«Un fallimento di presenza»: l’eerie in Dissipatio H.G. di Guido Morselli
1. Questione di agentività
Ogni qualvolta ci si prova a confrontare con le voci post-apocalittiche o distopiche della letteratura italiana, emerge dalle pieghe di manuali, saggi e studi il nome dell’outsider Guido Morselli. Cadendo proprio quest’anno il cinquantennio della sua scomparsa (luglio 1973 – luglio 2023) aumenta il bisogno di rimettere in circolazione l’ermetica sapienza che emerge da alcuni originalissimi romanzi dello scrittore bolognese quali Contro-passato prossimo, Roma senza papa, Dissipatio H.G.; considerata la sua tardiva consacrazione, restano aperti molti spiragli interpretativi della sua scrittura irrequieta e polisemica1. Alla luce dell’attenzione sempre maggiore riservata in accademia ai modi del (post)apocalittico e del distopico, potrebbe essere opportuno riflettere sulla tangenza tra simili modalità letterarie2 e il permeabile diaframma che tiene distinta fattualità e finzionalità, nonché sui modi in cui l’agentività viene letterarizzata. L’opera matura di Morselli, e mi riferisco a Contro-passato prossimo e soprattutto a Dissipatio H.G. sembra essere infatti tesa ad uno scavo de-ontologico volto ad instaurare dei turbamenti dello stato della realtà e della Storia3.
Si vuole qui proporre una lettura inedita proprio dell’ultimo romanzo morselliano4, scritto poco prima del suicidio e pubblicato postumo, dal momento che ivi assumono forma letteraria una serie di figurazioni e atmosfere narrative particolari e di difficile circoscrizione. Ci troviamo di fronte al romanzo-epilogo di un autore dalla personalità assai solitaria, più correttamente solipsistica, dotato di una coerentissima visione del mondo sorretta da un pensiero filosofico che abbraccia l’eredità leopardiana e si tiene lontano dal soggettivismo di stampo romantico. Il testo è esile di eventi ma potentemente speculativo, al punto che Igor Pelgreffi ha definito il romanzo «[…] quasi senza trama ed anzi organizzato attorno all’enigmatica rarefazione delle coordinate di orientamento canoniche»5. Il protagonista anonimo (che coincide con il narratore, offrendoci in tal modo una presa diretta per tutta la durata del racconto) è un uomo che ha deciso di suicidarsi nella notte tra l’1 e il 2 giugno di un anno imprecisato, alla soglia dei suoi quarant’anni (macabra prefigurazione di un gesto reale?). Il tentativo di suicidio fallisce per mancanza di volontà, e una volta riemerso dalla grotta nel quale sarebbe dovuto precipitare, il protagonista scopre che l’intero genere umano è scomparso senza lasciare tracce. O meglio: di tracce materiali di presenze umane passate è piena la realtà che l’Ex-uomo o Ultimo Uomo (definizioni dello stesso autore) inizia ad attraversare in una circoscritta peregrinazione tra le montagne sulle quali abita e la città di Crisopoli (trasparente allegoria di Zurigo secondo la maggior parte della critica). Il racconto, dispiegato quasi del tutto al tempo presente, è intervallato da continue analessi costituite dai ricordi del protagonista, facendo del romanzo quasi una giustapposizione di fotografie da “prima e dopo”: gli stessi luoghi, descritti con minuzia nella pervasività dell’antropico, appaiono adesso identici ma del tutto spopolati. Cosa è successo all’umanità? La domanda perseguita il lettore ancor prima che il protagonista il quale, passati i primi momenti di terrore e di horror vacui, inizia a speculare attorno a due questioni: dove sono finiti tutti gli abitanti di Widmad e Crisopoli (e forse dell’intero pianeta)? Cosa giustifica la diversità della propria condizione, cioè la grazia (o la condanna) che gli ha permesso di salvarsi e non vaporizzarsi come tutti gli altri? Le risposte faticano ad arrivare, e persiste un dubbio solidissimo sullo statuto di realtà degli avvenimenti raccontati. L’umanità è davvero scomparsa, e dunque il romanzo va interpretato come una distopia dell’Ultimo Uomo, o è tutto frutto della mente del solipsistico protagonista?
