo essa è straniata perché Guizzardi è costretto a «partire dalla città della sua giovinezza»; il picaro procederà al distacco, alla repressione primaria dal soddisfacimento del tempo dell’eros16 verso «avventure che ancora non sapevo quanto spiacevoli potessero sembrarmi»17, muovendo, come l’Oskar del Tamburo di latta, la sua condizione esistenziale verso quella dell’esclusione, dell’essere outcast18. Come il Krull manniano finisce sguattero, lift-boy e cameriere in un albergo parigino, dove intrattiene un rapporto malato con la vecchia signora Houpflé e dove consuma la sua transizione d’identità in marchese di Venosta, così Guizzardi è soggetto a un’oscillazzione onomastica, perché è ribattezzato Danci, e a rapporti non proprio sobri con l’altro sesso: Ida Coniglio lo compera e lo traveste da donnina – già in Comiche il personaggio era soggetto a manie di persecuzione – obbligandolo a svolgere lavori servili alle sue dipendenze. Poi Quattrocchi, fantasma istigatore che sostituisce gli spettri che avevano animato Comiche, lo spingerà contro la vedova che lo ospita e lo segrega presso di sé: «Pugnalala al cuore la malvona!»19. È il Celati all’alba dei Settanta, quello che per «il Caffè» di Vicari scriveva un pamphlet su Céline – che ha probabilmente incarnato l’essenza del peggior picaro novecentesco, con tutte le politicamente scorrette rifrazioni fra Erlebnis autoriale e trasfigurazione romanzesca – in cui parlava della possibilità di confusione, di reversibilità dell’identificazione che l’opera di Céline suscitava, sostanzialmente fra una sfera del represso sociale e una sfera della repressione20. La riflessione di Celati era suscitata da una sollecitazione di Jay Friedman, che, in occasione della traduzione americana di Mort à crédit, il ‘prequel’ del Voyage, aveva concluso la sua recensione sul «New York Times Book Review» ammettendo ci fosse una parte in lui che voleva Céline come precluso allo spazio dei ‘grandi scrittori ufficiali’. Celati replicava che l’industria culturale avrebbe potuto far diventare Céline un grande scrittore non parlando di lui ma dell’essenza delle sue maschere comiche che scoprono i nervi primitivi del lettore. Le avventure di Guizzardi sarebbero uscite tre anni dopo, innestandosi in quel frastagliato panorama in cui sedimentano, ‘spostate’ e schizofreniche, queste immagini della violenza che si realizzavano in rapporto a un conflitto generalizzato su tutti i piani del contratto sociale. In un’intervista di Celati a Nicola Carioli – riguardo Comiche, ma interessante per le vicende di Guizzardi – sembra di sentire il Foucault di Storia della follia:

provavo simpatia per i cosiddetti malati di mente, e frequentavo molto i manicomi, grazie all’amicizia di vari dottori. Be’ adesso non ci penso più che qualcuno è “matto”. Bisogna dire che qualcuno è triste, è schiacciato, è violentato, è umiliato, perché tutto l’ordine sociale porta da quelle parti. Ma queste cose, che vediamo dappertutto, in tutte le famiglie o altri istituti (ma sempre camuffate da attivismo moralistico) sono state la molla di Comiche21.

Guizzardi è infatti un eroe meschino a causa degli istituti in cui è calato. Quando conosce l’oppressivo mondo ospedaliero dell’igiene biopolitica, in compagnia di Clò, si trasforma in infermiere e sostituisce Pacchioni, a conferma che il perenne travestimento sfoca e fa slittare l’identificazione del personaggio. In Celati, dall’impegno col «Caffè» sino a Finzioni occidentali, si intravede una risposta alle pressioni del razionalismo borghese avanzato e alle sue istituzioni, risposta che prima di tutto nel discorso critico si realizza nel confronto contrastivo, via Swift, col modello in ascesa sin dal Settecento: il novel come «sogno di circoscrivere tutta l’estraneità, la dimensione extrafamiliare della violenza e delle intensità libere […], metterla in documenti, e riportarla per così dire in famiglia»22; cosicché, come ha scritto Riccardo Capoferro, «nella narrativa del primo Celati (ossia in Comiche e nelle Avventure di Guizzardi) […] si assottiglia il perimetro di ordine e razionalità che fin dall’avvento dell’ideale di “società civile” è stato altrettanto presidiato»23. D’altronde, proprio a partire dall’amato Swift traeva origine la distinzione tra una satira bassa, di tipo oraziano, e una satira alta, di tipo giovenaliano. Questa, propria di Swift appunto, si caratterizza per un’immagine di violenza, dilata i fatti a perenni catastrofi, le corruzioni particolari a inferni universali, è

tendenzialmente demoniaca, perché ripesca continuamente le immagini arcaiche del male (tortura, smembramento, atti innaturali, il capro espiatorio, il cannibalismo) e crea uno spazio iperbolico che non può essere letto se non come allegoria24.

