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La ‘caduta’ della fede. I versi satanici di Salman Rushdie

DOI

Noi siamo creature dell’aria,
Le nostre radici sono nei sogni
E nelle nubi, rinati
In volo.

S. Rushdie, I versi satanici

1. «Libri che bruciano»

A partire dagli ultimi decenni del XX secolo studiosi e critici letterari hanno iniziato a introdurre nel dibattito culturale e politico sull’orientalismo due categorie ben distinte: il postcolonialismo e il postmodernismo. Come ha puntualmente sottolineato la docente di studi culturali Ella Shohat, il prefisso ‘post-’ non indica un superamento delle vecchie pratiche coloniali bensì una loro «continuità e discontinuità»1, attraverso nuove modalità e forme. Osserviamo però che, mentre il postmodernismo mette in luce la fine delle grandi narrazioni di emancipazione coloniale, il postcolonialismo, invece, opta per un ‘rinvio’ di queste ultime, rimandando a un futuro più o meno prossimo la loro realizzazione. Questo porta, spesso, a una contrapposizione dei due filoni che, viceversa, si intersecano quando intellettuali e autori sfruttano la tecnica del realismo magico. In aggiunta, le due categorie appena citate hanno suscitato grande successo non negli studi mediorientali, bensì nel campo dell’indologia, attraverso i subaltern studies. Grazie al lavoro dello storico indiano Ranajit Guha numerosi studiosi e ricercatori si sono posti l’obiettivo di attuare una rivoluzione nella storiografia indiana, riscattando il loro patrimonio culturale dall’oppressione dell’élite nazionalista e collocando in una posizione centrale le storie delle masse urbane e rurali. Lo strumento principale degli intellettuali postcoloniali per mettere in pratica ciò sono state le diverse opere canoniche delle culture d’appartenenza. Gli studiosi hanno cercato di rileggere tali scritti cercando di superare la loro interpretazione usuale che portava, tendenzialmente, al binomio riduttivo servo-padrone. Bisogna, inoltre, sottolineare che le opere indo-inglesi hanno dovuto superare barriere culturali più alte rispetto a quelle di altri romanzi postcoloniali in quanto esse si inseriscono in una tradizione letteraria altamente sviluppata, con un gran numero di poemi epici e testi sacri. I contesti letterari e storici che si possono ravvisare sono molteplici: vedico, puranico e sanscrito.
Uno degli autori che con più forza ha messo in pratica questa tendenza è stato Salman Rushdie, scrittore indiano rifugiatosi nel Regno Unito nel 1989 dopo la fatwā emessa dall’ayatollah iraniano Ruhollah Khomeini. Dacché la modalità generale per la letteratura postcoloniale è la citazione, la riscrittura e il reindirizzamento alla storicità, Edward Said considera i romanzi di Rushdie come «opere che con i propri ardimentosi e innovativi risultati formali costituiscono una riappropriazione dell’esperienza storica del colonialismo, rivitalizzato e trasformato in una nuova estetica di riformulazione condivisa e spesso trascendente»2. Salman Rushdie nasce a Bombay nel 1947, anno emblematico per l’India poiché il 15 agosto acquisì l’indipendenza dall’Impero britannico. Figlio di un commerciante di origini musulmane formatosi a Cambridge e grande estimatore della letteratura persiana, araba e occidentale, Rushdie si trasferì in Inghilterra all’età di quattordici anni, dove successivamente conseguì la laurea in Storia a Cambridge.
Tumulti e scontri sono derivati dalla pubblicazione dei Versi satanici3, poiché l’ayatollah Khomeini invitò i fedeli a giustiziare l’autore, promettendo che ogni musulmano che avesse perso la vita nel tentativo di farlo si sarebbe guadagnato un posto in paradiso; in più una ricompensa di 5,4 milioni di dollari ha fornito un ulteriore incentivo alla causa. Di seguito sono riportate le parole dell’ayatollah:

I would like to inform all the intrepid Muslims in the world that the author of the book entitled The Satanic Verses, which has been compiled, printed, and published in opposition to Islam, the Prophet, and the Qur’an, as well as those publishers who were aware of its contents, have been declared madhur el dam. I call on all zealous Muslims to execute them quickly, wherever they find them, so that no one will dare to insult Islam again. Whoever is killed in this path will be regarded as a martyr4.

