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Un voyage à Cythère. Una lettura baudelairiana de Il Gattopardo

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Rassicurato da una ricercata autoassoluzione e dall’impeto di una virilità intrattenuta, il Principe Don Fabrizio bussa deciso con la «potente zampacela» alla porta di Mariannina. Già la descrizione del morbidus hortus, di quella natura posticcia racchiusa fra tre mura e un lato di villa Salina, aveva aperto una finestra sui paesaggi parigini. L’effluvio dal piacere forte e poco delicato delle rose Paul Neyron degenerate produce nel cieco osservatore, la cui vista è offesa dalla putrida flora, la parvenza di una coscia di una ballerina dell’Opera:

Era un giardino per ciechi: la vista costantemente era offesa ma l’odorato poteva trarre da esso un piacere forte benché non delicato. Le rose Paul Neyron le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Parigi erano degenerate: eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che distillavano un denso aroma quasi turpe che nessun allevatore francese avrebbe osato sperare. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera1.

Addentrandoci nel lessico proustiano, si tratta di uno dei primi ricordi involontari che sovvengono al Principe nell’arco dell’intero romanzo, pulsioni e ritorni del represso culminanti nel computo della propria vita sul letto di morte nella parte settima.
Sazio della carne della servizievole ed umile prostituta, ubbidiente quanto il suo alano Bendicò, Don Fabrizio paragona l’esperienza sessuale appena consumata alle avventure parigine in compagnia della «sgualdrinella» Sarah, frequentata in occasione della consegna della medaglia d’argento per il Congresso di Astronomia in Sorbona; e alle notti senza sacrilegio con la Principessa Maria Stella. Matura in questo confronto di amplessi il seme della vergogna germogliato dal cuore semplice del «Principone», come si era sentito invocare da Mariannina, il desiderio di una giovinezza che s’imbatte nella sua irreversibilità solo quando scopre dell’amore covato dalla figlia Concetta per il nipote Tancredi, proprio in quella stanza del bagno all’interno del palazzo di Donnafugata dove il colosso ingombrante generato dalla penna di Tomasi si manifesta nella sua «innocente nudità titanica» di Ercole Farnese: «Un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età di amare»2.
Don Fabrizio percepisce tutto il peso del disgusto, di un’impudicizia rassegnata e della vanità della propria lussuria. Nel riconoscimento di questo scacco il “sedimento di lutto” inaugurato dalla recita del Rosario nell’incipit del romanzo («Nunc et in hora mortis nostrae. Amen»3) penetra l’implicito della scrittura grassa di Tomasi4 e si cela dietro il distico di un poeta francese:

Ma che tristezza, anche: quella carne giovane troppo maneggiata, quella impudicizia rassegnata; e lui stesso, che cosa era? un porco, e niente altro. Gli ritornò in mente un verso che aveva letto per caso in una libreria di Parigi sfogliando un volume di non sapeva più chi, di uno di quei poeti che la Francia sforna e dimentica ogni settimana. Rivedeva la colonna giallo-limone degli esemplari invenduti, la pagina, una pagina pari, e riudiva i versi che stavano lì a conchiudere una poesia strampalata:
«Seigneur, donnez-moi la force et le courage
de regarder mon coeur et mon corps sans dégoût!»5

