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Le scritture del sé nel romanzo francese e francofono contemporaneo: osservazioni su un cantiere aperto

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Proponiamo, in questa sede, i primi esiti delle indagini sulle scritture del sé condotte a partire dal mese di marzo 2022 nell’ambito del gruppo di ricerca Dopo il primato, afferente all’Osservatorio sul romanzo contemporaneo. In particolare, quanto segue è il prodotto del lavoro realizzato dal sottogruppo impegnato a indagare, da un punto di vista teorico, morfologico e tematico, le principali tendenze del romanzo francese e francofono contemporaneo aventi per oggetto la rappresentazione di una realtà extralinguistica attraverso il prisma della soggettività1.
Per raggiungere tale obiettivo, si è adottata una metodologia d’indagine articolata in due momenti. Inizialmente, si è cercato di inquadrare la questione a partire dal dibattito teorico di riferimento, nel contesto francese/francofono e italiano, cercando di selezionare un primo corpus di romanzi pubblicati nei primi venti anni del Duemila e che si collocano nel solco di quel processo di ‘messa in discussione’ dell’autobiografico avviato nell’ultimo quarto del secolo precedente2. In questa prospettiva, gli studi di Philippe Lejeune e le reazioni sviluppatesi intorno alla sua definizione di autobiographie e di pacte autobiographique3 hanno costituito una premessa teorica imprescindibile e saranno più volte chiamati in causa nel corso della riflessione. Lejeune – lo ricordiamo – aveva infatti definito il pacte autobiographique come la relazione4 che si instaura fra autore e lettore sul terreno scivoloso della veridicità dei contenuti narrati, oltre che sulla sovrapposizione tra personaggio, autore e narratore all’interno di un racconto retrospettivo costruito intorno alla «histoire [d’une] personnalité»5 oggetto principale della scrittura.
Il dibattito acceso a partire dalla metà degli anni Settanta con il contributo dello studioso francese si pone, in effetti, alle origini di una questione tutt’altro che risolta. È interessante notare come l’indagine teorica, in quegli anni, coincida con la produzione di diversi autori il cui progetto intellettuale si sviluppa sotto forma di una ricerca memoriale che mette in discussione la tradizione autobiografica occidentale. La trilogia Le labyrinthe du monde di Marguerite Yourcenar mostra, per esempio, una scrittrice alle prese con un racconto della storia dei suoi familiari che elude il patto autobiografico. La narrazione, in effetti, «s’affirme de façon distincte: à travers la souvenance des autres, les modalités de la réminiscence changent, s’assouplissent jusqu’à prendre d’autres formes»6. I primi due volumi, Souvenir Pieux (1974) e Archive du Nord (1977), si concentrano rispettivamente sulla linea materna e paterna, mentre nel terzo libro, Quoi? L’Éternité (1988), «la description de Marguerite se borne aux premières années de son adolescence, le récit étant plutôt focalisé sur son père»7. Nel decennio successivo, poi, il processo si espande: Yves Baudelle sottolinea, a tal proposito, come gli anni Ottanta abbiano segnato un punto di svolta decisivo nella vita culturale in Francia, individuando un cambiamento nella dialettica tra memoria e immaginazione a partire dalla pubblicazione di L’enfant (1983) di Nathalie Sarraute e di Le Miroir qui revient (1985) di Alain Robbe-Grillet. Si tratta di opere autobiografiche che, secondo lo studioso, si iscrivono in una nuova epoca del dubbio e che «affich[ent] les inévitables dérives fictionnelles de toute remémoration de soi»8.
L’attenzione verso queste produzioni è tutt’altro che calata tra la fine del secolo e gli inizi degli anni Duemila, come dimostrano, da una parte gli studi condotti da Bruno Blanckemann e da Dominique Viart9 e, dall’altra, la creazione di équipes nazionali e internazionali10. Queste riflessioni, oltre a introdurre nuovi orizzonti di studio, hanno messo in luce la complessità intrinseca al concetto di “scritture del sé” e alle sue possibili definizioni. Il riferimento al plurale, – che ricalca il francese ‘écritures de soi’11 – si è infatti arricchito nel tempo di due approcci complementari, frutto delle riflessioni critiche sulle narrazioni dell’io operate secondo due prospettive principali: quella antropologica adottata da George Gusdorf12 e quella filosofico-letteraria di Michel Foucault13. Il risultato è una dilatazione dell’autobiografismo, che scavalca il tradizionale ambito letterario per diventare anche oggetto di indagine filosofica, antropologica, psicologica, storiografica e sociologica, con una sempre maggiore apertura verso l’ibridazione intermediale.
La natura proteiforme e mutevole di queste produzioni le rende così dotate, a monte, di una forte componente metaletteraria che non coinvolge soltanto il ‘classico’ genere del romanzo, ma estende la riflessione a vere e proprie pratiche di scrittura che necessitano di essere contestualizzate all’interno di un quadro storico-sociale di riferimento, un quadro che ne influenza la ricezione e li colloca all’interno di una gerarchia estetica mobile14.
