Corpo, dimensione, immagine in Nan Goldin, Sophie Calle e Marina Abramović
1. La fotografia e il feticcio
La fotografia, in un’ampia gamma di funzioni e interpretazioni, viene a costituire, a seconda del contesto, un mezzo, un oggetto, una copia, un’opera d’arte. La fotografia è, infatti, «impronta del vissuto, dettaglio eternizzato, istante cristallizzato ed esposto alla memoria e all’oblio»1. La cultura novecentesca ha riabilitato il rapporto fra la fotografia e la realtà, scardinando in parte la concezione di «copia», relativamente alla revisione del rapporto altamente gerarchizzato in cui «l’originale» la fa da padrone; allo stesso tempo, anche il rapporto fra scrittura e fotografia ha permesso di abbandonare sempre di più l’idea per cui la fotografia sia una sorta di didascalia esplicativa, un’immagine di contorno, seconda per importanza al primato della scrittura:
La foto è spesso vista come figura di un desiderio infinito e quindi irrealizzabile: diventa surrogato di un possesso impossibile della realtà, che può trasformarsi in possessione; diventa quindi una forma di feticcio […]. Si tratta di una forma particolare di oggetto, che è a sua volta una rappresentazione e che può essere un’opera d’arte, ma il meccanismo di base resta uguale2.
La fotografia si presta a diverse funzioni, sia come sostituto dell’oggetto o del soggetto rappresentato, sia come strumento di manipolazione della realtà; «scrittori molto interessati alla proliferazione delle immagini nella società contemporanea […] hanno insistito sul potere che ha la fotografia di fagocitare le realtà, di determinare il desiderio, dipingendo un mondo che imita le immagini, e non il contrario»3. La correlazione principale tra feticcio e fotografia sta nella funzione memoriale di quest’ultima; la macchina fotografica è, infatti, protagonista di cerimonie, riti di passaggio, riunioni familiari, momenti di crescita personali e collettivi, nonché uno strumento di rappresentazione del reale volto a ricordare il più possibile la realtà e i soggetti rappresentati, con un’abbondanza di dettagli che, senza lo strumento artificiale, sfuggirebbero in breve tempo allo sguardo umano. La corrente artistica della narrative art prende spunto dalla potenza intrinseca del mezzo fotografico, e dalla capacità che esso manifesta nel «raccontare una storia», nell’evolversi dalla sua bidimensionalità, superando definitivamente i pregiudizi riguardo ad una sua supposta piattezza; «si intrecciano strettamente verbale e visivo, letterario e fotografico, memoria e rielaborazione fantasmatica, dimostrando la vitalità straordinaria di quello strano oggetto feticcio che è la foto»4.
All’interno delle correnti artistiche correlate al concetto di feticismo, il camp, attraverso lo scardinare gli assi dell’estetica tradizionale, introduce un concetto nuovo di bellezza, secondo cui un oggetto può essere «bello perché orribile»5. Possiamo considerare il camp come un gusto artistico, più che come una vera e propria corrente, che si afferma relativamente a realtà urbane e fenomeni di massa, e viene individuato nell’ambito del postmoderno, essendo stato teorizzato nel 1964 da Susan Sontag, influenzando, in modo provocatorio, l’estetica contemporanea. Attraverso lo straniamento il camp «scardina anche ogni opposizione fra autentico e inautentico, superficie e profondità, contenuto e forma, serio e comico, sfidando il piano dell’ontologia, in quanto smonta la differenza fra copia e originale»6.
2. Nan Goldin: lasciare un segno attraverso il corpo
Nell’opera che lei stessa definisce un «diario pubblico», The Ballad of Sexual Dependency, Nan Goldin, fotografa statunitense, attraverso una rappresentazione volutamente realistica, rappresenta sé stessa ed il mondo che la circonda, un mondo scelto accuratamente e mai casuale, per permettere agli altri di leggere la sua storia e soprattutto per potersene distanziare, in modo da analizzare non la propria versione, ma la realtà in sé. Nell’introduzione e nella conclusione dell’opera, le parole dell’artista mostrano due lati della stessa vita, una sorta di evoluzione avvenuta negli anni che separano la prima pubblicazione, avvenuta nel 1986, e la sua ristampa, che risale al 2021. Le due voci si incastrano perfettamente nella descrizione di quella che è un’opera esplicativa, un’opera che non può essere scissa dalla vita, in cui il confine tra verità e finzione è estremamente labile, analizzandone in un primo tempo i motivi di composizione e il rapporto che lega l’artista ai diversi tipi di rappresentazione presenti, e in un secondo tempo riflettendo sulla ricezione dell’opera e sul cambiamento di visione che la fotografa sviluppa sui principali temi trattati, all’interno di una sensibile modificazione del contesto storico in cui l’artista si trova ad operare. La fotografia viene ad essere un metodo di analisi, in una costante ricerca di verità priva di influenze esterne e di sovrapposizioni personali, che caratterizza l’intera opera dell’artista, le cui foto provengono non dall’osservazione ma dal complicato e intimo rapporto che sviluppa con i soggetti che sceglie di fotografare. Nell’introduzione dell’opera, l’autrice afferma, infatti: «My visual diary is public; it expands from its subjective basis with the imput of other people. These pictures may be an invitation to my world, but they were taken so I could see the people in them»7.
L’utilizzo della fotografia nella vita dell’autrice nasce da un desiderio di rappresentazione del reale volto ad annullare la differenza tra il presente e il passato, da un’esigenza di un ricordo chiaro, nitido di ciò che è avvenuto, la volontà di lasciare un segno: «when I was a kid I thought, What a waste of time if I don’t leave a mark on the world Through the Ballad I found a way to make a mark»8.