Accettando la menzogna letteraria il lettore farà lo sforzo di giustificare l’ignoranza del Principe. Infatti, nell’agosto del 1860, data in cui si svolge la prima parte del romanzo, Don Fabrizio non poteva prevedere la successiva fama del poeta. Tuttavia, Tomasi di Lampedusa, che impartiva lezioni di letteratura francese nel giardino della sua villa a Palermo, sapeva benissimo che il distico chiude l’ultima quartina di Un voyage à Cythère, firmata Charles Baudelaire.
Pubblicato per la prima volta in «Revue des Deux Mondes» nel giugno del 1855, il componimento occupa la posizione CXVI de Les fleurs du mal, nella sezione “Fiori del male” e reca la dedica a Gérard de Nerval, autore di due articoli editi in «L’Artiste» nel 1844, confluiti nel suo Voyage in Orient, in cui lo sbarco a Citera riflette una luce tenebrosa sul mito della splendida terra natale di Venere6.
Baudelaire demistifica l’illusione di splendore della Eldorado banal, accentuando i dettagli macabri e grotteschi. Strappato il velo di Maya, ciò che si scopre non è più «qu’un terrain des plus maigres, / un désert rocailleux troublé par des cris aigres»7. L’isola famosa tanto cantata nelle canzoni è una terra misera, in cui il nero padroneggia il campo cromatico del paesaggio.
Basterebbero le prime cinque quartine a giustificare la forte intertestualità che lega Un voyage a Cythère alla struttura estetica del romanzo di Tomasi. Il contrasto tra la natura viva del giardino di rose e il deserto petroso turbato da grida acute che alterna la quarta e la quinta quartina trova eco nel giardino per ciechi nelle pagine iniziali del Gattopardo. Nella stanza della toletta, còlto di sorpresa dall’incombere della vecchiaia, di un disfacimento fisico del quale al lettore è lecito soltanto osservare la conclusione, l’ultimo tragitto del naturale sentiero della caducità umana, se pur assistendo al “corteggiamento” insistente della morte, il Principe accoglie il tetro suono di un paese in lutto:

Dalla Madre Chiesa vicina giungevano tetri i rintocchi di un “mortorio”. Qualcuno era morto a Donnafugata, qualche corpo affacciato che non aveva resistito al grande lutto dell’estate siciliana, cui era mancata la forza di aspettare la pioggia. «Beato lui» pensò il Principe mentre si passava la lozione sulle basette […] Questa effimera identificazione con un defunto ignoto fu sufficiente a calmarlo. «Finché c’è morte c’è speranza», pensò8.

Il radioso sole di Citera inocula illusioni di ricchezza nella nave del viaggiatore tanto da trasformarla in angelo ebbro a cui spetta il disincanto di una terra triste e nera. Si è già posta l’attenzione sulla dominanza cromatica del giallo e del nero nell’opera lampedusiana9 e sull’effetto narcotizzante del sole siciliano. Nella dimensione metaforica dell’implicito di Tomasi i raggi solari piegano la volontà dei popoli, inibiscono ogni tentativo di azione, assopiscono le coscienze condannandole a uno stato onirico che anticipa la morte. Il determinismo ambientale che permea il discorso del Principe a Chevalley ha una valenza universale. La Sicilia, i barbari paesaggi calabresi e basilischi, anch’essi “irredimibili”, sono luoghi anecumenici in cui appare impossibile edificare alcun tipo di civiltà. Il mito di bellezza che traspare dall’eterogeneità culturale siciliana è una menzogna, la testimonianza di una forza sopita dalla letargia ambientale la quale non si è mai destata per opporsi alle innumerevoli dominazioni straniere. Edward Said, individuando il punto di giuntura tra l’inchiesta gramsciana e il romanzo di Tomasi di Lampedusa, ha definito il monologo di Don Fabrizio una risposta meridionale alla questione meridionale, una risposta che individua l’origine della malattia ma non è in grado di sintetizzare alcun vaccino10.
La morfina naturale assorbita dai raggi solari, anche quand’essi sono rifratti e attenuati dalle finestre o dal mobilio di San Lorenzo e di Donnafugata, ha effetto persino sul gigante dei Salina. Tuttavia, sul Principe agiscono anche delle forze interne, un dualismo genetico non incline a coniugarsi in una sintesi armonica. L’origine tedesca di sua madre Carolina, di cui sono eredità «un temperamento autoritario, una certa rigidità morale e una certa propensione alle idee astratte»11, contrapposta alla natura siciliana paterna produce un’anomalia:

Sollecitato da un parte dall’orgoglio e dall’intellettualismo materno, dall’altra dalla sensualità e faciloneria del padre, il povero Principe Fabrizio viveva in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeusiano e stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna attività ed ancor minor voglia di porvi riparo12.