Durante la prima fase di lavoro volta alla selezione di un corpus primario e secondario esemplificativo, abbiamo potuto verificare l’ampiezza e la complessità del nostro oggetto di indagine, legate alla varietà di forme, di generi e di tematiche propri alle narrazioni dell’io. E a ben guardare, ci siamo infatti resi conto che la loro specificità risiede proprio nel carattere eterogeneo, trasversale e dinamico, sperimentale di queste produzioni, al punto da constatare che il macro insieme di cui fanno parte si presenta come «une nébuleuse aux contours variables selon les positions théoriques»15.
Tuttavia, malgrado il carattere composito, o persino centrifugo, del nostro oggetto di studio, abbiamo cercato di individuare un fil rouge capace di attraversare, in diacronia quanto in sincronia, le riflessioni teoriche sul repertorio delle scritture del sé: la presenza, all’interno della narrazione, dell’elemento finzionale. Così, a partire da questa problematica, abbiamo strutturato il lavoro in alcuni filoni di indagine che sono stati sviluppati nella seconda fase della ricerca collettiva.
La relazione tra verità fattuale e finzione, esplorata anche da Genette16, è infatti alla base del dibattito sulle forme di espressione del sé sulle quali lo stesso Lejeune aveva sottolineato non pochi problemi di definizione17. Quest’ultimo ritorna sulla questione in diversi studi, spiegando come la scrittura autobiografica si basi, in realtà, sull’atto di ‘dire la verità’18, che di fatto non esclude forme poetiche, intermediali oppure narrazioni eterodiegetiche19.
L’inclusione dell’elemento finzionale, inoltre, può conferire al genere una maggiore complessità, sfidando l’orizzonte d’attesa dei lettori e aprendo la strada a nuove forme espressive. Da qui deriva la necessità di soffermarsi sull’autofiction contemporanea a partire dal dibattito inaugurato da Doubrovsky20: si tratta di una pratica, come ricorda Philippe Gasparini, a «vocation essentiellement critique»21 contro l’autobiografia, che nasce sfidando i generi tradizionali per inaugurare un campo d’indagine prima inesplorato22. In questa prospettiva, le produzioni di Philippe Vilain et di Philippe Forest costituiscono dei casi degni di interesse: la loro opera – interessante anche per il contributo degli autori al dibattito teorico sull’argomento – segue il complicato percorso di legittimazione di un “genere” di cui, negli anni Duemila, si ipotizza la saturazione.
La complessa coesistenza tra verità e finzione si manifesta anche nelle narrazioni eterodiegetiche come nella scrittura minimalista – microfiction – e biofiction, quest’ultima definibile come «finzione narrativa […] incentrata sulla vita di una persona reale (distinta dall’autore) seguita nel suo intero sviluppo oppure ridotta a pochi momenti significativi»23. In questo caso, è l’impronta dell’autore-biografo sul testo, la selezione dei fatti salienti della vita di un altro e i giochi di focalizzazione ad avvicinare la bio-fiction al campo delle scritture del sé, come nell’esempio di Jean Echenoz. Una presenza maggiore della dimensione individuale dell’autore è invece rintracciabile nelle narrazioni minimaliste di Régis Jauffret e di Philippe Delerm, in cui gli scrittori non esitano a mostrarsi individui che, proprio come i loro personaggi, si confondono nella moltitudine fondendosi con l’oggetto della scrittura.
Alle problematiche sulla finzionalità si aggiungono le complesse questioni legate all’enunciazione scenica, proprie delle forme di performance teatrali autobiografiche. La messa in scena di vissuti personali, di monologhi in cui l’autore/autrice è allo stesso tempo protagonista e performer, esplora pratiche narrative per l’autobiografia che «n’est plus […] seulement l’écriture de soi, c’est aussi la monstration de soi»24. La prospettiva femminile rappresenta molto spesso una componente importante di tali produzioni intermediali, come dimostrano i casi di Agathe Charnet, Fatima Daas e Chloé Delaume che espongono sulla scena problematiche legate alla sessualità lgbtq+ e all’autoaccettazione, oltre che a eventi dolorosi legati al proprio passato. L’autorappresentazione e la narrativizzazione di sé diventano, così, veicolo per giungere a una forma di catarsi, di riappropriazione dell’io in seguito a eventi traumatici, grazie a esperienze di fruizione complesse e innovative, proposte in spazi pubblici spesso inconsueti, dotate di una forte valenza anche politica25.
Se dunque «écrire c’est un moyen de renverser la logique victimaire et de reprendre une forme de maîtrise sur l’événement destructeur»26, l’ultimo filone di ricerca analizzato dal sottogruppo concerne il tema del trauma, collettivo o individuale. Intimamente legato all’identità frammentata e “ricomposta” attraverso la narrazione, problematizza ulteriormente la questione delle scritture del sé mostrando ulteriori evidenze del dialogo tra forme, generi e ambiti del sapere. Su questo ultimo aspetto, in particolare, il neuropsichiatra e psicoanalista francese di origini ebraiche Boris Cyrulnik testimonia, per esempio, la necessità di servirsi degli strumenti del romanzo per rielaborare la post-memoria dell’Olocausto. In una prospettiva francofona, gli esempi al femminile di Assia Djebar e Maryse Condé mostrano in che modo è possibile dialogare con un genere più tradizionale come quello dell’autobiografia portando, all’interno della scrittura, le tracce di una perdita di unità, di linearità temporale, linguistica e interiore, che inseriscono gli shock subiti all’interno della più ampia questione post-coloniale.

