e. r. curtius, letteratura europea e medio evo latino, a cura di r. antonelli, macerata, quodlibet, 2022, 924 pp.
A distanza di circa trent’anni dall’edizione de La Nuova Italia, Quodlibet ha ripubblicato Letteratura europea e Medio Evo latino (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter) con un nuovo breve testo introduttivo di Roberto Antonelli, che si aggiunge all’apparato degli anni ’90. Apparso nel 1948, due anni dopo l’altro opus magnum della romanistica tedesca, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur di Erich Auerbach, Letteratura europea era il risultato finale di una riflessione – sviluppata negli anni di esiziale trasformazione della Germania da Weimar al Reich – in cui due ‘vettori’ di pensiero si intersecavano in modo inscindibile: una progressiva mutazione intrinseca alla ‘teoria’ o, meglio, ‘prassi’ critica dello storicismo tedesco del primo Novecento e una concezione dell’attività culturale come attività di risposta dialettica nei confronti del presente da cui emergeva.
Muovendo dal paradigma biografistico ereditato dalla Romantik e da Wilhelm Dilthey, secondo cui il gesto ermeneutico è saldato attorno a Leben und Werk, la vita e l’opera, in Curtius quel gesto mutava verso una concezione del materiale letterario come documento di qualcosa di storico, sì, ma in un certo senso svincolato dall’Erlebnis, l’“esperienza vissuta”, dell’autore e saldato innovativamente a una centralità dei contenuti testuali, al punto da far presagire esiti teorici più tardi. Parallelamente, da Gaston Bachelard in poi, si sviluppava la thématique francese, e in Marcel Proust germinava la lunghissima riflessione antibiografistica a cui riuscì a dare forma solo nel ’54 con la pubblicazione di Contre Sainte-Beuve, ma che lo accompagnò sin dagli anni ’10 e per tutta l’elaborazione della Recherche. La Germania e la Francia, dunque, non a caso asse geografico-culturale in cui si custodisce il cuore simbolico dell’operazione dell’alsaziano Curtius, la cui analisi era tutta volta a far emergere sulla lunga durata le costanti di un’archeologia culturale: le prove dell’unità della letteratura europea come durevole imitatio, seppur per «superamento» (Überbietung), dei topoi sedimentatisi al passaggio dalla cultura tardo-romana a quella medievale ‘carolina’. Quella che Curtius disperatamente ricercava era ovviamente un’unità del Geist o, addirittura, del Volks-Geist, percepita come in pericolo:
Il mio libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale. Tenta infatti di mettere in luce con nuovi metodi l’unità di questa tradizione nello spazio e nel tempo. Nel caos spirituale contemporaneo è divenuto necessario, ma anche possibile, dimostrare questa unità. Ma ciò può essere fatto solo da un punto di vista universale. Questo punto di vista è offerto dalla latinità (p. 7).
Seppur gli incriminati processi socio-politici in atto nell’Europa e, in particolare, nella Germania del primo Novecento siano difatti quelli che conducono ai totalitarismi, bisogna dire che Curtius temeva nello specifico i possibili esiti della trasformazione della vita collettiva e politica come vita determinata dalla massificazione; temeva, dunque, la crisi dell’egemonia culturale, che era stata anche egemonia letteraria, della grande borghesia europea. Il suo gesto critico è un gesto pensato come risposta – se non altro individuale, isolata, nelle campagne tedesche come quella di Auerbach nelle biblioteche turche – alla crisi.
Ma qual è l’utilità di una riattualizzazione dell’operazione di Curtius nell’attuale scenario critico? In primis, ragionare sull’utilizzo che Curtius compie della nozione, tratta dalla retorica, di topos in quanto locus communis, non può che stimolare una ancora attuale problematizzazione della polarità fondativa del moderno pensiero estetologico occidentale: quella tra forma e contenuto e, di conseguenza, quella fra indirizzi metodologici sbilanciati verso lo studio dell’una e dell’altro. Nel 1993, Werner Sollors, curando il volume collettaneo The Return of Thematic Criticism, aveva fornito un utile contributo all’indagine di un problema teorico cogente, mettendo tra parentesi quella che potremmo definire l’“ideologia della forma”, in quanto indirizzo teorico prevalente del Novecento, e riconducendola alla sua dimensione storica, ma anche interrogandosi sulla possibilità di intendere il tema e il motivo come categorie formali. Parlare di topoi indubbiamente evoca un elemento che pende dal lato del contenuto, ma leggendo Letteratura europea – ecco, dunque, un elemento di rinnovata attualità – emerge un interesse non puramente tematologico, bensì riguardante la forma del contenuto, riguardante le costanti che presiedono all’organizzazione morfologica di un certo tema. Così, l’appello al lettore è formalizzabile in quanto costante retorica; il locus amœnus in quanto costante cronotopica; il liber mundi o il theatrum mundi in quanto costanti figurali.