Assunto cruciale. Non a caso i tre romanzi anni Settanta, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, Lunario del paradiso, pubblicati dal 1973 al 1978, vanno poi a confluire come tre cantiche in Parlamenti buffi. Se su un piano allegorico la parabola dei Parlamenti sembra, con qualche semplificazione, immagine dialettica del passaggio dal tempo infuocato dei Settanta a quello più rarefatto degli insorgenti anni Ottanta, su un piano del rapporto con la convenzione narrativa dantesca sembra in una certa misura configurarsi la parabola dei tre ‘varchi’ dell’Ade: dannazione, espiazione, redenzione. Seppure in Celati ci sia più spazio per l’anabasi di Lunario, un’altra Trilogia di «immagini demoniche», per dirla con Frye25, si era consegnata subito all’empireo dell’antiromanzo al giro di boa del posguerra

3.

Anche la Trilogia di Samuel Beckett vede come protagonisti una serie di reietti, outcasts che i rapporti di continuità con una realtà ambientale, sociale, culturale li hanno recisi in maniera definitiva. Se Krull è un diavolo a tal punto da fare una concorrenza «umoristico-criminale» al tema «mistico-tragico» di Doktor Faustus26, la fenomenologia del picaro in Molloy (1951) è quella del ‘dannato’ o dell’‘anima purgante’. Molloy appare, «à la façon de Belacqua, ou de Sordello, je ne me rappelle plus»27, contratto nella stanza della madre – la madre che lui vagheggerà per tutto il romanzo – a scrivere dietro compenso di qualcuno. In Molloy, come nelle Avventure di Guizzardi, per il protagonista omonimo il tempo dell’amore con la vecchia Edith (o Ruth?) è ormai trascorso, ma a differenza di Guizzardi il pitocco beckettiano lo ricorda come un’altra convenzione sociale da vivere per assuefazione: «Un jeu de con à mon avis et avec ça fatiguant, à la longue. Mais je m’y prêtais d’assez bonne grâce, sachant que c’érait l’amour, car elle me l’avait dit»; se non per qualche attimo di sfuggevole affetto: «Nos rapports n’étaient pas sans tendresse, elle me coupait d’une main tremblotante les ongles des pieds et moi je lui frottais la croupe avec du baume Bengué»28.
Celati su Beckett aveva riflettuto, lo aveva fatto assimilando il processo della scrittura, che in Beckett è processo tematizzato, è un simulacro testuale, come luogo dell’esibizione schizofrenica della voce che enuncia, in cui «il testo si conforma come costellazione di tracce discontinue, di improvvisi accessi, di deviazioni ed ironie non costruttive, e insomma come una serie di interpolazioni»29. Anche all’inizio di Molloy il protagonista ci appare nell’atto della scrittura. Il rapporto della Trilogia col picaresco si dà in effetti anzitutto sul piano della lingua che enuncia: come ha osservato Gabriele Frasca, è un «francese colloquiale (soprattutto in Molloy) – i cui archetipi vanno cercati in Céline», oltre che sul piano morfologico, chiaramente per la prima persona autodiegetica, in relazione a cui Frasca ha parlato specificamente di una «“strategia dell’io” – del soggetto delle percezioni – che dall’ancora parzialmente narrativo je di Molloy porta al coscienzialismo biologico de L’innommable»30.
Se la convenzione del picaresco vuole il viaggio e l’incontro episodico coi luoghi e coi prototipi del ‘teatro’ sociale, in Molloy il viaggio diventa una quête esistenziale interiorizzata nella riflessività dei due personaggi, alla pseudocouple di Molloy e Moran. In linea con un’autodiegesi ipertrofica che ha tendenze all’onniscenza non solo della sua parabola di vita, se nel Tamburo di latta Oskar descrive addirittura il modo in cui fu concepita sua madre ed esprime il desiderio di tornare nell’utero materno, specchiarsi nel liquido amniotico31, anche in Molloy il protagonista non fa altro che tendere a un ritorno verso il luogo per eccellenza dell’Unheimliche: «Et tout seul, et depuis toujours, j’allais vers ma mère […]»32. Eppure, come Oskar racconta del lutto materno con una postura emotiva completamente sconnessa, poiché l’evento non sembra turbarlo33, Molloy così comunica alla madre interiezioni affermative, negative, richieste di denaro e un commiato: «Je me mettais en communication avec elle en lui tapotant le crâne. Un coup signifiait oui, deux non, trois je ne sais pas, quattre argent, cinq adieu»34.
Ulteriore dominante, è poi il rapporto irrisolto e contraddittorio col tempo del lavoro regolato dal potere costituito: «Cependant je ne travaille pas pour l’argent. Pour quoi alors? Je ne sais pas»35. Se Krull ottiene di essere dichiarato inabile al servizio militare, così può iniziare il suo vagabondaggio, e Oskar si scontra con l’autorità parigina quando, alla richiesta di identificarsi, risponde «sono Gesù!»36, anche l’essere outcast in Molloy si realizza in un rapporto conflittuale con i dispositivi coercitivi della vita collettiva. Imbattutosi in un agente di polizia che gli chiede i documenti, gli consegna i fogli di giornale con cui abitualmente si pulisce il sedere – oltre al fatto che per tutta la seconda parte del romanzo, dopo la sua sparizione, Molloy è in un certo senso ri-cercato da Moran (come vittima o come colpevole di un crimine?) –. D’altronde, Molloy è sempre in allerta per la possibilità di subire pestaggi, tant’è che ragiona su quali possano essere le ore migliori della giornata per uscire in strada e uscirne incolumi.
In ogni caso, non troverà mai la strada per Heim, la strada di casa: se, in Grass, Oskar è congenitamente ‘deforme’ nel suo scegliere deliberatamente di non crescere o di crescere tutto d’un colpo, in Beckett Molloy è prima zoppicante, poi strisciante nella sua progressiva trasfigurazione che dirla zoomorfa è un eufemismo. Il modo per approssimare il fine della sua quête sarebbe quello di non continuare a girare in tondo, di cadere anch’egli in un buio burrone, luogo della stasi e del nulla. Come in Grass lo spazio della narrazione è soggetto a una continua oscillazione pronominale e in Celati e Mann l’identità dei personaggi subisce uno slittamento perpetuo, in Beckett i confini dell’identificazione di Molloy vanno slabbrandosi progressivamente nel corso del passaggio di testimone alla voce, quella di Moran, che occupa il ‘secondo movimento’ del romanzo, voce che non fa che assomigliargli sempre di più. Il cercatore finisce quasi per trasformarsi nel ri-cercato.