Ne L’intimità e la storia Francesco Orlando ha definito Don Fabrizio un «intellettuale padre», ultimo esemplare di una specie letteraria più unica che rara13. A questa “disposizione critica” il lettore accede, dall’interno, scrutando negli spazi intimi del Principe, dai segreti irrivelabili alla contemplazione della volta celeste, sia attraverso il privilegio di superare la colonna d’Ercole e concedersi, solo per qualche istante, il punto di vista di un altro personaggio. Così Angelica, ormai promessa di Tancredi, può volgere a sé lo sguardo del pubblico e svelare definitivamente l’arcano: «importava poco dei tratti di spirito, della intelligenza anche, del fidanzato, assai meno ad ogni modo di quanto esse importassero a quel caro Don Fabrizio, tanto caro davvero, ma anche tanto “intellettuale”»14. Il giudizio di Angelica è complementare all’immagine riprodotta dagli occhi di Maria Stella del «marito tiranno» nelle prime pagine del romanzo.
La predisposizione di Don Fabrizio agli studi matematici e alla contemplazione degli astri, passioni tanto inconsuete per l’esponente «di un casato che per secoli non aveva mai saputo fare neppure l’addizione delle proprie spese e la sottrazione dei propri debiti»15 declinano un desiderio di ordine. I suoi calcoli tornano sempre, tanto da meritare le lodi dell’ultimo re di una monarchia che «aveva già i segni della morte sul volto» e una medaglia d’argento in Sorbona, premio per la scoperta di due pianeti, battezzati Salina e Svelto, quest’ultimo dal nome del mansueto cane d’infanzia. La professione di astronomo può, ancora, costituire un’opposizione con la pratica più burbera e naturalmente aristocratica della caccia. Lo iato tra le due componenti genetiche di Don Fabrizio produce uno strappo. Già Orlando vedeva come chiaro antesignano più genuino del Principe di Salina, anche se nelle vesti di un intellettuale figlio, l’archetipo di Amleto. Il Principe, incapace di agire, nasconde la sua pigrizia dietro la possenza fisica, un’indole bonaria. Arresosi al disfacimento dell’ancien regime di cui è esponente, senza possibilità di inserirsi nel nuovo Regno costruito dal giovane Tancredi, Don Fabrizio sente scorrere in sé un umor nero. Ѐ lo stesso liquor che pervade il sangue del cavaliere errante Don Chisciotte, reso folle dalle troppe letture cavalleresche, dove ancora è possibile conservare lo spirito del ceto degli hidalgos, di quella nobiltà di cappa e di spada, alla quale stava lentamente sostituendosi la nobiltà di toga.
Eludendo la scelta di una posizione nella questione tra Sainte-Beuve e Proust, è chiaro che Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrivesse per conservare quei «ricordi inconsueti», memoria esclusiva del ceto aristocratico al quale apparteneva. Se l’esegesi del corpus baudelairiano consiste anzitutto nel desiderio di un ritorno all’antico regime, allora sarà ammissibile giustificare l’intertestualità in virtù di un analogo sentimento malinconico per un mondo di privilegi perduto.
Nel 1848 Charles Baudelaire seguì la corrente socialista verso i moti insurrezionali, fondando la rivista «Le Salut Public» e offrendo il suo sostegno durante le giornate di giugno. Franco Rella ha scorto nel «Baudelaire che combatte sulle barricate invitando a sparare sul patrigno, il generale Aupick»16 il segno dell’epoca moderna. Dileguata la fiamma quarantottesca, la sfiducia nel progresso e nella nuova società capitalistica apre le porte ad una nostalgia aristocratica. Baudelaire confessa: «Il solo governo ragionevole e solido è il governo aristocratico. Monarchia o repubblica basate sulla democrazia sono parimenti assurde e deboli»17.
Il principio aristocratico si lega nel poeta francese al diritto di Bellezza e al dandismo. Un tratto peculiare della personalità di Don Fabrizio Salina è la sua ipersensibilità nobiliare allo stile, la cura quasi maniacale per la pulizia18 che culmina nell’ammonimento igienico a padre Pirrone nella scena del bagno. Questa ipersensibilità nobiliare si manifesta perentoriamente nello sgomento provato dal Principe alla notizia dell’arrivo in frac di don Calogero Sedàra, membro dell’emergente borghesia, per il pranzo nella villa di Donnafugata:

Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figlio, fece nel salotto una irruzione scandalosa: «Papà, don Calogero sta salendo le scale. Ѐ in frack!». Tancredi valutò l’importanza della notizia un secondo prima degli altri; era intento ad ammaliare la moglie di don Onofrio, ma quando udì la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò a ridere in una risata convulsa. Non rise invece il Principe al quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore del bollettino dello sbarco a Marsala […] Non soltanto lui, il Principe, non era più il massimo proprietario di Donnafugata, ma si vedeva anche costretto a ricevere, vestito in abito da pomeriggio, un invitato che si presentava, a buon diritto, in abito da sera19.

L’abito è tuttavia una catastrofe. Ottima la fattura, recente il modello, ma mostruoso il taglio. Il gigante Salina si sente rassicurato dalla scompostezza dell’invitato, stretto da un vasto colletto informe e ai cui piedi calza persino un paio di stivaletti abbottonati.
Quando il Principe chiede la mano di Angelica per conto del nipote Tancredi, rinchiudendo a chiave l’ultimo fedele della nobiltà siciliana, il “pietoso burattino”, l’organista don Ciccio Tumeo nella sala dei fucili, solleva il sindaco in segno di conciliazione, ma l’effetto comico della sua folta barba ne tradisce subito lo sdegno, il quale si rende più tagliente nelle perfide insinuazioni incomprensibili ad un non aristocratico, sebbene impegnato in pratiche per l’acquisizione del titolo di barone. Se il disprezzo per don Calogero appare evidente in ogni pagina che ospita la sua presenza, le continue gaffe e la sua importunità, dettagliatamente caricaturate della penna comica di Tomasi, non scalfiscono l’animo del Principe se non in un punto dell’intero Gattopardo, l’unico momento in cui il suo cuore percepisce odio.
In La Malinconia allo specchio Jean Starobinski afferma che «lo sguardo allo specchio è il privilegio aristocratico dell’individuo che sa farsi commediante di sé stesso. Nel poemetto Le Miroir Baudelaire denuncia un vero e proprio sacrilegio: un “uomo spaventevole” pretende di avere il diritto di specchiarsi, “secondo gli immortali princìpi dell’89”!»20.
Giunto al palazzo dei Ponteleone, in occasione del debutto di Angelica in società, don Calogero ostenta un nuovo frac, non elegante, ma questa volta “decente”. Il fidanzamento tra Tancredi e sua figlia è ormai compiuto e il sindaco ha diritto di accedere allo sfarzo dell’alta società. Don Calogero può finalmente specchiarsi nel lusso aristocratico, usurpando il dominio del gattopardo. Il sogno borghese di una “lenta sostituzione di ceti” è compiuto e come riconoscerà più tardi il Principe: «Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano, aveva dopotutto vinto»21. Ciò che sarebbe dovuto rimanere immutato è infine drasticamente mutato, sommergendo di polvere un intero mondo:

«Bello, principe, bello! Cose così non se ne fanno più adesso, al prezzo attuale dell’oro zecchino!» Sedàra si era posto vicino a lui, i suoi occhietti svegli percorrevano l’ambiente, insensibili alla grazia, attenti al valore monetario. Don Fabrizio, ad un tratto, sentì che lo odiava; era all’affermarsi di lui, di cento altri suoi simili, ai loro oscuri intrighi, alla loro tenace avarizia e avidità che era dovuto il senso di morte che incupiva questi palazzi; si doveva a lui, ai suoi compari, ai loro rancori, al loro senso d’inferiorità, al loro non esser riusciti a fiorire, se adesso anche a lui, Don Fabrizio, gli abiti neri ricordavano le cornacchie che planavano, alla ricerca di prede putride, al disopra dei valloncelli sperduti22.

