Storie di quadri in Calvino e Perec. Il castello dei destini incrociati e Un cabinet d’amateur

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1. Il mondo visuale di Calvino

Prima della fotografia1 e del cinema2, è l’arte pittorica a interessare maggiormente Calvino: difatti non ha mai smesso di guardare la pittura, di citare pittori, di scrivere in occasione di mostre e della pubblicazione di libri, o anche di recensire opere del presente e del passato. Si pensi ad un breve testo, Gli amanti, scritto per la mostra delle litografie di Carlo Levi3, apparso nel 1955 su «Il Contemporaneo», sino ad arrivare ad uno dei suoi ultimi scritti, dedicato all’opera di Arakawa – artista e architetto giapponese –, pubblicato postumo4.
Calvino ha dimostrato una particolare predilezione per l’arte visiva, la quale raggiunge l’acme nelle sale del suo museo immaginario, esplorato e commentato nelle pagine della Taverna dei destini incrociati, con le storie di San Girolamo e di San Giorgio lette come emblemi pittorici della propria condizione, scissa tra l’interno e l’esterno. L’idea di adoperare i tarocchi viene da Paolo Fabbri che, in un «Seminario internazionale delle strutture del racconto» del luglio 1968 a Urbino, tenne una relazione su Il racconto della cartomanzia e il linguaggio degli emblemi5. Calvino e Fabbri si conoscevano dagli anni Settanta circa e, a riprova del loro sodalizio, sono conservati degli scambi epistolari in cui l’autore ligure manifesta la poetica sottesa alla sua opera:

Bisogna tenere presente che alle carte corrispondono le funzioni del racconto, le quali sono in maggioranza (controllare su Propp) nefaste (l’ostacolo, la mancanza, la trasgressione ecc.) solo che l’astuzia retorica del racconto popolare (e ciò che la contraddistingue p. es. dalla tragedia, dall’histoire larmoyante ecc.) è che le carte faste sono disposte alla fine, come in una divinazione truccata (propiziatoria) mentre invece nella tragedia, nel romanzo larmoyant ecc. è il contrario (per scongiuro?)6

A differenza dei tarocchi miniati, quelli del Castello si prestano a una riproduzione grafica anche rimpicciolita senza che si dissolvano la suggestione e il cromatismo. Il mazzo «marsigliese» non differisce particolarmente dai tarocchi ancora in uso in Italia come carte da gioco; ma mentre in ogni carta dei mazzi italiani la figura «è tagliata per metà e si ripete capovolta, qui ogni figura conserva la sua compiutezza di quadretto insieme rozzo e misterioso, che la rende […] adatta alla mia operazione di raccontare attraverso figure variamente interpretabili»7.
Il riferimento letterario spontaneo per Italo Calvino è l’Orlando furioso: anche se le miniature di Bonifacio Bembo8 precedevano di quasi un secolo il poema ariostesco, esse potevano ben rappresentare il mondo visuale in cui la fantasia dell’Ariosto si era formata:

Provai subito a comporre con i tarocchi viscontei sequenze ispirate all’Orlando Furioso; mi fu facile così costruire l’incrocio centrale dei racconti del mio «quadrato magico». Intorno, bastava lasciare che prendessero forma altre storie che s’incrociavano tra loro, e ottenni così una specie di cruciverba fatto di figure anziché di lettere, in cui per di più ogni sequenza si può leggere nei due sensi.9

Il lavoro di Calvino per Il castello consiste nella scomposizione e ricomposizione di un puzzle, nell’escogitazione di nuove regole del gioco, nell’abbozzare centinaia di schemi, a quadrato, a rombo, a stella. Tuttavia c’erano sempre carte essenziali che restavano fuori o carte superflue che finivano in mezzo, e allora gli schemi si complicavano «(acquistando talora anche una terza dimensione, diventando cubici, poliedrici) che mi ci perdevo io stesso»10. Per uscire dall’impasse l’unica via era lasciare perdere gli schemi e tornare alla scrittura delle storie che avevano già preso forma, ma «[…] il gioco aveva senso solo se impostato secondo certe ferree regole; ci voleva una necessità generale di costruzione che condizionasse l’incastro d’ogni storia nelle altre, se no tutto era gratuito»11.
Ogni carta attira a sé un numero sempre maggiore di carte: da qui la difficoltà dell’operazione di Calvino, data dal fatto che «non tutte le storie che riuscivo a comporre visualmente mettendo in fila le carte davano un buon risultato quando mi mettevo a scriverle»12. Alcune storie non comunicano uno scatto alla scrittura, per cui vanno presto eliminate, pena l’abbassamento della tenuta del testo; altre invece acquisiscono subito la forza di coesione della parola scritta.
Certo è che le mura del Castello sono erette a partire da un’iconografia ben chiara: le immagini dei tarocchi non solo accompagnano il testo ma ne veicolano l’andamento e i plurimi significati. Del resto, all’altezza di quest’opera, la descrizione diviene il fulcro della sua idea di letteratura13.

2. Il museo immaginario

Hanno perso la parola tutti: nessuna voce esce dalla gola e neanche la voce degli altri è udibile. A stento si sentono dei rumori: l’acciottolare delle scodelle, lo stappare dei fiaschi, il tambureggiare con i cucchiai e poi ancora il masticare e il ‘ruttare’. Alcuni gesti si levano tumultuosi per soccorrere il mutismo dei protagonisti di questa vicenda, per cui il viaggio nel bosco ha significato la perdita della parola. Uomini e donne siedono a tavola, benvestiti o malvestiti, spaventati, a tratti spaventosi a guardarli, e tutti hanno i capelli bianchi, giovani e vecchi:

[…] Se il mutismo è l’epoché che affligge per incantesimo (alla fin fine: maligno o provvido?) l’atto del raccontare, l’asse del discorso si sposta sul piano bidimensionale dell’immagine riquadrata, incorniciata dentro e fuori i tarocchi, nei quali i «narratori» si compiacciono di specchiare i propri tratti fisionomici. Dinanzi a noi, lettori dunque di secondo grado, scorrerà l’esaustiva panoplia della lettura e della scrittura.14

Dinanzi ai commensali si sparpaglia una distesa di carte in cui specchiarsi per ritrovarsi con la speranza che le immagini possano permettere loro un qualche tipo di comunicazione. La fondazione di un inedito sistema narrativo ha luogo, dunque, a partire dalla reazione all’impedimento sociale15. Il narratore, anch’egli deprivato dalla lingua, invoca le carte per continuare a esistere:

[…] Faccio dei gesti per dire che ho perduto la parola, anche gli altri stanno facendo gli stessi gesti, sono muti, abbiamo perso la parola tutti […]. Come faccio a raccontare adesso che ho perduto la parola, le parole, forse pure la memoria, come faccio a ricordare cosa c’era lì fuori, e una volta ricordato come faccio a trovare le parole per dirlo […]. Meno male ci sono queste carte, qua sul tavolo, un mazzo di tarocchi, di quelli più comuni […]. Ci mettiamo le mani sopra tutti insieme, sulle carte, qualcuna delle figure messe in fila con altre figure mi riporta nella memoria la storia che mi ha portato qui, cerco di riconoscere cosa mi è successo e di mostrarlo agli altri che intanto sono lì e che cercano nelle carte pure loro […].16

La macchina narrativa combinatoria trova spazio nella Taverna dei destini incrociati e consiste nel disporre i tarocchi in fila per farne scaturire delle storie: i quadri prendono il posto dei rettangoli istoriati e il narratore si addentra nelle sale del suo museo immaginario. Quest’ultimo contiene soltanto due tipi di quadri: quelli che raffigurano San Girolamo, che succede all’Eremita, e quelli che ritraggono San Giorgio, che dà il cambio al Cavaliere di Spade:

Il gioco di prestigio che consiste nel mettere dei tarocchi in fila e farne uscire delle storie, potrei farlo anche coi quadri dei musei: mettere per esempio un San Girolamo al posto dell’Eremita, un San Giorgio al posto del Cavaliere di spade e vedere cosa viene. Sono, vedi il caso, tra i soggetti della pittura che più mi hanno attratto. Nei musei mi fermo sempre volentieri davanti ai sangirolami. I pittori rappresentano l’eremita come uno studioso che consulta trattati all’aria aperta, seduto all’imboccatura d’una grotta. Poco più in là è accucciato un leone, domestico, tranquillo.17

Calvino esplora le sale dei musei – Parigi, Londra, Firenze, Monaco, Venezia, Verona – alla ricerca del proprio emblema, e interroga le opere di pittori come Dürer, Antonello da Messina, Carpaccio, Botticelli, Raffaello, Tintoretto, Altdorfer, Giorgione, Pisanello, Paolo Uccello. Va in cerca dei ritratti di San Girolamo e Sant’Agostino per proporne una lettura meticolosa, attenta ai dettagli; una lettura che si configura come un’indagine, o meglio un’investigazione. Si prenda ad esempio l’interpretazione che dà della puntasecca di Rembrandt:

[…] La città alta sovrasta il leone che gira il muso intorno, e il santo in basso, che legge beato, all’ombra d’un noce, sotto un cappello a larghe tese. Alla sera gli eremiti vedono accendersi le luci alle finestre, il vento porta a ondate la musica delle feste. In un quarto d’ora, volessero, sarebbero di ritorno tra la gente. La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista.18