*

Le suddette situazioni narrative, pescate in linea di massima dal canone europeo del romanzo del secondo Novecento, figurano uno scompenso nella tradizionale essenza del romanzesco, la tensione idealistica37, attraverso una serie di dispositivi comici. Nel 1987, intervenendo d’improvviso sul vivo presente, Giancarlo Mazzacurati aveva osservato:

gli ultimi vent’anni di produzione letteraria sono sotto gli occhi di tutti, se li si vuole interrogare; e a tutti diranno, crediamo, che questo è di nuovo tempo di bizze, bizzarrie ed umori saturnini, di paturnie e di ironie, di ibridazioni e di miscelazioni. Un tempo accogliente, insomma, per riesumarvi i grandi archetipi della tradizione ‘umoristica’38.

Nell’introdurre la ‘sua’ edizione dello Humphry Clinker, Mazzacurati chiariva alcune ragioni di un interesse così forte per la lunga parabola dell’antiromanzo, in tutte le sue declinazioni; oltre, poi, a suscitare curiosità su quanto potesse essere ampio un orizzonte ideale della linea ‘sterniana’ e su come spiegarne, nei suoi moventi storico-sociali, una filiazione delle parti (o un’eterogenesi dei fini?). A scanso di equivoci, il picaresco è qualcosa di più specifico, ma se il romanzo antico rappresenta l’ideale di uno «iato extratemporale fra due momenti del tempo biografico»39 – fra il fidanzamento e il matrimonio o fra il matrimonio e il ricongiungimento, in cui si svolgono un’infinità di peripezie – e con l’individualismo borghese e coloniale si egemonizza l’idea di avventura come affermazione personale, come viaggio di scoperta e conquista, parallelamente continua a proliferare nella tradizione del romanzo una linea in cui il compimento teleologico della Bildung nell’istituzione del matrimonio, del lavoro e in generale del tempo borghese è straniato in un modello in cui l’avventura si organizza attraverso il dispositivo dell’incontro promiscuo tra il protagonista e una miriade di tipi grotteschi che si susseguono in un procedimento paratattico. Entrambi i modelli, quello teleologico e quello antiteleologico o, direbbe Thomas Pavel, idealistico o anti-idealistico, trovano una posterità nel contemporaneo come strutture vuote riconfigurate a seconda dello spirito del tempo. In Mann, Grass, Celati, Beckett la trova il neopicaresco coi suoi tratti tipici: autobiografia fittizia, Ich-Erzählsituation40, dimensione quotidiana, dispositivi comici e corporali, meccanismo degli incontri come propulsore diegetico. In Beckett un’eterna quête esistenziale figura la traiettoria della parabola umana, in Mann il rito carneval-demoniaco (o «daimonico», come Kerényi nella sua lettera)41 del Felix Krull rappresenta una certa traiettoria della vita borghese – e fra l’altro sembra controbilanciare l’epopea mitica di Giuseppe e i suoi fratelli –. Se in Celati, poi, lo sradicamento individuale e sociale di Guizzardi risponde al moto repressivo degli istituti del potere sui corpi, in Grass una vicenda di auto-annichilimento individuale si assume simbolicamente come empatica col piano collettivo, storico.
Come attraverso Lazarillo, e fino al Torres Villaroel, si prefigurava la fine del primo e troppo prematuro Impero – quello ‘iberico’ che scoprì il Nuevo mundo –, di questa perpetua finitudine del moderno l’antiromanzo contemporaneo ha fornito la sua immagine restituendo il limbo fra i volti complementari, nel Secolo breve, del progresso e della barbarie che di quella tensione verso la fine sono distintivi.


