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Approcci francesi al Giappone: Moges, Chassiron, le stampe ukiyo-e

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Se pure può essere stata sostenuta, come da larga parte della corrente critica anti-mimetica1, l’opinione che il testo letterario non parli davvero del mondo bensì soltanto di sé stesso – riducendo il suo campo di azione a quello ben delimitato del linguaggio, «in una specie di camera sigillata piena d’echi ma senza varchi sul mondo esterno»2 – è forse più difficile negare che per parlare secondo qualunque codice di un oggetto, per poterlo nominare e chiamare in causa, lo si debba prima conoscere: intendendo con ciò non una conoscenza approfondita, ma il possesso della nozione della sua esistenza che permetta di emergere dalla condizione impraticabile e infruttuosa di agnosia iniziale.
Per quanto riguardava la nozione di “Giappone” nella cultura di un francese sotto il Secondo Impero, lo stato di agnosia poteva avanzare al massimo fino a uno di astratta indistinzione: «Nell’opinione popolare era tutto “Oriente”»3 informa lapidariamente Jan Hokenson. E questo “Oriente” non era naturalmente inteso in senso fisico, antropologico – poiché altrimenti si sarebbe anche differenziato da sé nelle sue varie culture – ma piuttosto come concetto archetipico del lontano, di meraviglioso “altro da sé”: una «invenzione dell’occidente»4 come da celebre formula di Edward Said, con tutti i corollari che ne conseguono a livello di individuazione e confutazione di un “discorso” eurocentrico5.
Basti citare in questo senso le definizioni datene da Baudelaire, nei cui versi l’altrove viene caratterizzato in termini puramente contrastivi rispetto a un “qui” – un luogo della mente privo di alcuna sostanza propria: in Le Voyage esso è «un Eldorado promis par le Destin;/ L’Imagination qui dresse son orgie»6; i suoi territori non sono che «des pays chimériques!»7.
L’associazione è tanto consolidata che quando l’Oriente sarà ormai divenuto un luogo fisico da poter raggiungere per nave, il poeta portoghese Álvaro de Campos, eteronimo di Fernando Pessoa, potrà scrivere nel suo Opiário (1915) di volere, a questo punto, un nuovo «Oriente a oriente dell’Oriente»8: per non concedere alle grinfie della realtà terre che appartenevano piuttosto al sogno e all’immaginazione, in un gioco concettuale e vertiginoso di astrazioni e reduplicazioni.

1. Le relazioni diplomatiche e commerciali

Lo stato delle cose venne ufficialmente a modificarsi quando il nove di ottobre del 1858 Jean-Baptiste Louis Gros, comandante della spedizione francese in Cina, si trovò a firmare in nome della propria nazione il Trattato di amicizia e commercio tra Francia e Giappone, inaugurando un canale di relazioni diplomatiche tra i due paesi. Scrisse dieci anni dopo Charles Delprat: «non è veramente più possibile oggigiorno scrivere sul Giappone delle storie di fantasia»9. Gli occhi disabitati si affollavano di figure.
L’accordo veniva sottoscritto nell’ambito dei cosiddetti Trattati Ansei10, i celebri “trattati ineguali” che lo stato giapponese, appena tratto a forza fuori dal suo periodo di Sakoku11, si trovò costretto a concedere senza alcun potere negoziale – vista la sua patente inferiorità tecnica e militare rispetto agli occidentali, dimostrata anche dal recente successo di Gran Bretagna e Francia nella Seconda Guerra dell’oppio combattuta contro la Cina tra il 1856 e il 1860.
È noto che nel 1853 il commodoro americano Matthew Perry aveva minacciato di bombardare dal mare la capitale Edo: la conseguente Convenzione di Kanagawa stipulata il trentuno marzo 1854 dagli Stati Uniti aveva aperto la via anche alle potenze europee, le quali non mancarono di redigere ciascuna il suo rispettivo trattato secondo la “clausola della nazione più favorita” con la quale sostanzialmente si estendevano anche a esse i medesimi privilegi già concessi in precedenza agli americani. Tali provvedimenti erano di natura legata prevalentemente allo sfruttamento commerciale più che a una espansione imperialistica dei possedimenti nazionali. Si ottenevano principalmente: l’apertura dei porti giapponesi al commercio internazionale; e la tutela dei connazionali residenti nel paese – cui veniva concesso di vivere e commerciare liberamente, e di essere giudicati dalle leggi del loro paese di origine invece che dalla giustizia giapponese12.
La Francia, dopo due tentativi falliti13, arrivò alla meta per ultima fra le cinque potenze europee firmatarie di un loro trattato, dopo che Russia, Olanda e Regno Unito l’avevano stipulato già in agosto, appena un paio di settimane dopo l’accordo siglato il 29 luglio 1858 tra il Giappone e gli Usa (una ritrattazione di Kanagawa, per ottenere «degli accordi più forti»14). Nel 1859 Gustave Duchesne de Bellecour, primo console francese15, poteva installarsi presso il tempio Saikai-ji a Edo, ponendo le basi per una successiva collaborazione politica e commerciale, allorché «poco a poco, la xenofobia aggressiva [dei giapponesi] lasciò il posto alla volontà di istruirsi al fine di poter affrontare gli occidentali sul loro terreno»16. La Francia svolse un ruolo cruciale17 nell’accontentare la sete di tecnologia del Giappone collaborando attivamente al suo periodo di Bakumatsu, ovvero quel frenetico processo di riapertura e modernizzazione, di «sviluppo [tecnologico] basato sugli scambi»18 interculturali, che avrebbe portato il paese ad assurgere al rango di potenza mondiale già nel 1904, con la guerra per la Manciuria vinta contro la Russia.