Altrettanto interessante è la lettura che Calvino fa del Sant’Agostino di Botticelli conservato agli Uffizi, laddove la figura del santo si carica di inquietudine: «[…] comincia a innervosirsi, appallottola fogli dopo fogli e li butta per terra sotto il tavolo»19. Botticelli differisce dal Carpaccio, nella cui tela invece regnano la serenità, la concentrazione, l’agio e tuttavia irrompe «[…] una corrente d’alta tensione […]. Dentro lo spazio interiore cova un annuncio di terremoto […]. Come solo la città dà un senso all’ispido paesaggio dell’eremita, così lo studio, col suo silenzio e il suo ordine, non è altro che il luogo dove si registrano le oscillazioni dei sismografi»20. L’autore del Castello non è interessato alla storia dei singoli quadri oppure ai loro significati artistici. La sua è una lettura simbolica che mira all’emblema, alla figura, all’archetipo: «[…] cerca nei quadri una verità che è sia in lui che nei quadri, cerca il tema, il motivo che sente comune a sé e al quadro»21.
Il primo emblema è costituito dallo scrittore e della bestia, allorché Calvino si chiede: «[…] Perché il leone? La parola scritta ammansisce le passioni? O sottomette le forze della natura? O trova un’armonia con la disumanità dell’universo? O cova una violenza trattenuta ma sempre pronta ad avventarsi, a sbranare?»22. Calvino tenta di riconoscervisi, non particolarmente nel santo e nemmeno nel leone, ma in ambedue, «nell’insieme, nel quadro, figure oggetti paesaggio»23.
Il secondo emblema è quello dell’eremita e della città: «[…] I quadri degli eremiti, quasi sempre, hanno una città sullo sfondo. Una stampa di Dürer è occupata tutta dalla città […]. Nella puntasecca di Rembrandt la città alta sovrasta il leone […]»24. Dopodiché la scena si sposta nello studio: lo scrittore solitario è in mezzo ai suoi strumenti, dove un San Girolamo si confonde facilmente con un Sant’Agostino se non fosse per il leone. Il mestiere di scrivere uniforma le vite di ciascuno: ogni uomo che scrive, dice Calvino, «assomiglia a ogni altro uomo allo scrittoio»25. Gli animali dei quadri non sono soltanto il leone mansueto, ma anche il pavone di Antonello da Messina o il lupacchiotto di Dürer in un’incisione, o il cagnolino maltese del Carpaccio agli Schiavoni a Venezia. In queste opere lo scrittore legge gli oggetti collocati nello spazio, il loro essere superficie attraversata dalla luce e dal tempo: «[…] Il quadro è anche il “catalogo degli oggetti” e la stanza, lo spazio della stanza, è “lo spazio della mente”: l’allestimento del quadro è un allestimento della mente, l’arredamento di quello studiolo è l’arredamento della mente dello scrittore, il suo catalogo mentale di oggetti è “l’ideale enciclopedico dell’intelletto, il suo ordine, le sue classificazioni, la sua calma”»26.

botticelli agostino

S. Botticelli, Sant’Agostino nello studio, tempera su tavola, 41 x 27 cm, 1490-1495 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze.

La terza coppia-emblema è calma/inquietudine: da un lato la calma della stanza, dall’altro l’inquietudine degli oggetti che vi sono sparsi. Stando alle parole di Calvino, è possibile pensare che il dipinto a cui si riferisce è Sant’Agostino nello studio27, una tempera su tavola di Sandro Botticelli, databile al 1490-1495 circa. Qui la figura del santo è tutt’altro che quieta: in primo piano, sotto il tavolo, si vedono i fogli appallottolati, lasciati cadere nervosamente. Il capo leggermente inclinato sorregge lo sguardo mesto del santo in risposta ad un ambiente cupo.
In realtà anche lo studio apparentemente più placido – quello del Carpaccio a San Giorgio degli Schiavoni, con il santo che si ferma e sospende la penna a mezz’aria come per riflettere – cela «una corrente d’alta tensione»28. Gli oggetti sono in disordine: i libri, la scrivania, la collezione di anticaglie con vasi e bronzetti; l’unico soffio di calma viene dal cane situato in basso a sinistra, che leva il muso verso il padrone29.

V. Carpaccio, Sant’Agostino nello studio o Visione di Sant’Agostino, tempera su tela, 141 x 210 cm, 1502, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.

Lo spazio interiore – una stanza soleggiata e quieta – si tramuta in un luogo caotico, disordinato, scisso tra l’«armoniosa geometria intellettuale» e l’«ossessione paranoica»30. Il narratore s’interroga sulla natura di questa inquietudine incalzante e si chiede se è colpa dei «boati del fuori»31 che fanno tremare le finestre. In realtà le oscillazioni tra il silenzio, la calma, il disordine e la confusione sono il riflesso del dentro/fuori: ancora una volta il fuori è un dentro e viceversa.
Il passo del narratore accelera attraverso le sale del suo museo immaginario, e si avvicina il momento in cui le figure dei santi scrittori e pensosi lasciano spazio a quelli attivi e guerrieri. Non prima però di avere aperto una riflessione sulla pittura/scrittura:

[…] Da anni ormai sto qui rinchiuso, rimuginando mille ragioni per non mettere il naso fuori, e non trovandone una che mi metta l’anima in pace. Forse mi viene da rimpiangere modi più estroversi d’esprimere me stesso? C’è stato pure un tempo in cui girando nei musei mi fermavo a confrontare e a interrogare i sangiorgi e i loro draghi. I quadri di San Giorgio hanno questa virtù: fanno capire che il pittore era contento d’avere da dipingere un San Giorgio. Perché San Giorgio lo si dipinge senza crederci troppo, credendo solo alla pittura e non al tema? Della condizione instabile di San Giorgio (come santo di leggenda, troppo simile al Perseo del mito; come eroe del mito, troppo simile al fratello minore della fiaba) sembra che i pittori siano sempre stati consapevoli, così da guardarlo sempre un po’ con l’occhio «primitivo». Ma, nello stesso tempo, credendoci: nel modo che hanno i pittori e gli scrittori di credere a una storia che è passata per tante forme, e per il fatto di dipingerla e ridipingerla, di scriverla e riscriverla, se non era vera lo diventa.32

Lo statuto figurativo della scrittura rende possibile il parallelo tra quest’ultima e la pittura; parallelo reso nitido ancora una volta dallo stesso Calvino: sia l’artista visivo che l’artista verbale possiedono il dono di rendere vero ciò che addirittura alcune volte non è. È una dichiarazione di poetica: la verità della finzione letteraria o pittorica è, per l’appunto, una vera finzione. O meglio: «[…] è archetipo simbolo figura proprio in virtù dell’essere stata dipinta e ridipinta, scritta e riscritta, in tal modo è divenuta vera immagine sul foglio o sulla tela»33.
L’altro emblema calviniano riguarda San Giorgio e la sua lotta col drago: «una figura su uno stemma inchiodata fuori dal tempo»34, che ricompare nella lettura che ne fa in Histoire du Chevalier parenthèse35. Il tema del drago-mostro ritorna nelle Lezioni Americane, dove Calvino ragiona senza mai uscire dal «linguaggio di immagini»36, affidate alla figura di Perseo e della Gorgone:

[…] Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e non si può spiegare altrimenti. […] Mi sembra che la leggerezza di cui Perseo è l’eroe non potrebbe essere meglio rappresentata che da questo gesto di rinfrescante gentilezza verso quell’essere mostruoso e tremendo ma anche in qualche modo deteriorabile, fragile. Ma la cosa più inaspettata è il miracolo che ne segue: i ramoscelli marini a contatto con la Medusa si trasformano in coralli, e le ninfe per adornarsi di coralli accorrono e avvicinano ramoscelli e alghe alla terribile testa. Anche questo incontro d’immagini, in cui la sottile grazia del corallo sfiora l’orrore feroce della Gorgone, è così carico di suggestioni che non vorrei sciuparlo tentando commenti o interpretazioni.37

Anche questa coppia di opposti è sempre pronta a rovesciarsi: la grazia del corallo scaturisce, in una poesia di Ovidio38 ripresa da Calvino, dal contatto con la testa di Medusa; inoltre Perseo è l’eroe della visione indiretta, poiché «riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio»39. La forza di Perseo sta nel rifiuto della visione diretta, che non significa però «rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello»40.
Inoltre Calvino accosta i versi di Ovidio a quelli di un poeta moderno: è la volta di Eugenio Montale nella poesia Piccolo testamento, ove si legge «[…] Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, del Hudson, della Senna / scuotendo l’ali di bitume semi- / mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora»41. Montale, in realtà, non viene evocato a sostegno di questa o quella qualità della letteratura, ma «a testimonianza di quell’intrepida sfida all’ignoto e al nulla, che la grande letteratura è costretta incessantemente ad affrontare per non rinunciare alla sua “vocazione” più di fondo, che è quella della conoscenza»42.
Da Venezia a Parigi al Louvre, dove il cavallo e il drago nel San Giorgio di Raffaello si «sovrappongono come in un monogramma», la lancia del santo non attraversa più il campo da sinistra a destra, ma «dall’alto al basso nella gola del mostro»43. La bestia e il cavaliere saturano la scena, mentre a destra la principessa fugge impaurita, voltandosi per l’ultima volta44.
È possibile immaginare che Calvino avesse in mente l’olio su tavola realizzato dal Sanzio nel 1505:

Raffaello S., San Giorgio e il drago, olio su tavola, 31 x 27 cm, 1505 ca., Museo del Louvre, Parigi.

Nel San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, dipinto conservato alla National Gallery di Londra, la bestia si tramuta in dinosauro. Si vedono la principessa a sinistra del quadro, il drago trafitto al centro e San Giorgio combattente e vincitore a destra.

uccello giorgio

P. Uccello, San Giorgio e il drago, olio su tela, 57 x 73 cm, 1460 ca., National Gallery, Londra.

In Tintoretto, invece, il santo su un cavallo bianco affonda la sua lancia in bocca alla belva e la separa dalla principessa in primo piano. Il punctum della scena stavolta non è l’uomo ma la donna: inclinata verso destra dalla corsa, è bilanciata a sinistra per mezzo di un tronco d’albero allo stesso modo inclinato45. Stando alla descrizione attuata da Calvino, potrebbe trattarsi dell’olio su tela dal titolo San Giorgio e il drago, risalente al 1560 circa:

J. Tintoretto, San Giorgio e il drago, olio su tela, 157,5 x 100,3 cm, 1560 ca., National Gallery, Londra.

La corazza è l’elemento che attira il narratore-Calvino nel testo: «[…] In ogni caso San Giorgio compie la sua impresa davanti ai nostri occhi, sempre chiuso nella sua corazza, senza rivelarci nulla di sé: la psicologia non fa per l’uomo d’azione»46. D’altronde è un elemento ricorrente nel cosmo narrativo dell’autore, intesa come difesa ma anche come prigione; allo stesso tempo è un ostacolo e un richiamo. Essa significa anche la separazione dell’eroe, con il suo far intendere che «la psicologia è tutta dalla parte del drago, coi suoi rabbiosi contorcimenti: il nemico il mostro il vinto hanno un pathos che l’eroe vincitore non si sogna d’avere (o si guarda bene dal mostrare)»47. Ciò che l’eroe affronta è la sua psiche: «è il fondo oscuro di se stesso che San Giorgio affronta»48. Ancora una volta l’interno e l’esterno collidono per poi coincidere: la bestia che è dentro riflette la bestia che è fuori. E così la lotta tra il drago e il santo pone il narratore di fronte a un nuovo interrogativo che rovescia la coppia precedente: «È la storia d’un’energia proiettata nel mondo o è il diario d’una introversione?»49.
Le risposte vanno cercate nel museo immaginario.
Altri dipinti figurano la fase successiva del combattimento – quando il drago è steso al suolo ed è soltanto una macchia sul terreno – e si onora la riconciliazione con la natura. Infatti, nelle opere di Altdorfer, conservate a Monaco, o in quelle di Giorgione a Londra, la natura è una madre benevola grazie alla quale gli alberi e le rocce riempiono la tela, relegando in un angolo la bestia e il cavaliere. Oppure appare in scena la festa di una società rigenerata, intorno all’eroe e alla principessa: si pensi all’affresco di Pisanello50, visibile a Verona, o ancora al Carpaccio agli Schiavoni. Nel quadro dell’artista veneziano51, San Giorgio «conduce al guinzaglio il drago nella piazza per metterlo a morte in una pubblica cerimonia. Ma in tutta questa festa della città liberata dall’incubo, non c’è nessuno che sorrida»52. Tutti i volti, afferma Calvino, sono gravi, nonostante il cavaliere Giorgio abbia sconfitto il drago e liberato la principessa, dinanzi ai regnanti pronti a tributargli grandi onori. Non c’è felicità perché «[…] il drago non è solo il nemico, il diverso, l’altro, ma siamo noi, è una parte di noi stessi che dobbiamo giudicare»53.

Pisanello, San Giorgio e la principessa, affresco, 223 x 430 cm, 1433-1438, Basilica di Santa Anastasia, Verona.

carpaccio trionfo giorgio

V. Carpaccio, Trionfo di San Giorgio, tempera su tavola, 141 x 360 cm, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.

Lungo le pareti degli Schiavoni, le storie di San Giorgio e di San Girolamo – l’eremita e il cavaliere – proseguono l’una di fianco all’altra come si trattasse di un’unica storia: «[…] E forse sono davvero una sola storia, la vita d’uno stesso uomo, giovinezza maturità vecchiaia morte». Al narratore resta da scovare «la traccia che unisca l’impresa cavalleresca alla conquista della saggezza»54 e questa è possibile rinvenirla mediante una riflessione sulle analogie:

Riflettiamo. A ben guardare, l’elemento comune delle due storie è nel rapporto con un animale feroce, drago nemico o leone amico. Il drago incombe sulla città, il leone sulla solitudine. Possiamo considerarlo un solo animale: la bestia feroce che incontriamo tanto fuori quanto dentro di noi, in pubblico e in privato. C’è un modo colpevole di abitare la città: accettare le condizioni della bestia feroce dandogli in pasto i nostri figli. C’è un modo colpevole d’abitare la solitudine: credersi tranquillo perché la bestia feroce è resa inoffensiva da una spina nella zampa.55

La visita al museo immaginario si conclude dunque con un’osservazione sull’elemento comune: il segno, la traccia, la figura, il simbolo, che permette il passaggio dall’interno all’esterno, tra la vita eremitica e quella cavalleresca. Alla fine «[…] l’eroe della storia è colui che nella città punta la lancia nella gola del drago, e nella solitudine tiene con sé il leone nel pieno delle sue forze, accettandolo come custode e genio domestico, ma senza nascondersi la sua natura di belva»56.
La galleria dei ritratti si rivela allora una galleria di autoritratti, in cui non vi è altro che la lettura del proprio personale emblema con animale. Il narratore-Calvino, abile nel pensare per immagini, abita una stanza a sua volta abitata da figure. Scopre che le immagini non si lasciano dividere: «[…] siamo al centro d’una stanza con figure che si offrono alla vista tutte insieme»57.
Il segreto è leggere le figure legandole insieme.
Nel 1985 Maria Corti chiedeva a Calvino se – nella ricostruzione del suo cammino creativo – avesse preferito un processo di sviluppo coerente e ininterrotto, o una serie di cambi di rotta, oppure il fatto d’avere scritto un libro soltanto per tutta la vita. Calvino ribatté senza indugi: «Propenderei per la seconda ipotesi: cambio di rotta per dire qualcosa che con l’impostazione precedente non sarei riuscito a dire»58.
Il lettore non nutrirebbe dubbi sulla veridicità di tale affermazione. D’altronde una delle sollecitazioni più eccitanti che il libro ci propone risiede nella pluralità delle rotte, o degli intrecci che uniscono tra loro i singoli fili, istituendo sequenze significative:

[…] Ancora una volta Calvino ha messo un assoluto rigore geometrico al servizio dei suoi giochi e delle sue invenzioni: la sceneggiatura di Propp, che ci ha offerto con Il castello dei destini incrociati, ci invita a utilizzare il suo “mazzo di carte”, il suo solitario per scoprire un sentiero plausibile, discorso o racconto che sia, rigiocando il testo su molteplici livelli, correndo sul limite dell’arbitrio, sprofondandoci dentro se necessario, per riprendere poi, da zero, un lento lavoro di tessitura.59

È proprio il lavoro di tessitura lo scopo della presente indagine sul mondo visuale del Castello. Riannodare i fili, interrogare le immagini e scavare fino a che non è visibile un appiglio, reale o inventato, in un gioco infinito e conteso tra le illusioni e le reali corrispondenze.

3. Calvino e Perec: un accoppiamento infraordinario

Il giorno 8 novembre 1972 segna l’ingresso di Calvino ad una riunione dell’Oulipo in qualità d’invité d’honneur. Nei verbali dell’incontro, tradotti da Michele Costagliola d’Abele, si legge che «l’invitato d’onore è presentato, molto sobriamente, da R. Queneau, che segnala l’esistenza, in alcune opere di Calvino, di preoccupazioni di matrice oulipiana»60. Da un lato l’autore ligure propone il progetto del racconto «I misteri della casa abominevole», costituito da restrizioni di tipo semantico; dall’altro Perec presenta un’idea di romanzo che qualche anno più tardi si concretizza in La vita istruzioni per l’uso, definito da Calvino «l’ultimo vero avvenimento nella storia del romanzo»61. E questo per molti motivi, tra i quali:

[…] il disegno sterminato e insieme compiuto, la novità della resa letteraria, il compendio d’una tradizione narrativa e la summa enciclopedica di saperi che danno forma a un’immagine del mondo, il senso dell’oggi che è anche fatto di accumulazione del passato e di vertigine del vuoto, la compresenza continua d’ironia e angoscia, insomma il modo in cui il perseguimento d’un progetto strutturale e l’imponderabile della poesia diventano una cosa sola.62

L’iper-romanzo La vita istruzioni per l’uso, molto esteso e costruito da diverse storie che s’intersecano, è il luogo ideale della contrainte. L’azione si svolge in un caseggiato parigino e ad ogni capitolo corrisponde una stanza. Lo schema dell’edificio si presenta come un “biquadrato” di dieci quadrati per dieci: una scacchiera in cui Perec si sposta da una stanza (ossia capitolo) all’altra con il salto del cavallo, secondo un ordine che permette di toccare tutte le caselle. Nell’opera Perec ha steso delle liste di temi, divisi per categorie, e in ogni capitolo figura un tema di ogni categoria, al fine di variare sempre le combinazioni. La costruzione del romanzo sulla base di regole fisse – di contraintes, appunto – non limita in nessun modo la libertà narrativa, che anzi ne deriva più viva:

Il demone del collezionismo aleggia continuamente nelle pagine di Perec, e la collezione più “sua” tra le tante che questo libro evoca direi è quella di unica, cioè di oggetti di cui esiste un solo esemplare. Ma collezionista lui non era, nella vita, se non di parole, di cognizioni, di ricordi; l’esattezza terminologica era la sua forma di possesso; Perec raccoglieva e nominava ciò che fa l’unicità d’ogni fatto e persona e cosa. Nessuno più immune di Perec dalla piaga peggiore della scrittura d’oggi: la genericità.63

La figura di Calvino aleggia tra le pagine di La vita istruzioni per l’uso, l’iper-romanzo che si nutre di altri romanzi – non a caso il suo sottotitolo è Romans al plurale – come Il castello dei destini incrociati, Il barone rampante, Le città invisibili. A proposito di quest’ultima opera, si pensi che alla calviniana Valdrada corrisponde la francesizzata Valdrade, che si trova «in una regione che ricorda abbastanza quella dei laghi italiani, poco distante da una città immaginaria»64.
Uno studio condotto da Pier Vincenzo Mengaldo conferma che i due autori hanno in comune qualcosa in più del semplice temperamento. La figura dell’elencazione o dell’enumerazione protratta, per esempio, è una delle costanti non soltanto in Perec ma anche nello stile di Calvino, poiché assume di volta in volta significazioni differenti in relazione alla materia narrata: «[…] fra le riuscite rassicuranti di un’arte combinatoria che riesce ad aggregare e distinguere con precisione gli aspetti del mondo, e le sorprese ora positive ora negative dell’aleatorio, del magmatico, del fuori strada»65.
Inoltre, Michele Costagliola d’Abele chiarisce che «gli oulipiani, nell’Atlas de la littérature potentielle, riconoscono solo degli “eléments oulipiens” a Se una notte d’inverno un viaggiatore, attribuendo carattere potenziale esclusivamente a Il castello dei destini incrociati»66. Nel Castello il trauma della voce perduta dà avvio ad una narrazione che ricorre ad un linguaggio altro: le immagini, e non solo dei tarocchi. Tale processo è identificato da Marcel Bénabou con il termine “lipofonia”, neologismo che tra l’altro ricalca la contrainte del lipogramma sperimentato da Perec ne La Disparition, testo che ruota intorno all’irrevocabile scomparsa della lettera “e”.
Entrambi gli autori non intendono guardare alla letteratura come ad una fuga a-problematica dalla realtà. È chiaro che la dimensione ludica del fatto letterario sia la risposta ad un pessimismo generalizzato che attanaglia l’Europa del dopoguerra, ma non comporta una sfiducia totale nell’uomo, nella storia e nella realtà67. Perec parla della sua esplorazione minuziosa come di una volontà:

[…] così caparbia da diventare necessità, di salvare gli eventi dell’ordinario dalla loro sparizione, dall’oblio, come succede al fantastico regno di Tlön dove le cose tendono a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. […] Gli eventi emergono da una precisa indagine della vita quotidiana e vengono designati come “infraordinario”. […] La dimensione intermedia e sospesa garantita dall’infraordinario può essere intesa come la depositaria di ciò che, per sua natura, viene trattenuto solo precariamente: il passato inteso come traccia, come inizio, come eredità.68

Queste parole fanno ben intendere anche le ragioni per cui Calvino abbia scelto d’aderire ad un gruppo dalla posizione autonoma rispetto ai circoli letterari allora in voga. Nel corso di un’intervista rilasciata a Ferdinando Camon nel 1973, l’autore chiarisce le ragioni che l’hanno avvicinato al gruppo francese:

[…] Quello che me li rende vicini è il loro rifiuto della gravità che la cultura letteraria francese impone dappertutto, anche dove sarebbe necessaria un po’ di autoironia. Questi qui no: considerano la scienza non in modo grave, ma come gioco, secondo quello che è sempre stato lo spirito degli scienziati veri, del resto. Certo anche in loro, in questo scherzare per partito preso, in questa meticolosità da collaboratori della «Settimana enigmistica», c’è una dimensione eroica, un nichilismo disperato.69

L’accoppiamento infraordinario tra Calvino e Perec pare che abbia una sua puntualità: da una parte l’uomo che vive a mezz’aria, con un piede solo, aggrappato alla scrivania «che è un po’ come un’isola»70; dall’altra il prototipo dell’eroe nichilista e disperato, di certo «una delle personalità letterarie più speciali al mondo, tale da non assomigliare assolutamente a nessuno»71.

4. Un cabinet d’amateur. Il falsario

Storia di un quadro è l’ultimo romanzo pubblicato da Georges Perec e vede al centro, appunto, la descrizione di un quadro del pittore Heinrich Kurz in cui sono rappresentati i dipinti della collezione del committente – Hermann Raffke – nonché il quadro stesso. In una continua e vertiginosa mise en abyme, nessuna copia è riprodotta fedelmente, per cui ogni variazione è al servizio dell’ambiguità. Si tratta di un gioco di rimandi e identificazioni fallite; un dialogo in cui si intersecano verità e finzione, in un movimento che rende la scrittura di Perec di assoluta originalità.
Andrée Chauvin mette in luce come l’alterazione non sia soltanto una modificazione minuscola che interroga lo spettatore, ma una struttura ben più complessa dal momento che implica un processo di reinterpretazione dell’opera, un cambio di prospettiva da cui derivano nuove letture ed esegesi72. Per riprendere un’immagine cara a Perec, è come orientare in maniera diversa la tessera di un puzzle:

L’essenziale delle illusioni di Gaspard Winckler si basava su questo principio: obbligare Bartlebooth a investire lo spazio vuoto di forme apparentemente anodine, evidenti, facilmente descrivibili – per esempio, un pezzo del quale, qualunque ne fosse peraltro la configurazione, due lati dovevano obbligatoriamente formare tra loro un angolo retto – e nello stesso tempo forzare in un senso completamente diverso la percezione dei pezzi destinati a riempirlo sul serio.73

In Storia di un quadro, Perec svela l’enigma sotteso alle seppur minuscole variazioni: «[…] Non si tratta di un approccio ironico che tende a riproporre l’idea, certo seducente, ma senza sbocco, di una presunta ‘libertà dell’artista’ rispetto al mondo che è stato incaricato di riprodurre […] bensì di un processo di incorporazione, come di un accaparramento: proiezione verso l’Altro e, nello stesso tempo, Furto nel senso prometeico del termine»74. Lo scrittore costruisce dunque una struttura che confonde i piani della realtà e della finzione, mettendo in crisi la scissione tra le due.
Il lettore – coinvolto in questo slittamento – è chiamato ad entrare nell’opera che traduce i dipinti in parole ed è posto di fronte alle molteplici possibilità di visione.
Descrivere è, in qualche modo, una creazione ab origine, e poi ancora può rivelare la generazione di un enigma, di una confusione. Quand’anche si descrive un falso, è necessario che dia l’impressione del vero – perfino nel caso di opere mai realmente esistite. Non a caso Bernard Magné ha definito l’opera di Perec una storia di mistificazioni: non soltanto in riferimento ai dipinti ma, in senso più ampio, al testo stesso75. L’autore intende far credere a chi lo legge che i dipinti in questione siano veri così come la storia che si racconta. Pertanto Un cabinet d’amateur si configura come un trompe-l’œil: sotto lo sguardo del collezionista fluttua una collezione cospicua di falsi autentici e il lettore è assorbito e dall’energia icastica e dalle sale di un altro museo immaginario.
L’abbondanza di nomi, date, dettagli – nonché la somiglianza del testo ai cataloghi per le esposizioni d’arte – concorre a fornire al lettore un che di illusorio. Invece ciò che si racconta è un’impostura, una copia alterata e ogni spiegazione si rivela ingannevole.
La macchina narrativa di Storia di un quadro attinge allo stesso procedimento adoperato per La vita istruzioni per l’uso, laddove documenti falsi e documenti veri sono presentati come reali, rafforzando l’oscillazione tra verità e finzione. La scrittura perecchiana sembra erigersi intorno alla figura del dubbio e dell’incertezza. È possibile leggere in questo atteggiamento un contrappunto letterario alle vicende biografiche: la prematura morte dei genitori, che ha lasciato lo scrittore orfano bambino, e l’impossibilità di reperire i resti del corpo della madre, finita ad Auschwitz76. Da qui il tentativo di inventariare tutto – a partire dai dettagli minuti e all’apparenza insignificanti – si tradurrebbe come uno sforzo per superare il trauma della perdita. Se ogni elemento è una traccia che diviene un segno da custodire, le lunghe descrizioni visionarie di Perec fanno da appiglio al quale aggrapparsi.
Sul finire dell’opera, come in un colpo di scena, l’autore si apre allo svelamento del falso: «Verifiche successive, condotte con estrema diligenza, non tardarono a dimostrare che la maggior parte dei quadri di Hermann Raffke erano proprio falsi, come, per lo più, sono falsi i particolari di questo racconto inventato, concepito per il solo piacere, e l’esclusivo brivido, della finzione»77.
Analizzando la struttura di Un cabinet d’amateur, Dominique Quélen e Jean-Christophe Rebejkow evidenziano come – nella vertigine di copie e di falsi – il testo è in grado di consegnarci qualcosa di davvero originale. Paradossalmente il gioco d’astuzia e l’indecisione sono i soli modi per dire la verità. In effetti Kurz lascia nel proprio quadro delle tracce, delle riproduzioni del proprio lavoro passato e futuro, delle operazioni realizzate e di quelle appena progettate: «Inserisce nel suo Cabinet d’amateur, non fosse che sotto la forma pressoché indiscernibile ‘d’un piccolo rettangolo di due centimetri di lunghezza su uno di larghezza’, la presunta copia di un quadro che avrebbe avuto questo titolo ma che non ha mai dipinto, e che si configura dunque, ecco il paradosso, come l’originale»78.
A dispetto di quanto si pensi, però, l’originale esiste e consiste nell’operazione stessa della scrittura. È il processo della scrittura ad essere vero, reale, tangibile.
La vita istruzioni per l’uso – ipotesto di Storia di un quadro – chiarisce che la ricerca dell’autore francese è tutta tesa verso “il libro a venire”79: «[…] è a quel primo periodo che risalgono le prime letture di cui mi ricordi. […] Al di là di tutto in quei primi tre libri c’era qualcosa di sorprendente, e cioè che erano incompleti, che ne implicavano altri, mancanti e introvabili»80.
L’ultima tessera del puzzle è data da Storia di un quadro, la cui lettura seguirà nei paragrafi successivi.

5. Quadro I. Le immagini derivate

Se La vita istruzioni per l’uso è la collezione delle immagini più care a Perec – quelle che ha raccolto per tutta la vita e che costituirono i pezzi del suo puzzle o che sopperirono alla mancanza – Storia di un quadro ne è il cabinet, l’opera che le raccoglie tutte insieme e consente all’amateur di avere di fronte agli occhi una collezione con dovizia di particolari. A causa del ruolo preminente della descrizione, il romanzo di Perec è stato più volte ricondotto al genere dell’ékphrasis, cui di fatto appartiene. In particolare lo studio di Manet van Montfrans ha individuato le principali fonti pittoriche e critiche del romanzo e l’ha ricondotto al suo ipotesto, di cui costituisce, come afferma Perec, un encryptage81. Tuttavia sarebbe riduttivo concentrare tutte le modalità di rapporto parola/immagine sotto un’unica definizione di ékphrasis. Pertanto è necessario ricorrere alla catalogazione compiuta da Michele Cometa nell’ambito del dibattito tra la letteratura e le arti figurative.
L’ékphrasis in Storia di un quadro è il più delle volte un’ékphrasis creativa, nel senso di «descrizioni di immagini che non hanno alcuna esistenza oggettiva»82, per cui rientra in una versione novecentesca dell’ékphrasis sottoposta anch’essa all’impossibilità di associare la descrizione ad un referente reale83. Del resto anche Montfrans mette l’accento sulle caratteristiche di alterazione, distorsione e condensazione tipiche dello slittamento dalle immagini reali alla loro traduzione in parola. Non è un caso che tra le caratteristiche più importanti dell’ékphrasis ci sia l’inclusione dell’orizzonte della ricezione – il cosiddetto patto di riconoscibilità delineato da Eco84 – che l’autore offre al lettore dal momento che descrive un’opera d’arte. La partecipazione interpretativa costringe chi legge a riconoscere i quadri reali descritti dall’autore, a immaginare quelli fittizi e a scoprire i falsi. Tutto ciò concorre a moltiplicare i livelli di realtà in cui vengono implicati i personaggi, le immagini esplicite insieme con l’autore stesso – oltre al fatto che viene meno la “compattezza semantica” dell’arte e della letteratura85.
L’ékphrasis descrittiva – che descrive un’opera realmente esistente – diverge dall’ékphrasis nozionale in grado di realizzare in letteratura immagini inesistenti nella tradizione figurativa. Tra questi due poli ci sono poi diverse sfumature e realizzazioni particolari: Eco individua nove forme di ipotiposi, ovvero di forme letterarie che trasmettono impressioni visuali o spaziali di qualsiasi forma, anche al di là dell’opera d’arte in senso stretto, che è, invece, l’ambito cui si dedica completamente l’ékphrasis. La maggior parte dell’opera di Perec è caratterizzata dalla nominalizzazione, vale a dire la sola citazione del quadro senza ulteriori descrizioni. Questa tecnica induce il lettore a mettere in campo tutta la sua conoscenza non soltanto artistica ma soprattutto letteraria, poiché sarebbe molto difficile entrare tra le righe di Storia di un quadro senza avere almeno letto Vita istruzioni per l’uso. È quanto accade con i due cataloghi della prima e della seconda vendita Raffke, che si limitano a riportare i titoli delle opere, le notizie tecniche ad esse relative e le circostanze dell’acquisto da parte dei precedenti. In poche occasioni l’elenco fa spazio a descrizioni più ampie, come nel caso dei cento quadri e più «[…] riuniti su questa sola tela, tutti riprodotti con una fedeltà e una meticolosità tali che sarebbe impossibile descriverli con precisione. Anche la sola enumerazione dei titoli e degli autori riuscirebbe oltremodo fastidiosa e finirebbe per sconfinare oltre i limiti della presente nota»86. La tela che raccoglie più di cento quadri è Uno studiolo di Heinrich Kürz, il vero motore del romanzo, ove ha luogo la prima ékphrasis da cui deriva la cornice per gli incastri successivi:

Nella tela è rappresentata una grande stanza rettangolare, senza porte né finestre, e le tre pareti che si vedono sono completamente ricoperte di quadri. In primo piano, a sinistra, abbiamo un tavolino rotondo ricoperto da un centrino di pizzo su cui si trovano una caraffa di cristallo lavorato e un bicchiere a calice; di fianco, un uomo seduto su una poltrona imbottita, di pelle verde scuro, volta le spalle per tre quarti a chi guarda. Si tratta di un uomo anziano, con una folta capigliatura bianca, un piccolo naso su cui poggia un paio di occhiali con una montatura in acciaio. Più che vederli, i tratti del viso si indovinano: lo zigomo striato da couperose, i fitti baffi che sporgono leggermente sul labbro superiore, il mento ossuto e volitivo. Indossa una vestaglia grigia con il colletto sciallato finemente bordato di rosso. Ai suoi piedi, parzialmente nascosto dal bracciolo della poltrona e dal tavolino, giace, apparentemente addormentato, un grosso cane rossastro a pelo raso.87

La descrizione pubblicata sul catalogo è anonima ma, nonostante questo, o forse proprio grazie a questo, la mostra gode di un sempre crescente successo e attira i visitatori curiosi e intrigati dal genere del cabinet:

Basti dire che tutti i generi e tutte le scuole dell’arte europea e della giovane pittura americana vi sono mirabilmente rappresentati, sia i soggetti religiosi sia le scene di genere, i ritratti e le nature morte, i paesaggi, le marine, ecc.: lasciamo ai visitatori il piacere di scoprire, riconoscere, identificare vuoi il Longhi o il Delacroix, ora il Gherardo Delle Notti o il Vernet, là l’Holbein o il Mattei, e altri capolavori degni dei più grandi musei d’Europa che l’amatore Raffke, consigliato con intelligenza da eminenti esperti, ha saputo scoprire nel corso dei suoi viaggi.88

L’attenzione del visitatore viene attirata su tre opere che dimostrano la felicità di scelta di Raffke e il talento di Heinrich Kürz nel mostrarcele, avviando un’ékphrasis nell’ékphrasis, sebbene la descrizione minuziosa riguardi le prime due. Il terzo quadro, infatti, non è appeso a una delle pareti. Occupa una posizione diversa: si trova su un cavalletto all’angolo destro dello studio. Si tratta del Ritratto di Bronco McGinnis, un uomo che aveva la pretesa di essere il più tatuato al mondo. La totale invenzione tocca anche l’autore della suddetta opera, un tale Adolphus Kleidröst la cui carriera lo vede muoversi da Colonia a Cleveland. Valeria Cammarata sottolinea come nel nome di Adolphus Kleidröst molti abbiano intravisto l’ombra di Robbe-Grillet, esponente della corrente letteraria nota come Nouveau roman o anche École du regard. Inoltre, la studiosa afferma che:

La questione che investe questo quadro, di cui così poco si parla, è però anch’essa centrale nell’economia del romanzo: la superficie interamente dipinta, drammaticamente saturata della sua stessa possibilità di parlare. Il capitolo della Vita istruzioni per l’uso cui rimanda è, secondo le liste preparatorie, il nono, ma si tratta di un’attribuzione poco chiara. Ne è protagonista la stanza in cui Hutting ha sistemato i suoi due domestici Ethel, la cuoca e il guardarobiere, e Joseph Nieto il paraguaiano autista e uomo di fatica, ex sottocapo della marina mercantile. Le liste riconducono il ritratto anche al capitolo novantacinque, in cui si racconta dell’appartamento dei Gratiolet, soprattutto di quattro quadri […]. […] Las Meninas di Velàzquez è senz’altro una delle fonti pittoriche di Perec, se non altro perché in quale modo riconducibile al genere del cabinet, ma anche perché citata proprio in Storia di un quadro come «lavoro di specchio all’infinito in cui […] chi è guardato e chi guarda non smettono di affrontarsi e di confondersi».89

Il primo quadro nel quadro ad essere descritto è una Visitazione – ricorrerà quattro volte nella storia del quadro – attribuibile a Paris Bordon, o a Lorenzo Lotto o a Sebastiano del Piombo:

[…] Al centro di una piccola piazza contornata di alte colonne, tra le quali sono tesi tendaggi con ricchi ricami, la Vergine, vestita di verde scuro, con un ampio velo rosso, si inginocchia davanti a santa Elisabetta, la quale, vecchia e claudicante, le è venuta incontro sostenuta da due domestiche. In primo piano, a destra, si vedono tre vegliardi, completamente vestiti di nero; due sono in piedi, quasi di faccia: il primo esibisce una pergamena srotolata a metà, su cui è disegnato, con un fine tratto blu, il piano di una città fortificata che il secondo indica con un dito ossuto; il terzo è seduto su uno sgabello in legno dorato, ricoperto da un cuscino verde, e ha i piedi incrociati: questi gira quasi completamente le spalle ai suoi compagni e sembra osservare il fondo della scena: un vasto piazzale dove è in attesa la scorta di Maria: una lettiga chiusa con tendine in cuoio, trainata da due cavalli bianchi che due paggi, vestiti con livree rosse e grigie, tengono per le briglie, e un cavaliere con armatura e una lancia ornata da una lunga banderuola d’oro. All’orizzonte si staglia un paesaggio di colline e boschetti con, il lontananza, le torri sfumate di una città.90

In queste righe si concentra quella che Michele Cometa chiama condensazione. Infatti, se per Perec è impossibile attribuire l’opera ad un dato pittore è perché ha attinto a diverse fonti iconografiche e a più pittori, tra cui è possibile aggiungere anche Solario. La «piccola piazza contornata di alte colonne», per esempio, figura nelle opere di Paride Bordone e in quelle di Sebastiano del Piombo; mentre l’abbigliamento della Vergine vestita di verde «con un ampio velo rosso» è riscontrabile nelle tele di Lorenzo Lotto. Tra le fonti pittoriche cui attinge Perec, l’unica in cui è visibile una figura in ginocchio è nei lavori di Bordon: si pensi all’olio su tela dal titolo Consegna dell’anello al Doge91, conservato a Venezia presso le Gallerie dell’Accademia. Il paesaggio di colline e boschetti è invece assimilabile ai dipinti di Del Piombo: è utile pensare, in questo senso, almeno alla Nascita di Adone, conservato al Museo Civico Amedeo Lia di La Spezia.
I tre vegliardi abbigliati in nero non trovano una corrispondenza iconografica, bensì letteraria: ancora una volta è l’ipotesto di Storia di un quadro ad agevolare il lettore. Quella dei tre uomini in nero, infatti, è un’immagine ricorrente in Vita istruzioni per l’uso, che si ripresenta ogni volta che l’autore immette nel racconto Winckler e il suo quadro preferito. La Visitazione presuppone necessariamente la lettura del testo perecchiano uscito nel 1978, nel cui primo capitolo si legge:

Delle tre stanzette in cui Gaspard Winckler ha vissuto e lavorato per quasi quarant’anni, non resta molto. Quei pochi mobili, il piccolo banco da lavoro, la sega a due tempi, le minuscole lime, non c’è più niente. Sulla parete di camera sua, di fronte al letto, vicino alla finestra, se n’è andato il quadro quadrato che gli piaceva tanto: figurava un’anticamera nella quale si trovavano tre uomini. Due in piedi, con la finanziera, pallidi e grassi, e sovrastati da cilindri che parevano avvitati sul cranio. Il terzo, anche questo vestito di nero, era seduto accanto alla porta nell’atteggiamento di chi aspetti qualcuno e impegnato a infilarsi un paio di guanti nuovi le cui dita aderivano perfettamente alle sue.92

Il capitolo cinquantatre si apre con la terza stanza del suo appartamento e raccoglie l’intera storia di Winckler:

È qui, di fronte al letto, accanto alla finestra, che c’era quel quadro quadrato che gli piaceva tanto e che raffigurava tre uomini vestiti di nero in un’anticamera; non era un dipinto, ma una fotografia ritoccata, ritagliata da La Petite Illustration o da La Semaine théâtrale. Rappresentava la scena I atto III de Le Ambizioni perdute, tetro melodramma di un imitatore mediocre di Henry Bernstein, un certo Paulin-Alfort, e mostrava i due padrini dell’eroe – interpretato da Max Corneille – che venivano a prenderlo mezz’ora prima del duello in cui avrebbe trovato la morte.
Era stata Marguerite a scoprire la fotografia in fondo a una di quelle casse di libri d’occasione che allora esistevano ancora sotto i portici del Théàtre de l’Odèon: l’aveva incollata su una tela, raccomodata, colorita, incorniciata, e poi regalata a Gaspard quando erano venuti a stare in rue Simon-Crubellier.93

Non soltanto è rivelata l’origine di questo quadro ma anche la fonte della Visitazione. In un concatenamento continuo, le varie fonti non vengono adoperate mai in maniera fedele. Le Ambizioni perdute derivano di fatto dal romanzo di Balzac, Illusions perdues, pubblicato in tre parti tra il 1837 e il 1843 e dedicato a Victor Hugo. L’immagine della Visitazione è il risultato della contaminazione di fonti letterarie e pittoriche, reinterpretate e risemantizzate al fine di comporre l’immagine finale.
Tuttavia quest’ultima, insieme con le singole immagini che la costituiscono, è sempre la figura di una mancanza, «come nel caso del quadro di Winckler, o di un progetto di cui si presagisce già il fallimento, o, ancora, oggetto di una manipolazione decostruttiva»94.
In fondo l’opera di Perec è l’opera della mancanza: una ferita che la letteratura si promette di suturare.

