«Improgrammata avanguardia». Tempo e riflessività dell’intrigo ne Il fu Mattia Pascal
In questa sede ci proponiamo di rintracciare all’interno de Il fu Mattia Pascal segnali teorici e posture testuali che permettano di far emergere dal testo pirandelliano i semi di quello che Ricoeur, a distanza di quasi ottant’anni dalla pubblicazione del romanzo, individuerà come «carattere riflessivo dell’intrigo» della narrazione contemporanea1. Si presterà attenzione a non compiere anacronismi storico-letterari attribuendo a Pirandello gli elementi estremi caratteristici della letteratura postmoderna, ma tenendo bene a mente ciò che affermava Giancarlo Mazzacurati: con questo testo «l’iniziativa pirandelliana entra […] in una atipica, improgrammata avanguardia» non per «particolare novità d’oggetto o di campo formale, quanto per la rivoluzione strutturale e il salto conoscitivo che l’oggetto vi subisce»2. Tali segnali e tali posture si condensano nella riflessione poetico/estetica e nella concezione, rappresentazione e gestione del tempo (inteso sia narrativamente sia come elemento propriamente concettuale) che il romanzo porta con sé.
Partiamo da una corrispondenza lessicale, o meglio aggettivale, tra due testi critici.
Il primo è un testo di Fulvio Carmagnola dedicato al «tempo del raccontare», che, anche se avente come principale terreno di osservazione il cinema, compie una disanima delle riflessioni teoriche sul rapporto che intercorre tra le complesse concezioni del tempo, inteso a livello tematico/concettuale, e le sue scansioni narrative. Nello specifico il concetto di tempo che interessa la prima parte di disamina teorica è quello dell’atto enunciativo, il tempo che occorre per formulare la rappresentazione narrativa e che dunque rimane nascosto dietro la rappresentazione stessa, che Carmagnola individua inizialmente sfruttando la definizione che ne dà Giorgio Agamben:
il tempo che resta, osserva Agamben, è anche quella frazione o meglio quella sostanza temporale che non è avvertita, una sorta di tempo interstiziale, occultato dalla dimensione maggiore che noi prendiamo in considerazione di solito quando parliamo del tempo. […] Tempo così interno agli atti del pensare e del rappresentare che sfugge del tutto all’attenzione3.
Il secondo è la prefazione di Giancarlo Mazzacurati all’edizione da lui curata de Il fu Mattia Pascal, in cui lo studioso afferma che «si annunciano, col Mattia Pascal, gli eroi della vita interstiziale, sopravvissuti a una catastrofe dell’ideologia ottocentesca di cui solo durante la Grande Guerra si ascolterà per intero lo schianto. Essi chiedono già di vivere non sopra, né dentro, ma sotto la storia»4.
Dalla lettura dei due passi riportati si comprende bene la differenza di contesto e di accezione dell’aggettivo utilizzato: il primo riprende un elemento che Agamben ricava dalla concezione linguistica di Émile Benveniste, cioè «il tempo operativo» di cui il pensiero ha bisogno per formare le parole attraverso le quali esprimersi e «che non può essere rappresentato a sua volta nella rappresentazione che pure in qualche modo lo implica»5 (elemento proprio di qualsiasi momento enunciativo e che nel corso del secondo Novecento potrà essere il punto di partenza per la messa in questione dello statuto ontologico dell’opera narrativa); il secondo fa riferimento a quello che potremmo definire come il tertium datur pirandelliano, quella strada di reazione alla storia e alle sue forme che, rispetto alle tendenze o eroiche o ripieganti del decadentismo italiano, opta per un’«alternativa radicale tutta distesa nel presente» e procede quindi verso l’ «amputazione simultanea di passato e futuro»6.
Tuttavia, potremmo azzardare non solo la pertinenza di ambo le aree di significato al terzo romanzo pirandelliano, ma anche, se non una vera e propria linea genealogica, una precoce sensibilità di Pirandello alla questione del tempo dell’enunciazione (nella fattispecie della narrazione) e della sua rappresentazione, con tutte le necessarie implicazioni. Per questo motivo ci proponiamo di tirare dalla matassa di significati e caratteristiche testuali, metatestuali ed esistenziali che è questo romanzo, alcuni fili che permettano di comprendere in cosa consista il «salto conoscitivo» di cui parla Mazzacurati e cui sopra abbiamo fatto riferimento.