Goldin inizia, infatti, ad utilizzare lo strumento fotografico come modo per metabolizzare il suicidio della sorella, nella convinzione di non avere un vero e proprio ricordo di lei, ma una visione profondamente influenzata dalla proiezione di valori attribuiti da sé stessa ad un personaggio che arriva, nella sua mente, ad essere quasi finzionale:
For years, I thought I was obsessed with the record-keeping of my day-to-day life. But recently, I’ve realized my motivation has deeper roots: I don’t really remember my sister. I remember my vision of her, of the things she said, of the things she meant to me. But I don’t remember the tangible sense of who she was, her presence what her eyes looked like, what her voice sounded like.9
Nell’evoluzione della sua arte, la fotografa ridisegna costantemente la funzione che la fotografia ha nella sua vita, passando da una funzione di redenzione e ricostruzione, ad una sorta di perdita di senso nel gesto fotografico, per ritrovare poi, nel desiderio di mostrare al soggetto la sua bellezza, e nella volontà di osservare l’evoluzione di un volto, di un’espressione nel corso del tempo, il profondo fascino che ha un atto considerato intenso ed intimo:
Photography has been redemptive for me, it’s helped me chart my descents, and my recostruction. For many years […] I lost the need to photograph my life or the people in it. My photos were no longer my diary […]. I started photographing a new friend for the first time in years, I wanted to show my friend her beauty. It’s fascinating to see how much a face can change over a year when you look at someone deeply enough and how the degree of intimacy colors a photo10.
Nelle fotografie di Goldin c’è sempre una relazione personale tra i soggetti coinvolti, tra l’autore e i soggetti scelti; come afferma l’autrice in un’intervista del 2014 per il Tate Modern, l’arte non può prescindere dall’empatia e dall’amore, dalla volontà di toccare il soggetto, dal considerarlo bello interiormente ed esternamente. Per questo motivo sceglie di fotografare persone appartenenti alla sua «famiglia allargata», la sua «tribù», a cui non è legata da legami di sangue ma da una sorta di comunanza di intenti: «we are bonded […] by a similar morality, the need to live fully and for the moment, a disbelief in the future, a similar respect for honesty, a need to push the limits, and a common history»11. L’artista è consapevole del ruolo svolto dalle persone che la circondano, motore d’ispirazione, soggetto e pubblico di un’arte che, attraverso corpi, forme, figure, sguardi e oggetti, rappresenta lo spettro delle emozioni umane e il complesso rapporto dell’uomo con l’uomo, del gruppo con il singolo, della persone con l’oggetto. Analizzando la rete di rapporti interpersonali da più punti di vista, e seguendo il soggetto scelto in numerosi momenti, fasi, età della sua vita, assistiamo ad un susseguirsi di momenti topici della vita dell’essere umano, dall’infanzia all’amore, al matrimonio, alla violenza, al rapporto con le dipendenze di ogni genere, attraverso un punto di vista che, coerentemente con il bisogno di oggettività, non esalta, non punisce e non giudica. L’artista vuole inoltre dimostrare che, nonostante si tratti di soggetti fuori dal comune, talvolta appartenenti al mondo della prostituzione o della tossicodipendenza, non si tratta di persone marginalizzate, ma di persone in grado di scegliere come costruire il proprio mondo, in una sorta di assenza di interesse verso il giudizio esterno: «we were never marginalized. We were the world. We were our own world and we could have cared less about what “straight” people thought of us. I made my people into superstars, and the Ballad maintains their legacy»12. Attraverso la medesima onestà, Goldin racconta, questa volta solo attraverso le parole, la sua lotta alla dipendenza, specialmente al guadagno ottenuto dalla dipendenza altrui, e la sua volontà di combattere attraverso la sua arte, le condizioni di un mondo che ormai considera eccessivamente cambiato da quello impresso nelle sue fotografie trentacinque anni prima: «The world has changed so much as to be unrecognizable. These are dark days. Everybody has to find their way to fight back, because that’s all we have. The people in the streets are the only chance we have»13.
Nell’arte di Goldin ha particolare importanza la rappresentazione del corpo, sia individualmente, attraverso ritratti, autoritratti e utilizzo di oggetti quotidiani, sia collettivamente, attraverso scene quotidiane di vita vissuta, giornate in spiaggia, feste, atti sessuali. Nonostante la volontà di rappresentare una sorta di androginia, che nel pensiero dell’autrice corrisponde al non riuscire ad identificare con precisione il genere biologico della persona fino all’atto sessuale, nelle foto cerca di raffigurare la sua idea sulle differenze caratteriali, oltre che fisiche, tra i due generi, e sui diversi approcci che essi attuano nel rapporto con il singolo e con il gruppo. Nella sua visione, gli uomini mostrano un diverso linguaggio emotivo, tendono a categorizzare le situazioni e le donne in categorie ben precise, una sorta di costante opposizione binaria:
For many years, I found it hard to understand the feeling system of men; I didn’t believe they were vulnerable and I empowered in a way that didn’t acknowledge their fears and feelings. Men carry their own baggage, a legacy based on a fear of women, a need to categorize them, for instance, as mothers, whores, virgins, or spiderwomen14.