Sulle possibilità di inserire Dissipatio H.G. nel genere o filone distopico o post-apocalittico sussistono alcuni legittimi dubbi. Il paradosso generale di tutti i racconti post-apocalittici (quale narratore può prendere la parola e raccontare se l’umanità è stata annientata?) è aggirato attraverso il ricorso alla modalità del racconto dell’“Ultimo Uomo”, unico sopravvissuto nel mezzo dell’evaporazione dell’umanità (e proprio come “evaporazione” va infatti tradotto il termine latino dissipatio, omaggio morselliano alla filosofia neoplatonica di Giamblico). Tuttavia, rispetto alle regolari distopie, mancano qui le coordinate interpretative di un tale disastro; nulla viene detto sulle cause tecniche e concrete della dissipatio. Lo stesso narratore, con demistificazione umoristica e piglio metanarrativo, nega che la sua situazione possa ricevere le spiegazioni canonicamente riservate a simili eventi nel genere distopico:
Contro questa inspiegabilità, non faccio tentativi. Non ho velleità di scienza; nemmeno, lo noto a mio onore, di fantascienza. Non ho pensato a un genocidio a mezzo di raggi-della-morte, a epidemie sparse sulla Terra da Venusicoli malvagi, a nubi nucleari da remote esplosioni. Ho sentito subito che l’Evento non può ridursi alle consuete misure. Scire nefas. Aggiungo: ridere licet, visto che io (io) sono lo Spettatore6.
L’assenza di una possibile, utile interpretazione dei fatti ha portato Francesco Muzzioli ad utilizzare per questo romanzo la dicitura di «distopia astratta» o «distopia pulita»7, dal momento che, qualunque sia stato il tipo di apocalisse di cui i lettori possono apprezzare il risultato, questo ha lasciato il mondo completamente intatto rimuovendo soltanto l’uomo, vero elemento inquinante e nota stonata in un ecosistema che ritrova rapidamente il proprio equilibrio dopo la purificazione dall’umano8.
Tra i precedenti delle distopie dell’Ultimo Uomo vale la pena nominare per lo meno il romanzo The Purple Cloud (La nube purpurea) di Matthew Shiel9, pubblicato nel 1901, celebrazione del solipsismo di un superstite di una spedizione polare che, perso tra i ghiacci del Polo Nord, apprende che il resto dell’umanità è stata sterminata da una enorme nube violacea di cianuro. Se la distopia di Shiel è organica e motivata all’origine, la maggiore differenza riscontrabile in Dissipatio H.G. è proprio la mancanza di qualunque spiegazione dei fatti, che porta il protagonista-narratore a sempre più fantasiose illazioni.
Sussiste tuttavia un quid nell’atmosfera diegetica di questo romanzo, consistente per la precisione in un certo avvertimento del perturbante che coglie il lettore nel momento in cui si confronta con le pagine di Morselli. L’assenza di individui in spazi spopolati che dovrebbero però risultare abitati genera nei lettori un senso di inquietudine peculiare e inspiegabile, legato alla difficoltà dell’indicare con precisione la sorgente del turbamento o della paura. Cominciamo proprio dall’incipit in medias res che, con l’insistenza sul relitto, porta alla luce il problema dell’agentività nei seguenti termini: «Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’»10. E ancora, altrove:
Crisopoli è vuota. Ordinata, tranquilla, nelle strade, nelle piazze, sui quais come in centro, quale doveva essere quella notte, alle 2; ma vuota. Quanti erano? quattrocentomila, quattrocentoventimila. Comunque, erano. […] Di corpi, sotto la pioggerella di giugno, non c’è traccia a Crisopoli. Rimane ciò che pur essendo corporeo, non era organico. Il minuto lordume delle vie, i biglietti usati del cinema, le scatole vuote di sigarette; rimangono le insegne al neon (e sono accese), i getti d’acqua delle fontane, le auto, in fila sotto i palazzi, nei viali del parco. La Città d’Oro è intatta11.
Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, le case non hanno luci. Posso spegnere anche le luci dell’auto, non incontrerò nessuno, nessuno dovrà farsi da parte. Non vedrò un viso, non udrò una voce. […] Dove sono andati. Perché sono andati12.
A Lewrosen c’è un collegio che ospita venti o trenta ragazzi, è aperto, l’ho percorso dalla prima all’ultima stanza; nel dormitorio, vicino a ogni brandina, le scarpe e i vestiti dell’occupante, ordinati con una precisione casermesca, che niente, nessuno aveva scomposto. Qui le luci erano spente: non una voce, non un passo. Non ho insistito a cercare. Mi sono seduto su una panchina del viale di Lewrosen, prestando un orecchio al silenzio. Che poi non era totale, quindi non pauroso; […] Eppure il silenzio gravava e io lo registravo con un senso diverso da quello uditivo, forse emozionale, forse riflesso e ragionante. Ciò che ‘fa’ il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza13.
Tentavo di realizzare la situazione, più specialmente la mia, senza allarmismo, senza illazioni fantasiose. Questa non è l’Antartide, […] qualcuno, alla fine, dovrà lasciarsi vedere.
Nessuno si è lasciato vedere. […] Tutto, dai sobborghi al centro, chiuso, silenzioso, vuoto. Tutto a posto e in ordine ma immobile e fuori del tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose, e non si vedeva un uomo. Non ne rimaneva uno. […] La città intatta, appena abbandonata, è già archeologia. Non hanno lasciato un messaggio decifrabile. Hanno lasciato invece tutte le loro cose14.
Sono a Widmad. A chiedermi se non l’ho sognata, inventata, quest’ansia parentetica di umanità15.
Setacciando la casa di due pastori di sua conoscenza, il Superstite si scopre intento a sperare che questa scomparsa generalizzata possa essere reversibile; tuttavia, c’è posto soltanto per ipotesi più stravaganti:
Anche Giovanni e Federica sono stati presi nel sonno: le coltri del grande letto matrimoniale ancora composte, tese sulle persone che non ci sono più. C’è l’incavo che hanno lasciato ‘sfilandosi’ dai loro posti; non scendendone lateralmente come si fa quando ci si alza. E dopo che si sono sfilati dal letto, come e per dove sono usciti? La porta è chiusa a chiave dall’interno, e la chiave nella toppa.
Si sono volatilizzati e poi sono stati aspirati fuori dal letto, fuori da casa loro? magari attraverso il camino? In questo caso (mi viene in mente) il processo potrebbe non essere irreversibile. O non del tutto irreversibile […] Ecco, l’immagine di un’umanità resa volatile e che si sia diffusa, disciolta, nell’atmosfera, mi si è già affacciata e l’ho respinta. Invece, concorda coi fatti. È favolosa, ma non è favoloso tutto?16
È possibile provare a spiegare queste atmosfere ricorrendo a numerose caratterizzazioni topiche afferenti alla sfera dell’insolito, del lugubre, dell’inquietante e dell’angoscioso; tutti dispositivi estetico-narrativi propri anche del distopico. Una perimetrazione più precisa di questo senso di inquietudine viene dalle pagine assai interessanti del saggio di Mark Fisher17 The Weird and the Eerie. Il saggio in questione rappresenta uno studio sui generis su due categorie estetiche individuate dal filosofo in più prodotti transmediali. La prima di queste è il weird, lo strano, definito come «[…] ciò che è fuori posto, ciò che non torna. Il weird apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso, e che non si riconcilia con il ‘casalingo’ (neppure come sua negazione)»18. E ancora, poco oltre, è detto weird:
[…] un particolare genere di perturbazione. Chiama in causa un senso di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui. Eppure, se l’entità oppure l’oggetto è effettivamente qui, allora le categorie utilizzate finora per dare un senso al mondo non possono essere valide19.