Innanzitutto, il fenomeno più evidente da riscontrare: all’interno della fictio narrativa vi sono dei loci in cui si fa riferimento al luogo e al momento della stesura del libro, punti in cui Pirandello raffigura il momento in cui il fu Mattia Pascal scrive. È il caso di quanto avviene nella Premessa seconda («Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua nell’abside […]»7), ma soprattutto alla fine del capitolo terzo, La casa e la talpa:
Il mio matrimonio, invece…
– Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:
– E come no? Sicuro. Pulitamente…
– Ma che pulitamente! Voi sapete bene che…
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:
– S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono…
Ce l’ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come viene viene.
Coraggio, dunque; avanti!8
Nel primo caso ci troviamo ancora nel limbo proemiale del romanzo e il riferimento deittico al presente della scrittura è coerente con il contesto dell’intero capitolo, ambientato nella «biblioteca intemporale»9 che diventa il luogo del non-tempo (o dell’eterno presente), cioè che permette all’ormai fu Mattia Pascal di vivere «sotto la storia» operando il divorzio da passato e futuro che si riversa anche sul piano più propriamente sintattico-testuale con la scelta dei tempi verbali. Poiché se va tenuto conto di ciò che dice Guglielminetti quando afferma che «non è nel mutamento di tempo del verbo che bisogna cercare l’elemento portante della sintassi narrativa»10, è pur vero che quando ci troviamo nel piano narrativo della scrittura (nella biblioteca appunto) Pirandello/Mattia Pascal fa uso sempre del presente indicativo. Ciò è tanto più evidente se osserviamo il secondo caso di raffigurazione del tempo della scrittura qui riportato. Infatti, nel terzo capitolo da quando il protagonista inizia a narrare i fatti della sua famiglia, e finanche in un locus classico quale quello del ritratto del protagonista, i tempi usati sono l’imperfetto e il passato remoto. Ma quando, nel passo riportato, il precedente discorso sul matrimonio del fratello fa slittare la narrazione dal tempo del racconto al momento della scrittura nella biblioteca, il tempo utilizzato torna subito ad essere il presente della registrazione immediata di ciò che il narratore sta pensando o sta dicendo insieme a don Eligio.
Dal punto di vista narratologico si tratta di quella che Romano Luperini ha definito «la terza parte» della vicenda. Essa «comprende i capitoli finali e iniziali, fornisce la cornice del racconto e suggerisce la prospettiva da cui traguardare le altre due»11 e la sua emersione in questo luogo specifico può esser interpretata in due modi alternativi: o pensando l’intero terzo capitolo come facente parte ancora della «terza parte della vicenda» (e quindi della cornice) e dunque non inizio del racconto come il «cominciamo»12 conclusivo del secondo capitolo faceva supporre, finendo per considerare l’intero romanzo come la storia del matrimonio di Mattia Pascal (per cui il «coraggio, dunque; avanti!»13 che traghetta dal terzo al quarto capitolo sarebbe la vera spinta al cominciamento del racconto); o vedendo questo passaggio testuale come una singola emersione, a racconto già iniziato, del tempo della scrittura, e perciò significativamente come indice di quella precoce sensibilità di Pirandello per il tempo dell’enunciazione di cui sopra.
Propendiamo per la seconda modalità sia per quest’ultimo elemento sia perché altrimenti andrebbe invalidato quanto più sopra osservato per l’utilizzo del tempo presente, che ci permette di individuare, ad esempio, il ritorno al tempo della cornice solo all’estremità ultima del romanzo («– Intanto, questo, – egli mi dice […] Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: – Eh caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal»14).