1. Tra etica del frammento e ritorno dell’io: percorsi dell’autofiction

Se si volesse tracciare una linea temporale e contestualizzare il ritorno dell’io nella produzione letteraria contemporanea in Francia, non si potrebbe evitare di far riferimento ad alcuni eventi di natura politico-culturale27, sociologica e antropologica risalenti agli anni ’70 del Novecento che hanno scosso le coscienze di teorici e scrittori, i quali hanno mostrato un interesse rinnovato verso la narrazione (auto)biografica, tagliando, così, il “cordone ombelicale” con la stagione del Nouveau roman, dominante nella Francia del ventennio precedente, in cui l’io si presenta molto più fluido e indefinito28. Una prima data fondamentale che segna questo cambio di rotta è il 1975 con la pubblicazione di Roland Barthes par Roland Barthes, opera pubblicata dall’omonimo teorico e scrittore, in cui l’io ritorna disgregato, riorganizzato nella narrazione del sé e il racconto del suo vissuto si presenta come non unitario29. Un’operazione simile avviene anche nell’opera di Georges Perec W ou le souvenir d’enfance (1975), in cui la frammentarietà si evince nella struttura del testo. Quest’ultimo, difatti, si compone di due parti separate da una pagina bianca che rappresenta la «metafora di una rottura irreparabile»30. I ricordi rievocati, relativi alla sua infanzia e alla perdita dei genitori in seguito alla deportazione nei campi di concentramento, non vengono narrati cronologicamente e, soprattutto, si presentano imprecisi, sbiaditi e lacunosi: è qui che Perec sfrutta il potenziale della fotografia, la quale gli consente di ricostruire e portare avanti il racconto31.
L’adesione “all’etica del frammento” sembra essere la cifra di una letteratura che mette in crisi, per certi versi, la definizione di ‘autobiografia’ formulata da Philippe Lejeune ne Le Pacte autobiographique (1975), secondo cui essa è un «récit rétrospectif en prose qu’une personne réelle fait de sa propre existence, lorsqu’elle met l’accent sur sa vie individuelle, en particulier sur l’histoire de sa personnalité»32. Questa crescente ricerca dell’io e la sua conseguente centralizzazione riporta il focus sulle scritture del sé e sul rapporto che esse instaurano con il romanzo. Se esse designano un terreno di ricerca e una pratica letteraria tanto fertili quanto insidiosi, anche il caso dell’autofiction – oggetto di analisi di questa prima sezione – lascia spazio a questioni ancora oggi aperte.