Il concetto di eerie viene spiegato a partire da un confronto serrato con la categoria estetica di weird, con la quale condivide alcuni tratti e se ne discosta per altri. Fisher spiega che:
Il tratto comune di weird e eerie è un’ossessione per ciò che è strano. Strano, non raccapricciante. […] Ha piuttosto a che vedere con l’attrazione per l’esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune. Quest’attrazione comporta di solito una certa dose di inquietudine […]20.
Un diretto precedente teorico e filosofico di questa idea è costituito del ben più noto concetto di Unheimliche, il perturbante freudiano. Il saggio sul perturbante21, nota Fisher, ha avuto particolare fortuna nell’analisi del fantascientifico e dell’horror novecenteschi proprio perché presenta una serie di esempi, basati per lo più sul doppio e sullo sdoppiamento, che evocano particolari tipi di inquietudine. Al pari del weird e dell’eerie, l’Unheimliche freudiano non è definibile come un genere letterario o culturale; è piuttosto una modalità, un tipo di sensazione o una categoria estetica. Tuttavia, c’è un diverso trattamento dello strano nell’eerie rispetto al weird o al concetto freudiano:
L’Unheimlich di Freud riguarda lo strano all’interno del familiare, lo stranamente familiare, il familiare come strano – il modo in cui il domestico non coincide con sé stesso. […] Il weird è ciò che è fuori posto, ciò che non torna. Il weird apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso […] anche l’eerie riguarda in modo fondamentale l’esterno […] Il senso dell’eerie è di rado ancorato a spazi domestici circoscritti e abitati: lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati dalla presenza umana. Che cos’è avvenuto per originare quelle rovine, quell’assenza? Che genere di entità è coinvolta? […] l’eerie è fondamentalmente legato a questioni di agentività (agency)22.
Uno degli aspetti più interessanti rilevati nella nostra rilettura di Morselli è constatare come l’eerie lavori frequentemente attorno alla diade presenza/assenza, rispondendo a domande quali «Perché qui c’è qualcosa quando non dovrebbe esserci niente? Perché qui non c’è niente quando dovrebbe esserci qualcosa?»23. Se, come si è detto, il weird gioca sulla presenza di qualcosa che non è al suo posto l’eerie, al contrario, è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza.
2. L’eeriness totale e il mondo-senza-di-noi
Discostandoci per un attimo dai passaggi fantasiosamente speculativi e dalle lunghe descrizioni dell’assenza dell’umano, c’è un elemento inaspettatamente (o prevedibilmente?) eerie nella narrazione di Morselli, cioè il Capitale finanziario. Le dispregiative descrizioni della cupidigia e della logica del profitto degli abitanti di Crisopoli, vero centro della finanza mondiale, sposano coerentemente la rassegna di istituti di credito e finanziari che Morselli affianca all’elenco delle chiese della città, quasi a voler suggerire che il capitalismo sia la sola vera religione del mondo contemporaneo24. E se la speculazione finanziaria è, per antonomasia, il massimo della distanza e dello scollegamento dall’economia reale, non possiamo non pensare che essa costituisca il (critico) contrappunto economico all’evaporazione degli esseri umani. È stimolante un confronto con le osservazioni di Mark Fisher sull’eeriness del Capitale:
Il capitale è ad ogni livello un’entità eerie: comparso dal nulla, esercita cionondimeno maggiore influenza di qualsiasi entità che sulla carta dovrebbe essere concreta. Lo scandalo metafisico del capitale ci conduce alla questione più ampia dell’agentività dell’immateriale e dell’inanimato […]25.