Questo presente della cornice è l’«eterno presente» della coscienza del fu Mattia Pascal che si dispiega nel racconto e nella riflessione (dal punto di vista macro-tematico «il tempo del soggetto, del suo desiderio e del suo disinganno, che assorbe completamente il tempo storico»15). Se è vero, dunque, che questo romanzo è un «lungo e insistito soliloquio messo in bocca al protagonista»16, esso è la rappresentazione di un individuo impegnato nell’atto dell’enunciazione, che secondo Benveniste è «il fondamento stesso della soggettività e della coscienza»17. Dunque, per un romanzo il cui punto di arrivo è la perdita di identità del protagonista/narratore, il suo trasformarsi in «un simulacro di sé stesso, estraniato dall’esistenza»18, Pirandello utilizza la tecnica narrativa che più fa emergere la coscienza del soggetto nell’atto di rivendicazione della propria esistenza. In sé contradditorio, ciò mostra, a nostro parere, che nel Fu Mattia Pascal si ritrova la tragedia nell’accezione che ne dà Alain Robbe-Grillet: «une tentative de récupération de la distance, qui existe entre l’homme et les choses […]. C’est presque encore une communion, mais douloureuse, perpétuellement en istance et toujours reportée, dont l’efficacité est proportionnelle au caractère inaccessible. C’est un envers, c’est un piège – et c’est une falsification»19. Per questo nel romanzo pirandelliano si trova quella lamentation metaphysique che lo stesso Robbe-Grillet, per esempio, non riconosceva come propria del capolavoro sveviano20 e che nel Fu Mattia Pascal ritroviamo sia implicitamente concettualizzato nella «cosmografia dell’infimo»21 della Premessa seconda, e nell’immagine della «tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette»22, sia esplicitamente esteriorizzato nel capitolo quindicesimo, significativamente intitolato Io e l’ombra mia:
Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo, affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me23.
Nell’interpretazione di Matteo Palumbo questo elemento tragico, derivante dalla condanna all’astensione del protagonista pirandelliano («il supplizio di Tantalo»), è ciò che differenzia il tragitto esistenziale di Mattia Pascal da quello di Zeno Cosini24, e a nostro parere in questo elemento sostanziale è racchiusa la motivazione per cui Il fu Mattia Pascal si trova al di qua del confine delle grandi innovazioni ma allo stesso tempo porta in sé i presupposti per poterlo valicare. Come, infatti, dal punto di vista esistenziale Mattia Pascal non riesce a fare «esperienza dell’“istante”»25 diventando emblema dell’affermazione dell’amor fati come Zeno Cosini26, dal punto di vista narratologico Pirandello non riesce a rinunciare al generale andamento progressivo delle vicende in favore di una struttura radicalmente più frammentaria (come invece sarà la strutturazione in capitoli tematici della Coscienza e tantissime altre soluzioni narrative fino alla fine della narrativa modernista).
Tuttavia, nelle scelte narrative operate in questo romanzo e soprattutto, lo ripetiamo, in quelle relative alla rappresentazione del tempo, vi sono i germi delle più disparate evoluzioni successive.
Innanzitutto, partiamo dalla distribuzione e organizzazione del materiale narrativo. Abbiamo già detto che, differentemente da quanto sarà per la Coscienza, Il fu Mattia Pascal conserva l’andamento cronologico progressivo della vicenda, ma allo stesso tempo introduce una caratteristica che sarà propria del capolavoro sveviano, vale a dire la titolazione dei capitoli, cui fa seguito la creazione di una coerenza tematica interna. I titoli si avvalgono di varie modalità di collegamento al contenuto del capitolo, essi possono essere:
– introduttivi; è il caso del capitolo IV, Fu così, dove viene raccontato come fu che Mattia Pascal si sposò, ricollegandosi dunque logicamente al discorso conclusivo del capitolo III;
– aventi una funzione quasi di «riassunto-rubrica»27, dove cioè si indica il contenuto del capitolo o allusivamente (come per il capitolo XIV Le prodezze di Max), o indicandone un elemento peculiare (come per il capitolo XVI, Il ritratto di Minerva), o metaforicamente (come per il capitolo III, La casa e la talpa);
– una ripresa di un elemento testuale specifico (è il caso soprattutto del capitolo VI, Tac tac tac…, e del XVIII Il fu Mattia Pascal).