Per loro stessa ammissione, nessuno dei manifestanti musulmani aveva letto il romanzo. Il testo è attualmente vietato in Arabia Saudita, India, Pakistan, Iran, Bangladesh ed Egitto (e in altri Stati a prevalenza musulmana), nonostante i teologi che hanno emesso il divieto si siano basati sulla lettura di estratti selezionati. Dopo la fatwā emanata contro Rushdie, e reiterata dal successore di Khomeini, l’ayatollah Ali Khamenei, il panorama intellettuale e letterario musulmano entrò in crisi. La libertà di parola, già fragile e limitata, fu ancor più soffocata. Molti autori decisero di abbandonare i loro precedenti progetti e gli editori di evitare la pubblicazione di opere che non erano state controllate dalla censura islamica. Il mondo critico e letterario era avvolto da un’aura di sospetto e di inquietudine, soprattutto dopo gli attacchi ai traduttori dei Versi satanici in tutto il mondo: Hitoshi Igarashi, che tradusse l’opera in giapponese, fu ucciso nel 1991 a Tokyo; il traduttore italiano Ettore Capriolo fu ferito da un fondamentalista armato di coltello presso la sua abitazione milanese; ancora, il traduttore turco Aziz Nesin nel 1993 subì un attentato presso il suo albergo nella città di Sivas, dove persero la vita in un incendio oltre trentacinque persone mentre egli ne uscì illeso; infine, l’editore norvegese William Nygaard, nello stesso anno, fu ferito da colpi di arma da fuoco. Nonostante questi eventi i traduttori dell’opera a livello globale hanno continuato a occuparsi dei Versi satanici. Dopo l’attentato più recente ai danni di Rushdie, nell’agosto 2022, dove l’autore, durante una conferenza a New York, è stato colpito da un sostenitore dei Pasdaran iraniani perdendo un occhio e l’uso di una mano, l’amministratore delegato dell’Area Trade di Gruppo Mondadori, Enrico Selva Coddè, ha affermato su Repubblica: «Ripubblicherei I versi satanici senza indugio. E da editore che ha il libro in catalogo dico che continuerò a pubblicarlo. La cultura salva dall’odio e dall’intolleranza»5.
Tuttavia, nel 1990 un nuovo libro ruppe il silenzio degli intellettuali musulmani. Si tratta di Eternity6, dell’autore indiano Anwar Shaikh. Il libro era stato pubblicato a spese dello scrittore e non poteva essere acquistato in libreria, ma solo tramite un numero di casella postale di Cardiff. La tesi centrale del libro viene riportata da Tariq Ali nel volume Lo scontro dei fondamentalismi: «Shaikh, come i mutaziliti del nono secolo, metteva in dubbio la validità della Rivelazione. Sfidava la divinità del Corano»7. Il giornale pakistano Daily Awaz reagì al testo di Shaikh titolando: «Anwar Shaikh di Cardiff è un rinnegato e merita di essere ucciso»8 e molteplici altri ideologi si appellarono ai teologi dell’Islam affinché fermassero l’operato dell’autore, prima che le sue affermazioni ‘contagiassero’ i fedeli più giovani e inesperti. Shaikh fu etichettato come un apostata, crimine punito dalla sharī’a con la morte. Ali riporta anche le parole di Qari Sayyad Hussain Ahmed sull’accaduto:

Siamo stati ingannati una volta. Il satana Rushdie era una persona sconosciuta. Abbiamo emesso una fatwa e abbiamo fissato un compenso per la sua testa. Se non l’avessimo fatto, Rushdie avrebbe portato a termine la sua trappola. Come risultato, quel genere di folle è possibile che non abbia neppure pensato di insultare il Profeta. Rushdie e Shaikh appartengono alla stessa tribù9.

Ma Shaikh e Rushdie sono autori e intellettuali molto diversi. Shaikh, infatti, è uno storico, cresciuto in una famiglia contadina nel Punjab, mentre Rushdie è un autore di narrativa modernista considerato corrotto e lontano dalla reale condizione dei musulmani comuni in India. Se quindi Rushdie è il nemico ‘esterno’ all’Islam, Shaikh è quello ‘interno’, capaci entrambi, però, di minare l’ortodossia musulmana. Shaikh continua la sua critica al fondamentalismo islamico nel pamphlet Islam: The Arab National Movement10 in cui mette in dubbio la natura stessa della Rivelazione. L’autore afferma che il rivelatore, ovvero Maometto, viene odiernamente innalzato dai fondamentalisti dalla sua condizione umana al livello del divino, mentre Allāh, che deve affidarsi al Profeta per eseguire la sua volontà, viene posto a un piano inferiore. In questo modo è Maometto, e non Allāh, a essere posto al centro della fede islamica11.
Scrittori sensibili alla questione coloniale come Eqbal Ahmad, Ibrahim Abu-Lughod e Edward Said hanno condannato la violenza bigotta contro Rushdie e il suo libro e hanno sottolineato come tale brutalità fosse antitetica rispetto alla tradizione islamica12.

2. I versi satanici

Nel corso del XX secolo la figura dell’immigrato si è imposta nell’immaginario letterario degli studi postcoloniali e postmoderni, divenendo un elemento centrale e determinante per rappresentare il senso di alienazione e le forme di discontinuità culturale. In particolare, in questo che potremmo definire ‘secolo dell’erranza’, in quest’epoca in cui le culture tradizionali sono sempre più coinvolte in conflitti e scontri, è lo ‘scrittore immigrato’ a possedere gli strumenti più adatti per leggere la realtà. Salman Rushdie ha ben rappresentato questa condizione all’interno del romanzo I versi satanici, in cui la ‘doppia visione’ espressa dai due protagonisti Gibreel Farishta e Saladin Chamcha, riesce a produrre nuove forme letterarie, mescolando fantasia e naturalismo o componendo la narrazione attraverso frammenti di sogno e memoria. Sebbene l’autore sia consapevole del dolore che questo spostamento volontario o imposto comporta, egli ritiene che comunque esso può essere un’esperienza positiva e liberatoria. Come ha osservato lo studioso Mark Edmundson a proposito dei Versi satanici, la figura dell’immigrato consente, nel panorama letterario, di applicare più metamorfosi, può subire cambiamenti e vive la necessità di essere diverso da quello che era13. La presenza della metamorfosi nei romanzi risulta essere più marcata con l’inizio della rivoluzione romantica e con la diffusione della letteratura fantastica. Diversi generi sono stati interessati da questa ‘mutazione’: la poesia lirica, i racconti fantastici, la letteratura per l’infanzia, le fiabe, la science fiction, fino, appunto, al realismo magico dei Versi satanici, dove si coglie «un carattere altamente decostruttivo e metaletterario della metamorfosi»14. Anche nel precedente romanzo di Rushdie, I figli della mezzanotte15, si avverte una sorta di amnesia morale dalla quale il protagonista Saleem Sinai sente di essere dominato dopo aver lasciato la sua città natale, Bombay, e il successivo trasferimento in Pakistan16. Il romanzo sviluppa anche il tema del confronto/scontro tra Oriente e Occidente, attraverso il contrasto tra il protagonista Saleem e la sua nemesi, Shiva. Entrambi sono ‘bambini della mezzanotte’, ovvero nati tra la mezzanotte e l’una del 15 agosto 1947, quando l’India ottiene formalmente l’indipendenza dalla Corona britannica:

A Delhi un uomo asciutto sta dicendo: «…Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglia alla vita e alla libertà…». E sotto il ruggito del mostro, ci sono altri due urli, vagiti, strilli, ululati di bambini che vengono al mondo, e le loro inutili proteste si mescolano al frastuono dell’indipendenza che incombe verde e zafferano nel cielo notturno – «Viene un momento, che nella storia arriva solo raramente, in cui si passa dal vecchio al nuovo; in cui un’epoca finisce; e in cui l’anima di una nazione a lungo repressa trova la sua voce…»17.