2. Pionieri francesi in Giappone: i casi di Moges e Chassiron

Per quel che riguarda invece l’aspetto culturale, non è azzardato affermare che all’epoca del primo Trattato quasi nulla ancora si conoscesse con esattezza in Francia del paese nipponico. Pressoché isolata era rimasta la pionieristica opera di François Caron su Le Puissant royaume du Japon (1639), «destinata a far scoprire agli Occidentali quel paese lontano»19. Caron era giunto in Giappone accodandosi ai mercanti olandesi della Compagnia delle Indie Orientali, i soli che, «non sospettati di “papismo”»20 ovvero di una vocazione missionaria in favore della religione cristiana, ebbero il permesso di mantenere dei legami commerciali con il paese nipponico, il quale dal 1641 li alloggiò in un’isoletta apposita (Deshima) nel porto di Nagasaki. Lo stesso iter seguì il medico tedesco Engelbert Kaempfer: i tre volumi della sua Histoire du Japon, tradotta in francese nel 1729 ma riservata a una élite di eruditi, senza diffusione nella coscienza borghese21, furono la base della quale si alimentò «la riflessione di numerosi autori, tra i quali Voltaire e Montesquieu, e [che] fu una delle fonti principali per la famosa Histoire et description générale du Japon (1736) del gesuita Charlevoix»22.
La menzione di Charlevoix non è priva di implicazioni: riporta Hartman che «nel diciottesimo secolo i giapponesi erano noti ai francesi soprattutto attraverso le storie riportate dai Gesuiti che avevano iniziato a frequentare Nagasaki fin dal sedicesimo secolo23. Di conseguenza il Giappone era visto a volte in modo negativo a causa di questa associazione»24. In effetti, geloso per la salvaguardia della propria identità confessionale, il paese non aveva certo riservato ai sacerdoti un’accoglienza calorosa, come dimostra il caso del frate domenicano Guillaume Courtet, uno dei pochissimi francesi attestati in quel periodo nella zona. Egli, «sprezzando gli editti anticristiani, sbarcò nel 1635 alle isole Ryukyu dove non tardarono ad accorgersi di lui. Un anno più tardi, venne condotto a Nagasaki per morirvi sotto tortura»25, senza certo aver granché contribuito all’instaurazione di un dialogo interculturale.
Era pur vero che, in un’epoca più prossima alla riapertura, Charles Delprat, agente di commercio residente a Nagasaki dal 1853 su autorizzazione olandese, possedeva dei giapponesi un grado di conoscenza bastevole per poter mettere in guardia l’Occidente sulle loro capacità organizzative e intellettuali. All’interno di un articolo pubblicato nel 1856 per la «Revue des Deux Mondes», giungeva a queste considerazioni generali:

Studiando da vicino i costumi, le istituzioni, le leggi dei giapponesi, uno finisce col chiedersi se la loro civilizzazione, interamente appropriata al loro paese, abbia qualcosa da invidiare alla nostra, o a quella degli Stati Uniti […] L’impossibilità della scarsità, l’assenza di tasse, libertà per le persone… questi sono per i giapponesi elementi di felicità e benessere che i loro “would-be civilizers” avrebbero difficoltà a migliorare26.