6. Quadro II. Le immagini pensate

Il secondo quadro descritto meticolosamente è appeso alla parete di destra dell’interno. È una piccola natura morta ad opera di Chardin, intitolata I preparativi per il pranzo:

[…] Su un tavolo di pietra, fra taluni utensili comuni di cucina, un mortaio, un mestolo, un colabrodo, si possono vedere un prosciutto avvolto in un telo bianco, una scodella colma di latte, una ciotola con pesche di vigna e una bella trancia di salmone posata su un piatto capovolto. In alto, un’anatra è appesa al muro con una cordicella legata alla zampa destra. Riteniamo che assai di rado la freschezza, la semplicità e la naturalezza di Chardin ci siano state offerte con una simile felicità e, a lungo, ci si potrebbe interrogare su che cosa ammirare di più: se il genio del pittore francese oppure l’impeccabile ‘resa’ che Kürz è riuscito a darne.95

Perec gioca con il quadro sin dal titolo: di fatto il pittore Jean-Baptiste-Siméon Chardin, celebre per le nature morte, dipinse I preparativi per il pranzo, noto anche come Il bicchiere d’argento, ma la tela del 1726 ha poco in comune con la descrizione che appare in Storia di un quadro, ad eccezione del tavolo di pietra.

J.-B. Simeon Chardin, I preparativi per il pranzo, olio su tela, 1726, Musée des Beaux Arts, Lille.

Chardin non è il solo riferimento immaginato da Perec. È possibile rintracciarne almeno un altro: il pittore Paul Sérusier, post-impressionista, associato al movimento dei Nabis e autore di Natura morta con zangola, tela in cui sono visibili la ciotola da latte e il colabrodo sulla parete in fondo alla stanza.

P. Sérusier, Natura morta con zangola, olio su tela, 1925.

Il complesso di rimandi non s’interrompe: manca ancora il pezzo più importante che riconduce all’ipotesto Vita istruzioni per l’uso. Nel settantunesimo capitolo, infatti, il lettore trova la descrizione della cucina della signora Moreau, «teatro di numerosissime e fastosissime cene, da cui il soggetto dei nostri quadri, e le successive modifiche che vennero apportate dal proprietario che a questa succedette, Henry Fleury»96. Valeria Cammarata sostiene che in questo caso «il rimando alla Vita istruzioni per l’uso riesce in un intento che è spesso difficile da raggiungere per la letteratura, quello di colorare le immagini che descrive giocando con le sfumature di immagini già esistenti»97. Del resto è il meccanismo messo in atto da Perec per indurre il lettore a prendere parte al gioco testuale, richiamandosi alle proprie esperienze culturali, in maniera meno esplicita rispetto a quanto avviene in Histoire d’un tableu:

Nei dieci anni in cui le bastò la salute per continuare a ricevere, la signora Moreau diede circa un pranzo al mese. Il primo fu un pasto giallo: tortini di formaggio alla borgognona, morbidelle di luccio in salsa olandese, salmis* di quaglia con zafferano, insalata di mais, sorbetti al limone e alla guaiava, accompagnati da xeres, Château-Chalon, Château-Carbonneux e punch ghiacciato al Sauternes. L’ultimo, nel millenovecentosettanta, fu un pasto nero servito in piatti di ardesia lucida; comportava ovviamente caviale, ma anche calamari alla tarragonese, una sella di cinghialetto alla Cumberland, un’insalata di tartufi e una charlotte ai mirtilli; le bevande di quest’ultimo pranzo furono più difficili da scegliere: il caviale venne servito con la vodka versata in piccoli bicchieri di basalto e i calamari con un vino resinato di un rosso effettivamente molto scuro, ma per la sella di cinghialetto il maggiordomo presentò due bottiglie di Château-Ducru-Beaucaillou 1955 travasate per l’occasione in certe brocche a becco di cristallo di Boemia che avevano tutta la nerezza richiesta. […] Uno dei pranzi più memorabili fu dato in onore di un uomo che, del resto, era già venuto varie volte nello stabile: Hermann Fugger […]. Quella sera fece preparare un pranzo rosa – aspic di prosciutto al Vertus, koulibiak di salmone con salsa aurora, anatra selvatica alle pesche da vigna, champagne rosé, eccetera.98

Con il giallo di Serusier e il nero e il rosa di Chardin, Perec riesce a produrre un effetto polisensoriale, fornendo alle parole infinite sfumature e creando quelle che Michele Cometa chiama forme di integrazione. Ma soltanto con il Cabinet queste suggestioni possono essere ricondotte alle loro fonti pittoriche, a dimostrazione del fatto che la codificazione e la decodificazione sono sempre un processo biunivoco. Vita istruzioni per l’uso e Storia di un quadro dimostrano d’essere vicendevolmente necessari.

7. Quadro III. Il santo

Giorgio, il santo che abbiamo visto nella Taverna dei destini incrociati, ritorna, seppure in vesti diverse, in Storia di un quadro. Lo studio di Lester K. Nowak si apre a due rivelazioni fondamentali che riguardano l’Annunciazione tra le rocce e il Cavaliere al bagno. Partendo dalle somiglianze tra l’Annunciazione e alcuni dettagli della Vita di sant’Eustachio alla National Gallery – il cervo, il levriero e il cane maculato – della Leggenda di san Giorgio in Santa Anastasia dove si vedono i due cani vicini al santo e dell’Annunciazione a Verona, Nowak dimostra che l’opera avrebbe potuto essere attribuita a Pisanello. Lester K. decide di avvicinare il Cavaliere al bagno ad un’opera perduta di Giorgione che Giorgio Vasari descrive nella Vita di Giorgione da Castelfranco. Pittor viniziano nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori:

Dicesi che Giorgione, ragionando con alcuni scultori nel tempo che Andrea Verrocchio faceva il cavallo di bronzo, che volevano perché la scultura mostrava in una figura sola diverse positure e vedute girandogli a torno, che per questo avanzasse la pittura, che non mostrava in una figura se non una parte sola, Giorgione che era d’oppinione che in una storia si mostrasse senza avere a torno, ma in una sola occhiata tutte le sorti delle vedute che può fare in più gesti un uomo (cosa che la scultura non può fare, se non mutando il sito e la veduta, talché non sono una ma più vedute), propose di più che da una figura di sola pittura voleva mostrare il dinanzi et il didietro et i due profili dai lati: cosa che’ fece mettere loro il cervello a partito. E la fece in questo modo. Dipinse uno ignudo, che voltava le spalle et aveva in terra una fonte d’acqua limpidissima, nella quale fece dentro per riverberazione la parte dinanzi; da un de’ lati era un corsaletto brunito, che s’era spogliato, nel quale era il profilo manco, perché nel lucido di quell’arme si scorgeva ogni cosa; da l’altra parte era uno specchio, che dentro vi era l’altro lato di quello ignudo; cosa di bellissimo ghiribizzo e capriccio, volendo mostrare in effetto che la pittura conduce con più virtù e fatica, e mostra in una vista sola del naturale, più che non fa la scultura. La qual opera fu sommamente lodata et ammirata, per ingegnosa e bella.99

Sulle superfici dipinte si fa spazio un gioco di luci, ombre e riflessi, tal quale si trova in un’altra opera perduta, un San Giorgio descritto da Paolo Pino:

Georgione da Castel Franco, nostro pittor celeberrimo e non manco degli antichi degno d’onore. Costui, a perpetua confusione degli scultori, dipinse in un quadro un san Georgio armato in piedi appostato sopra un tronco di lancia con li piedi nelle istreme sponde d’una fonte limpida e chiara, nella qual transverberava tutta la figura in scurzo sino alla cima del capo, poscia avea finto uno specchio appostato a un tronco, nel qual riflettava tutta la figura integra in schena e un fianco. Vi finse un altro specchio dall’altra parte, nel qual si vedeva tutto l’altro lato del san Georgio, volendo sostentare ch’uno pittore può far vedere integramente una figura a un sguardo solo, che non può così far un scultore, e fu questa opera (come cosa di Georgione) perfettamente intesa in tutte le tre parti di pittura, ciò è disegno, invenzione e colorire.100

Per dipingere con le parole San Giorgio, Perec ricorre anzitutto ad un secondo autore, Paolo Pino, così la sua immagine rimanda contemporaneamente ad un’opera pittorica e ad un’altra storica, oltre che al capitolo LVIII di Vita istruzioni per l’uso in cui Oliver Gratiolet ammira una tavola incisa da Zorzi di Castelfranco, conosciuto come Giorgione.