Se dunque è vero che il romanzo segue l’andamento cronologico delle vicende raccontate è vero anche che ogni capitolo ha una strutturazione interna di temi che dà identificabilità a ciascun anello dell’opera, che ne fa un elemento strofico all’interno della canzone del romanzo (elementi da collegare, ovviamente, anche alla modalità della pubblicazione a puntate con cui il testo fu pubblicato per la prima volta sulla «Nuova antologia» nel 1904).
Questa modalità può essere accostata alla strutturazione in canti dell’Orlando furioso, dove ciascun canto porta avanti le vicende ma ha in sé la predominanza di un tema solitamente esposto all’interno del proemio. In ambedue i casi, quindi, in una sede anteposta al corpo delle vicende si forniscono modalità e chiavi di lettura per le stesse. A conforto di questo accostamento potrebbe venire la visione che Mazzacurati ha dei giochi che «(segnatamente in Pirandello) si scatenano tra testo e para-testo»28, e soprattutto anche della divisione per sequenze numeriche semplici dei romanzi precedenti, in cui «resta quasi sempre un residuo interno di distribuzione tematica del materiale narrativo, legata a convenzionali idee di durata della lettura, agli spazi di eventuali, precedenti pubblicazioni “a puntate” […] o ad altri resistenti echi di un vecchio impianto a feuilleton, con sospensione calcolata degli scioglimenti ed altri giochi di intreccio variamente ritmati, secondo la doppia esigenza della soddisfazione e del rinvio dell’attesa»29. Inoltre, anche gli elementi della sospensione narrativa, dell’anticipazione o del presagio degli avvenimenti futuri, cui pure fa riferimento quest’ultima citazione, sono riscontrabili nel Fu Mattia Pascal e rinviabili alla concezione ariostesca della suddivisione della materia narrativa. Esempi ne possono essere le conclusioni dei capitoli V («Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le pagine di un libraccio nella biblioteca. Poi servirono per me; e furono – come dirò – la cagione della mia prima morte»30), VI («Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di quello stesso giorno, dovesse accadere anche a me qualcosa di simile»31), XII (il proprio riflesso allo specchio gli preannuncia velatamente che non basterà l’operazione all’occhio per dargli la libertà concludendo «Poi…vedrai!»32) e XV («Rientrando in casa…»33, dove i puntini sospensivi diventano la cerniera di continuità discorsiva al capitolo successivo)34.
Mettiamo ora da parte la similarità tra i due autori cui abbiamo fatto riferimento, e ci rivolgiamo ad un esempio che possa piuttosto darci un’idea della problematizzazione della gestione del tempo della narrazione. Il capitolo VI si apre con un’inquadratura su una «pallottola d’avorio» che corre su una roulette facendo «Tac tac tac…», e su «quelli che la guardavano sospesi nel supplizio che cagionava loro il capriccio di essa»35. Questa sezione opera una «profonda cesura dei legamenti diegetici»36 con il capitolo precedente, delineando il nuovo palcoscenico di questo capitolo, e, contemporaneamente, è il punto di partenza per una variazione nell’assemblaggio delle tessere temporali. Infatti, dopo questa sezione testuale, con la frase «ero capitato là, a Montecarlo, per caso», il narratore fa partire un’analessi interna che narra della disperazione che lo aveva spinto a prendere i soldi lasciatigli dal fratello, del proposito di partire per l’America e del cambiamento di rotta per Montecarlo. Dopo una descrizione dell’impressione che Montecarlo aveva sortito sul protagonista all’arrivo, il flashback va a riallacciarsi alla linea temporale dell’attacco iniziale del capitolo per mezzo della ripetizione dell’onomatopea che lo aveva aperto, e che ne diventa il titolo (appunto Tac tac tac…)37. Troviamo quindi all’interno di un romanzo considerabile interamente come una potente analessi, un’ulteriore analessi funzionale alla distribuzione della materia narrativa e alla coerenza tematica del singolo capitolo.