  1. Per una recente panoramica sulle sorti del picaresco nel romanzo moderno e contemporaneo cfr. P. Tamassia, Metamorfosi del picaresco nel romanzo francese del Novecento: Céline e Beckett, in Le maschere del picaro. Storia di un personaggio e di un genere romanzesco, a cura di A. Gargano, Pisa, Pacini, 2020, pp. 215-34 e G. Maffei, Le Confessioni di un picaro italiano, in Le maschere del picaro, cit., pp. 161-92, che oltre ai casi di studio offrono preziosi spunti teorici.
  2. G. Grass, Il tamburo di latta [1959], trad. it. di L. Secci, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 53. Cfr. J.W. von Goethe, Dalla mia vita. Poesia e verità [1811], trad. it. di E. Ganni, Torino, Einaudi, 2018, p. 10.
  3. F. Marenco, Edipo con due padri e una gobba: versioni del tragico nel romanzo del Novecento, in Il tragico nel romanzo moderno, a cura di P. Toffano, Roma, Bulzoni, 2003, p. 227.
  4. Th. Mann, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull [1954], in Id., Carlotta a Weimar / Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, trad. it. di L. Mazzucchelli, Milano, Mondadori, 1955, p. 541.
  5. Ivi, p. 545.
  6. Cfr. G. Grass, Il tamburo di latta, cit., pp. 85 e 127 e ss.
  7. È stato scritto che «tutto il romanzo si può leggere in realtà come una fluviale e fascinosissima variazione narrativa sul tema del potere e sulle contraddizioni legate al suo esercizio» (M. Pirro, Antimiti di regressione. Costruzioni narrative sull’infanzia nella letteratura tedesca del Novecento, in Il ricordo d’infanzia nella letteratura del Novecento, a cura di S. Brugnolo, Pisa, Pacini, 2012, p. 221).
  8. M. Fusillo, L’avventura imposta dagli dèi e la libera peregrinazione. Due modelli dall’antico al moderno, in L’eroe e l’ostacolo. Forme dell’avventura nella narrativa occidentale, a cura di S. Zatti, Roma, Bulzoni, 2010, p. 71.
  9. Th. Mann, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull, cit., p. 1070.
  10. Cfr. la lettera di Kerényi a Mann del 26 ottobre 1954, in K. Kerényi e Th. Mann, Dialogo. Lettere 1934-1955, nota introduttiva di K. Kerényi, prefazione di D. Conte, ed. a cura di A. Alessandri, trad. it. di M. Traini, Roma, Editori Riuniti UP, 2013, pp. 215-16: «qui che cosa è il primordiale? Non certo soltanto le taurobolie, e soltanto in onore del dio militare Mithra. I sacrifici di tori nella concreta forma delle tauromachie sono dell’antichità mediterranea, non certo un’importazione dei soldati romani dalla Persia nella penisola iberica. C’erano già nell’antica Creta, con giovinetti a saltellare vertiginosamente intorno e sopra la sacra bestia in onore della Gran Madre. È in ossequio a lei che il toro viene ucciso (e ucciso in questo modo). Per la storia dell’arte il modello per Mithra che uccide il toro (invenzione ellenistica) è la Nike che uccide il toro in figurazioni attiche, rappresentante di una dea più grande e più antica. Chi vince nella Sua corrida se non colei che esclama: “Holé! Heho! Ahé”?».
  11. M. Pirro, Antimiti di regressione. Costruzioni narrative sull’infanzia nella letteratura tedesca del Novecento, in Il ricordo d’infanzia nella letteratura del Novecento, cit., p. 220.
  12. H. Mayer, Thomas Mann [1950], trad. it. di C. Bovero, Torino, Einaudi, 1955, pp. 343-44, corsivo mio.
  13. G. Lukács, Il giocoso e i suoi substrati [1955], in Id., Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, trad. it. di G. Dolfini, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 115.