Ogni bambino nato in quest’arco temporale, precisamente 1001, ha poteri straordinari: Saleem, ad esempio, ha la capacità di guardare nella mente e nel cuore delle persone, Shiva, invece, come il dio della guerra indù, con le sue poderose ginocchia ha il dono della distruzione. Tale personaggio introduce nel romanzo la mitologia tradizionale indù e la sua lotta con Saleem non è solo articolata attraverso il binomio ricco/povero o mediante il confronto tra la saggezza popolare e lo snobismo cosmopolita, ma attraverso, appunto, lo scontro tra Oriente e Occidente. Il nome Shiva porta il segno dell’induismo, il cognome Sinai è il segno dell’alleanza giudeo-cristiana. E come la penisola del Sinai, quasi interamente desertica, Saleem è impotente, mentre Shiva rappresenta la fertilità18.
Nel caso di Rushdie gli esempi dell’India e del Pakistan sono un’occasione per esplorare le responsabilità postcoloniali. Le storie che vengono raccontate descrivono una regione che sta lentamente imparando a guardare a sé stessa, ma il corollario della sua azione è la delusione. I miglioramenti seguiti all’indipendenza sono esigui e in ciò si manifesta l’ironia di Rushdie: l’autonomia ha danneggiato l’India e i suoi abitanti spingendoli ad agire in modo abominevole come gli ormai lontani colonizzatori inglesi. Rushdie, in questo senso, tratta l’eroismo derivato dal nazionalismo in modo amaro e comico19.
Tornando ai Versi satanici, le storie intrecciate di Gibreel e Saladin rappresentano una parte del variopinto mosaico di avvenimenti tracciati nel romanzo. Rushdie tenta di produrre una satira religiosa attraverso la riscrittura e la reinterpretazione di situazioni ed eventi storici, principalmente legati alla figura di Maometto e della sua sposa Ayesha. Le tecniche romanzesche che adopera sono quelle affini al fantasy: la trasformazione, la reincarnazione, la ‘defamiliarizzazione’ del familiare e l’uso di animali fantastici.
Il romanzo si apre con un episodio emblematico, dal quale prenderanno avvio le vicende dei due protagonisti. Si tratta del disastro aereo che coinvolge il jumbo jet Bostan (‘paradiso’) su cui viaggiano Gibreel, attore di Bollywood famoso per i suoi ruoli teologici, e Saladin, l’uomo dalle ‘mille voci’ nel mondo della pubblicità. I due personaggi, nonostante la rovinosa caduta provocata da un attentato di terroristi sikh, restano illesi a volteggiare in aria. Questa rappresentazione è volta a soppiantare la monoteistica raffigurazione della ‘caduta’ di Adamo ed Eva. Se nel paradiso terrestre il bene di Dio era stato sostituito dal male satanico e la punizione dei primi uomini era stata una distruttiva caduta sulla Terra assieme agli angeli ribelli, nella descrizione di Rushdie ci troviamo di fronte a due semplici esseri umani che sono intrinsecamente votati sia al male che al bene. Le loro esperienze, dopo l’incidente, diventano funzionali all’impalcatura della narrazione stessa. Da una parte Gibreel, la cui madre lo chiamava farishta, ovvero ‘angelo’, ha il compito di rivivere le esperienze spirituali della storia islamica attraverso una lenta mutazione verso l’angelicità, dall’altra Saladin deve affrontare la validazione dell’origine darwiniana dell’uomo, attraverso la regressione della sua persona dalla figura umana a quella animale, trasformandosi lentamente in un satiro. In realtà il vero nome di Gibreel è Ismail Najmuddin, poiché ha assunto una nuova identità dopo la morte della madre.

Ismail come il bambino coinvolto nel sacrificio di Ibrahim, e Najmuddin, stella della fede; aveva rinunciato a un po’ po’ di nome quando assunse quello dell’angelo. […] Gibreel confidò a Saladin Chamcha di aver scelto quello pseudonimo per rendere omaggio alla memoria della madre, «la mia mummyj, Spoono, la mia sola e unica Mamo, perché chi altri fu ad avviare questa faccenda dell’angelo, il suo angelo personale, mi chiamava, farishta, perché apparentemente, che tu ci creda o no, ero troppo un tesoro, un bambino d’oro»20.

Quel nome, Ismail, è un chiaro eco a Moby Dick21 di Herman Melville che ritornerà molte pagine dopo, quando Gibreel salva la vita a Saladin nello Shaandaar Café: «L’avversario: eccolo che soffia! Stagliato sullo sfondo dello Shaandaar Café in fiamme; guardatelo, è proprio lui! Azraeel balza, non richiesto, nella mano di Farishta»22. L’allusione è, chiaramente, alla balena bianca: «eccolo che soffia!»23.
Durante la caduta, Gibreel e Saladin sperimentano una vera a propria fusione di corpi:

Gibreelsaladin Farishtachamcha, condannati a questa interminabile, ma anche quasi terminata, caduta angelicodiabolica, non si resero conto del momento in cui iniziarono i processi della loro trasmutazione. […] spalancò le braccia e Farishta nuotò verso di loro, finché non si trovarono abbracciati, testa contro coda, e la forza della collisione li fece precipitare così rovesciati24.