8. Un’omologia strutturale

La struttura di Storia di un quadro si fonda simultaneamente sul terreno della letteratura e su quello dell’arte figurativa, motivo per cui tra il genere pittorico del cabinet d’amateur e il romanzo perecchiano si instaura un’omologia strutturale101. Gli studi di visual culture e la comparatistica letteraria trovano al centro dei propri interessi lo studio delle omologie strutturali, appunto, tra l’arte e la letteratura. A partire dalle indagini condotte a Jonathan Crary, sono stati numerosi gli studi che si sono occupati dell’influenza dei regimi102 – solo apparentemente esclusivi del visuale, come per esempio gli studi della camera oscura o quelli della prospettiva103 – sulle diverse forme di rappresentazione, in primis quella letteraria104:

Questi studi hanno portato alla luce l’influenza che i diversi regimi scopici e l’evoluzione delle tecnologie della visione hanno esercitato non soltanto sulla scrittura ma anche sulla ricezione narrativa, soprattutto quando questa si faccia veicolo di immagini, e sul modo in cui essa guidi l’occhio dell’osservatore. Si tratta in questo caso di un’istanza tutta novecentesca che ha segnato gran parte degli sperimentalismi letterari da Calvino a Michaux allo stesso Perec. Lo studio di questo complesso interplay ha, inoltre, il merito di non appiattire un mezzo sull’altro, sottolineando, anzi, le forme di resistenza reciproca che, come abbiamo visto, rappresentano la componente più importante per la sfida creativa di Perec.105

Storia di un quadro si inscrive in questo genere di critica giacché il luogo pittorico del cabinet d’amateur106 non si configura come un mero spunto, poiché ha fornito a Perec la struttura per poter costruire tramite contraintes il proprio romanzo. Il dispositivo pittorico e ottico del cabinet viene impiegato per dinamizzare le immagini già comparse nella Vita istruzioni per l’uso, rendendole ancora una volta nuove e capaci di ampliare la sua propria auto-biografia. L’intera poetica di Perec è racchiusa nella frase che fa dire a un certo Lester K. Nowak: «ogni opera è lo specchio di un’altra». La nota dichiaratamente autoreferenziale si apre allo svelamento di tutta la storia di questo quadro immaginato, creato, interrogato: «[…] un considerevole numero di quadri, in pratica quasi tutti, rivelano il loro vero significato solo se rapportati a opere anteriori che vi figurano palesemente copiate in forma integrale o parziale, oppure riprodotte in maniera più allusiva, come se si trovassero al fondo di una cripta»107. La letteratura è dunque l’esercizio tramite cui s’impara a guardare dall’altra parte dello specchio, con la certezza di trovarvi in ogni caso un indizio, una traccia, un’intuizione.
Per dirla meglio con le parole di Meneghelli, «il racconto è dappertutto, e quasi tutto – sembra – è racconto»108.