La differenza emotiva si riflette anche nel rapporto con il gruppo; le donne, infatti, nelle foto di gruppo mostrano una sorta di forza amazzonica, un senso di solidarietà unito ad una profonda tenerezza. Gli uomini invece, mostrano la loro vulnerabilità con più competizione basata sul provare la propria abilità a nascondere e sopportare il dolore interiore.
La facilità nelle foto in cui sono ritratti singolarmente, mentre assumono una sorta di durezza esteriore nel momento in cui si confrontano con altre figure maschili, in una sorta di medesima attenzione verso la rappresentazione del corpo nei suoi dettagli, e verso la comparazione fra diversi corpi, appartenenti all’album fotografico dell’artista e alle opere presenti nel Louvre a Parigi, è presente nella rappresentazione fotografica Scopophilia, in cui l’autrice accosta immagini provenienti dal suo passato artistico a particolari inquadrature personali di opere famose già esposte al pubblico, di cui offre una rappresentazione inedita attraverso forme particolari di accostamento:
In cinematografia questo procedimento è noto sotto il nome di effetto Kuleshov, un espediente del montaggio che spiega come ogni inquadratura cambi di senso in relazione all’inquadratura cui è rapportata. […] Ciò ridiscute il reale senso d’assoluto che si crede presente nelle immagini, le quali invece risultano profondamente sensibili a tutto ciò che le accompagna, siano didascalie, altre immagini o le proiezioni mentali di chi le guarda15.
Le opere scelte vengono così estrapolate dal loro contesto originario, divenendo sempre «attive» sia nel processo creativo, sia nel processo di osservazione provocando reazioni sensoriali che spaziano dal piacere al dolore, appagando inconsciamente il dolore. Già dal titolo è evidente la funzione che l’artista attribuisce al suo progetto fotografico: «scopofilia significa in greco piacere del guardare: traslato in campo psichiatrico, il termine ha assunto i tratti di una perversione che lega il godimento esclusivamente all’atto visivo […] ma nella sua accezione originaria conserva il senso alla base della produzione e consumo di immagini, effigi, e in senso generale, cose su cui posare gli occhi»16. Nel titolo è insita, quindi, la centralità del desiderio nell’esercizio del guardare, che scaturisce anche dal fatto che è un corpo, con il suo essere carnale, ad osservare gli altri corpi esposti, in una contemplazione del corpo umano che non è più totale ma divisa in sezioni, nella volontà di mettere in evidenza, di volta in volta, angoli, dettagli, sezioni umane:
Nan Goldin lascia palesare un dato quasi banale nella sua ovvietà: il corpo è fatto per essere guardato, e lo sguardo è fatto soprattutto per posarsi sulla pelle e la carne del mondo, perché di essa siamo fatti e di essa ci nutriamo. La sua fotografia svela allora una storia dell’arte che è anche storia della ricerca del corpo come qualcosa da venerare, spiegare, trattenere, gustare17.
L’artista sceglie, come comune denominatore, di mettere in relazione la medesima parte del corpo tra più soggetti. Un esempio è Eyes in cui volti e occhi manifestano un’ampia gamma di emozioni umane, «secondo un disegno multifocale, che affida al visitatore il compito di decifrare le tracce del piacere, nonché gli indizi dell’acceso contatto –pelle contro pelle- tra artista e soggetto ritratto»18. Attraverso il medesimo sistema di associazioni binarie, Hair e Veils pone l’attenzione sulle chiome, in modo da celare lo sguardo attraverso la stessa operazione compiuta in The Back, «una mappa di figure di schiena, che sembrano negarsi alla luce, forse perché offese da troppo (o da troppo poco) amore»19. Per l’artista, infatti, la fotografia è sempre collegata da un’emozione, un’empatia, una sorta di affetto che il fotografo esprime nella sua arte, nella concezione secondo cui «fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è accettazione»20. La seduzione, uno dei principali motivi alla base dell’opera, raggiunge l’apice in Odalisque, inno alla sensualità femminile fatto di corpi totalmente esposti alla vista dell’osservatore. «La lezione dell’autrice è rendere visibile l’invisibile, incarnare la deriva dei sentimenti attraverso la seducente esibizione delle fisicità. La potente immaginazione dell’artista fa sì che il guardare raggiunga una sorta di “iconic spirituality”: l’intimità della carne è grido, supplica, consolazione»21.
Il desiderio sessuale occupa una posizione predominante all’interno dell’opera più famosa dell’artista; The Ballad of Sexual Dependency ha, tra gli obiettivi, la rappresentazione della difficoltà dell’essere e del sentirsi coppia, una dipendenza contrastata da un profondo senso di indipendenza che nella vita dell’artista si manifesta sin dai quattordici anni, età in cui la donna decide di lasciare la casa dei genitori per circondarsi da legami intensi ma privi di ruoli definiti:
It’s a biochemical reaction, it stimulates that part of the brain that is only satisfied by love, heroin or chocolate; love can be an addiction. I have a strong desire to be indipendent, but at the same time a craving for the intensity that comes from interdipendency. The tension this creates seems to be a universal problem: the struggle between autonomy and dependency22.
Il sesso è, tuttavia, solo un aspetto della dipendenza, una sorta di microcosmo della relazione in cui la comunicazione è basata sulla vulnerabilità, in cui la gratificazione è data dall’aspetto romantico, non dalla vera e propria performance; l’attrazione sessuale viene allo stesso tempo utilizzata come una forma di sublimazione del dolore, in un’ambivalenza in cui l’aspetto distruttivo e malsano delle relazioni viene alimentato da intensi legami sessuali. «Intense sexual bonds become consuming and self-perpetuating. You become dependent on the gratification»23. Le relazioni vengono viste, allo stesso tempo, sia come una forma di appagamento, sia come una prigione da cui il profondo legame impedisce di trovare una via d’uscita: «I craved the dependency, the adoration, the satisfaction, the security, but sometimes I felt claustrophobic. We were addicted to the amount of love the relationship supplied. We were a couple»24.