La rinascita dei due personaggi assume una serie di significati dialettici: la combinazione della natura angelica con quella biologica, il senso spirituale contrapposto alla natura darwinista. Attraverso di esse Rushdie cerca di indagare l’Islam e la condizione islamica nel Novecento. Ed è proprio Gibreel, come aveva fatto il suo omonimo nel VII secolo, ad accompagnare tale rappresentazione. Ma Gibreel inizia a sentire su di sé il peso del compito affidatogli. Dopo aver interpretato nei suoi sogni la parte dell’arcangelo Gabriele e aver guidato Maometto nella Rivelazione, è chiamato a impersonare a Bollywood varie divinità indiane, mentre si radica in lui un’entità diversa da quella del pigro seduttore, vale a dire quella dell’arcangelo stesso. Senza esserne pienamente consapevole, Gibreel è scisso tra la dimensione umana e quella angelica. Questa scissione si amplifica quando incontra e s’innamora dell’alpinista Alleluia Cone, controparte di Maometto, come ci viene suggerito dal fatto che il Profeta ottiene le sue rivelazioni sul monte Cone. Gibreel sceglie l’amore al posto della religione. Ma la relazione con la donna è screziata da dolorosi incubi durante i quali Gibreel farfuglia parole incomprensibili per Alleluia: Jahilia, Al-Lat, Hind. Se Jahilia è il nome dispregiativo che Rushdie usa per indicare La Mecca, Londra, dove Gibreel si era trasferito per amore di Alleluia lasciando l’India, diventa una moderna «Mahagonny, Babilonia, Alphaville» che il nuovo arcangelo attraversa come in una crisi schizofrenica. La città descritta nel romanzo, inoltre, è la dimora di un’intera nuova popolazione immigrata che appare remota, esotica e inesplorata dalla narrativa inglese quasi quanto l’India e il Pakistan:

C’è Gibreel Farishta che si sveglia in un mondo di fuoco. In High Street vede case fatte di fiamme, con muri di fuoco, e fiamme che penzolano dalle finestre come tendine. – E ci sono uomini e donne con la pelle infuocata che camminano, corrono; gli si aggirano intorno, indossando giacche di fuoco. Le strade sono arroventate, incandescenti, un fiume che ha il colore del sangue25.

Ormai Gibreel è perduto tra la folle divinità angelica e l’umanità incarnata da Alleluia, ma l’unica via d’uscita è rappresentata dalla morte. Dopo aver spinto la donna a gettarsi da un grattacielo di Bombay, Gibreel si suicida rappresentando l’imperativa necessità della morte della religione. Rushdie, attraverso la voce di Gibreel, riassume l’intera storia dell’Islam: «Con Mahound c’era sempre lotta; con l’Imam schiavitù; ma con questa ragazza non c’è niente»26. In sintesi, poiché Maometto è morto, i musulmani sono sottoposti alla schiavitù dei loro imam e in balìa del nulla con la loro fede. Questi continui passaggi dalla dimensione angelica a quella umana sono amplificati dalla fluidità della narrativa di Rushdie, che alterna il discorso diretto al flusso di coscienza. Particolari sono anche le intromissioni di quello che riconosciamo essere il vero Shaitan (Satana), che commenta gli eventi che si susseguono. Ad esempio, leggiamo nel primo capitolo: «Chi compì il miracolo? Di che tipo era – angelica o satanica – la canzone di Farishta? Chi sono io? Diciamola in questi termini: chi conosce le arie migliori?»27, mentre in altre sezioni è lo stesso Rushdie a prendere la parola.
Diametralmente opposta, ma speculare, è la storia di Saladin Chamcha, voce della civiltà e del progresso: «Sono un uomo per il quale certe cose sono importanti: rigore, autodisciplina, ragione, il perseguimento di ciò che è nobile senza ricorrere a quella vecchia gruccia che è Dio. L’ideale della bellezza, la possibilità dell’esaltazione, la mente»28. Il cambiamento che lo colpisce può essere considerato una ‘de-mutazione’, in quanto egli biologicamente regredisce nella forma del satiro. L’uomo arriva perfino a credere che essa sia una punizione per la sua volontà di diventare un ‘inglese civilizzato’, lasciando dietro di sé i ricordi delle tradizioni indiane. Solo la morte del padre riporterà Saladin al suo passato, scegliendo di tornare alla forma indiana di Salahuddin Chamchawala29. Il rapporto complesso e conflittuale tra Saladin e suo padre richiama da vicino la biografia di Rushdie. Come Saladin, Rushdie è figlio di un uomo d’affari che ha scelto di inviarlo in Inghilterra per completare gli studi. Chamcha, inoltre, inizia a entrare nella mente dei giovani indiani e pakistani di Londra, che cominciano a indossare cerchietti con le corna come simbolo di resistenza alle vessazioni della polizia, la quale, all’inizio del romanzo, aveva brutalmente seviziato Chamcha in preda alla mutazione, credendolo un immigrato clandestino. Alla fine del romanzo Chamcha ritornerà alla sua vera forma, dopo un’ondata d’ira che lo coglie quando viene a conoscenza che Gibreel sta per interpretare il Profeta in una nuova serie di film teologici.
Gibreel e Chamcha rappresentano le polarità del romanzo: il primo costituisce una presenza angelica e profetica che però ode voci infernali, il secondo impersona il buon immigrato nella sua lenta trasformazione in Shaitan nella metropoli inglese. La narrazione confonde deliberatamente il soprannaturale e il quotidiano passando rapidamente dall’immaginazione psichica dei personaggi alla loro normale vita di attori, maestri del travestimento, attraverso una prosa fluida e variabile.
La caduta indica anche la ‘mutazione’ degli immigrati, i quali, abbandonando la loro terra, lasciano dietro di sé «detriti dell’anima, ricordi infranti, ego scartati, lingue madri tagliate, amori perduti e il senso dimenticato di parole vuote e sonanti, terra, proprietà, focolare»30. Rushdie si chiede se l’immigrato, nel cambiare dimora, lotti con le strategie di sopravvivenza della selezione naturale, che lo portano a ritenere che ci sia una ‘razza superiore’ (britannica) e una ‘inferiore’ (coloniale)31. La natura fluida e metamorfica interessa anche la sintassi del romanzo, i pronomi passano da essere dalla prima alla terza persona, il tempo scorre dal VII al XX secolo e anche i pensieri e le idee dei personaggi si adeguano a questi passaggi temporali. Anche se, nella descrizione dell’Imam esiliato a Londra nell’epoca contemporanea, che appare in sogno a Gibreel, i suoi pensieri risultano essere più vicini al VII secolo che al XX. Nella descrizione dell’Imam vi è un chiaro riferimento a Khomeini, che visse un periodo di esilio durato quasi sedici anni. Rushdie sa bene che la rivolta condotta da Khomeini in nome dell’Islam è soltanto la parodia di una rivoluzione, perché riconduce gli uomini non alla libertà, ma alla sottomissione. L’esilio dell’Imam nel romanzo è attentamente tratteggiato:

Chi è? Un esule. Parola da non confondere, da non permettere che sia scambiata, con tutte le altre che la gente adopera: emigrato, espatriato, profugo, immigrante, silenzio, astuzia. Esule è il sogno di un ritorno glorioso. Esule è la visione di una rivoluzione: l’Elba, non Sant’Elena. È un paradosso senza fine: guardare avanti guardandosi sempre indietro32.

Il ritorno glorioso ci sarà anche per Khomeini, da Parigi, ma non porterà la rivoluzione sperata dalla popolazione e dai fedeli33.
Il passaggio dalla dimensione onirica a quella reale si evidenzia anche nella disposizione dei capitoli: i numeri dispari dall’uno al nove sono dedicati alla realtà, mentre i numeri pari dal due all’otto ai sogni, ma sono i proprio questi ultimi capitoli a presentare il maggior grado di realismo.
Infine, Rushdie riesce a flettere il linguaggio dei suoi personaggi attraverso modelli dialettali specifici della classe, della regione o della comunità a cui appartengono. Ad esempio, ne I versi satanici troviamo l’uso frequente di interiezioni come ‘yaar’ nei discorsi o nei monologhi interiori di Gibreel, oppure ne I figli della mezzanotte la Reverenda madre usa l’intercalare ‘comesichiama’ in ogni sua frase, tipico dell’indostan parlato34.

3. La sura della stella

Era il 629 d.C. quando venti cavalieri armati entrarono nel santuario della dea Manat a La Mecca, inviati dal Profeta per imporre il monoteismo. La dea della Fortuna e del Destino era, tra le tre dee figlie di Allāh (al-Lat e al-Uzza), la più venerata tra le tribù influenti della città, quelle stesse tribù che Maometto tentava da otto anni di convertire alla nuova religione. Secondo i testi trasmessi dall’Islam, quando i cavalieri furono all’entrata del tempio una donna nera e nuda si manifestò dal nulla e iniziò a maledire gli uomini che erano giunti a distruggere il simulacro. La donna, creduta la reincarnazione di Manat, fu percossa fino alla morte e la sua statua distrutta, assieme a quelle delle sue sorelle35.

Alcuni mesi prima delle vicende appena riportate Maometto avrebbe ricevuto una Rivelazione da Allāh trasmessa nel Corano:

Che ne pensate voi di al-Lāt e di al-‘Uzzà
E di Manāt, il terzo idolo?

Sono le Dèe sublimi
E l’intercession loro è augurabile certo36.

Dopo la distruzione delle statue nel tempio, gli ultimi due versetti furono cassati e sostituiti con:

Voi dunque avreste i maschi e Lui le femmine?
Divisione sarebbe iniqua!
Esse non sono che nomi dati da voi e da’ padri vostri, pei quali Iddio non v’inviò autorità alcuna. Costoro non seguono altro che congetture e le passioni dell’animo, mentre già giunse loro dal Signore la Guida37.

La prima spiegazione offerta per questo cambiamento testuale fu che Satana in persona avesse introdotto i due versetti, successivamente eliminati da Allāh, per questo la definizione di ‘versi satanici’. In realtà l’interpretazione degli intellettuali e studiosi islamici contemporanei è meno complessa della prima offerta dai teologi. Maometto nel VII secolo non poteva imporre una rottura definitiva col politeismo e col paganesimo preislamico delle tribù senza spargimenti di sangue. Per questo, verosimilmente, aveva deciso di rimandare la transizione a tempi più maturi, cercando un iniziale compromesso con l’oligarchia meccana. Vengono così giustificati gli otto anni di coesistenza con le tre dee e la successiva rottura38. Altri studiosi ritengono, invece, che tale tradizione non sia autentica ma che si tratti di un’interpolazione posteriore a Maometto39.
Ne I versi satanici Rushdie ci informa che a Maometto viene offerto dal Grande di Jahilia, Karim Abu Simbel, un seggio nel consiglio della città a condizione che Allāh conceda l’inclusione di tre divinità (le già citate Manat, al-Lat e al-Uzza) nella nuova religione. Salman il persiano, consigliere di Maometto, lo mette in guardia: «È una trappola. Se tu sali sul Coney e ne scendi con un Messaggio del genere, ti chiederà: come hai potuto indurre Gibreel a farti la rivelazione giusta? Potrà darti del ciarlatano, dell’impostore»40. Questo è ciò che si dimostra essere il Maometto di Rushdie, mentre sale sul monte dove Gibreel si trova in una sorta di ‘non-sonno’ e gli concede i versetti tanto agognati, che il Profeta reciterà poco dopo: «Hai pensato a Lat e Uzza e Mahat, la terza, l’altra?» – Dopo il primo versetto, Hind balza in piedi; il Grande di Jahilia è già perfettamente eretto. E Mahound, con occhi ammutoliti, recita: «Esse sono uccelli eminenti e la loro intercessione è assai auspicata»41. Ciò che Rushdie cerca di realizzare è la trasformazione di un’esperienza ultra-umana in una caduta spirituale e morale ma satirizzata. Scegliendo l’episodio dei ‘versi satanici’, l’autore propone la satira di una grande esperienza religiosa.
Ma è il confronto con Hind, oppositrice di Maometto, a cancellare ogni sicurezza del Profeta per la scelta compiuta:

Se tu sei per Allah, io sono per Al-Lat. E lei non crede nel tuo Dio quando lui la riconosce. La sua ostilità è implacabile, irrevocabile, totale. La guerra tra noi non può finire con una tregua. Macché tregua! Il tuo è un signore comprensivo, condiscendente. Al-Lat non ha nessuna voglia di essere sua figlia. Lei gli è pari, come io lo sono con te42.

Dopo queste parole, Maometto percepisce la ‘caduta’. Comprendendo l’errore commesso, ascende nuovamente al monte Cone per costringere l’arcangelo Gibreel a concedergli una nuova Rivelazione che revochi i ‘versi satanici’ precedenti. Gibreel è sconcertato, non sa cosa rispondere al Profeta e pensa: «Mahound viene da me in attesa di una rivelazione, per chiedermi di scegliere tra monoteismo ed enoteismo, e io sono soltanto uno stupido attore che ha un bhaenchud incubo; che cazzo ne so, yaar, che cosa posso dirti, aiuto. Aiuto»43. Maometto lotta contro l’angelo e manipola la sua risposta:

«Era il diavolo» […] «L’altra volta era Shaitan». Questo è ciò che udì nel suo ascoltare, che era stato imbrogliato, che gli si era presentato il diavolo travestito da arcangelo, e di conseguenza i versetti che aveva imparato a memoria, quelli che aveva recitato nella tenda della poesia, non erano la verità ma il suo diabolico contrario, non erano divini ma satanici. […] Si pone davanti alle statue delle Tre e annuncia l’abrogazione dei versetti che Shaitan gli sussurrò alle orecchie. Questi versetti sono esclusi dalla vera recitazione, al-qur’an. Per sostituirli se ne gridano di nuovi. «Avrà egli figlie e voi figli?» recita Mahound. «Sarebbe una bella divisione! Sono soltanto nomi che avete sognato voi, voi e i vostri padri. Allah non conferisce loro alcuna autorità»44.

Affinché sia svelata la verità della fede ai musulmani, è necessario il confronto tra la ‘caduta’ di Maometto e la caduta di Gibreel e Saladin all’inizio del romanzo, che corrisponde alla rinascita nell’autenticità umana e alla conoscenza di sé. «“Per rinascere” cantò Gibreel Farishta, precipitando dai cieli, “devi prima morire”»45. Così salmodia il protagonista nella prima pagina del romanzo, esortato dalla volontà di vivere. Se l’arcangelo aveva ordinato a Maometto di ‘recitare’, la sua volontà ordina a Gibreel di ‘cantare’ e il suo canto li conduce in salvo. I musulmani, per conquistare la rinascita, devono abbandonare il Bostan/Paradiso che è solo un’illusione46.
Oltre alle pagine in cui Maometto viene presentato come un banale opportunista, legato alle logiche di potere, molto interessanti, e ovviamente contestate, sono le sezioni in cui Rushdie descrive il Corano come base della repressione del popolo musulmano, presentando divieti talvolta assurdi ed estremamente punitivi per le donne:

Tra le palme dell’oasi Gibreel apparve al profeta e cominciò a declamare regole, regole, regole, al punto che i fedeli non sopportavano più la prospettiva di altre rivelazioni, disse Salman: regole su qualsiasi cosa, se un uomo scorreggia, che volga il viso verso il vento, regola sulla mano da usare per pulirsi il sedere. Come se non si volesse lasciare sregolato, libero, neppure un aspetto dell’esistenza umana. […] L’angelo comincia a sfornare regole su ciò che le donne non devono fare, imponendo loro di tornare a quella docilità di comportamento che il Profeta preferisce; docili, oppure materne, devono camminare tre passi indietro o starsene a casa ed essere savie e ingrassare47.