1.1. Autofiction vs autobiografia: le origini del “genere”

Non è possibile parlare di autofiction senza parlare di autobiografia. La definizione, infatti, emerge dalla reazione di Serge Doubrovsky agli studi di Philippe Lejeune. Dopo aver definito l’autobiografia, egli presenta il caso del romanzo autobiografico, un tipo di scrittura che differisce dal récit rétrospectif de soi nella misura in cui l’io autoriale non coincide con l’io narrante. Difatti, il lettore potrebbe cogliere una verosimiglianza in ciò che legge, ma lo scopo dell’autore non è affatto quello di rispettare la referenzialità della narrazione; per tale ragione, egli non dichiara di essere ‘colui che narra e agisce’, ma stringe un patto romanzesco con il lettore, celandosi dietro un nom d’emprunt, vale a dire un personaggio di finzione. In seguito, Lejeune riporta la cosiddetta case aveugle, in cui riflette sul fatto che non sia ancora stata realizzata un’opera in cui l’identità dell’eroe romanzesco e quella dell’autore convergono33. A partire da queste conclusioni in cui si era imbattuto Doubrovsky, il teorico e scrittore russo ‘‘raccoglie il guanto di sfida’’ con l’intenzione di riempire quella casella vuota e con la pubblicazione di Fils (1977) inaugura, come è noto, la nascita di una nuova categoria letteraria: l’autofiction.
Secondo Doubrovksy, gli imperativi a cui è sottoposta l’autofiction rispondono essenzialmente a due criteri: uno générique, l’altro nominal. Secondo il primo, l’autofiction deve definirsi ugualmente romanzo in quanto al suo interno sono presenti elementi fittizi, legati dunque all’universo della fiction – nel caso di Fils, infatti, la dicitura appare esplicitamente sulla copertina del testo; quanto al secondo, autore, narratore e personaggio devono condividere lo stesso nome. Questo genere emergente oscilla pertanto intorno a un duplice patto con il lettore: da una parte, quello autobiografico, che fa sì che l’autore collochi la narrazione in un alone (dai contorni sempre più sfuocati) di veridicità; dall’altra, il patto romanzesco che mette in guardia il lettore, il quale deve essere consapevole che si relazionerà con una storia di certo non “vera” ma fittizia, quindi ricomposta, ricostruita34. La differenza tra autofiction e autobiografia risiede proprio nel grado di responsabilità e negli obiettivi dello scrittore: l’autobiografo pretende di raccontare a stretto contatto con il “vero” – sebbene già le Confessions di Rousseau dimostrino l’impossibilità di questa démarche – mentre l’autore di autofiction scrive dandosi consapevolmente la libertà di “mentire”, inventare, manipolare e trasformare i dati della realtà35. Se da un lato Doubrovsky sembra volersi porre al di fuori sia del romanzo tradizionale sia del Nouveau roman, dall’altro contribuisce ad aumentare la confusione fra teorici e scrittori, alimentando un dibattito ancora oggi attivo, a tal punto da spingere gli studiosi a porre nuovamente l’attenzione su autobiografie particolarmente problematiche o estremamente romanzate36.
Lo stesso Doubrovsky ha più volte riformulato la propria definizione di autofiction presentandosi, come afferma Philippe Gasparini, come un autore che si colloca tra due accezioni del genere: una più ampia che ingloba un importante numero di opere aderenti a questa categoria e l’altra, più restrittiva, in cui rientrano i fac-simile di Fils37. Tra le diverse definizioni del genere ritroviamo, per esempio, quella di Dominique Noguez secondo cui, così come a un chimico è necessaria una singola goccia di acido cloridrico per cambiare la natura del liquido nella sua provetta, allo stesso modo allo scrittore di autofiction basta un minimo elemento di finzione per rendere tutta l’opera non referenziale38. Degno di attenzione è anche il contributo ‘anti-doubrovskiano’ di Vincent Colonna, secondo cui nell’autofiction rientrerebbero una serie di testi realizzati sin dall’età classica, tra i quali La Divina Commedia di Dante e i racconti L’Aleph o L’altro di Borges. L’inclusione di queste opere in cui la componente inverosimile, fantastica e meravigliosa svolge un ruolo di primo piano, ha infatti ampiamente contribuito ad alimentare il dibattito, suscitando le critiche di quanti affermano che nei testi medievali non solo vi fosse una diversa consapevolezza dell’io, ma anche un evidente divario tra finzione letteraria e verità storica39.