Il profondo legame che unisce la fotografa ai soggetti scelti la porta ad avere come obiettivo il mostrare ad essi la propria bellezza, e il mostrare agli osservatori esterni il proprio mondo, senza edulcorazioni, un mondo che lei stessa definisce fatto di consapevolezza, dolore e introspezione. Il momento fotografico viene ad essere un momento di connessione interiore per l’artista, che considera la macchina fotografica il suo oggetto feticcio, indivisibile da lei, venerato da lei come unica fonte di quella verità che non vuole veder svanire, un prolungamento del suo arto: «People in the picture say my camera is as much a part of being with me as any other aspect of knowing me. It’s as my hand were a camera. If it were possible, I’d want no mechanism between me and the moment of photographing. The camera is as much a part of my everyday life as talking, or eating or sex»25. Lo scopo finale, perseguito dalla prima foto, un normale ritratto di sé stessa in coppia, all’ultima, un graffito raffigurante un abbraccio fra due scheletri, è riassumibile nelle parole dell’artista: «I don’t ever want to be susceptible to anyone else’s version of my history. I don’t ever want to lose the real memory of anyone again»26.
3. Sophie Calle: la centralità dell’oggetto nella rappresentazione fotografica
Nel complesso rapporto tra fotografia e scrittura, e in generale nell’utilizzo della transmedialità come strumento di transizione fra poli opposti, Sophie Calle occupa un ruolo di spicco, attraverso esperimenti artistici che non si limitano al livello dell’esposizione ma vengono accompagnati, o talvolta sopraffatti dall’utilizzo di una scrittura che completa il senso delle rappresentazione fotografica, al punto da rendere complesso il poterla ridurre al rango di «didascalia». «Sophie Calle ha creato qualcosa che tiene al tempo stesso dell’altare e del confessionale, del mistico e del prosaico, dell’album di famiglia e del journal intime, della finzione della vita e della verità della morte»27. L’artista, nel tentativo di creare una sorta di opera completa, si serve di diversi dispositivi, sia nella fase creativa, in cui l’oggetto assume un ruolo preponderante, spesso assumendo un sovrasenso che permette di creare un percorso all’interno del percorso artistico dell’autrice, sia nella fase espositiva, in cui servendosi dei mezzi a disposizione dà vita a tipi di espressione artistica caratterizzati da un costante cambiamento:
Tutti i lavori di Calle si presentano in una duplice veste o, meglio, in due spazi distinti e in diverse versioni, non necessariamente l’una lo specchio dell’altra. Da una parte, le pareti del museo o della galleria, dunque lo spazio istituzionale dell’arte, nella forma effimera, ogni volta modificabile dall’allestimento […]. Dall’altra, il libro […], lo spazio della pagina stampata, forma stabile […] in cui ogni elemento non può essere che riprodotto, e che per la sua stessa natura enfatizza il carattere non solo narrativo ma letterario del lavoro di Calle: […] sottolineando il ruolo cruciale della scrittura nella sua pratica28.
La commistione fra fotografia e scrittura è alla base di quello che viene considerato un diario particolare, l’opera Storie vere, in cui, attraverso varie sezioni, intitolate rispettivamente il marito, Monique, Souris e Bob, l’artista racconta episodi che, uniti in una sorta di collage, tracciano la storia della sua vita e le figure principali che ne hanno fatto parte come compagni di vita e motori della sua azione artistica. L’opera si apre significativamente con racconti dell’infanzia e si chiude con la morte del padre, avvenuta poco dopo la morte della madre, e con concetti legati alla morte, all’essere ormai non più figlia di qualcuno, ma neanche madre. L’elemento più vicino alla maternità, nel gioco costante di paragoni e ambivalenze presenti nell’opera, è rappresentato dal gatto Souris, la cui figura è tutt’altro che marginale nella vita sia personale che artistica della donna. «In Storie vere […] il rapporto tra testo e immagine oscilla tra senso ovvio e senso ottuso, per dirla con Barthes; è sempre in bilico fra solidarietà e disgiunzione, tra mera documentazione e straniamento»29.
La scrittura di Calle talvolta pone al centro del racconto non l’oggetto raffigurato, che si suppone essere in qualche modo strettamente connesso al testo a cui si riferisce (o viceversa) ma un evento la cui affinità con l’oggetto risulta ambigua, appena accennata, in una circolarità tra l’evidenza e il segreto. L’oggetto diventa quasi un ponte tra gli eventi, un ricordo costante di ciò che è accaduto, una figura solida che dona concretezza ad eventi ormai passati, l’ultimo baluardo di una storia destinata ad essere dimenticata. «Fotografare l’assenza, oppure renderla enigmaticamente presente, è l’uso peculiare che fa Calle della fotografia»30. L’opera di Calle si situa infatti in una circolarità che caratterizza sia il modo in cui sceglie di narrare gli eventi, in un ordine che, seppur apparentemente cronologico, si pone in opposizione alla rappresentazione classica dell’oggetto: non è l’uomo a dare senso all’oggetto, ma l’oggetto a disegnare la storia, in un sistema di opposizione che porta oggetti simili ad essere presenti in più fasi della vita della persona, con una funzione quasi mai speculare, talvolta consolatoria, talvolta di ricordo, il più delle volte come punto di rottura all’interno di una vita non convenzionale, fatta di esperimenti:
Calle si situa su un confine, per trasgredirlo. Il confine fra due nozioni antitetiche dell’immagine fotografica […]. Fotografia come impronta, attestazione, certificazione, aderenza al referente: il letto impacchettato, la tazza, la scarpa rossa, la cravatta. Fotografie come rito magico, feticcio, spettralità legata alla mancanza, al passato, alla morte31.