Il discorso portato avanti fino ad ora ci fa comprendere quanto in questo romanzo del 1904 siano presenti in maniera embrionale o minimamente sperimentata, quelli che poi saranno gli elementi propri della «cronologia spezzata» e della «configurazione pluridimensionale» che le riflessioni teoriche della fine della seconda metà del secolo scorso riconoscevano come caratteristiche del romanzo contemporaneo e si sfidavano a ricongiungere o meno al «mondo della vita»38.
Possiamo trovare sostegno per quest’affermazione, in un’osservazione di Guglielminetti, che nel parlare del tipo di scrittura adottato da Pirandello e che avrebbe fatto correre il rischio al romanzo di «rimanere un brogliaccio d’un copione non sufficientemente sviluppato», afferma:
Forse, però, il modo di liberarsi dagli schemi del romanzo sperimentale era per Pirandello soltanto questo, se pur d’origine spuria: il contrarne una scrittura di tipo funzionale, come quella drammatica, la vantata disponibilità a diventare il documento imparziale di qualche situazione storica, ad offrire l’esempio memorabile dei limiti nei quali sarebbe confinata l’attività dell’uomo. Inoltre, si trattava di far vedere come il succedersi organico dei fatti non avesse alcun significato univoco nella vita dell’uomo, come non esistessero sempre rapporti fissi di causa ed effetto fra azioni e pensiero39.
Qui vi è la chiave di lettura che ci occorre. La letteratura ha avuto sempre una matrice narrativa cui sottostava l’umana necessità esistenziale di ordine e causalità. L’atto mimetico romanzesco con le riflessioni poetiche che lo hanno accompagnato, è stato concepito fino al verismo come il momento della concretizzazione estetica di questa necessità. Con Pirandello entra in crisi la fiducia non soltanto nell’effettiva presenza di una qualche finalità o motivazione dell’esistenza in sé (quindi nell’effettiva esistenza di un qualche «significato univoco della vita dell’uomo»), ma anche nella rappresentabilità di finalità e motivazioni. È questo il motivo per cui il romanzo si apre sotto il segno della dimissione dalla forma-romanzo e per cui nella Premessa seconda Mattia Pascal dice, con parole che a giusto motivo sono diventate celeberrime, a don Eligio:
non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!40.
Seguendo ciò che scrive Mazzacurati, va quindi detto che si tratta di «un testo che, come molti grandi libri del Novecento, appare scritto per essere l’ultimo, per interdire a sé ed alla letteratura ogni continuazione, per essere insomma critica in atto della propria istituzione formale, delle proprie funzioni canoniche, della propria stessa, per quanto stravolta, vocazione alla produzione di figure e significati»41. È in questione la consapevolezza critica di Pirandello rispetto a questo dispositivo letterario in generale e la vocazione metatestuale del romanzo pirandelliano in particolare. Tale vocazione traspare in più di un luogo nel romanzo, come ad esempio la conclusione del terzo capitolo, già precedentemente ripreso in questo elaborato: «– S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono… Ce l’ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come viene viene»42.
È qui messa in discussione la validità e la specificità dei generi narrativi, che trova il suo apice nella concretizzazione delle vicende precocemente umoristiche del Fu Mattia Pascal, poiché il riso umoristico proprio del momento dell’autocoscienza (la «folle risata»43 che arriva nel momento in cui Adriano Meis comprende che la libertà assoluta che credeva di aver conquistato va in realtà letta, capovolgendola, come l’assoluta costrizione, o il «maligno riso»44 che nasce quando si vede «escluso dalla vita») è l’ingresso nella «zona estrema» dove «ogni ordine, gerarchia, separazione fra “generi” e linguaggi si annulla e si rifonda», e perciò «la vanità di ogni ordine della rappresentazione, rispetto ad un referente di verità smarrite, crea di conseguenza contenitori in cui tutto può convivere […] perché tutto è poi di fatto ribaltato lontano dal suo orizzonte di certezza e di funzioni, se davvero la storia, il racconto degli eventi è solo fabulazione e non può dar prova, ragione di nulla»45.