Apre alla dimensione eerie anche un dettaglio testuale non del tutto trascurabile. Alla fine del secondo capitolo, dopo aver ripercorso mentalmente le tappe del proprio mancato suicidio, il protagonista riporta di aver sbattuto molto forte la testa contro una roccia all’uscita della caverna. Il rumore dell’urto viene sovrascritto da un roboante tuono che va poi riecheggiando nella vallata:
Alle 0,45, stavo già tornando lungo il cunicolo. Nel passo di uscirne, ho dato a piena testa contro uno spuntone di roccia. Una capata tremenda, da rintronarmi, e proprio nello stesso attimo un fragore di tuono percorreva la valle, nera come la caverna che avevo lasciato. Il primo temporale della stagione26.
Quello che colpisce è la consonanza tra questo passaggio e certi tradizionali dispositivi di suspense che si incontrano nel romanzo gotico, horror o soprannaturale otto-novecentesco; in tali casi, il tuono (che è componente essenziale del paesaggio temporalesco tipico del genere) o si trova a sovrascrivere con il suo suono altri movimenti e/o contatti tra oggetti, oppure riecheggia indisturbato al centro della scena, segnalando spesso l’avvio della peripezia orrorifica o l’intensificarsi di un’attesa drammatica. In quanto presenza sonora ma invisibile e intangibile, il tuono è indice privilegiato dell’eerie, dal momento che gioca proprio sulla diade presenza/assenza; nel caso del testo in analisi, rimane la possibilità che il tuono (ed il colpo alla testa subìto dal protagonista) segni il passaggio dal mondo familiare dell’umano al mondo “esterno” dell’inspiegabile in cui si verifica la dissipatio; l’ipotesi sarebbe sorretta dalla congruenza temporale con quanto afferma il narratore-protagonista, cioè che l’evaporazione dell’umanità si compie proprio in quel frangente della notte tra l’1 e il 2 giugno.
L’improvvisa evaporazione dell’umanità, dunque, spinge il protagonista al di là della barriera della realtà e del plausibile, a confrontarsi con un fastidiosissimo senso di unhomeliness, non familiarità. Le difficoltà nel circoscrivere con concetti e categorie umane qualcosa di costitutivamente impensabile (il non-umano) vengono messe in luce, in maniera imperfetta ma assai originale, da Eugene Thacker, filosofo nichilista associato alla corrente del Realismo Speculativo, sorto e sviluppatosi negli Stati Uniti a partire dagli anni 2000. È possibile incontrare nel suo pensiero asistematico una serie di teorie che informano la nozione di eerie proposta da Mark Fisher. Nel popolare saggio In the Dust of This Planet, Thacker ci mostra come il mondo contemporaneo riveli una natura sempre più inspiegabile, catastrofica, estrema in ogni senso (si riferisce ad esempio al cambiamento climatico), che ha bisogno di essere interpretata con nuovi strumenti; e scrive:
Chiamiamo questo mondo in cui viviamo il mondo-per-noi. Questo è il mondo che noi, in quanto esseri umani, interpretiamo e al quale diamo significato; è il mondo al quale ci relazioniamo o dal quale ci sentiamo alienati […] Ma questo mondo-per-noi non rientra totalmente nell’ambito dei bisogni e dei desideri umani; spesso il mondo «morde», resistendo o ignorando i nostri tentativi di plasmarlo nel mondo-per-noi. Chiamiamo questo mondo che resiste il mondo-in-sé. Si tratta del mondo che trasformiamo nel mondo-per-noi, considerato in un certo stato inaccessibilmente già-dato. […] Sebbene ci sia qualcosa là fuori che non è il mondo-per-noi, e nonostante sia possibile nominare questo qualcosa il mondo-in-sé, quest’ultimo costituisce un orizzonte del pensiero in costante fuga appena fuori dai confini dell’intelligibilità. […] Grazie all’utilizzo di modelli predittivi avanzati, abbiamo immaginato cosa accadrebbe al mondo se l’essere umano si estinguesse. Così, pur non potendo esperire il mondo-in-sé, ne sembreremmo quasi fatalmente attratti, come fosse il limite che ci definisce in quanto esseri umani. Chiamiamo questo mondo spettrale e speculativo il mondo-senza-di-noi. In un certo senso, il mondo-senza-di-noi ci permette di pensare il-mondo-in-sé senza essere catturati in un circolo vizioso logicamente paradossale. […] il mondo-senza-di-noi non può coesistere con l’umano mondo-per-noi, perché il mondo-senza-di-noi è la sottrazione dell’umano dal mondo27.