Nel corso del libro si alternano immagini e testi che pongono l’attenzione su diversi temi, dall’oggetto al corpo, dalla lettera al sesso, dalla maternità alla morte, in un rapporto in cui il grado di finzionalità diventa sempre più difficile da individuare. L’oggetto, in particolar modo l’oggetto feticcio, è un elemento presente sin dalla prima infanzia, in particolar modo si configura come oggetto da collezione, oggetto che, pur non essendo unico nel suo genere, deve essere conservato, custodito in funzione del ricordo che esso provoca, il cui valore è inestimabile. La scarpa rossa che Calle e l’amica Amelie rubano all’età di undici anni non è funzionale al suo utilizzo ma è un punto di svolta che segna la fine della concezione del furto come un gioco: «non avevamo più il tempo di rubare. Il nostro ultimo bottino era stato un paio di scarpe rosse troppo grandi per noi. Amelie tenne il piede destro e io il sinistro»32. La medesima volontà di conservare l’oggetto, legato in questo caso alla sfera sessuale, e all’ambito di una sorta di iniziazione alla sessualità, è ben visibile nella rappresentazione dell’accappatoio:
Avevo diciotto anni. Mi aprì la porta. Con indosso lo stesso accappatoio di mio padre. Un accappatoio lungo di spugna bianca. Fu il mio primo amante. Per un anno intero accettò di non mostrarmisi mai nudo dalla parte del sesso. Solo di schiena. Così al mattino se albeggiava, si alzava girandosi attentamente e andava a mettersi l’accappatoio bianco. Quando mi lasciò, lo abbandonò a me33.
Spesso gli oggetti rappresentati sono ciò che resta di storie d’amore ormai concluse, vengono a costituire il ricordo di rituali e abitudini che la donna aveva con i suoi amanti, in una logica in cui talvolta è l’oggetto a scegliere, talvolta l’oggetto è funzionale ad un progetto, artistico o personale, di Calle. Un esempio è il dado, utilizzato come sostituto di B., uomo con cui la donna ha avuto una relazione, per prendere decisioni quotidiane; quando la relazione finisce è proprio il dado ad «autorizzare» la donna a «condividere il suo letto» con un altro uomo. Nell’ambito del «non detto», l’oggetto tramandato può rivestire la funzione di porta-fortuna, in una logica in cui il ricevente non è al corrente della storia dell’oggetto e della sua funzione, una sorta di amuleto propiziatorio affinché il rito ipotizzato dall’artista si realizzi:
Prima di morire aveva ricamato un lenzuolo con le mie iniziali. Lo diedi al mio amico Hervé, allora gravemente malato, per ricordo di quella notte, ormai lontana, in cui aveva rifiutato di condividere il mio letto. […] mi piaceva credere che, essendo stato ricamato da una donna divenuta centenaria grazie a una volontà feroce quel lenzuolo, aureolato di fede, gli avrebbe trasmesso la sua forza34.
Il letto è un elemento centrale nell’arte di Calle, sia come oggetto personale, di cui ricorda i giorni in cortile dopo il suicidio di un uomo sul suo letto dell’adolescenza, sia come oggetto artistico, che condivide con persone a cui scatta «una foto all’ora», in un esperimento che la porta, negli anni ’70, ad allontanarsi dalla carriera giornalistica e dedicarsi ai Journaux intimes. «La curiosità e il voyeurismo filtrato da una grande sensibilità occupavano le sue giornate morbosamente. Immaginava l’altro nella sua totale assenza, costruendo l’immagine riflessa di sé stessa sulle tracce di incontri fortuiti e brevi contatti umani»35.
Il letto, come qualsiasi altro feticcio, non è interscambiabile, sostituibile, ha la sua importanza in quanto tale. Questo è il motivo per cui l’artista decide di assecondare l’ultimo desiderio di un uomo morente in California, a cui spedisce il suo letto a seguito di una richiesta particolare: «Mi piacerebbe passare quel che resta di questo periodo di lutto, di afflizione, nel suo letto…»36.
L’atmosfera del letto, della camera, l’intimità di un luogo che viene solitamente considerato personale, viene ricreato in un progetto artistico in cui Calle, in cima alla torre Eiffel, invita in una «notte bianca», una serie di sconosciuti a raccontarle una storia:
A letto, ad ascoltare, tra le lenzuola bianche, gli sconosciuti che si sono avvicendati al mio capezzale. Raccontatemi una storia perché non riesco ad addormentarmi. Massima durata auspicata: 5 minuti. Prolungabili se il racconto è palpitante. Niente storia, niente vista. Se la vostra storia mi ha fatto addormentare, abbiate la gentilezza di ritirarvi discretamente e di pregare il custode di svegliarmi […]. Ci sono notti che non si raccontano. Sono scesa all’alba37.