Trattenuto da un’indole infondo bonaria e anestetizzato dal sole narcotizzante dell’arida terra siciliana, Don Fabrizio si abbandona al fluire degli eventi, inadatto ad un’azione risolutrice. Nessun intervento è lecito, inutile opporsi al nero vento della Storia, al Risorgimento, a Garibaldi. Ciò che resta è un involucro grottesco che può valere come allegoria della caducità umana, unica costante invariabile per l’intera umanità.
Proseguendo il voyage a Cythère l’Io lirico s’imbatte in uno strano oggetto. La sesta quartina di alessandrini introduce il termine erotico d’opposizione al successivo presagio di morte. Il richiamo alle sacerdotesse i cui corpi bruciano di segreti ardori è immagine baudelairiana di seduzione che si articola nel rapporto tra sacro e profano. Un forte punto di giuntura tra la sfera sensuale del componimento e Il Gattopardo può essere offerto proprio dal nome della «sgualdrinella» Sarah, prostituta con la quale Baudelaire aveva intrapreso una relazione sentimentale nel 1840 e per la quale compose Tu mettrais l’univers entier dans la ruelle, Une nuit que j’etais près d’une affreuse Juive, Je n’ai pas pour maîtresse une lionne illustre.
Sull’isola si scorge una forca a tre bracci dalla quale pende un solo impiccato già putrido, preda degli avvoltoi, che massacrano la carcassa col «becco impuro». Il quadro descritto da Baudelaire è tetro: gli occhi del defunto sono due buchi neri e dal ventre divelto gli intestini colano sulle cosce, mentre i carnefici lo castrano a «colpi di becco». Su questa immagine si compone la descrizione del morto bocconi del giardino della villa di San Lorenzo, il primo incontro con la morte in una natura artificiale e in decomposizione, il recupero di quel binomio costituito da Eros e Thanatos. La notte con Mariannina è la trasposizione di questo contrasto dal giardino allo spazio del piacere, sempre giocato in quel rapporto tra sacro e profano, dove il “Gesummaria” di Maria Stella, implicita rivelazione di una voluttà soddisfatta, situato proprio in fine di paragrafo, si pone come primo membro. Allora non è un caso che nel massimo appagamento dei propri sensi il represso torni a tormentare Don Fabrizio, seguendo il flusso della memoire involontaire, proprio attraverso i versi del poeta francese. Sulla descrizione dell’impiccato di Baudelaire, come già accennato, pare si modelli quella del cadavere del giovane soldato, il cui ricordo è riattivato dall’associazione incontrollata degli odori percepiti dal Principe nel giardino:

Per il Principe, però, il giardino profumato fu causa di cupe associazioni d’idee. «Adesso qui c’è buon odore, ma un mese fa…» Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre avevano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato del 5° Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli era venuto a morire, solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghia confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a nascondere il volto col suo fazzoletto rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre […]23.

Il trauma della morte altrui si ripresenta al Principe assumendo le medesime sembianze, con quel corpo sbudellato alla ricerca di una pace che può trovarsi solo nella giustificazione del dolore in nome di una necessità estrema, insomma che la dipartita avvenga nell’ordine delle cose. Non è da trascurare il ritorno dell’occhio del lettore sul giardino, le cui aiuole sono vittime delle devastazioni dell’alano Bendicò, cane colosso alter-ego di Don Fabrizio, al quale si oppone per il suo dinamismo. Il bollettino delle perdite recita: «quattordici garofani spezzati, mezza siepe divelta e una canaletta ostruita»24. La scelta degli aggettivi, simile quando non identica al disastro umano precedente, è foriera di quel senso di morte universale che impregna ogni angolo del mondo racchiuso nell’inchiostro di Tomasi. Vada poi notata l’antropomorfizzazione dell’animale, rassomigliante a un «cristiano», una metamorfosi repentina, guastata dal richiamo del padrone, dal quale la «bestia» riceve il perdono.
Se in ogni quartina di Un voyage è possibile scorgere una porta d’accesso agli spazi tematici del Gattopardo, la decima offre a Tomasi la chiave allegorica della questione storico-politica. Ai piedi del cadavere sventrato si aggira un branco di quadrupedi invidiosi, col muso alzato. Non è difficile trovare l’eco di uno dei pensieri più profondi del Principe, correzione della famosa massima del nipote Tancredi25 («Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi»26), la quale smentisce quel pregiudizio immobilistico di cui parla Orlando27:

Il Principe era depresso: «Tutto questo» pensava «non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre, il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra»28.

Rivolgendo un nuovo sguardo a Sedàra, sembra evidente che la sua bestialità e la sua avidità lo rendano il perfetto candidato per incarnare la bestia che si erge più alta tra le altre, agitandosi come un boia tra i suoi aiutanti.
Baudelaire aveva recuperato la forca a tre bracci dai resoconti di Nerval, intravedendo da subito il forte richiamo cristologico. Seguendo questa esegesi, la condizione dell’impiccato è l’agonia di Gesù sulla croce, un martirio universale. Il peso insostenibile dell’esistenza umana ricongiunge il pezzo del symbolon nel letto di morte di Don Fabrizio. Nell’esaurirsi della sabbia della sua fatale clessidra, poco prima di «raggranellare dalla cenere le pagliuzze d’oro dei momenti felici»29, il Principe si lascia invadere dal rimosso:

Perché mai Dio voleva che nessuno morisse con la propria faccia? Perché a tutti succede così: si muore con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi giovani?30

Nella catabasi del poeta verso l’infernale Citera, dove i culti del piacere e dell’amore sono all’origine di un peccato, il quale può essere espiato solo attraverso l’agonia della croce, la teogonia di Venere è sovvertita. Demistificato il mito della sua terra, dissolta ogni illusione di ricchezza, la dea della bellezza assurge a simbolo della morte. In questa prospettiva si giustifica la scelta lampedusiana di affidare proprio alla luce di Venere, creatura bramata da tutta la vita, l’anelito di Don Fabrizio, il fragore del mare che improvvisamente si placa. L’Io lirico si è specchiato nell’impiccato, ha riconosciuto la sua immagine appesa alla forca, analogamente il Principe ha riconosciuto il riflesso di una morte annunciata nel guscio vuoto, cadavere smembrato, del giovane soldato. Immerso in un nero sanguinante, Baudelaire definisce il suo cuore sepolto in questa allegoria, come uno spesso sudario, ancora immagine cristologica. Corrotto l’incanto della favola pagana, il poeta si affida al Dio cristiano, recitando la preghiera all’origine dell’intertestualità fin ora trattata. L’Io poetico chiede pietà per il suo cuore, divelto e devastato come il suo corpo.
Nella sezione di frammenti dedicati a Baudelaire, Parco centrale, Walter Benjamin definisce uno dei problemi fondamentali per la comprensione della sua poesia: il carattere labirintico della città. Il suo rapporto con la prostituzione svela nuovi arcani, uno dei quali è proprio il volto mitico di cui dispone la metropoli nell’immagine del labirinto, entro il cui centro si annida il Minotauro con tutte le forze fatali di cui è ipostasi31. Secondo Antoine Compagnon, Charles Baudelaire è il prototipo dell’antimoderno, inteso come moderno insoddisfatto dei Tempi moderni32. Se la modernità è inaugurata dalla Rivoluzione francese, l’antimoderno matura un sentimento di controrivoluzione, la quale mantiene un rapporto indistricabile con il 1789, nella misura in cui la difesa della tradizione si oppone al progresso, la difesa dell’aristocrazia e della teocrazia all’ascesa della democrazia33. Lo choc scaturito dal contatto con la massa, «l’orrore della dimora», l’ironia dell’uguaglianza, il pessimismo e la malinconia, la conservazione del verso classico alessandrino sono la sferzante risposta del poeta alla modernità.
Bastano queste due chiavi critiche per raggiungere il fulcro del percorso intertestuale. Accordato il fidanzamento tra Tancredi Falconeri e Angelica Sedàra, i due promessi si avventurano nel castello dei Salina a Donnafugata, desiderosi di conoscere tutti i passaggi e gli anditi del palazzo, ma soprattutto gli appartamenti disabitati, i quali persino il Principe si compiace di ignorare, considerando degni solo quei palazzi di cui non si conoscono tutte le stanze. Tancredi trascina Angelica in un labirinto impolverato, dove a poco a poco vengono risucchiati dal vortice del ciclone sensuale. Ѐ a questo punto, nel cuore del romanzo, che Tomasi di Lampedusa riprende esplicitamente il dialogo con Baudelaire, paragonando la caduta nel cento del labirinto intricato di camere ad un viaggio a Citera:

I due innamorati s’imbarcavano verso Citera su una nave fatta di camere cupe e di camere solatie, di ambienti sfarzosi o miserabili, vuoti o affollati di relitti di mobilio eterogeneo […] Più di una volta non seppero dove erano: a furia di giravolte, di ritorni, d’inseguimenti, di lunghe soste riempite di mormorii e contatti perdevano l’orientamento e dovevano sporgersi da una finestra senza vetri per comprendere dall’aspetto del cortile, dalla prospettiva del giardino in quale ala del palazzo si trovassero34.

Gli innamorati percorrono una spirale infernale, una catabasi, la quale assume la forma di una regressione ai domini aristocratici dell’ancien regime. Attraverso il lume di Francesco Orlando è possibile rintracciare le ragioni di tale discesa. Il motivo è triplice: anzitutto è il solo Tancredi, timoniere della metaforica nave, a riconoscere gli spazi degradati di uno sfarzo ormai superato dell’antico regime; l’esibizione della grandezza del potere aristocratico, dunque la prevaricazione su una donna di ceto inferiore; infine, proprio in virtù di questa superiorità di condizione, la possibilità mai còlta, ma la quale tanto turba il giovane, di possedere l’amata liberamente prima del matrimonio35. Di qui il parallelismo nella stanza della “disciplina” tra l’arnese della tortura, con il quale il secentesco Duca-Santo, Giuseppe Corbera di Salina, fustigava la proprie carni riscattando col sangue la grandezza dei feudi, e la bellezza di Angelica attraverso la quale il discendente Falconeri ne riacquista possesso dopo il tracollo familiare, venendo in possesso della ricchezza dei Sedàra. Il centro del labirinto è museo delle cose perdute o di oggetti desueti, utilizzando la terminologia dello stesso Orlando, appartenuti a un passato custodito dalla polvere. Tra di essi la patina del tempo lascia intatto un carillon, la cui melodia compone un valzer del 1829 di Niccolò Paganini, il Carnevale di Venezia. Il meccanismo sonoro dell’oggetto impolverato anticipa una delle scene più ricche e rilevanti del romanzo, il valzer a palazzo Ponteleone.
Il movimento vorticoso del valzer è lo stesso del viaggio a Citera. Attraverso il carillon Tomasi costruisce un ponte tra i due momenti, una corrispondenza. Se l’intertestualità è così perentoriamente invocata nel labirinto del castello dei Salina, allora forte è l’eco baudelairiana prodotta dal suono del valzer nella parte più icasticamente tetra del romanzo. Don Fabrizio riconosce la morte negli occhi più giovani, il destino innato delle cose fa apparire tutto fantasmatico, irreale, già terminato. Il Principe cede alla compassione. La sua pietà attraversa i giovani innamorati, Tancredi e Angelica, immersi in una «passeggera cecità», e le altre coppie di ballerini, le ragazze sedute sui poufs rassomiglianti a delle scimmiette e i «vecchi babbei suoi amici». Tutti miserevoli già condotti come il bestiame verso il macello. Tornano in mente altri versi di Baudelaire:

Bayadère sans nez, irrésistible gouge,
Dis donc à ces danseurs qui font les offusqués:
“Fiers mignons, malgré l’art des poudres et du rouge,
Vous sentez tous la mort! Ô squelettes musqués,
Antinoüs flétris, dandys à face glabre,
Cadavres vernissés, lovalaces chenus,
Le branle universel de la danse macabre
Vous entraîne en des lieux qui ne sont pas connus36.