  14. Cfr. G. Iacoli, Caratteri infiammabili. Matrici cineletterarie per i mattoidi celatiani, in «Sinestesie», XIX, Genealogia e morfologia del personaggio strambo, a cura di E. Ajello, 2020, pp. 121-42.
  15. G. Celati, Le avventure di Guizzardi, Torino, Einaudi, 1973, p. 9.
  16. Ad aiutarci nella lettura della funzione del ‘matrimonio rimandato’, che riemerge alle soglie della rivoluzione dei costumi, è forse un’intervista del 2012 in cui Celati parlava di un’etica sessuale che permeava anche la catena di comando del luogo sociale in cui pur si poteva rispecchiare un modello di comprensione e di trasformazione del mondo tendenzialmente condivisibile, il PCI: «Bene, parliamo del tema sessuale. Al liceo ero comunista e una delle cose che ho imparato frequentando gente del partito era una censura su questo argomento. Ti dicevano: “È pericoloso”. Volevano dire che si poteva far l’amore con la moglie e con una compagna ufficiale, ma non con chicchessia solo per la passione carnale, perché questo ti allontanava dalla dottrina leninista facendoti diventare un sensuale nevrotico borghese. Tra l’altro questa accusa mi è stata lanciata da un vecchio compagno quando ho pubblicato Guizzardi» (intervista di A. Capretti a G. Celati, Il comico come strategia in Gianni Celati, in «Doppiozero», 4 dicembre 2012, <https://www.doppiozero.com/materiali/anteprime/il-comico-come-strategia-gianni-celati>, url visitato il 27 marzo 2022). È come se la pulsione fosse una di quelle spinte che rischia di essere assorbita dalla logica di mercato, annessa alla ‘dimensione unica’ dell’uomo nella società industriale avanzata, per dirla con Marcuse, che appunto riassorbe nel sistema tutti gli opposti.
  17. G. Celati, Le avventure di Guizzardi, cit., p. 13.
  18. Su Guizzardi come outcast picaresco si vedano le considerazioni di G. Alfano, Lo scriba indigente. Gianni Celati attraverso Samuel Beckett, in Tegole dal cielo. L’“effetto Beckett” nella cultura italiana, a cura di G. Alfano e A. Cortellessa, Roma, EDUP, 2006, p. 120, in cui la filiazione con la convenzione narrativa è sottolineata soprattutto in relazione alla postura autodiegetica: «non soltanto si tratta di storie comiche […], ma si tratta di romanzi picareschi, e in quanto tali basati sul movimento, sullo spostamento perpetuo e sulla dialogicità imposta dalla voce di un narratore che fa avvertire ben chiara la propria presenza».
  19. G. Celati, Le avventure di Guizzardi, cit., p. 33.
  20. Id., Céline underground, in «Il Caffè letterario e satirico», XVII/3, 1970, pp. 11-12: «Dove finisce la buona coscienza dell’europeo civilizzato illuminista e comincia l’anarchia della ribellione permanente, lì c’è un piccolo spiraglio verso il caos o l’irrazionale, dal quale bisogna tenersi a debita distanza perché è lo spiraglio demoniaco della rabbia e dell’orrore che non quadra con i buoni propositi dei nostri uomini di cultura. […] Al fondo è questo crogiuolo di rabbia e di orrore che può essere accostato solo privatamente, con riti segreti, come vizio estetizzante, ma mai esaltato in pubblico perché inadatto ai gusti delle grandi menti illuminate. […] Così Céline vive nel sottosuolo, con tutte le streghe dell’inconscio dell’uomo bianco e nazista, popola i sogni delle scaltre menti con le perverse ambivalenze della colpa, affascina e ripugna, eccita la necrofilia latente di cui la nostra civiltà non può liberarsi».