Ma si trattava del caso particolare di uno dei pochi francesi che aveva avuto fin lì la possibilità di conoscere il paese direttamente: il contesto generale da cui si partiva era innegabilmente più scarno. Come riporta Beillevaire, «fino alla metà del diciannovesimo secolo, il commercio olandese fu lo stretto canale attraverso cui si poté soddisfare una curiosità reciproca […] tale curiosità rimase tuttavia più viva dal lato giapponese»27. A destare impressione, infatti, non c’è soltanto la mera scarsità delle informazioni disponibili, che si sarebbe potuta imputare alle difficili condizioni fisiche e ambientali in cui la relazione era costretta a svolgersi; ma anche e soprattutto il «ben poco interesse» che «i mercanti olandesi […] hanno in fin dei conti mostrato […] verso il paese di cui furono tanto a lungo gli ospiti esclusivi»28. Nonostante la presenza continuativa e sistematica di un presidio europeo nel paese da più di due secoli, i resoconti e i libri pubblicati sull’argomento rimangono tentativi isolati, sporadici, condotti ben più per iniziative singolari che secondo un programma condiviso. Eppure, le potenzialità della sofisticata cultura asiatica si mantenevano intatte: cosicché «quando il Giappone venne aperto all’Ovest […] gli occidentali rimasero sbalorditi dall’informazione e i materiali che emersero da quella misteriosa e dimenticata terra»29.
I primissimi francesi che capitarono in Giappone subito dopo la riapertura delle frontiere si trovavano dunque nella condizione di non avere idee particolarmente precise su quanto vi avrebbero trovato, e a dover fare essi stessi chiarezza sulle poche che già possedevano. Tra le nozioni errate, molto diffusa era ad esempio la concezione «imputabile a Kaempfer, e della quale i primi stranieri a visitare il Giappone un secolo più tardi metteranno qualche tempo a disfarsi»30, di una bipartizione funzionale dei poteri che sarebbe esistita tra imperatore e shogun31: l’uno, il taikun o shogun, «imperatore civile»32; l’altro «ecclesiastico»33, come continua a nominarli nelle sue pagine Alfred de Moges. Ciò che soprattutto rende erronea e insieme difficilmente estirpabile tale concezione, è che la «opposizione tra il religioso e il secolare [coinvolge] concetti estranei alla cultura giapponese»34, e invece saldamente radicati nel pensiero politico europeo.
Nel quadro di questo processo di conoscenza che può avanzare solo attraverso raffronti o «isomorfismi»35, «è ai Cinesi che i Giapponesi vengono immediatamente confrontati»36, ovvero al popolo che più li ricordava a prima vista quanto a vicinanza geografica e costituzione fisica tra quelli già noti all’esplorazione europea. Una delle distinzioni vede per esempio la Cina «pensata come il paradiso dei filosofi» e il Giappone come «quello degli esteti»37, e verrà ripresa con qualche variante da Paul Claudel ancora nel 1923, quando egli definì il popolo cinese come attento «a regolare le relazioni con i suoi simili, a codificare le leggi morali e pratiche»; quello giapponese invece «parte di un insieme separato […] [facente] a meno di ogni contatto col resto dell’universo. Il suo paese è una specie di santuario»38, cristallizzato in una maschera di “adorazione perpetua”.
Alle negoziazioni preparatorie per la stipula del trattato del 1858 partecipa dunque come segretario Alfred de Moges, che riporterà per iscritto le sue impressioni in un lungo resoconto stampato a Parigi nel 1860 per i tipi di Hachette sotto il titolo di Souvenirs d’une Ambassade e Chine et au Japon en 1857 et 1858 – anche qui, sulla scia dell’esperienza biografica, i due grandi paesi dell’Estremo Oriente vengono tenuti in stretta relazione reciproca. All’interno dei suoi testi ricorrono tipiche espressioni di retorica dello “strano” e del “meraviglioso”: dallo stesso aggettivo “étrange” (il gateau francese che si ritrova con stupore durante un pasto «in mezzo a tutte queste novità strane»39; i coolies portatori di bauli al seguito di un daïmio, o principe giapponese, i quali non fanno che «aumenta[re] ancora la stranezza di questi cortei»40; i canabo mohi, o portatori di triangolo, «personaggi così profondamente impregnati di colore locale»41); ai facili superlativi: «il paese è il più pittoresco e il più accidentato del mondo»42; ai paragoni per “analogia di lontananza” con epoche storiche lontane nel tempo tanto quanto il Giappone lo è nello spazio: «i finimenti di questi destrieri [i cavalli dei daïmio] sono ancora feudali e ricordano il Medio Evo»43. Può affiorare poi un moto di rivendicazione esplicita della superiorità occidentale, come nella lettura allegorica con cui viene raccontato lo sbarco dell’ambasciata francese sul suolo nipponico: «Approdammo a terra con difficoltà […] L’ambasciatore [il barone Gros] fu obbligato a passare su una barca di pescatori per abbordare e scalò con una scala la terra per lungo tempo ingrata e inospitale del Giappone, come a rappresentare così la civiltà dell’Occidente venuta infine a far crollare l’antica civiltà giapponese»44. La similitudine conferma il carattere innanzitutto pratico dell’intera spedizione, attraverso l’impiego di un costrutto appartenente al campo semantico dell’edilizia quale «battre en brèche», il quale sottintende la volontà successiva di ricostruire da capo, alla propria maniera, quanto è stato “distrutto”: operando una sorta di sostituzione priva di incroci di una «civiltà» a un’altra. Anche il barone Charles de Chassiron, membro del Consiglio di Stato e ugualmente membro della spedizione di Gros, gli fa eco in questa concezione: quando applaude la «sagg[ezza]» dimostrata degli «ultimi trattati» francesi nel non forzare la mano ai culti locali dal punto di vista della conversione religiosa, ciò si inscrive semplicemente in una strategia di temporeggiamento tesa a cogliere la congiuntura più favorevole, sempre «nell’interesse del Cristianesimo»45. Gli stessi trattati ineguali sono vissuti come «successi», per i quali egli rivendica dal punto di vista storico i meriti europei: «L’America, malgrado le sue iniziative audaci […] sarà a mio avviso grandemente malcapitata, nella sua pretesa di reclamare moralmente un primo posto […] poiché è all’Olanda sola […] che appartiene secondo me l’onore […] di questi medesimi successi»46.
Altre pagine, in Moges, fanno parte del gruppo di quelle «osservazioni, ben incomplete in verità, ma che presentano nondimeno un certo interesse» che è stato possibile fare «sugli usi, i costumi e il governo di questo lontano paese […] di questa curiosa civiltà che si è sviluppata da sola fuori dal contatto con il resto del mondo»47. Alcune di esse denotano una volontà di far chiarezza intorno a certe notizie vagamente ricevute, riportate attraverso la locuzione distanziante «on m’a dit»48 (“Mi hanno detto”), sfatando falsi miti come quello relativo al monte Fukuyama, il quale «non è, come è stato detto, coperto di nevi perenni: perché, quando l’abbiamo visto, non ce n’erano più; i calori estivi l’avevano fatta sciogliere»49. Altre tentano di mettere ordine da sé attraverso tentativi di tassonomia, dall’organizzazione della scala sociale: «i Giapponesi si dividono in nove classi [sociali] e, salvo rare eccezioni, nessuno può uscire dalla classe in cui è nato»50; alle due diverse zone della capitale: «Edo si divide in due parti ben distinte: una tutta ufficiale, attorno al sovrano, triste, calma e sonnolenta; l’altra, rumorosa e popolare, piena di movimento e di grida. Si direbbero due città situate a cento miglia una dall’altra»51.
In questi testi, concepiti come non-letterari e destinati a un fine puramente informativo, l’obiettivo non è porre in discussione l’identità culturale e politica di chi scrive. Essa rappresenta anzi il filtro ben consapevole e ingombrante attraverso cui devono passare tutte le nozioni esterne prima di essere introiettate, se Moges può così commentare la trascrizione dei nomi dei dignitari giapponesi che incontra: «nomi, eleganti senza dubbio in Giappone, ma magari un po’ duri per delle orecchie francesi»52. Parafrasando una nota formula critica di Harold Bloom, la loro domanda non è in prima battuta “Che cos’è in sé il Giappone?”, bensì “Come posso servirmene?”53 Non che nemmeno questo passaggio sia esente da difficoltà. Così annota Chassiron, indulgendo a un raro medaglione introspettivo dopo aver raccontato di un invito a pranzo presso il governatore di Shimoda:

La giornata è finita […] Malgrado tutte le curiosità che mi svela l’ignoto presentandosi di fronte ai miei occhi, vivo delle ore tristi in cui la mia volontà ha le sue debolezze; perché allora penso ai miei affetti che ho dovuto lasciare improvvisamente; penso alla distanza tanto grande che mi separa dal mio paese e dalle mie abitudini, e sento l’isolamento morale in cui la sorte mi ha scagliato in mezzo a stranieri di cui ho visto il volto per la prima volta tre mesi fa54.

È la vertigine dell’uomo di Stato catapultato troppo in fretta («tre mesi») e senza adeguata preparazione in balia di un paese tanto estraneo rispetto al suo, prostrato a livello della percezione fisica («sento») dagli effetti di una prova eccessiva che capovolge tutte le «abitudini» di vita quotidiana. Quando lo sguardo occidentale iniziò a posarsi più attentamente sulla cultura giapponese, requisito non secondario per la riuscita di un tale interessamento fu forse proprio l’eliminazione di quella «distance si grande» e di quella alterità eccessiva che impaurivano gli europei costretti a giocarsela “fuori casa”. Il Giappone venne allora trasferito in loco, diviso in pezzi accuratamente selezionati, nei più confortevoli e conosciuti salotti parigini: il fenomeno che in pochi anni ne germogliò si meritò in breve anche un termine suo proprio. E se dunque il famigerato “giapponismo” fu certamente una moda, si trattò quantomeno di una moda duratura e capace di lasciare effetti profondi nell’immaginario narrativo di almeno due generazioni di francesi. Come riporta Jan Hokenson, Edmond de Goncourt non fu che «il primo a rendersi conto che il fenomeno conosciuto come giapponismo era molto più che una fascinazione»55.
Ma in che maniera vi si arrivò? Già all’interno dei resoconti appena citati è possibile ravvisare in nuce, dietro ai malintesi di una pur effettiva distanza, qualche segnale di autentico apprezzamento legato soprattutto all’educazione e all’accoglienza nella quale i giapponesi si profusero verso l’ambasceria francese anche attraverso l’offerta di numerosi banchetti. Vi trovano spazio pure giudizi più espliciti sul valore intrinseco della loro etnia, modellati nella forma già ricordata del paragone etnologico: per Moges «tutto mostra dunque nell’abitante del Giappone una razza superiore a quella che popola la Cina»56; senza dimenticare poi la continua e ammirata enfasi posta sul «loro avido desiderio di istruirsi»57 (è Moges) e su di una «inclinazione per le scienza esatte [che] è, a quanto sembra, sorprendente»58 (Chassiron).
Eppure, quel che si rivelerà il vero tramite dell’influenza è ravvisabile piuttosto in un passaggio ben meno programmatico del testo di Moges, nel quale il diplomatico descrive una semplice reazione avuta dall’ambasciata di fronte a un «immenso hangar» nel quale i giapponesi avevano riunito apposta per la vendita «tutto ciò che, tra i prodotti del paese, poteva accendere la curiosità degli stranieri»:

Quali grida di entusiasmo non avrebbero emesso le nostre belle signore di Parigi alla vista di tante meraviglie di buon gusto ed eleganza! L’ambasciatore [e tutti i suoi sottoposti] la pensarono come me […] Quando alla fine dei cinque giorni partimmo, si calcolò che i tre bastimenti [francesi] avessero lasciato all’incirca trentamila franchi in acquisti di oggetti laccati, a Simoda59.