Se il mondo-senza-di noi consiste nell’annullamento, tramite sottrazione, degli elementi antropici dalla terra che abitiamo, non sarà così inappropriato far cortocircuitare l’idea di fondo che pervade il romanzo morselliano con l’insistenza teorica che Thacker riserva alla concezione del mondo de-umanizzato. In Dissipatio H.G. il protagonista finisce per esperire il confronto traumatico con il mondo-senza-di-noi, dunque, con la categoria di “esterno” rispetto a tutto ciò che attraverso l’abitudine riteniamo essere familiare. Verso la fine del romanzo, la dimensione dell’esterno thackeriano sembra ancora insinuarsi tra le pieghe della narrazione quando il protagonista si ritrova ossessivamente a vagare alla ricerca del dottor Karpinsky, un amico medico morto alcuni anni prima. In un turbine di tracce uditive e presenze fantasmatiche, l’Ultimo Uomo si trova a passare davanti alla vetrina di una libreria, ove campeggia un libro sulla cui copertina appare un messaggio misterioso: “Ti aspetto. Non qui”. L’enigmatica sentenza, sebbene letta dal protagonista come un’indicazione a cercare il dottore fuori dalla città di Widmad, apre a squarci trascendentali, a realtà non-viventi, non-ontologiche dove si suppone si trovi Karpinsky, l’unico individuo del romanzo che sappiamo essere “veramente morto”, piuttosto che misteriosamente evaporato. Ovunque aleggiano le (non) tracce dell’eeriness.
3. Conclusioni
In molteplici sedi si è osservata la stravaganza e l’eccezionalità per il panorama italiano di un romanzo quale Dissipatio H.G. Sulle possibilità di rintracciare nel testo una particolare sensibilità dell’autore nei confronti dei concetti di spettralità del mondo e della storia, si è pronunciato Pier Giovanni Adamo in un saggio28 dedicato proprio alle interferenze della filosofia derridiana all’interno dei romanzi Roma senza Papa, Contro-passato prossimo e il nostro Dissipatio H.G. Non aggiungeremo riflessioni poiché devieremmo dalla trattazione dell’eerie quale esperienza estetica, sebbene avremmo il vantaggio di chiudere il cerchio della nostra analisi sotto il segno critico di Fisher, che nell’ambito dei suoi interessi ha fatto spesso cortocircuitare il campo d’analisi dell’eerie con l’hauntology derridiana.
Restano aperte ulteriori suggestioni; tra le tante, la possibilità di pensare “l’Evento”, com’è citato nel romanzo, nei termini di Evento derridiano, chiamando in causa le riflessioni ontologiche e fenomenologiche derivate da un confronto con le filosofie di Heiddeger e Husserl; o ancora, la possibilità di approfondire le suggestioni fantasmatiche proprie della «distopia astratta» incarnata da questo romanzo.
Ciò che appare assodato è che lo statuto di genere assai incerto dell’opera di Morselli la rende particolarmente aperta alle spinte de-realizzanti e allo sconfinamento tra il post-apocalittico e il surreale. Si è voluto in questa occasione porre l’accento sull’eerieness del romanzo che, in quanto esperienza estetica consistente nell’interrogazione dell’agentività (un fallimento di assenza / un fallimento di presenza), costituisce un turbamento dello statuto di realtà che nel nostro tempo sembra progressivamente intensificarsi.