1.2. Un florido ventennio per l’autofiction: teoria e pratica della scrittura (1990-2010)

L’autofiction è, dunque, quel genere che si trova in costante tensione tra autobiografia e romanzo, fictionnalisation du réel ed espansione del biografico in campo narrativo. Se a oggi viene riconosciuta come una pratica letteraria legittimata, è solo a partire dagli anni ’90 che il dibattito sulle scritture del sé si è intensificato, coinvolgendo sempre più studiosi e intellettuali. Il successo di questo genere, difatti, non è dovuto solo alle effettive autofictions realizzate, ma anche, e soprattutto, all’incessante riflessione e alle aspre critiche che sono state sollevate nel ventennio che approssimativamente va dagli anni ’90 ai primi anni 2000 e che, paradossalmente, hanno contribuito alla proliferazione di opere autofinzionali.
Tra le più ricorrenti, vi è quella secondo cui l’autofiction sarebbe la messa in atto di uno smisurato esibizionismo di sé destinato a sfociare in forme de narcisismo, perché l’io – oggetto di fictionnalisation voluta – viene inevitabilmente distorto e manipolato dallo scrittore40. Un altro motivo per il quale l’autofiction è in quel periodo oggetto di diffidenza riguarda i temi trattati, considerati ricorrenti, eccessivi e talvolta impudichi, come l’incesto e la perte de l’enfant. A tal proposito, per capire fino a che punto teorici e scrittori siano stati coinvolti in merito, non si può tralasciare la celebre querelle letteraria che ha visto protagoniste Camille Laurens e Marie Darrieussecq, quest’ultima accusata dalla Laurens non solo di aver commesso plagio con il suo Tom est mort (2007) – definendolo una palese copia del suo récit autobiographique intitolato Philippe (1995) – ma persino di aver strumentalizzato una questione così delicata come la morte di un figlio – evento che nel caso della Darrieussecq non si è mai realmente verificato – in nome di un’invenzione letteraria41.
A partire da questa querelle è intuibile la terza accusa mossa nei confronti di questo genere, quello di essere menzognero e di non rappresentare la realtà secondo il dispositivo della veridicità. A questo pensiero aderisce Annie Ernaux, scrittrice che si colloca nella scuola degli «autobiographes-radicaux», sviluppatasi negli anni ’90 del Novecento42. Secondo questi ultimi, l’uso della finzione nel racconto di sé equivale a una forma di tradimento nei confronti del proprio vissuto, motivo per cui ci si prefissa l’ardua ricerca della verità e dell’oggettività nella scrittura letteraria43. Nel caso specifico di Ernaux, la sua démarche autobiografica è particolarmente interessante, in quanto l’autrice non si limita a rievocare solo il proprio vissuto, ma mira a fare una vera e propria «radiographie de la société»44, dando vita a ciò che viene definita un’autosociobiographie45. Ciò che affascina maggiormente critici e lettori è che la scrittura divide il proprio spazio di enunciazione con altri mezzi di rappresentazione del sé, quali la musica46, il cinema47 e l’ekphrasis, – si consideri per esempio che ne Les Années (2008) l’autrice descrive delle fotografie e le presenta al lettore secondo una linea temporale cronologica – e le fotografie visuali, accostate spesso a estratti del suo journal intime, come nel caso di L’Usage de la photo (2005) e il fotolibro Écrire la vie (2011)48.
Non solo il ricorso alla fotografia diviene un’ulteriore attestazione del fatto che quanto si dice aderisce alla realtà – rafforzando dunque l’idea di veridicità di cui il racconto si fa portavoce – ma consente anche di interrogarsi sul legame che l’io e la scrittura instaurano con altri mezzi d’espressione, e sviscerare nuovi rami delle scritture del sé come quello della ph-autobiographie49. Parallelamente agli «autobiographes-radicaux», si sviluppa la scuola di pensiero degli «autofictionnistes-romanciers» – per certi versi posta agli antipodi della precedente -, in cui figurano scrittori quali Philippe Vilain e Philippe Forest50.