Nel senso ora esplicato, all’inizio dell’elaborato abbiamo sostenuto che in Pirandello si ritrovano i semi di quello che sarà il «carattere riflessivo dell’intrigo». Secondo Ricoeur la narrativa e la storiografia contemporanea operano un approfondimento riflessivo della temporalità per mezzo della tendenza a «decronologizzare il racconto»46, fino ad arrivare ad una implicazione ulteriore:
nella tradizione realista, la fine dell’opera si conclude con quella dell’azione rappresentata. Ma quando l’artificio letterario riflette sul suo stesso carattere di finzione, la conclusione dell’opera è quella della stessa operazione di finzione: “tale rovesciamento di prospettiva caratterizza la letteratura contemporanea” dove l’assenza di conclusione dichiara l’assenza di “soluzione” del tema proposto. Abbiamo così la distruzione della “finzione della fine”, la conversione della fine in un’infinita immanenza47.
Tuttavia, vi è un ulteriore punto di interesse del pensiero di Ricoeur per il nostro caso. Nell’analisi che, in quel fondamentale testo, Carmagnola compie del pensiero di Robbe-Grillet e Ricoeur, egli sottolinea una importante differenza. Robbe-Grillet, di cui lo studioso approccia anche la produzione cinematografica, sostiene che «l’oeuvre n’est pas un témoignage sur une réalité extérieure, mais elle est à elle-même sa propre réalité»48, modificando dunque la prospettiva sullo statuto ontologico dell’opera narrativa e giungendo a fondare una nuova concezione di realismo (che «non consiste nella rappresentazione di una realtà esterna che si presuppone esistente […] ma nella creazione della realtà»49). Ricoeur, invece, sostiene che il racconto ha sempre un riferimento nel mondo, anche attraverso la finzione, e che dunque queste contemporanee modalità di rappresentazione del tempo (spezzato, decronologizzato ecc.) non hanno altra origine che «la frantumazione che segna la nostra esperienza del tempo»50. In quest’ultimo concetto vi è il fulcro della nostra disamina non soltanto da un punto di vista di contenuto esistenziale, cioè perché al centro del Fu Mattia Pascal vi è un individuo il cui tempo soggettivo «assorbe completamente il tempo storico»51 (ed è da questo dato prospettico fondamentale che derivano le singole innovazioni formali e/o strutturali che abbiamo riportato in questa sede), ma anche perché la logica che gli è sottesa, dal punto di vista della «critica in atto della propria istituzione formale, delle proprie funzioni canoniche, della propria stessa, per quanto stravolta, vocazione alla produzione di figure e significati» di cui sopra, procede in maniera speculare a quella di Pirandello nell’ Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Se, in conclusione, è vero che nell’analisi di Ricoeur la frantumazione della rappresentazione del tempo nel romanzo contemporaneo non ha altro motivo che «la frantumazione che segna la nostra esperienza del tempo», è vero anche che l’«arruffìo» e il «macchinismo» inverosimili della composizione romanzesca del Fu Mattia Pascal corrispondono a «tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena» la vita, che «ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire»52; se la frantumazione e la decronologizzazione non sono che lo specchio di un tempo non più percepito come lineare e progressivo, l’estrema inverosimiglianza dell’intreccio narrativo non è altro che la registrazione dell’estrema inverosimiglianza della vita, e quindi la concretizzazione estetica di un più vero realismo.