L’opinione di Moges sulle “grida” delle dame non era in errore: questo primo e immediato accesso di “follia” consumistica di fronte ai manufatti giapponesi era destinato ad avere un notevole seguito anche in patria. Furono proprio i manufatti e i prodotti visivi il collegamento per eccellenza con un popolo tanto poco intellegibile dal punto di vista linguistico60.

3. Ragioni di un’attrazione estetica

Ma cos’era presente negli ukiyo-e per colpire a tal segno i pittori e gli intellettuali occidentali? Per poter produrre nella loro concezione estetica un rivolgimento la cui portata non si limitava all’«allargamento dell’orizzonte culturale» in senso cumulativo, ma veniva a costituire piuttosto «la scoperta della relatività delle norme artistiche. Prospettiva e armonia, lontane dall’essere un dato dell’esperienza, [venivano] improvvisamente viste come prodotto di una convenzione»61? Senza voler entrare troppo addentro allo specifico pittorico si proveranno a citare almeno gli aspetti più evidenti dal punto di vista concettuale, al di là del più immediato processo di “allargamento del poetabile” riscontrabile a livello tematico attraverso la rappresentazione sistematica dei più svariati elementi, perlopiù naturali, di una vera «enciclopedia visiva»62.
Uno di essi fu sicuramente l’applicazione funzionale, nell’economia interna all’opera, delle tinte e delle tonalità: come venne recepita nell’opera di Paul Gauguin, artista «attratto dall’uso di grandi superfici monocrome»63, nel quale la scelta dei colori iniziò a essere effettuata «non più in base ad un criterio naturalistico di verosimiglianza, ma in base alla funzionalità interna dell’immagine e quindi ad un criterio astratto di reciproche relazioni ed equilibri tra le zone colorate»64. Lo stesso Émile Zola «insisté che la pittura moderna non racconta una storia ma consiste sopra tutto in un assemblaggio di forme e colori, enfatizzando non le cose rappresentate ma la rappresentazione»65. Si tratta di un impiego “tematico”, manipolato dei colori, che si fanno strumento attivo per comunicare indirettamente una sensazione o uno stato d’animo all’intera composizione.
Indichiamo poi la differente gestione dell’inquadratura, del punto di vista autoriale nell’osservazione del mondo, di ciò che si potrebbe rapportare letterariamente al “modo” del narrare secondo la terminologia genettiana, ovvero a quanto pertiene l’atteggiamento di un’opera nei confronti della realtà che rappresenta. È in particolare Edgar Degas ad «assimila[re] i concetti dell’asimmetria e del decentramento dell’immagine che, spesso, continua ad agire anche al di là della cornice. [Egli] si affida, inoltre, alla veduta di scorcio, inventando rapporti sorprendenti tra i pieni e i vuoti della superficie»66. In un quadro come la Femme aux chrysanthèmes (1865), la figura supposta principale (la “femme”) invece che occupare il centro della scena è «relegata sul lato» in una «posa fortuita»67, lasciando dominare piuttosto la macchia naturale dei fiori. Ciò coinvolge anche la rappresentazione del corpo umano, che «nella pittura orientale gode di massima libertà mentre il canone occidentale contempla la figura eretta, quella giacente e poche altre varianti»68. Siamo di fronte a un punto di vista decentrato, de-formalizzato, finanche “straniante” come nell’accezione di Sklovskij69: un’immagine còlta al di fuori dell’impostazione tradizionale, di ciò che risulterebbe atteso, di un mondo fermo in posa. Esemplari in questo senso sono certi disegni dei Manga di Hokusai in cui il volto umano perde la studiata messa in posa del classicismo europeo in favore di una pletora di smorfie e atteggiamenti caratterizzati da parte del soggetto ritratto70. Ciò si accorda con la ricerca espressiva del naturalismo di quegli anni, scevro di codici morali e anestetizzanti, tendente a un’arte “vera”; ma anche con quel che saranno più avanti l’epifania, la neutralità ideologica, lo smarrimento del primo modernismo: un mondo non più colto sotto una luce piena, nell’icona riconoscibile e assimilabile di un ritratto, ma il cui processo stesso di percezione da parte dello sguardo umano viene stressato, esasperato e tematizzato.