In sintesi, I versi satanici non possono essere considerati tout court un libro blasfemo. Rushdie tenta di svelare la religione dal suo interno e certamente era ben conscio delle reazioni che avrebbero avuto i musulmani ortodossi. Sin dal titolo del romanzo viene posta l’attenzione sul Corano, in particolare sulla sura della stella, e sfogliando l’indice si possono facilmente riconoscere i capitoli dedicati alla rielaborazione della vita di Maometto (‘Mahound’ e ‘Ayesha’). ‘Mahound’ è, inoltre, il termine dispregiativo usato dalla letteratura medievale e moderna europea per designare il Profeta. Nel capitolo ‘Ritorno a Jahilia’, Rushdie racconta, invece, di una prostituta che si finge Ayesha, la moglie preferita da Maometto, per soddisfare un cliente. Il successo è così impetuoso che anche le altre prostitute si uniscono a lei per recitare le parti delle spose del Profeta e di Maometto stesso con i clienti del bordello. Il luogo assume sempre di più il carattere di un’elaborata riproduzione fittizia della casa del Profeta, trasformata in un harem. Anche il nome del bordello è emblematico: ‘La Cortina’, quella stessa ‘cortina’, lo hijab, che copre i volti delle donne islamiche. Anche questa rappresentazione è stata ampiamente contestata dai teologi, che accusano Rushdie di considerare il Profeta come un uomo libidinoso e lussurioso. La scrittura di questo capitolo mescola la comicità con la creatività, una scrittura disinibita, irriverente ma a tratti tenera. Si coglie, inoltre, la forza dei personaggi femminili, che si ingegnano per poter sopravvivere e, nel caso delle prostitute, mantenere e far aumentare i propri clienti. Questa linea è comune a tutta la narrativa di Rushdie: ad esempio I figli della mezzanotte è strutturato secondo una complessa linea familiare dove sono le donne a tessere le fila della trama. In entrambi i romanzi i personaggi maschili devono costantemente affrontare le conseguenze di un sistema che, dall’esterno, sembra dare agli uomini un grande potere sulle donne. Le donne possono essere velate fino agli occhi, rinchiuse in casa e cancellate dai documenti ufficiali, eppure da questi romanzi emerge che le stesse donne represse sono la forza motrice del mondo.
Come abbiamo già accennato, il capitolo ‘Ayesha’, e la sua prosecuzione nella sezione ‘La spartizione del Mare Arabico’, contiene ulteriori rielaborazioni della vita del Profeta. Ayesha, in questo caso, è una veggente di un villaggio indiano nell’epoca contemporanea che riceve varie visite dall’arcangelo Gibreel. Egli la spinge a intraprendere un lungo pellegrinaggio fino a La Mecca, attraversando il mar Arabico a piedi. Come il biblico Mosè, le acque si sarebbero dischiuse al suo passaggio. Anche la moglie di uno degli uomini più potenti del villaggio sceglie di intraprendere il viaggio, assieme a molti altri fedeli, nonostante la sua malattia. Trasponendo questa narrazione nella ricostruzione della vita di Maometto ricordiamo che i musulmani ritengono che quando il Profeta lasciò La Mecca congiuntamente ai suoi seguaci e si diresse verso Medina (‘la città illuminatissima’) avesse un’aura protettrice che gli aleggiava attorno. Nel romanzo di Rushdie, invece, il pellegrinaggio è guidato da una donna e il suo spazio protettivo è rappresentato da un baldacchino di farfalle che la nutre e la veste. Il realismo magico, che è evidente in tutta l’opera, qui è maggiormente accentuato attraverso il legame con un celebre antecedente: all’interno di Cent’anni di solitudine48 di Gabriel García Márquez uno sciame di farfalle avvolge Remedios ‘la bella’ mentre ascende al cielo in un’esplosione di luce, e Mauricio Babilonia, amore segreto di Meme, è accompagnato sempre da farfalle gialle che gli aleggiano intorno49. Come Márquez, anche Rushdie tende a reimpiegare gli stessi nomi, ad esempio Ayesha è sia la moglie del Profeta nel VII secolo, sia il nome che usa una delle prostitute, sia la veggente nel periodo contemporaneo. Rushdie cerca di creare dei leitmotiv nella narrazione, episodi, oggetti o nomi che singolarmente non hanno alcun significato particolare ma che nel loro complesso formano una sorta di rete non razionale di connessioni.
Ritornando all’accusa di blasfemia, probabilmente Rushdie non aveva previsto la manipolazione che il romanzo avrebbe subito dalla stampa occidentale, che ha trasformato il suo romanzo in una favola della libertà dell’Occidente contro il fanatismo orientale. I versi satanici, invece, si pongono come la rivelazione di un Islam rinnovato e basato sull’umanità imperfetta del Profeta. Inoltre, l’autore consciamente sceglie di ritrarre Maometto e la sua vita, sapendo che si tratta di un argomento proibito, poiché, a suo parere, attualmente la religione islamica viene osservata senza rispettare il messaggio originale. Per smascherare gli estremisti che stanno ridefinendo l’Islam, Rushdie ha bisogno di infrangere la legge50.
C’è un quesito che riecheggia in tutta la narrazione: «Che specie di idea sei?». La domanda viene posta all’Islam al tempo di Maometto, quando il Profeta cerca di trovare una mediazione con le tre dee. «Che specie di idea è lui? Che specie di idea sono io?»51 sono le domande che si pone Gibreel quando Maometto ha revocato la sua Rivelazione. Voci maschili e femminili, umane e angeliche attraversano il romanzo, ponendosi vicendevolmente questo interrogativo. Alla fine, possiamo dire che è proprio il romanzo che pone questa domanda all’Islam di oggi: «Che specie di idea sei?»52.
Rushdie, nella seguente dichiarazione, ha risposto a coloro che disprezzano o considerano il suo libro blasfemo:

Those who oppose the novel most vociferously today are of the opinion that intermingling with a different culture will inevitably weaken and ruin their own. I am of the opposite opinion. The Satanic Verses celebrates hybridity, impurity, intermingling, the transformation that comes of new and unexpected combinations of human beings, cultures, ideas, politics, movies, songs. […] A bit of this and a bit of that is how newness enters the world. It is the great possibility that mass migration gives the world, and I have tried to embrace it. The Satanic Verses is for change-by-fusion, change-by-conjoining. It is a love-song to our mongrel selves53.

Tutti i romanzi di Rushdie, se li ricomponiamo come i tasselli di un mosaico, rappresentano un inno alla varietà e all’inclusione, ponendo l’enfasi sulla migrazione, sulla metamorfosi e sul rifiuto dell’intolleranza di qualsiasi genere. In questo si esplicita anche la sua lotta al fondamentalismo, che mira a vietare ogni forma di pluralismo, varietà e trasformazione delle masse.