1.3. L’autofiction ou une aventure théorique: i casi di Philippe Vilain e Philippe Forest

Philippe Vilain è uno scrittore e saggista francese che si impone sulla scena letteraria in seguito alla pubblicazione del suo primo romanzo L’Étreinte (1997). Teorico e difensore della scrittura autofictive, egli ritiene che la veridicità di quanto si dice risiede in una fiction che partecipa alla ricostruzione di sé partendo dal proprio vissuto; un autore che pratica la scrittura autobiografica, prosegue Vilain, non esula dalla menzogna benché egli ricerchi la verità, in quanto è la memoria stessa a tradire lo scrittore alle prese con un’operazione del genere. Infatti, collegandosi a Doubrovsky, l’autore afferma che più uno scrittore si sforza di ricordare la sua vita, più la inventa51. Queste riflessioni di matrice teorica vanno di pari passo con la pratica letteraria e, difatti, le sue autofictions (così come quelle di gran parte degli scrittori appartenenti a questo filone, come Chloé Delaume e Philippe Forest) si contraddistinguono per il loro carattere métafictionnel52. Lo vediamo, per esempio, ne L’été à Dresde (2003)53, ne La fille à la voiture rouge (2017)54 e ne Le renoncement (2001)55, in cui ci sono continui richiami alla sua pratica di scrittore e teorico. L’elemento interessante nelle opere di Vilain è che ogni romanzo opera la riscrittura dello stesso tema, ovvero l’amore, che viene affiancato a un forte engagement politico e sociale56. Ed è proprio questa riscrittura – unita alla falsificazione involontaria della memoria – a definire il meccanismo attraverso cui l’autofiction, secondo Vilain, si concretizza. La riflessione dell’autore è sviluppata anche all’interno di alcuni saggi teorici: ne L’autofiction en théorie (2009), egli ripercorre il dibattito sull’autofiction e tenta di estendere la definizione originaria, considerando anche quei testi in cui il je è anonimo – «Fiction[s] homonymique[s] ou anonimale[s]»57 – e che si presentano, ai suoi occhi, come delle autofictions: è il caso de L’Amant (1984) di Marguerite Duras. Nel saggio Défense de Narcisse (2005), è possibile cogliere sin dal titolo il tentativo di scagionare questo tipo di produzione dalle accuse di un’eccessiva esibizione del sé. Infatti, Vilain afferma che «on n’écrit pas toujours parce qu’on s’admire, mais parce qu’on voudrait s’admirer»58.
Tra coloro che riconoscono il carattere narcisista dell’autofiction ritroviamo Philippe Forest, il quale ha lavorato sulla nozione di autofiction distinguendo quest’ultima dal roman du je e dall’égo-littérature (classificazione sulla quale dissente Philippe Vilain, in quanto in qualche modo l’autofiction sarebbe parte integrante del roman du je e dell’égo-littérature)59. Anche Forest, nei suoi romanzi, rievoca continuamente un’esperienza autobiografica – la morte di sua figlia di quattro anni – mettendo in scena un je che equivale a un suo doppio e che differisce da romanzo a romanzo: «Le Je romanesque n’existe que comme la somme toujours ouverte de ses variantes fictionnelles […]. Le Je de Toute la nuit n’est pas celui de L’Enfant éternel qui n’est pas non plus celui de Sarinagara»60. A questo punto viene da chiedersi cosa rappresenta per lo scrittore il romanzo, e che tipo di rapporto l’autore instaura con il je e la fiction. Come asserisce nei suoi due saggi più importanti, Le roman, le réel (1999) e Le roman, le je (2001), il romanzo ha il compito di cogliere le réel nella sua concretezza ed evoluzione. Ciò avviene attraverso un io che non mira più a raccontare di sé dal punto di vista autobiografico, ma ha l’obiettivo di testimoniare61 ciò che egli definisce indicibile. Il romanzo, prosegue l’autore, rappresenta ciò che non viene accettato nella dimensione reale e che viene riportato nell’universo romanzesco mediante il filtro della finzione (come appunto l’esperienza del lutto da lui vissuta)62. Sebbene Forest non concordi con la critica, molti teorici lo ritengono un autore fictionnaliste, proprio perché egli riconosce che, rievocando un’esperienza che affonda le radici nel proprio vissuto, si crea un romanzo63: «On s’imagine se racontant à soi-même ce qui a eu lieu. Mais on ne le fait jamais qu’à la seule fin que tout cela soit à nouveau. Sous une autre forme, nécessairement différente de celle qui fut et de laquelle on ne se rappelle rien»64.
Nelle sue opere, tutti i personaggi provano a lasciarsi alle spalle il passato senza, però, mai riuscirci, in quanto ne sono perennemente perseguitati. Sul piano contenutistico e formale, l’esperienza autobiografica viene ricostruita attraverso un protagonista generico, che sfugge a caratterizzazioni nominali permettendo a ogni lettore di immedesimarsi in ciò che legge65: ne L’Oubli (2019), ad esempio, si alternano due je e ricorrono i Leitmotive della perdita di una singola parola capace di dare voce al dolore e del rapporto tra memoria e dimenticanza. Quest’ultima, paradossalmente, rappresenta il mezzo attraverso cui il ricordo viene preservato, enfatizzando l’impossibilità di rompere con il passato. I protagonisti sono catapultati in una dimensione sospesa, cupa, onirica e, talvolta, catastrofica, come si osserva in Crue (2016)66. Tuttavia, come si può notare nel Nouvel Amour (2007)67 il senso di dispersione che anima il personaggio – e che si riflette nella morte della figlia – diventa possibilità di rinascita: in effetti, questi tenta di rifarsi una vita attraverso un nuovo amore per una donna, amore che, però, non dà i risultati sperati.