Importante si rivela in questo senso la caratteristica bidimensionalità delle stampe, in una assenza di prospettiva per via della quale «non c’è più veramente uno sfondo»71 retrostante rispetto alle figure in primo piano, ma un’unica distesa di linee poste tutte sul medesimo livello visivo. Insieme col mancato rispetto delle proporzioni72 (non una regola costante, ma una soluzione disponibile) e l’«uso di superfici vuote come elemento attivo»73 della composizione, si delinea una gamma di risorse espressive che sembrano abbordare il reale non più come un obbligo tassativo (la «precisione»74 anatomica di Jacques-Louis David) bensì come una possibilità, un palinsesto di forme non rigide suscettibili di essere rese fedelmente anche scartando dalla via prettamente referenziale. Le stampe giapponesi sembrano in effetti dare all’osservatore un’impressione di realtà in maniera lieve, senza mostrare di sforzarsene. Il nitore delle figure delimitate da semplici linee, prive di ombre o giochi di luce, dona loro un’oggettività cristallina, trasparente e non ideologica in grado di prestarsi a qualsiasi sviluppo. La loro adattabilità le rende una forma d’arte non prescrittiva, dalla quale ogni artista può prelevare l’aspetto che preferisce e riadattarlo al proprio sistema poetico come una variabile in ugual modo disposta verso le soluzioni più disparate – tanto che a ben vedere anche gli stessi impressionisti75 giungono nel prodotto finito delle loro opere a risultati complessivamente lontani da ciò che è in sé un ukiyo-e. È nell’atto della rielaborazione che si situa il portato del più autentico milieu giapponista: non «una imitazione del Giappone ma un genio nutriente per l’arte e la letteratura»76.
Uno dei segreti della persistente attrattiva esercitata sull’ambiente culturale francese sarà da ricercare allora nella sua capacità di soddisfare le esigenze estetiche dei due principali movimenti artistici dell’epoca «in cerca di nuovi modelli»77: il simbolismo e il naturalismo. Gli appartenenti a entrambe le correnti egemoni potevano trovare nel linguaggio delle stampe degli spunti coerenti con la loro ricerca, ed esse venivano così a condensare su di loro una gamma di fruitori quanto mai ampia, proprio perché diversificata. I simbolisti soggiacevano alla «religione del bello», dell’arte per l’arte e dell’arte identificata con la vita tutta, che vi vedevano incarnata; e inoltre «il mistero e la bellezza del linguaggio giapponese scritto»78: gli ideogrammi che condensavano in una sola espressione l’immagine e il linguaggio, facendo di ogni significato un vero e proprio “simbolo”, una forma arcana e sintetica di quella forma-calligramma che avrà eco e fortuna in Occidente fino ad Apollinaire e oltre.
D’altro canto, i naturalisti trovavano nelle stampe «il realismo totale, la documentazione […] vita cruda e passione, senza sentimentalità o moralismo»79: non c’era traccia nelle opere orientali dei concetti di censura e di contegno che smorzavano per esempio in Occidente le rappresentazioni erotiche. Se tutto veniva rappresentato come naturale, niente doveva essere nascosto, cancellato, nemmeno ciò che esisteva di più viscido e all’apparenza indesiderabile – un’estetica che, pur partendo da presupposti inizialmente molto distanti, riesce ad accordarsi nei suoi effetti con quella dei tranches de vie realisti, nelle quali l’obiettivo comune resta il «senso del reale»80 anche se declinato in senso ideologico e provocatore.
In generale si trattava di una sorta di “via alternativa” al realismo, che ne ammorbidiva per certi versi i tratti, rimettendone in discussione «le regole più fondamentali e imprescindibili»81, mantenendone però intatta la carica espressiva, e allargando anzi gli orizzonti della singola rappresentazione verso un retro-senso evocativo, comunitario, in cui ogni forma rappresentata, in quanto accomunata alle altre dalla medesima attenzione e trattamento riservatigli, poteva sentirsi anche parte di un “tutto” coeso in senso creaturale ed estetico – concetto peraltro già caro, in una declinazione più arcana e iniziatica, “orfica”, alla poesia simbolista dalle Correspondances di Baudelaire. Un’alternativa chiaramente distinta dalla mimesis occidentale, ma che non ne poneva in discussione i presupposti concettuali – ovvero la rappresentazione del reale – aprendoli a sconfinamenti astratti o soprannaturali; quanto piuttosto la forma e i modi, venendo a costituire per l’arte europea un nuovo modo alternativo di guardare ai medesimi soggetti. Se è vero che il «denominatore comune» delle novità dell’ukiyo-e si ritrova nell’«abbandono del realismo»82, ciò non è dunque da intendersi nel senso di una rottura o di una spaccatura profonda, quanto piuttosto di uno slittamento progressivo.