Significativo è il titolo della fotografia a cui il testo precedente si riferisce: Camera con vista, che rimanda all’istallazione di una camera panoptica, dalla quale osservare, spiare, la vita di una coppia, attraverso l’osservazione diretta e le tecnologie audio-visive:
La nostra visuale è il filamento ghiandolare dello sguardo di chi è stato lì, alla finestra. Sempre di più si confondono i piani della vista artificiale di chi spia, sempre di più si confonde il materiale visivo raccolto da questa ossessione periscopica con la sostanza dell’osservazione diretta di chi ha potuto recarsi lì. E assistiamo, passivi e spiati anche noi seduti davanti a loro, seduti e costretti a ogni splendore e mortificazione38.
L’istallazione non è una semplice rappresentazione della vita quotidiana, è un esperimento invasivo, della durata di due anni, in cui gli osservati sono gli stessi ma gli osservatori si alternano, in un gruppo che non può contenere più di due persone, in un isolamento che non permette di prenotare per due:
La vista a cui siamo esposti, la passività con cui ci viene concessa quella vista sono il filtro ottico stesso che ci sta davanti, la pellicola aderente alle nostre pupille. Quello che loro agiscono noi vediamo, noi siamo. La distanza tra chi osserva e gli oggetti è il privilegio che ci viene accordato. Nessuna spiegazione in corso. Il privilegio è pura solitudine e una visuale tersa, ottimale, in campo ottico39.
L’oggetto può essere anche l’ultimo lascito di una persona ormai defunta, un modo di fermare il tempo in un gioco fra assenza e presenza, fra scomparsa e reincarnazione. Un esempio è una guida televisiva trovata in casa della nonna: «sono andata a casa sua in cerca di un ricordo. Ho deciso di portare via l’ultimo numero di Télé Star. Per mia nonna tutto si era fermato durante il numero 29, nella settimana dal 16 al 22 agosto 1986»40. L’oggetto memoriale è anche un qualcosa che si sceglie come compagnia, un sostituto di un compagno di vita che non necessariamente condivide con esso caratteristiche ben precise. Successivamente alla morte della madre l’autrice acquista una giraffa, a cui attribuisce lo stesso nome della defunta, Monique: «Quando mia madre è morta, ho comprato una giraffa impagliata. Le ho dato il suo nome e l’ho sistemata nel mio studio. Monique mi guarda dall’alto, ironica e triste»41.
Un’altra categoria d’analisi dell’opera di Calle è il corpo e la sua rappresentazione, che trova numerosi spunti in diverse forme d’arte. L’esposizione del corpo parte dall’artista, che nel rapporto con la sua esteriorità evidenzia la volontà di perfezionamento presente nei nonni, che volevano «correggere certe imperfezioni»42 e in sé stessa, invidiosa del seno della madre al punto da volerlo rendere soggetto fotografico nel momento in cui «il mio petto cominciò a prendere forma»43, e attribuendo il significato di quella performance a «vent’anni di frustrazione, desiderio, sogni a occhi aperti, sospiri»44. La volontà di esporre il proprio corpo è indicativa della professione di spogliarellista portata avanti dall’artista per un breve periodo, di cui la donna ricerca le radici:
A sei anni abitavo a rue Rosa-Bonheur dai miei nonni. Il rituale quotidiano voleva che tutte le sere mi spogliassi nell’ascensore del palazzo e arrivassi così, tutta nuda, al sesto piano. […] Vent’anni dopo ero sulla scena di un baraccone da fiera che affacciava sul boulevard, a Pigalle, che mi spogliavo tutte le sere con in testa una parrucca bionda, nel caso i miei nonni, che abitavano nel quartiere, si trovassero a passare45.
Allo stesso modo l’artista diventa musa ispiratrice, acconsente a farsi ritrarre nuda, tutti i giorni, dallo stesso uomo: «Posavo nuda ogni mattina, tra le nove e mezzogiorno. E ogni giorno un uomo seduto all’estremità sinistra della prima fila mi disegnava per tre ore. Poi, a mezzogiorno in punto, estraeva dalla tasca una lama di rasoio e, senza togliermi gli occhi di dosso, lacerava meticolosamente il suo disegno»46. Nel rappresentare il corpo l’artista può avere lo scopo di imprimere dettagli che sente il bisogno di ricordare; nonostante l’ampia presenza di figure maschili all’interno di Storie vere, il loro corpo viene quasi marginalizzato, in favore di oggetti significativi con cui potersi riallacciare ad una storia. Un esempio è costituito dalla fotografia «sogno di fanciulla», in cui un dessert di forma fallica, accompagnato dal sorriso del cameriere e del silenzio generale, scatena una reazione inaspettata: «Ho trattenuto le lacrime e ho chiuso gli occhi, come avrei fatto anni dopo, quando, per la prima volta, un uomo si mostrò nudo davanti a me»47. Il rapporto con il sesso maschile viene esplicitato il più delle volte tramite numerose lettere, che sembrano evidenziare la circolarità dell’opera, che si apre, appunto, con una lettera di quello che l’autrice scopre essere il suo vero padre, e si chiude con le ultime volontà del padre che l’ha cresciuta.