1.4. L’autofiction nell’ultimo decennio (2010-2023)

Sebbene per molto tempo l’autofiction abbia occupato un ruolo di primo piano, bisogna anche riconoscere una crisi del genere riconducibile al secondo decennio del XXI secolo. Al giorno d’oggi, infatti, associare autofiction e ‘innovazione letteraria’ suona oramai anacronistico68. A tal proposito, basti considerare che gli stessi autori posti sotto questa «etichetta», come Vilain e Forest, sembrano vivere una nuova stagione letteraria: il primo proietta sempre di più la propria scrittura verso la sfera puramente romanzesca piuttosto che verso quella autobiografica: un esempio concreto sono le opere più recenti Pas son genre (2011) e La femme infidèle (2013)69, in cui l’autore mette sicuramente in luce dei tratti personali (legati alla sua visione del mondo, alle sue credenze, ai suoi ideali), ma lo fa mediante un nom d’emprunt, venendo dunque meno a quell’imperativo nominale tipico dell’autofiction70. Infatti, benché Vilain si sia ampiamente pronunciato per la legittimazione di questo filone narrativo, riconosce apertamente che «ce serait naïf et prétentieux de penser que l’autofiction détient le monopole de l’innovation, car s’affirmant elle-même comme un roman, elle […] obéit aux mêmes lois qui régissent en secret le roman»71. Forest, invece, si rifà a quel tipo di scrittura definita exofiction, concetto che si colloca in netta opposizione a quello di autofiction, e della cui concretezza lo scrittore dà prova in alcuni romanzi, come Saringara (2004)72.
Un aneddoto particolarmente interessante – che delinea appieno la complessità del discorso teorico sinora portato avanti – riguarda la già citata Annie Ernaux che, come è stato specificato precedentemente73, opera una scrittura veridica e oggettiva; tuttavia, nonostante la sua posizione sia molto chiara, alcuni critici continuano a includerla nel discorso sull’autofiction, specialmente in seguito alla pubblicazione di alcuni testi come L’Occupation (2003), in cui ella pare venir meno a quell’etica del «vero» e del «reale» attuando dei meccanismi narrativi probabilmente inconsapevoli, ma che risultano sufficienti per far rientrare l’autrice in un filone di scrittura a cui aveva sempre rifiutato di essere accostata74.
I tre casi citati – Vilain, Forest e Ernaux – sono dei campanelli d’allarme da non sottovalutare, in quanto ci pongono dinanzi allo statuto attuale del “genere”, nonché all’evidente complessità che, a distanza di cinquant’anni, non permette ancora di dare una risposta chiara in merito alle domande su cosa sia, effettivamente, un’autofiction e fino a che punto sia ancora legittimo parlarne.

2. Le vite degli altri: sviluppi della biofiction

Si collocano nel solco dell’espansione del genere (auto)biografico inaugurato negli ultimi decenni del secolo scorso anche opere come Vies minuscules (1984) di Pierre Michon, Les Éblouissements (1987) di Pierre Mertens e la “trilogia” (2006-2010) di Jean Echenoz, le quali aprono la strada a forme letterarie inedite che, nel corso del tempo, hanno iniziato ad essere definite dalla critica come biografie immaginarie, finzioni biografiche o anche autobiografie oblique75.
A tal proposito, però, è interessante sottolineare come l’emersione del fenomeno sia stato preparato, nei secoli precedenti, da opere come Biographical Memoirs of Extraordinary Painters (1780) di William Beckford, Imaginary Portraits (1887) di Walter Peter e Brief Lives (1898) di John Aubrey, per esempio. Si tratta, in tutti e tre i casi, di testi poco conosciuti e passati sotto silenzio che, tuttavia, hanno il merito di poter essere considerati precursori di un cambio di paradigma, in quanto propongono o una «biographie de personnages inventés» o raccontano di «personnages ayant réellement existé […] d’une manière ridicule ou bizarre»76. A questi si aggiunge, inoltre, il contributo delle opere di Marcel Schwob, il primo a «révolutionner la biographie»77 sfruttando, già alla fine del XIX secolo, tutti i vantaggi della finzione al fine di raccontare il destino «unique et inimitable»78 dei suoi illustri personaggi. Con il suo libro Vies imaginaires (1895), infatti, Schwob sancisce ufficialmente l’atto di nascita del nuovo genere della finzione biografica da cui deriverebbero, per l’appunto, tutte le opere precedentemente citate79. Pertanto, è possibile affermare che tutti questi testi, più o meno recenti che siano, si collocano «à la croisée de deux hyper-genres ou méta-genres»80: la biografia e la fiction. Motivo per il quale, nel 1990, il critico Alaine Busine conia il termine di biofiction, ampiamente utilizzato in ambito francofono e non solo81. A tal proposito, se in Italia il termine viene generalmente utilizzato per descrivere le così dette biografie romanzate, in Francia biofiction ha, invece, un valore semantico molto più inclusivo che, nell’ultimo trentennio, è arrivato ad indicare le «fictions littéraires de forme biographique (vie d’un personnage imaginaire ou vie imaginaire d’un personnage réel)»82.