Roberto Antonelli ha insistito molto sull’aspirazione pedagogica del libro di Curtius, inteso come manuale per la Bildung culturale del giovane borghese europeo. Letture attualizzanti porterebbero a interrogarci su quanto il modello di canone europeo proposto da Curtius, oltre che il modello di ‘salvazione’ del presente attraverso il ricorso alla tradizione, sia funzionale al nostro tempo. Ci interessa, però, di più osservare che, già a metà Novecento, la funzione simbolica di Letteratura europea produceva una soluzione immaginaria a un conflitto reale: proprio quando l’egemonia culturale borghese vacillava di fronte all’incedere della società di massa, proponeva un’utopia di ‘consociazione’ per via culturale e razionale, mentre l’Europa sceglieva irreversibilmente, come ha insegnato, tra gli altri, George Mosse, la via del sangue e delle mitologie politiche. Inoltre, se l’Europa di Curtius possedeva, in una certa misura, un’unità simbolico-culturale e non possedeva un’unità politico-burocratica, oggi la situazione sembra essersi pressoché ribaltata.
Resta poi di particolare interesse, altro motivo d’utilità della ripubblicazione, indagare la sintonia di Curtius con una temperie culturale che in un’epoca di crisi insistette su quella che potremmo definire un’ermeneutica stratigrafica. Tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30, di fronte alla crisi e al Gefahr, al «pericolo» in cui essa trascinava l’Europa, Curtius fu segnato da due incontri: partecipò con stupore alla conferenza romana, presso la Hertziana, in cui Warburg presentò il progetto del Bilderatlas (lo studioso sarebbe morto dopo poco), ed entrò in cura con Jung. C’è, in Letteratura europea, in cui il nome di Warburg spicca cripticamente come dedicatario, un’idea di continuità archetipica delle forme della cultura che chiaramente aveva trovato nel lavoro di Jung e Warburg la sua realizzazione se non altro più originale. Da Warburg, Curtius attingeva indubbiamente la suggestione di una morfologia della cultura resa possibile attraverso l’individuazione della persistenza (Nachleben) – e l’associazione, il montaggio, tecnica modernista per eccellenza – di «engrammi», tracce culturali sedimentate nella memoria. La loro riconduzione, in Curtius, al concetto di Pathosformeln non è, però, affatto immediata. Il recupero dei tratti dell’antico da parte del primo Rinascimento italiano, così come letto da Warburg, conservava non tanto le tracce di una quieta armonia, bensì quelle di una superlativa gestualità emozionale, caratterizzata intrinsecamente come una testa di Giano per la sua doppiezza: gesti dell’antico vennero ripresi nel Rinascimento attraverso un’«inversione energetica», gli estremi di passioni opposte erano mimati a specchio, con le stesse forme. Ma l’intuizione delle modalità d’inversione energetica come modalità di coincidentia oppositorum getta una luce sull’interesse per il pensiero tipologico-figurale condivise da una generazione di intellettuali di area tedesca; uno su tutti Auerbach, ma si potrebbe citare anche Walter Benjamin (la sintonia tra i due, su questo punto, già intuita da Agamben, è stata di recente indagata da Leonardo Arigone in Erich Auerbach e Walter Benjamin tra figura e Jetztzeit, edito per Mimesis nel 2020). Il fatto che fu una generazione di intellettuali che concepì il gesto critico come gesto di risposta al pericolo non è, forse, slegato da quell’interesse. In Auerbach, il tentativo di salvare il passato trovava una soluzione che potremmo definire più genealogica, in cui il rilevamento di uno schema è sempre rilevamento di un processo storico. Così, la Stilmischung creaturale cristiana è, sì, anticipatrice di quella laica e moderna del romanzo francese ottocentesco, ma lo è fino a un certo punto, e per motivi spiegabili storicamente. In Curtius, invece, si trovava una soluzione effettivamente più archeologica, in cui il rilevamento di un’analogia è fissato nella sua essenza: «Orazio e Diderot»… Eppure, per tutta questa generazione di intellettuali, la ricerca storica si realizza nel momento del pericolo, e il momento del pericolo è il momento in cui si attiva uno spazio di conoscibilità. È la scommessa espressa in maniera irripetibile, e drammatica, da Benjamin nelle tesi Sul concetto di Storia: «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo». Ci può dire ancora qualcosa, nei pericoli di oggi, l’idea di chi crede di dire quando si paventa la crisi?