  1. Cfr. E. Shohat, Notes on the “Post-Colonial”, in «Social Text», 31-32, 1992, p. 106.

  2. E. W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente (1978), trad. it. di S. Galli, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 349.

  3. Cfr. S. Rushdie, I versi satanici (1988), trad. it. di E. Capriolo, Milano, Mondadori, 2017.

  4. J. Harrison, Salman Rushdie, New York, Twayne Publishers, 1992, p. IX. Annuncio tramite Teheran Radio della fatwa da parte dell’ayatollah Khomeini, 14 febbraio 1989.

  5. S. Scarafia, Selva: I versi satanici di Rushdie, un libro da pubblicare oggi più che mai, in «La Repubblica», 15 agosto 2022.

  6. Cfr. A. Shaikh, Eternity, Cardiff, The Principality Publishers, 1990.

  7. T. Ali, Lo scontro dei fondamentalismi, trad. it. di A. Bercini, A. Vanoli, R. Zuppet, Milano, Rizzoli, 2002, p. 211.

  8. Ibidem.

  9. Ivi, pp. 212-213.

  10. Cfr. A. Shaikh, Islam: The Arab National Movement, Cardiff, The Principality Publishers, 1995.

  11. Cfr. T. Ali, Lo scontro dei fondamentalismi, cit., pp. 213-214.

  12. Cfr. A. S. Ali, I. Abu-Lughod, A. Bilgrammi, E. Ahmad, E. W. Said, The Satanic Verses, in «New York Review of Books», 16 marzo 1989, p. 43.

  13. Cfr. M. Edmundson, Prophet of a New Postmodernism: the greater challenge of Salman Rushdie, in «Harper’s Magazine», 279, 1989, p. 70.

  14. M. Fusillo, L’immaginario polimorfico. Fra letteratura, teatro e cinema, Cosenza, Pellegrini, 2019, p. 242.

  15. Cfr. S. Rushdie, I figli della mezzanotte (1981), trad. it. di E. Capriolo, Milano, Mondadori, 2017.

  16. Cfr. R. Cook, Place and Displacement in Salman Rushdie’s Work, in «World Literature Today», LXVIII/1, 1994, pp. 23-28.

  17. S. Rushdie, I figli della mezzanotte, cit., p. 159.

  18. Cfr. T. Brennan, Salman Rushdie and the Third World, London, Palgrave Macmillan, 1989, p. 102.

  19. Ivi, p. 27.

  20. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 26, corsivo mio.

  21. H. Melville, Moby Dick (1851), trad. it. di O. Fatica, Torino, Einaudi, 2016.

  22. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 490.

  23. Cfr. G. C. Spivak, Reading «The Satanic Verses», in Outside in the Teaching Machine, London, Routledge, 2008, p. 224.

  24. S. Rushdie, I versi satanici, cit., pp. 13-14.

  25. Ivi, pp. 489-490.

  26. Ivi, p. 250.

  27. Ivi, p. 18.

  28. Ivi, p. 148.

  29. Cfr. H. Al-Raheb, Religious Satire in Rushdie’s Satanic Verses, in «Journal of the Fantastic in the Arts», VI/4, 1995, pp. 330-340.

  30. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 12, corsivo mio.

  31. Cfr. T. Brennan, Salman Rushdie and the Third World, cit., pp. 143-166.

  32. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 221.

  33. Cfr. S. Manferlotti, Scherza coi santi. Parodie del divino in Joyce e Rushdie, in Chi ride ultimo. Parodia satira umorismi, «Between», VI/12, 2016, p. 12.

  34. Cfr. S. Sharma, The Ambivalence of Migrancy, in «Twentieth Century Literature», XLVII/4, 2001, p. 605.

  35. Cfr. T. Ali, Lo scontro dei fondamentalismi, cit., p. 42.

  36. Il Corano, a cura di A. Bausani e L. Mustapha Ammar, Milano, Rizzoli, 2006, LIII 19-20, pp. 614 e 884.

  37. Ivi, LIII 21-23, pp. 614-615.

  38. Cfr. T. Ali, Lo scontro dei fondamentalismi, cit., p. 43.

  39. Per un approfondimento si vedano i contributi di L. Caetani, Annali dell’Islam, Milano, Hoepli, 1905-1926, vol. I; Id., Studi di Storia Orientale, Milano, Hoepli, 1914, voll. I e III.

  40. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 116.

  41. Ivi, p. 125.

  42. Ivi, p. 132.

  43. Ivi, pp. 119-120.

  44. Ivi, pp. 134-135, corsivo mio.

  45. Ivi, p. 11.

  46. Cfr. H. Al-Raheb, Religious Satire in Rushdie’s Satanic Verses, cit., pp. 330-340.

  47. S. Rushdie, I versi satanici, cit., pp. 387-388, 391.

  48. G. García Márquez, Cent’anni di solitudine (1967), trad. it. di I. Carmignani, Milano, Mondadori, 2021.

  49. Cfr. M. G. Corcoran, Rushdie’s Satanic Narration, in «The Iowa Review», XX/1, 1990, pp. 162-165.

  50. Cfr. G. Marzorati, Fiction’s Embattled Infidel, in «New York Times Magazine», 26 gennaio 1989, p. 45.

  51. S. Rushdie, I versi satanici, cit., p. 122.

  52. Cfr. M. G. Corcoran, Rushdie’s Satanic Narration, cit., pp. 166-167.

  53. S. Rushdie, In Good Faith, New York, Viking Penguin, 1990, p. 4, corsivo mio.


The essay presents an analysis of Salman Rushdie’s novel The Satanic Verses, enlightening the features of magic realism and of the encounter/clash between East and West. Following the route of Indian post-colonial literature and through a reinterpretation of the episode of the ‘satanic verses’ contained in the Koran, Rushdie attempts to represent what contemporary Islam is experiencing in the world and in its relationship with Europe.