  1. A partire dal saggio L’effetto di reale pubblicato da Roland Barthes nel 1968 e ora raccolto in Id., Il brusio della lingua, trad. it. di B. Bellotto, Torino, Einaudi, 1988, pp. 151-159.

  2. S. Brugnolo, Il testo letterario e il problema del senso, in S. Brugnolo, D. Colussi, S. Zatti, E. Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, Roma, Carocci, 2016, p. 317.

  3. J. Hokenson, Japan, France, and East-West Aesthetics: French Literature, 1867-2000, Cranbury, Fairleigh Dickinson University Press, 2004, p. 143. Le traduzioni sono dell’autore, ove non diversamente specificato.

  4. E. Said, Orientalismo, trad. it. di S. Galli, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 11.

  5. Un inquadramento sommario delle tesi di Said si trova in S. Zatti, L’universo degli Studies, in S. Brugnolo, D. Colussi, S. Zatti, E. Zinato, La scrittura e il mondo, cit., pp. 368-371.

  6. «Un Eldorado offerto dal Destino; / la Fantasia, che subito si scatena» (C. Baudelaire, Il viaggio, in Id., I fiori del male e altre poesie, trad. it. di G. Raboni, Torino, Einaudi, 2014, p. 217).

  7. «Terre di chimera!» (ibidem).

  8. F. Pessoa, Oppiario, in Id., Un’affollata solitudine, trad. it. di O. Abati e P. Ceccucci, Milano, Rizzoli, 2012, p. 339.

  9. C. Delprat, Le Japon et la question japonaise, Paris, Dentu, 1868, p. 3.

  10. Dal nome dell’era Ansei, che copre il periodo 1854-1860 della storia giapponese.

  11. Il sistema di rigida chiusura nei confronti del mondo esterno in vigore da più di due secoli.

  12. Cfr. M. Nogueira Ramos, Imaginaires et réalités des relations nippofrançaises au XIXe siècle, in D’un empire, l’autre. Premières rencontres entre la France et le Japon au XIXe siècle, a cura di F. Lachaud e M. Nogueira Ramos, Paris, EFEO, 2021, p. 15.

  13. P. Beillevaire, Le voyage au Japon. Anthologie de textes français 1858-1908, Paris, Laffont, 2001, p. 5.

  14. Ivi, p. 6.

  15. Nel 1864 gli sarebbe successo Léon Roches, che «conquist[ò] la fiducia dello shōgun» e «rinforzò la presenza della Francia» (C. Kessler, G. Siary, France Japon: contribution à l’histoire de relations asymétriques, in «Revue japonaise de didactique du français», IV/2, 2009, p. 55).

  16. P. Beillevaire, Introduction a Id., Le voyage au Japon, cit., p. XIV.

  17. Nel 1870, ad esempio, l’ingegnere Henri Auguste Pélegrin fu invitato a dirigere la costruzione del primo sistema di illuminazione a gas del paese; due anni dopo l’industriale Paul Brunat aprì a Tomioka la prima officina moderna per la filatura della seta. Nel 1873 l’esperto di diritto Gustave Émile Boissonade venne inviato in Giappone per portare a termine la costruzione di un sistema di leggi moderne. Anche l’apparato militare fu aggiornato secondo l’esempio del modello francese: già nel 1865 si iniziò la costruzione del cantiere navale di Yokosuka, diretto dall’ingegnere Léonce Verny; e ancora tra il 1886 e il 1890, l’ingegnere navale Émile Bertin sovrintese l’edificazione degli arsenali di Kure e Sasebo, disegnando anche tre bastimenti guardacosta e quattro incrociatori militari come fiore all’occhiello della prima flotta completa messa assieme in Giappone.

  18. J.-L. Armand, La coopération francojaponaise en science et technologie: des pistes de réflexion, in L’empire de l’intelligence. Politiques scientifiques et technologiques du Japon depuis 1945, a cura di J.-F. Sabouret, Paris, CNRS, 2007, pp. 125-140.

  19. J.-M. Thiébaud, La Présence française au Japon, Paris, L’Harmattan, 2008, e-book.

  20. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. VIII.

  21. F. Arzeni, L’immagine e il segno. Il giapponismo nella cultura europea tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 14.

  22. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. VIII.

  23. Come François-Xavier, sbarcato a Kagoshima il 15 agosto 1539. J.-M. Thiébaud, La Présence française au Japon, cit.

  24. E. Hartman, Japonisme and Nineteenth-Century French Literature, in «Comparative Literature Studies», XVIII/2, 1981, p. 143.

  25. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. IX.

  26. R. Sims, French Policy Towards the Bakufu and Meiji Japan 1854-95, Richmond, Curzon Press, 1998, p. 11.

  27. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. VIII.

  28. Ivi, p. IX.

  29. E. Hartman, Japonisme and Nineteenth-Century French Literature, cit., p. 141.

  30. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. X.

  31. Ancora nel 1868 Charles Delprat aveva motivo di protestare contro chi sosteneva che il potere decisionale in Giappone appartenesse al mikado piuttosto che allo shogun: «dichiaro qui, e tutti quelli che hanno potuto, come me, formare la loro esperienza nel Giappone stesso, saranno del mio avviso, che è impossibile posizionarsi più completamente al di fuori della questione rispetto a quanto non facciano costoro» (C. Delprat, Le Japon et la question japonaise, cit., p. 4, in corsivo nel testo).

  32. A. de Moges, L’ambassade du Baron Gros, in P. Beillevaire, Le voyage au Japon, cit., p. 9.

  33. Ivi, p. 11.

  34. P. Beillevaire, Introduction, cit., p. X.

  35. Espressione di Douglas Hofstadter, secondo cui la mente umana “crea significato” attraverso il riconoscimento di somiglianze tra “strutture”. D. R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, trad. it. di B. Veit, G. Longo, G. Trautteur, S. Termini, B. Garofalo, Milano, Adelphi, 1984, p. 54.