Nella Danse macabre (XCVII) la Morte si introduce con noncuranza e disinvoltura tra i ballerini, così come, giovane, in una stanza dell’albergo Trinacria si fa largo tra gli astanti, avvicinandosi al letto di Don Fabrizio per essere posseduta. La donna snella è dapprima respinta, derisa e caricaturata, poi l’ago della bilancia modifica la propria pendenza. Il gregge mortale che dalla Senna al Gange si nasconde dalla fatalità del suo destino non si accorge della tromba dell’Angelo. L’ultima delle quindici quartine del componimento è il Trionfo della Morte sulla Ridicola Umanità, ammirata in ogni clima e sotto ogni sole, persino sotto quello narcotizzante del Gattopardo, il quale incurante del caos della Storia e degli uomini, salito al trono come un re assoluto, impone la propria autorità con la sua luce.


  1. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, nuova ed. riveduta a cura di G. Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli, 2022, p. 35.

  2. Ivi, p. 84.

  3. Ivi, p. 31.

  4. Cfr. N. La Fauci, Modi del «Gattopardo». Morfosintassi e interpretazione, in La sintassi dell’italiano letterari, a cura di M. Dardano e P. Trifone, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 402-404.

  5. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 48.

  6. Cfr. C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, a cura di M. Colesanti, Roma, Newton Compton, 2017, p. 283.

  7. Ivi, p. 284.

  8. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 87.

  9. Cfr. S. Acocella, L’oro e la polvere del «Gattopardo», in “Parole corte longa amistate”. Saggi di lingua e letteratura per Patricia Bianchi, a cura di C. Di Bonito, R. Giglio, P. Maturi e F. Montuori, Napoli, Loffredo, 2022, pp. 18-28.

  10. Cfr. E. Said, Sullo stile tardo, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 94.

  11. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 33.

  12. Ivi, p. 34.

  13. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998, p. 34.

  14. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 149.

  15. Ivi, p. 33.

  16. F. Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 7.

  17. C. Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, Milano, Adelphi, 1991, p. 61.

  18. Cfr. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», cit., p. 64.

  19. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 90.

  20. J. Starobinski, La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, Milano, SE, 2006.

  21. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 242.

  22. Ivi, p. 221.

  23. Ivi, p. 35.

  24. Ivi, p. 37.

  25. Cfr. S. Acocella, L’oro e la polvere del «Gattopardo», cit., p. 23.

  26. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 50.

  27. Cfr. F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., pp. 14-15.

  28. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 185.

  29. Ivi p. 243.

  30. Ivi, p. 239.

  31. Cfr. W. Benjamin, Parco centrale, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 2014.

  32. Cfr. A. Compagnon, Gli antimoderni. Da Joseph de Maistre a Roland Barthes, trad. it. di A. Folin, Vicenza, Neri Pozza, 2017, p. 7.

  33. Ivi, p. 21.

  34. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pp. 160-162.

  35. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», cit., pp. 136-137.

  36. C. Baudelaire, I fiori del male e tutte le poesie, cit., p. 241.


The essay examines the intertextual links between Giuseppe Tomasi di Lampedusa’s Gattopardo and Charles Baudelaire’s Les fleur du mal. Through an interpretation of Un voyage a Cythere, which is remembered by Don Fabrizio Salina, the main character of Tomasi’s novel, it is possible to find motifs common to both authors: aristocratic nostalgia, contempt for the bourgeoisie, sense of death. Another allusion to the poem is in the heart of the novel, confirming the relevance of Baudelairian poetry in the structure of Il Gattopardo.