- Cfr. F. Carmagnola, Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura, Roma, Meltemi, 2004, p. 33. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 190. ↑
- F. Carmagnola, Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura, cit., p. 17. ↑
- G. Mazzacurati, Prefazione, in L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Torino, Einaudi, 2014, p. X. ↑
- G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 67. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 188. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 6, corsivi miei, a indicare l’utilizzo della deissi. ↑
- Ivi, p. 24, corsivi miei. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 192. ↑
- M. Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, Vercelli, Mercurio, 2007, p. 80. ↑
- R. Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 227. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 11. ↑
- Ivi, p. 24. ↑
- Ivi, pp. 279-280. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 198. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 77. ↑
- G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai romani, cit., p. 67. ↑
- R. Luperini, L’allegoria del moderno, cit., p. 235. ↑
- A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, Paris, Minuit, 1963, p. 66. ↑
- Ivi, p. 101. ↑
- G. Mazzacurati, Nota a L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 10. ↑
- Ivi, p. 164. ↑
- Ivi, p. 221. ↑
- Cfr. M. Palumbo, Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo, Roma, Carocci, 2007, p. 198; «Ragionando sul significato delle costrizioni e, tuttavia, esaltando la libertà, quale può derivare dalla sottomissione a obblighi ferrei, imposti da una causa inevitabile, Svevo richiama il nome di Ercole: “È libertà completa quella di poter fare ciò che si vuole a patto di fare anche qualche cosa che piaccia meno. La vera schiavitù è la condanna all’astensione: Tantalo e non Ercole”». ↑
- Ivi, p. 202. ↑
- Cfr. ivi, p. 204: «[per Mattia Pascal] La libertà illimitata e le possibilità infinite si riveleranno un fragile sogno, destinato subito a soccombere. Zeno, al contrario, sancisce la propria sintonia con la totalità del mondo dopo la malattia, quando questa si è ormai definita come una proprietà ineliminabile di ogni soggetto, ignaro o no che egli lo sia. Precisamente con questa consapevolezza Svevo afferma perentoriamente l’amor fati, che significa consenso a tutti gli eventi che essa contiene. Pirandello, in senso opposto, svaluta il significato di tutto ciò che accade, ritrovando, nello svolgersi beffardo e incontrollato dei casi, l’impronta dell’insignificanza». ↑
- G. Mazzacurati, L’arte del titolo, da Sterne a Pirandello, in «Modern Language Notes», vol. 106, n. 1, 1991, p. 45. ↑
- Ivi, p. 56. Questi giochi distinguono l’utilizzo pirandelliano dei titoli da quello che ne hanno fatto le sue fonti, come ad esempio lo Sterne del Viaggio sentimentale che utilizza «un nome, un luogo, un oggetto, una figura, capace di dar conto (insieme ad altri precedenti, compresi alcuni voltairiani) di alcuni fenomeni di riduzione e di ellissi o di condensazione». ↑
- Ivi, p. 43. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 61. ↑
- Ivi, p. 80. ↑
- Ivi, p. 180. ↑
- Ivi, p. 223. ↑
- Dell’accenno alla suggestiva similarità tra le gestioni della materia narrativa dei due autori (e in maniera paradossale della loro enorme distanza) potrebbe render conto il nucleo conclusivo di questo elaborato, se confrontato con un’osservazione di Emilio Bigi: Ariosto concepirebbe la letteratura in genere come «un complesso di forme […] attraverso le quali gli scrittori, da Omero in poi, hanno cercato e cercano variamente di rappresentare efficacemente e al tempo stesso di ordinare e disciplinare la vitale irrazionalità […] dell’esistenza umana. Ma, al contrario di altri suoi immediati predecessori, […] l’Ariosto è anche ben consapevole […] dei limiti della letteratura stessa, della sua distanza dalla concreta esperienza effettuale» (E. Bigi, [Recensione a] Maria Cristina Cabani, «Fra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel “Furioso”», in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», vol. 170, n. 549, 1993, pp. 605-606). Nel romanzo pirandelliano ci sono i semi della crisi finanche di questa pretesa: la letteratura non avrà più la capacità di raccogliere la realtà operando un processo di significazione. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 62. ↑
- G. Mazzacurati, Nota a L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 62. ↑
- È questo un esempio anche dei «giochi» che si scatenano tra testo e paratesto cui Mazzacurati fa riferimento nel contributo sopracitato. ↑
- Cfr. F. Carmagnola, Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura, cit., p. 35. ↑
- M. Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento, cit., p. 84. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 8. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 214. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 24, corsivi miei. ↑
- Ivi, p. 145. ↑
- Ivi, p. 222. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., pp. 217-219. ↑
- F. Carmagnola, Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura, cit., p. 33. ↑
- Ivi, p. 34. ↑
- A. Robbe-Grillet, Pour un nouveau roman, cit., p. 166. ↑
- F. Carmagnola, Il tempo del raccontare nel cinema e nella letteratura, cit., p. 22. ↑
- Ivi, p. 35. ↑
- G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 198. ↑
- L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 284. ↑