L’artista attribuisce alle lettere un’importanza centrale nel suo rapporto con gli uomini, arrivando a commissionarne una d’amore ad uno scrittore, e chiedendone per anni una al marito, una sorta di prova d’amore. Già il primo incontro viene descritto sulla attraverso un pezzo di carte trovato sotto un pacchetto di sigarette: «propositi per il nuovo anno: non mentire, non mordere»48; l’ossessione per le lettere raggiunge il culmine nel momento in cui l’artista scopre, attraverso di esse, l’esistenza di una rivale omonima, che attraverso un processo di rimozione, sembra voler cancellare, proprio come materialmente agisce, sostituendo l’H con la S:
Volevo una lettera da lui, ma lui non me la scriveva. Un giorno ho letto il mio nome “Sophie”, scritto in cima a una pagina bianca […]. Due mesi dopo il nostro matrimonio ho visto spuntare un foglio dalla sua macchina da scrivere. Facendolo scivolare verso di me ho scoperto la seguente frase: “Ti devo confessare una cosa: la scorsa notte ho baciato la tua lettera e la tua foto”. […] Solo che quel messaggio non era per me, in alto c’era una H. Ho cancellato l’H. e l’ho sostituita con una S. E quella è divenuta la lettera d’amore che non ho mai ricevuto49.
Le lettere sono anche lo strumento attraverso cui Calle si rende conto di come il suo matrimonio stia fallendo, nel momento in cui il marito ringrazia un’altra donna per la figlia avuta dall’artista, e annuncia un’imminente separazione: «sarò libero a ottobre»50. Realizza la necessità di distaccarsi dal marito, di lasciare Greg, anche nel momento in cui realizza il suo desiderio: ricevere una lettera d’amore dedicata a lei: «Qualche giorno dopo mi consegnò una lettera: “Sophie, ho sempre pensato che saresti entrata nella mia vita. Voglio che tu sappia che ti amo e che sei divenuta la cosa più preziosa ai miei occhi”. Ne dubitavo. E così ho deciso di dargli ragione: sarebbe stato libero a ottobre»51.
L’utilizzo della lettera come punto di svolta, di rottura in una relazione amorosa è alla base del progetto artistico Abbi cura di te in cui l’artista sottopone l’email inviatale dall’ex compagno per terminare la loro relazione a 107 donne, chiedendo loro di interpretarne il testo e di reagire in base alla loro specifica professione. «A essere raccolte, poste sotto la lente di ingrandimento e messe in crisi sono le relazioni umane (scomposte, interpretate, analizzate…) che sono del resto alla base della definizione di ogni individuo e della sua vita e identità»52. Le donne che si sottopongono all’esperimento si trovano davanti a una lettera che, in modo estremamente razionale, passa in rassegna tutti i criteri che sono stati imposti dall’artista all’inizio della relazione e come l’uomo, con il passare del tempo, senta di venire meno alle promesse fatte, giurando un amore incondizionato che rimarrà un pegno per entrambi, e invitando Calle ad avere cura di sé, motivo principale per cui l’artista sceglie di prendersi del tempo, delegando ad altre donne la possibile reazione. Non ci è dato sapere se il contenuto della lettera ricevuta sia stato manomesso, modificato, o creato ad arte in virtù dell’esperimento, come espediente narrativo. L’intera operazione appare come una sorta di rituale, «come fosse il funerale di un amore: nel lavoro di Calle emerge infatti con forza anche un ulteriore aspetto, quello della cura e attenzione al tema della “cerimonia”»53. Possiamo desumere che il «funerale» in questione «diventi dunque non tanto un rituale per esorcizzare la paura della morte, quanto per scongiurare la paura di non essere amata»54. La concezione della solitudine, dell’assenza, del vuoto, è infatti molto presente nell’arte di Calle, una sorta di vortice che la avvolge, spingendola ad intervistare donne sconosciute, a seguire persone mai viste prima per poterle fotografare.
4. Marina Abramović: sentire l’anima attraverso il corpo
L’utilizzo del corpo nell’arte ed il rapporto tra corpo e rappresentazione subisce un cambiamento nell’interpretazione a partire dagli esperimenti artistici di Marina Abramović, che introduce una nuova forma di estetica basata sulla funzione attiva dello spettatore. Il concetto di estetica, nel suo significato originale, nel greco aisthitikos, rappresentava qualcosa di strettamente correlato, tangibile con i sensi:
Marina Abramović’s work seeks to restore the aesthetic experience in its full sense, to its original meaning. She is not interested in any form of artistic contemplation. Rather, she seeks to engage the spectaror’s whole body, his/her whole sensorium apparatus in an artistic experience that is directly related to the empirical […] world, in which knowledge is acquired through the body. Not just the eyes, distanced from the object, in a voyeuristic attitude, but the skin, the ears, the touch, the smell55.
L’utilizzo del corpo conduce ad un’evoluzione rispetto alla bidimensionalità della figura umana come oggetto di rappresentazioni pittoriche e scultoriche, attraverso la creazione di una relazione non più unilaterale tra artista e osservatore. Abramović afferma di sentire l’anima attraverso il corpo in una concezione simile a quella stoica: «il concetto di pneuma inteso come soffio, respiro, respiro vitale, usato per indicare il principio sia del movimento del corpo che della conoscenza sensibile»56. Nelle opere di Abramović, corpo e oggetto diventano parte di un’unica rappresentazione in cui la superiorità, la dominanza dell’uno sull’altro, non segue sempre le convenzioni prestabilite. Ne è un esempio The Cleaner, mostra in cui «la corporeità, la temporalità e la dimensione sensoriale divengono gli strumenti di un’insolita ricerca artistica»57.