- Cfr. A. Santurbano, Guido Morselli, l’inattualità di un contemporaneo, in In Limine. Guido Morselli, a cura di A. Gaudio e F. Pierangeli, Roma, Nuova Cultura, 2012, pp. 103-114. ↑
- Si è preferito qui parlare di postapocalittico e distopico come modi letterari trasversali rispetto a differenti tipologie mediali, piuttosto che come generi, termine troppo legato alla sfera editoriale e ai fenomeni di mercato. ↑
- Cfr. S. Vita, Contro-mitologia della distruzione in Dissipatio H. G. di Guido Morselli, in «Schede umanistiche», vol. 2, n. 34, 2020, pp. 147-172, online: <https://hdl.handle.net/2318/1918802>, url consultato il 20 aprile 2022. ↑
- Ci riferiamo, naturalmente, a Dissipatio H.G., scritto nel corso del 1973 e pubblicato postumo nel 1977. ↑
- I. Pelgreffi, Dissipatio H.G. di Guido Morselli: fra utopia e distopia, in Utopie/distopie. Percorsi di critica dell’immaginario politico, a cura di G. Brindisi, Tricase, Kaiak-Youcanprint, 2015, p. 102. ↑
- G. Morselli, Dissipatio H.G., Milano, Adelphi, 1977, p. 56. ↑
- F. Muzzioli, Scritture della catastrofe. Istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie, Milano, Meltemi, 2021, pp. 111-112. ↑
- Ivi i temi ecologisti del romanzo sono inscindibili da quelli squisitamente leopardiani del dolore cosmico dello stare al mondo; la visione offertaci è quella di una realtà naturale che, restando perfettamente intatta, finisce per scrollarsi l’umano di dosso con la stessa facilità e noncuranza manifestata dalla Natura nelle Operette morali. Nel tempo, appunto, di un’evaporazione. ↑
- Cfr. M.P. Shiel, La nube purpurea, trad. it. di D. De Boni, Milano, Mondadori, 2020. ↑
- G. Morselli, Dissipatio H.G, cit., p. 9. ↑
- Ivi, pp. 11-12. ↑
- Ivi, p. 14. ↑
- Ivi, pp. 32-33. ↑
- Ivi, p. 35. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, pp. 57-58. ↑
- Cfr. M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, trad. it. di V. Perna, Roma, Minimum Fax, 2018. Il filosofo britannico, tristemente suicidatosi nel 2017, si è occupato in maniera assai originale, tra gli altri, di Marx, Freud, Lacan, Derrida. Personalità influente in Inghilterra, tanto nel panorama accademico quanto in quello underground, negli anni ’90 egli ha dapprima operato nell’Unità di Ricerca di Cultura Cibernetica dell’Università di Warwick, accanto a studiosi quali Nick Land e Sadie Plant per poi acquisire fama internazionale con il suo blog K-punk, attraverso il quale ha esercitato l’attività di critico musicale e culturale. ↑
- M. Fisher, The Weird and the Eerie, cit., p. 10. ↑
- Ivi, p. 17. ↑
- Ivi, p. 8. ↑
- Cfr. S. Freud, Il perturbante, a cura di C. L. Musatti, Roma, Theoria, 1993. ↑
- M. Fisher, The Weird and the Eerie, cit., pp. 9-11. ↑
- Ivi, p. 12. ↑
- Cfr. A. Gaudio, Asimmetrie morselliane in Dissipatio H.G. Caso, inconscio e letteratura per opporsi all’anti-utopia capitalista, in Dal pensiero alla formazione. Tomo I, a cura di G. Armenise, Lecce, Pensa Multimedia, 2017, pp. 553-564. ↑
- G. Morselli, Dissipatio H.G., cit., p. 11. ↑
- Ivi, p. 24. ↑
- E. Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta, trad. it. di C. Kulesco, Roma, Nero, 2019, pp. 10-11. ↑
- Cfr. P. G. Adamo, Mondi senza storia. La contro-realtà spettrale di Guido Morselli, in Spectralités dans le roman contemporain. Italie, Espagne, Portugal, a cura di M. Auby-Morici e S. Cucchi, Paris, PSN, 2017, pp. 15-28, online: <https://books.openedition.org/psn/7386>, url consultato il 15 agosto 2023. ↑