  36. P. Beillevaire, Le voyage au Japon, cit., p. 6.

  37. E. Hartman, Japonisme and Nineteenth-Century French Literature, cit., p. 143.

  38. P. Claudel, L’uccello nero del Sol Levante, trad. it. di M. A. Di Paco Triglia, Rimini, Il Cerchio, 1996, p. 32.

  39. A. de Moges, L’ambassade du Baron Gros, cit., p. 8.

  40. Ivi., p. 12.

  41. Ivi, p. 10.

  42. Ivi, p. 6.

  43. Ivi, p. 12.

  44. Ivi, p. 10.

  45. C. de Chassiron, Nagasaki: le comptoir hollandais, in P. Beillevaire, Le voyage au Japon, cit., p. 33.

  46. Ivi, p. 29.

  47. A. de Moges, L’ambassade du Baron Gros, cit., p. 15.

  48. Ivi, p. 12.

  49. Ivi, p. 16.

  50. Ivi, p. 18.

  51. Ivi, p. 13.

  52. Ibidem, corsivo nostro.

  53. O, come preferisce Beillevaire: «“I Giapponesi sono adatti alla civiltà?”, “Dove va il Giappone?”» (P. Beillevaire, Introduction, cit., p. XVIII).

  54. C. de Chassiron, Une invitation à dejeneur chez le Gouverneur de Shimoda, in P. Beillevaire, Le voyage au Japon, cit., p. 27.

  55. J. Hokenson, Japan, France, and East-West Aesthetics, cit., p. 17.

  56. A. de Moges, L’ambassade du Baron Gros, cit., p. 16.

  57. Ivi, p. 13.

  58. C. de Chassiron, Le comptoir hollandais, cit., p. 29.

  59. A. de Moges, L’ambassade du Baron Gros, cit., p. 8.

  60. «Bisogna ricordare che l’ostacolo della lingua e della scrittura è stato per una ventina d’anni all’origine di attribuzioni confuse, essendo quello di Hokusai (Oksai…) uno dei rari nomi conosciuti». G. Lacambre, Les collectionneurs japonisants au temps des Goncourt, in «Cahiers Edmond et Jules de Goncourt», 4, 1995, pp. 164-165.

  61. G. Josipovici, The World and the Book, London, Palgrave Macmillan, 1979, p. 194; cit. in J. Hokenson, Japan, France, and East- West Aesthetics, cit., p. 18.

  62. F. Arzeni, L’immagine e il segno, cit., p. 17.

  63. Ivi, p. 27.

  64. D. Durante, Il fascino del Giappone nell’Impressionismo francese, in «Diario dell’Arte», 22 aprile 2017, <https://diariodellarte.wordpress.com/2017/04/22/il-fascino-dellarte-giapponese-nellimpressionismo-francese/>, url consultato il 15 agosto 2023.

  65. J. Hokenson, Japan, France, and East-West Aesthetics, cit., p. 70.

  66. D. Durante, Il fascino del Giappone nell’Impressionismo francese, cit.

  67. E. Bordenave, Japonisme, de l’art à la littérature. Pour une présentation des concepts et des phénomènes d’influence, in «HERSETEC», III/1, 2009, p. 158.

  68. D. Durante, Il fascino del Giappone nell’Impressionismo francese, cit.

  69. «L’automatizzazione si mangia gli oggetti […] ed ecco che per restituire il senso della vita, per “sentire” gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte» (V. Sklovskij, L’arte come procedimento, trad. it. di C. de Michelis e R. Oliva, in Letteratura e strutturalismo, a cura di L. Rosiello, Bologna, Zanichelli, 1974, p. 51, in corsivo nel testo).

  70. Sull’influenza di questo aspetto in particolare su Toulouse-Lautrec, cfr. G. Sica, Il vuoto e la bellezza. Da Van Gogh a Rilke: come l’Occidente incontrò il Giappone, Napoli, Guida, 2012, p. 75.

  71. E. Bordenave, Japonisme, de l’art à la littérature, cit., p. 156.

  72. Ibidem.

  73. F. Arzeni, L’immagine e il segno, cit., p. 24.

  74. E. Bordenave, Japonisme, de l’art à la littérature, cit., p. 156.

  75. Caso principe di artisti influenzati dall’irruzione dell’estetica nipponica. Cfr. F. Morena, Gli Impressionisti e il Giappone. Arte tra Oriente e Occidente. Storia di un’infatuazione, Firenze, Giunti, 2022.

  76. E. Bordenave, Japonisme, de l’art à la littérature, cit., p. 148.

  77. Ivi, p. 151.

  78. E. Hartman, Japonisme and Nineteenth-Century French Literature, cit., p. 151.

  79. Ibidem.

  80. É. Zola, Del romanzo, in Id., Il romanzo sperimentale, trad. it. di I. Zaffagnini, Parma, Pratiche, 1992, p. 215.

  81. Ivi, p. 151.

  82. F. Arzeni, L’immagine e il segno, cit., p. 24.


The article resumes French encounter with Japan after the reopening of its frontiers in 1853 (Bakumatsu period). After an overview of diplomatic and economic relations between the two countries in the first years, it analyses the case of two early French ambassadeurs, Alfred de Moges and Charles de Chassiron, who have to approach the new country without possessing an adequate knowledge and indulge in some features of the rhetoric of Elsewhere. In the second part of the essay, the possible reasons of the étonnant success that the ukiyo-e prints had in the French artistic circle are analysed, suggesting that they constituted an alternative way to realism, renewing its conventions without destroying them.