Ad esempio, in Imponderabilia, la performance consiste nel passaggio tra due corpi nudi, allo scopo di mettere in soggezione il fruitore, o in Relation in Time, l’effetto ottico dato da un nodo che lega i capelli di Marina insieme a quelli del suo compagno Ulay, crea una sensazione di straniamento che porta a percepire due elementi distinti come una creatura a due teste. Al rapporto fra corpo e oggetto è riconducibile Rest Energy, in cui per quattro minuti e venti secondi, l’artista sostiene un arco, con la freccia puntata contro di lei e la corda tesa da Ulay; «il rischio della morte e la paura del dolore respingono e attraggono in modo fatale»58. «La stoica imperturbabilità con la quale Abramović conduce a termine le sue performance tradisce un’etica del fare assunta, nella sua estrema radicalità, una dimensione artistica. Una “legge della performance”59. Il medesimo confronto con il rischio raggiunge il suo apice in Rythm 0, che è la prova che l’uomo, se consapevole di non dover fronteggiare alcun tipo di responsabilità morale o giuridica, è portato ad accanirsi, a seguire i propri istinti selvaggi e malevoli, su chiunque si trovi i una posizione di subalternità.
Nella Galleria Morra, a Napoli, nel 1974, Abramović diventa oggetto, posando per sei ore, dalle 20.00 alle 2.00, nella stessa posizione, in balia degli spettatori. La performance si configura in questo modo: l’artista si posizione di fronte a un tavolo con settantadue oggetti, alcuni innocui, come una rosa, un giornale, un rossetto, altri potenzialmente mortali: un paio di forbici, un coltellino, un’accetta, una pistola con a fianco un proiettile. Nella sua performance «Abramović mette a rischio la sua incolumità saggiando la resistenza e i limiti del proprio corpo, un corpo senza limiti e confini60. Di fronte alla concreta possibilità di «morire per l’arte», afferma: «Se qualcuno voleva caricare la pistola e usarla, ero pronta alle conseguenze»61. L’esperimento provoca inizialmente timore nel pubblico, che si limita ad accarezzarla, a porgerle una rosa o a darle un bacio; sono principalmente le donne ad incentivare gli uomini a compiere azioni sul suo corpo, anche se la loro presenza funge in un certo senso da ostacolo all’azione dei mariti: «penso che il motivo per cui non venni violentata fu che erano presenti le mogli»62:
Quando si fece notte fonda, nella galleria cominciò ad avvertirsi una certa tensione sessuale. Non era da me che proveniva, ma dai visitatori. […] Dopo tre ore, un uomo mi tagliò in due la maglietta e me la tolse. […] Due tizi mi sollevarono di peso e mi portarono in giro. Mi misero sul tavolo, mi allargarono le gambe e conficcarono il coltello a poca distanza dal mio sesso63.
Le molestie sessuali inaugurano una partecipazione attiva che conduce, senza remore, alla violenza fisica: «E poi c’era un uomo di statura molto bassa che mi stava appiccicato, ansimando. Mi faceva paura. Nessun altro e nessun’altra cosa me ne aveva fatta, ma lui sì. Dopo un po’ mise il proiettile nella pistola e me la mise nella mano destra. La puntò verso il mio collo e toccò il grilletto»64. L’esperimento continua impassibile, tra le lacrime e il sangue dell’artista, fino alla fine, lasciando la donna in balia di una convinzione: «In quel momento mi resi conto che il pubblico può ucciderti»65. Alla parola «fine» Abramović avanza verso i suoi aguzzini, senza pronunciare alcun suono, la loro reazione, davanti ad una donna violata, evidenzia l’effettiva paura dell’uomo: il confronto. «Alla vista di Abramović che “prendeva vita”, che da oggetto tornava essere umano, il pubblico arretrò spaventato, si mise quasi in fuga […]. Nessuno ebbe il coraggio di guardare negli occhi serenamente la donna che, poco prima, era stata vittima di abusi e azioni altamente crudeli, perpetrate nella consapevolezza dell’impunità»66. La dimostrazione che la performance offre è la liberazione, da parte dell’artista, delle proprie paure, nel tentativo di far capire al pubblico che, se è possibile per lei, è possibile per tutti. La ricezione, da parte delle persone presenti, consiste, nei giorni successivi, in una sensazione di straniamento, incapacità di comprendere: «non si erano rese conto di ciò che era successo mentre erano lì – non sapevano che cosa fosse successo a loro»67. «Quello che era successo […] era la performance. E l’essenza della performance è che il pubblico e il performer realizzano l’opera insieme»68.
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M. Fusillo, Feticci. Letteratura, cinema e arti visive, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 75. ↑
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S. Rimini, Nan Goldin, «Scopophilia», in «Arabeschi», 4, 2014, pp. 162-164. ↑
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D. Curti, M. Frontino, Una foto all’ora a chi dorme nel suo letto. Così Sophie Calle diventa famosa. Poi i ritratti della madre morente, in «La ventisettesima ora», 12 novembre 2015, <https://27esimaora.corriere.it/articolo/una-foto-allora-a-chi-dorme-nel-suo-letto-cosi-sophie-calle-diventa-famosa-poi-i-ritratti-della-madre-morente/>, url consultato il 14 novembre 2023. ↑
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E. Canzaniello, L’esperimento definitivo di Sophie Calle, in «Racna», 26 ottobre 2016, <https://www.racnamagazine.it/esperimento-sophie-calle-6926-2/>, url consultato il 14 novembre 2023. ↑
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G. Di Bella, Come una performance di Marina Abramović dimostrò che l’essere umano è per natura crudele e violento, in «The Vision», 25 ottobre 2021, <https://thevision.com/cultura/marina-abramovic-rhythm-0/>, url consultato il 14 novembre 2023. ↑
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M. Abramović, Attraversare i muri, un’autobiografia, cit., p. 87. ↑
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