  1. Per un approfondimento sull’immagine fotografica in Calvino, si veda U. Musarra Schroeder, Italo Calvino tra i cinque sensi, Firenze, Franco Cesati, 2010, pp. 83-104.
  2. Per gli studi su Calvino e il cinema si rimanda quanto meno a E. Zinato, L’occhio del Signor Palomar. Calvino e il cinema, «Arabeschi», n. 10, luglio-dicembre 2017, url: http://www.arabeschi.it//uploads/pdf/015%20Zinato.pdf consultato il 14/10/2022.
  3. Le litografie di Carlo Levi con il titolo Gli Amanti, esposte presso la Galleria del Pincio a Roma, sono per Calvino «l’unico vero canzoniere del nostro tempo, forse l’unico possibile, che testimoni di ciò che è il sapore e lo sgomento dell’amore nell’uomo e nella donna d’oggi». Questo breve testo costituisce una lettura del tema dell’amore nell’opera dello scrittore-pittore; una lettura che guarda alle ragioni della poesia e dell’amore negli anni Cinquanta del Novecento, momento storico di «estrema precarietà, sempre sull’orlo dell’arbitrio o del massacro». Il primo testo di Italo Calvino sulla pittura è la recensione alla mostra di Carlo Levi: Litografie di Levi, in «Il Contemporaneo», anno II, 26 marzo 1955, seguito dalla presentazione della mostra del 1962, Un discorso totale, in «La nuova pesa», Notiziario della Galleria d’Arte, 1962.
  4. Shūsaku Arakawa parlò spesso con Italo Calvino del rapporto tra spazio e tempo nelle sue tele e di quella che lui stesso definisce blank – la filosofia del vuoto. Calvino, che era molto interessato al carattere tutto mentale della sua pittura, scrisse un saggio sui lavori di Arakawa pochi mesi prima di morire, in occasione di una mostra che si tenne a Milano nel 1985 presso la Galleria Blu. In questo testo Calvino analizza il significato della pittura di Arakawa e dei suoi elementi: le frecce, le linee, le parole e la luce. Si sofferma soprattutto sul colore, il blank, vale a dire il colore della mente. Scrive: «La mente non può avere altro colore che quello dei quadri di Arakawa» (I. Calvino, Per Arakawa Testo per una mostra di Shusaku Arakawa, Galleria Blu, Milano, 26 novembre 1985-15 marzo 1986; ora in Id., Saggi. 1945-1985, 2 voll., a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, II, p. 2001).
  5. Cfr. I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 2021, pp. 123-124.
  6. È probabile che Calvino stia commentando le proposte interpretative della «bellissima lettera» di Fabbri. In una lettera a Guido Almansi di qualche giorno dopo si legge infatti: «Paolo Fabbri s’era divertito a trovare opposizioni di continuità-discontinuità e simili all’interno di ogni singolo topos […]». Cfr. I. Calvino a G. Almansi, Parigi, 28 aprile 1971, in I. Calvino, Lettere 1940-1985, Milano, Mondadori, 2000. Scrive Fabbri a proposito: «Nella mia lettera era questione del Castello: il fatto che le carte dei tarocchi potevano avere un significato proprio se uscivano diritte oppure contrario se rovesciate. Ma che alcune “matte”, come il diavolo ecc. potevano funzionare sia come motivo “semantico” sia come trasformatore “sintattico” del significato della carta precedente e/o seguente. Era il tema del mio contributo a Urbino da cui Italo dice di aver preso lo spunto per il Castello» (url: https://www.paolofabbri.it/recensioni-e-commenti/lettere_calvino_fabbri/ consultato il 11/10/2022).
  7. I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 123-124.
  8. Le figurine che accompagnano il testo nell’edizione presa in considerazione per questo lavoro servono da richiamo mnemonico delle miniature riprodotte nei colori e nelle dimensioni originali dall’edizione Ricci. Cfr. Il castello dei destini incrociati, in Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Parma, Ricci, 1969. Si tratta del mazzo di tarocchi miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del Quattrocento, e che ora si trovano parte all’Accademia Carrara di Bergamo, parte alla Morgan Library di New York. Alcune carte del mazzo Bembo sono andate perdute, tra cui due molto importanti per Il castello: Il Diavolo e La Torre. Laddove queste carte vengono nominate nel testo, non vi sarà in margine la figura corrispondente.
  9. I. Calvino, Nota a Il castello dei destini incrociati, Torino, Einaudi, 1973, p. 125.
  10. Ivi, p. 126.
  11. Ibidem.
  12. Ibidem.
  13. Cfr. C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 55-68.
  14. G. Bertone, Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, p. 120.
  15. Cfr. ivi, p. 124.
  16. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., pp. 54-55.
  17. Ivi, p. 107.
  18. Ivi, p. 108.
  19. Ivi, p. 109.
  20. Ivi, pp. 109-110.
  21. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006, p. 152.
  22. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 107.
  23. Ivi, p. 108.
  24. Ibidem.
  25. Ivi, p. 109.
  26. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 153.
  27. Sant’Agostino nello studio è un dipinto a tempera su tavola (41 x 27 cm) di Sandro Botticelli, databile al 1490-1495 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. L’opera non viene chiaramente esplicitata dall’autore del Castello, ma è probabile che sia quella presa in considerazione durante la sua stesura.
  28. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 109.
  29. L’opera di Vittore Carpaccio cui si fa riferimento è Sant’Agostino nello studio o Visione di sant’Agostino. Un dipinto a tempera su tela 141 x 210 cm), datato 1502 e conservato nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia. Anche in questo caso il dipinto non è chiaramente esplicitato ma, stando alle ricerche, è probabile sia questo il riferimento iconografico di Calvino.
  30. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 109.
  31. Ibidem.
  32. Ivi, p. 110.
  33. M. Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 155.
  34. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 110.
  35. Id., Histoire du Chevalier parenthèse (per Albrecht Altdorfer), «Le Nouvel Observateur», 10-16 febbraio 1984, pp. 72-73; trad. it. in Saggi, cit., II, pp. 1999-2000.
  36. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, cit., I, p. 632.
  37. Ivi, p. 633.
  38. Questi i versi di Ovidio citati da Calvino: «Perché la ruvida sabbia non sciupi la testa anguicrinita (anguiferumque caput dura ne laedat harena), egli rende soffice il terreno con uno strato di foglie, vi stende sopra dei ramoscelli nati sott’acqua e vi depone la testa di Medusa a faccia in giù» (I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, cit., I, p. 633. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, IV 740-752).
  39. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, cit., I, p. 633.
  40. Ibidem.
  41. E. Montale, La bufera e altro, in L’opera in versi, a cura di R. Bettarini e G. Contini, Torino, Einaudi, 1980, p. 267.
  42. A. Asor Rosa, Stile Calvino, Torino, Einaudi, 2001, p. 121.
  43. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 111.
  44. È probabile che il riferimento pittorico di Calvino, non esplicitato nel Castello, sia il San Giorgio e il drago, dipinto a olio su tavola (31 x 27 cm) da Raffaello Sanzio, databile al 1505 circa e conservato nel Museo del Louvre di Parigi.
  45. Il riferimento pittorico, non esplicitato da Calvino, è il San Giorgio e il drago di Jacopo Tintoretto, un olio su tela (157,5 x 100,3 cm) databile al 1560 circa e conservato alla National Gallery di Londra. L’opera è ricordata da Carlo Ridolfi, biografo del Tintoretto, come «gratiosissimo pensiero di san Giorgio che uccide il Drago, con la figliuola del Re che impaurita sen fugge». Cfr. C. Bernari e P. De Vecchi, L’opera completa del Tintoretto, Segrate, Rizzoli, 1978, pp. 55-78.
  46. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 111.
  47. Ibidem.
  48. Ibidem.
  49. Ibidem.
  50. Questa volta il riferimento iconologico può configurarsi con l’affresco di Pisanello, San Giorgio e la principessa nella basilica di Santa Anastasia a Verona, posto sopra l’arco d’ingresso alla cappella Pellegrini. È possibile datarlo al 1433-1438 circa.
  51. Quasi sicuramente il riferimento pittorico è il Trionfo di San Giorgio, una tempera su tavola (141 x 360 cm) dipinta da Vittore Carpaccio nel 1502 e ubicata presso la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia. La tela mostra il secondo di tre episodi legati alle storie di San Giorgio: gli altri due sono San Giorgio e il drago e Il Battesimo dei seleniti.
  52. I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 112.
  53. Ibidem.
  54. Ibidem.
  55. Ivi, p. 113.
  56. Ibidem.
  57. Ibidem.
  58. M. Corti, Intervista a Italo Calvino, in «Autografo», II, 6 ottobre 1985, p. 48; ora con il titolo Intervista di Maria Corti, in I. Calvino, Saggi. 1945-1985, cit., II, pp. 2920-2929.
  59. M. Lavagetto, Dovuto a Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 20.
  60. M. Costagliola d’Abele, L’Oulipo e Italo Calvino, Berna, Peter Lang, 2014, p. 29.
  61. I. Calvino, Lezioni americane, in Saggi, cit., I, p. 730.
  62. Ivi, p. 731.
  63. Ivi, p. 732.
  64. G. Perec, La vita istruzioni per l’uso, trad. it. di D. Selvatico Estense, Milano, Rizzoli, 2012, p. 247.
  65. P. V. Mengaldo, La lingua dello scrittore, in Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale, a cura di G. Falaschi, Milano, Garzanti, 1988, pp. 219-220.
  66. M. Costagliola d’Abele, L’Oulipo e Italo Calvino, cit., p. 179.
  67. Barenghi, a proposito del pessimismo di Calvino, scrive: «Calvino, specie negli ultimi anni della sua vita, non era ottimista sul mondo che lo circondava. Basta leggere la premessa a Una pietra sopra (la società come frana, cancrena, collasso, o tutt’al più, vita alla giornata). […] Eppure, quando leggiamo o rileggiamo le pagine di Calvino abbiamo un’altra impressione. […] Se la realtà di cui egli parla è caos labirinto entropia catastrofe, il modo in cui imposta il dialogo con il lettore non è mai caotico né labirintico, né entropico o catastrofico» (M. Barenghi, Italo Calvino. Le linee e i margini, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 120.
  68. E. Bertacchini, La vertigine tassonomica, in Georges Perec («Riga» 4), a cura di A. Borsari, Milano, Marcos y Marcos, 1993, p. 156.
  69. I. Calvino, Intervista di Ferdinando Camon, in Saggi, cit., II, pp. 2789-2790.
  70. Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994, p. 192.
  71. Id., Perec, «La vita istruzioni per l’uso», in Saggi, cit., I, p. 1388.
  72. Cfr. A. Chauvin, Le jeu des erreurs ou métamorphoses en minuscules, «Études littéraires», n. 1-2, Georges Perec: écrire/transformer, a cura di B. Magné, 1990, pp. 342-374.
  73. G. Perec, La vita istruzioni per l’uso, cit., p. 368.
  74. Id., Storia di un quadro, trad. it. di S. Pautasso, Milano, Rizzoli, 1990, p. 69.
  75. Cfr. B. Magné, E. Beaumatin, M. Ribière, De Perec etc., derechef: textes, lettres, règles e sens: mélanges offerts à Bernard Magné, Paris, Joseph K., 2005, pp. 147-152.
  76. Cfr. V. Sperti, Fotografia e romanzo. Marguerite Duras, Georges Perec, Patrick Modiano, Napoli, Liguori, 2005, pp. 9-12.
  77. G. Perec, Storia di un quadro, cit., p. 97.
  78. D. Quélen, J. C. Rebejkow, Un cabinet d’amateur: le lecteur ébloui, in Aa. Vv., L’Œil d’abord… Georges Perec et la peinture, Paris, Seuil, 1996, p. 177, trad. mia.
  79. Cfr. G. Perec, Note su ciò che cerco, in Pensare/classificare, a cura di S. Pautasso, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 9-10.
  80. Id., W o il ricordo di infanzia, trad. it. di D. Selvatico Estense, Torino, Einaudi, 2005, p. 165.
  81. Cfr. M. Van Montfrans, La contrainte du réel, Amsterdam, Rodopi, 1999, p. 80.
  82. M. Cometa, Parole che dipingono, Roma, Meltemi, 2004, p. 13.
  83. Cfr. ivi, p. 14.
  84. Nelle parole di Eco questa sfida si pone come una costrizione voluta dall’autore per indurre il lettore a “guardare” le immagini del testo anche attraverso conoscenze ed esperienze “extradiegetiche”: «siamo in qualche modo obbligati a percepire in un certo modo – voglio dire per iniziativa non nostra, bensì del testo, che in qualche modo ci obbliga a recuperare altre esperienze e altre memorie». Eco chiama ipotiposi questa espressione dell’ékphrasis retorica, ovvero l’espressione verbale che rimandi alla mente di chi legge un’immagine. Cfr. U. Eco, Les sémaphores sous la pluie: la rappresentazione dello spazio, in Id., Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2003, pp. 47-60.
  85. Cfr. M. Cometa, Parole che dipingono, cit., p. 20.
  86. G. Perec, Storia di un quadro, cit., p. 16.
  87. Ivi, p. 30.
  88. Ivi, pp. 16-17.
  89. V. Cammarata, Il Cabinet d’amateur di Georges Perec, «Between», I, 1, 2011, url: https://ojs.unica.it/index.php/between/article/view/209 consultato il 19/10/2022.
  90. G. Perec, Storia di un quadro, cit., pp. 17-18.
  91. Consegna dell’anello al Doge è un dipinto del pittore veneto Paris Bordon, firmato ma non datato. Secondo alcuni studiosi potrebbe collocarsi nel 1534 circa, secondo altri dieci anni dopo o poco meno. Oggi conservato nelle Gallerie dell’Accademia a Venezia. Il dipinto rievoca la miracolosa vicenda del salvataggio di Venezia ad opera dei santi Marco, Nicola e Giorgio, conosciuta anche come la “leggenda del pescatore”, sviluppatasi in seguito ad un nubifragio che investí Venezia una notte di febbraio del 1341 o 1342.
  92. G. Perec, Vita istruzioni per l’uso, cit., pp. 14-15.
  93. Ivi, p. 269.
  94. V. Cammarata, Il Cabinet d’amateur di Georges Perec, cit., p. 9.
  95. G. Perec, Storia di un quadro, cit., p. 18.
  96. V. Cammarata, Il Cabinet d’amateur di Georges Perec, cit., p. 10.
  97. Ibidem.
  98. G. Perec, Vita istruzioni per l’uso, cit., pp. 375-376.
  99. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, a cura di E. Mattioda, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021, vol. V, p. 546.
  100. P. Pino, Dialogo di pittura, Milano, Rizzoli, 1954, p. 28.
  101. Lo studio delle omologie strutturali tra arte e letteratura ha una base antropologica. «Nel saggio sulle forme primitive di classificazione, scritto insieme a Durkheim, Mauss aveva postulato un rapporto di omologia strutturale fra piano sociale e piano simbolico. Questa omologia è alla base dell’idea di fatto sociale totale, dove “totale” si riferisce appunto al coinvolgimento di livelli di natura eterogenea ma connessi fra loro da sistemi di relazione omologhi» (C. Pignato, Totem mana tabù. Archeologia di concetti antropologici, Roma, Meltemi, 2001, p. 72). Vedi anche: E. Durkheim e M. Mauss, De quelques formes primitives de classification: contribution à l’étude des représentations collectives, in «L’Année sociologique», 6, 1903, pp. 1-72; ora in M. Mauss, Oeuvres, vol. II, Représentations collectives et diversité des civilisations, Paris, Minuit, 1969, pp. 13-89. In questo saggio Mauss, insieme a Durkheim, dimostra come le categorie di genere, spazio e tempo non siano innate (“ogni classificazione implica un ordine gerarchico cui né il mondo sensibile né la nostra coscienza offrono il modello”), e dipendano invece dalla società, la quale – in virtù della segmentazione degli individui in gruppi sociali – funziona come modello di riferimento per la suddivisione e la gerarchizzazione.
  102. Christian Metz, semiologo e teorico del cinema francese, conia il termine “regime scopico”, destinato a grande fortuna nel lessico della cultura visuale. «Nella riflessione metziana l’espressione è impiegata nello specifico per caratterizzare il “voyeurismo allo stato puro” del cinema in quanto sguardo desiderante che pone l’oggetto del desiderio come costitutivamente inaccessibile. Ma verso la fine degli anni Ottanta lo storico della cultura Martin Jay riprende il termine reinterpretandolo, ben al di là del medium cinematografico, come uno strumento categoriale volto a de-naturalizzare la visione al fine di mostrarne lo statuto inevitabilmente culturalizzato e storicizzato. […] La formula metziana di “regime scopico” espansa da Jay ha goduto di notevole fortuna tra gli studiosi di cultura visuale». Inoltre, con le nozioni di period eye, scopic regime e régime du regard viene ribadita la dimensione storico-culturale dell’esperienza visiva, «che è propriamente visuale, cioè sempre inquadrata da una determinata angolazione. Non v’è, dunque, visione che non sia sguardo situato» (A. Pinotti e A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Torino, Einaudi, 2016, pp. 129-133).
  103. L’analisi di Jonathan Crary si è rivelata esatta: il fenomeno visivo è determinato «mediante tecniche cibernetiche ed elettromagnetiche, dove elementi astratti, visivi e linguistici coincidono, e dove il loro consumo e circolazione avverrà su scala planetaria» (M. Belpoliti, Jonathan Crary. Le tecniche dell’osservatore, «Doppiozero», 18 marzo 2013, url: https://www.doppiozero.com/jonathan-crary-le-tecniche-dellosservatore consultato il 22/10/2022).
  104. Sul tema dell’omologia strutturale tra il regime scopico delle esposizioni universali e la narrativa francese del XIX secolo, si veda: P. Hamon, Expositions, littérature et architecture au XIXe siècle, Paris, Corti, 1989. Per l’omologia strutturale tra il regime scopico della fotografia e la narrativa francese del XIX secolo, si veda: Id., Imageries. Littérature et image au XIXe siècle, Paris, Corti, 2001. Per l’analisi sull’immaginario fantasmagorico e il fantastico ottocentesco si veda: M. Milner, La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, Bologna, Il Mulino, 1989.
  105. V. Cammarata, Il Cabinet d’amateur di Georges Perec, cit., p. 14.
  106. Per uno studio approfondito sulla struttura del genere pittorico del cabinet si rimanda a V. Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, Milano, Il Saggiatore, 1998. In questo testo Stoichita individua quattro elementi che permettono di ricondurre un’opera d’arte, letteraria o figurativa, al genere dei cabinets d’amateur: il montaggio, la selezione e la conseguente combinazione, l’intertestualità e il potenziale.
  107. G. Perec, Storia di un quadro, cit., p. 27.
  108. Cfr. D. Meneghelli, Storie proprio così. Il racconto nell’era della narratività totale, Milano, Morellini, 2013, p. 71.