  21. Intervista di N. Carioli a G. Celati, «Comiche» e «Nuove comiche», in «Nuova prosa», LIX, Il comico come strategia in Gianni Celati & Co., a cura di N. Palmieri e P. Schwartz Lausten, 2012, pp. 225-26.
  22. G. Celati, Finzioni occidentali (1974), in Id., Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino, Einaudi, 2001, p. 43.
  23. R. Capoferro, Celati settecentista, in «Filologia e critica», III, 2016, p. 449.
  24. G. Celati, Si comincia con Swift per ricuperare quel «più», in «Il Caffè letterario e satirico», XV/3, 1968, p. 3. Cfr. anche Id., La quête demoniaca, in «Il Caffè letterario e satirico», XV/3, 1968, pp. 48-62.
  25. Cfr. N. Frye, Anatomia della critica [1957], trad. it. di P. Rosa-Clot e S. Stratta, Torino, Einaudi, 1969, pp. 193-98.
  26. Cfr. Th. Mann, Romanzo d’un romanzo. La genesi del Doctor Faustus [1949], trad. it. di E. Pocar, Milano, Mondadori, 1952, pp. 78-79, in cui Mann scrive, in relazione a Krull: «era la visione dell’intima affinità tra questo e il soggetto del Faust (basato sul tema della solitudine, qui mistico-tragica, là umoristico-criminale); tuttavia quest’ultimo, purché possa assumere forma, mi sembra oggi il più adatto, più conforme ai tempi, più urgente».
  27. S. Beckett, Molloy (1951), Paris, Minuit, 1982, p. 12.
  28. Ivi, pp. 75 e 76-77.
  29. G. Celati, Su Beckett, l’interpolazione e il gag (1975), in Finzioni occidentali, cit., p. 170.
  30. G. Frasca, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett, Napoli, Liguori, 1988, pp. 86 e 110. Frasca tra l’altro ha notato: «le marce di Molloy […] danno luogo ad una sorta di romanzo picaresco, nel quale veniamo a conoscenza delle difficoltà incontrate da un Belacqua al penultimo stadio del suo relazionarsi col mondo del negotium» (ivi, p. 111).
  31. Cfr. G. Grass, Il tamburo di latta, cit., pp. 14 e 52-54.
  32. S. Beckett, Molloy, cit., p. 117.
  33. Cfr. G. Grass, Il tamburo di latta, cit., pp. 199 e ss.
  34. S. Beckett, Molloy, cit., p. 22.
  35. Ivi, p. 7.
  36. Cfr. G. Grass, Il tamburo di latta, cit., pp. 365-67.
  37. Cfr. Th. Pavel, Le vite del romanzo [2003], a cura di M. Rizzante, Milano, Mimesis, 2015.
  38. G. Mazzacurati, Introduzione a La spedizione di Humphry Clinker di Tobias G. Smollett (1987), in Id., Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale, a cura di M. Palumbo, introduzione di M. Lavagetto, Napoli, Liguori, 2006, p. 1.
  39. M. Bachtin, Estetica e romanzo [1975], trad. it. di C. Strada Janovič, Torino, Einaudi, 1979, pp. 236-37.
  40. Cfr. F.K. Stanzel, A Theory of Narrative (1979), trad. ingl. di Ch. Goedsche, Cambridge, Cambridge University Press, 1986, p. XVI.
  41. Cfr. K. Kerényi e Th. Mann, Dialogo. Lettere 1934-1955, cit., p. 215.

Picked up broadly from the European canon of the second half of the 20th century novel, these narrative situations show a crisis in the traditional novelistic essence – with Pavel, the «idealistic» aspiration – through a series of comic devices. In Mann, Grass, Beckett, Celati the picaresque re-emerges with its typical features: Ich-Erzählsituation, everyday, comic, and corporal dimension, mechanism of encounters as a diegetic engine. The teleological fulfillment of Bildung in the institution of marriage, work, and in general bourgeois time is defamiliarized in a model in which the adventure is organized through the device of the promiscuous encounter between the protagonist and a myriad of grotesque prototypes that follow one another in a paratactic structure.