2.1. Il nella biofiction: il caso di Echenoz

Una particolare tipologia di finzione biografica è la biofiction eterodiegetica con focalizzazione esterna. È quanto ha realizzato Jean Echenoz con la sua trilogia biofinzionale, un ciclo di romanzi aventi per oggetto le vite del compositore Maurice Ravel (Ravel, 2006)83, dell’atleta e campione olimpico Emil Zatopek (Courir, 2008)84 e dello scienziato Nikola Tesla (Des Éclairs, 2010)85. Il carattere finzionale di tali romanzi non consiste nei contenuti quanto piuttosto nella forma narrativa, e in particolare nella selezione degli episodi biografici narrati. Scrive Annie Oliver: «Nelle finzioni biografiche il narratore-biografo mostra spesso i suoi dubbi e le sue invenzioni per dire la finzione che egli si fa dell’altro, del soggetto biografato»86. In questa prospettiva, il sé dell’autore emergerebbe proprio dall’interesse rivolto a particolari vite altrui e ai procedimenti con cui queste vengono costruite. Nel caso di Echenoz, il narratore ricorre alla tecnica della focalizzazione esterna e non interviene con l’intento di penetrare nella coscienza del personaggio per chiosarne scelte, abitudini o idiosincrasie; piuttosto, si rivolge al lettore condividendo, talvolta, reazioni personali a precisi ritagli biografici. Ne è un esempio la conclusione del quindicesimo capitolo di Courir: «Non so voi, ma personalmente di tutte queste imprese, e record, e vittorie, e trofei, comincio un po’ a non poterne più. Il che cade a proposito perché, proprio adesso, Emil sta per mettersi a perdere»87.
Se le «esistenze reali […] si rivelano piene di carica romanzesca»88, ciò non accade perché l’autore inventa gli avvenimenti, ma perché egli li seleziona nel bacino degli episodi possibili – e dunque narrabili. Essi, inoltre, non necessariamente costituiscono i fatti più rilevanti della vita o della carriera del soggetto biografato, ed è in ciò che si palesa una delle maggiori differenze, sul piano del contenuto, tra una biografia e una biofiction. Ciò, nel caso di Echenoz, appare particolarmente evidente in Ravel, il primo romanzo della trilogia. Qui l’autore, contrariamente a quanto si proporrebbe un biografo, privilegia l’universo privato di Ravel: le abitudini, i gusti alimentari, l’insonnia, l’ossessione per il guardaroba, la ricca e stravagante collezione di soprammobili e di giochi meccanici di alta precisione, tratti più segreti e perciò maggiormente rivelatori della sua personalità; ne risulta una narrazione costituita perlopiù da biografemi aneddotici «che ne esaltano la misantropia e l’alto senso di sé, non certo il genio musicale»89. Il risultato ottenuto dall’autore è di ribaltare i consueti criteri adottati dal biografo fattuale, prediligendo avvenimenti capaci di disattendere l’orizzonte d’attesa dei lettori e di lasciare che questi ultimi si imbattano in una personalità, quella del biografato, raccontata secondo le inclinazioni dello sguardo di un’altra: quella del romanziere.

2.2. Minimalismo ed exofiction: Régis Jauffret e Philippe Delerm

Nel vasto campo della biofiction sono inseribili anche altre opere recenti la cui prerogativa, talvolta esplicita e altre volte più velata, è quella di scrivere di sé attraverso, però, il racconto di altre vite semplici e minuscole, alla Michon. È il caso, ad esempio, dei libri di Philippe Delerm, come La vie en relief (2021)90, in cui l’autore, tra il racconto di esperienze collettive e la presentazione di sprazzi di una quotidianità condivisa, inserisce proprie sensazioni e ricordi personali, aneddoti della sua infanzia e della sua adolescenza. Simile è anche il caso della saga Microfictions di Régis Jauffret, il cui obiettivo è raccontare «toutes les vies à la fois»91, offrendo un quadro realista, e talvolta spietato, della nostra società contemporanea.
L’opera di Jauffret è strutturata in un ciclo diviso in tre tomi, pubblicati, in Francia, tra il 2007 e il 202292. Ogni tomo contiene al suo interno cinquecento micro-storie, ciascuna con un proprio titolo, dalla lunghezza fissa di non più di tre pagine. A tal proposito, è interessante notare che i titoli dei racconti sono disposti dall’autore secondo un ordine alfabetico che va dalla lettera A alla Z. Tale scelta non appare casuale, perché questo tipo di organizzazione richiama proprio quella di un’enciclopedia, la cui peculiarità consiste nel registrare dati e informazioni. Ciò rafforzerebbe, dunque, l’intento classificatorio dell’autore, il suo voler catalogare tutte le vite umane al fine di offrirne un quadro sistematico, ordinato ed esaustivo, una sorta di Physiologie o di Comédie Humaine contemporanea.
A tal proposito, in questa sua grande raccolta di tipi, Jauffret si inserisce volontariamente: non esita, in effetti, a ritagliarsi un proprio spazio per raccontarsi come uomo e come scrittore. Si insinua fra la moltitudine delle esistenze rappresentate per affermare: «J’appartiens comme vous à l’espèce humaine»93. È dunque proprio in queste pagine, dove l’individualità e la soggettività dell’autore entrano in scena, che la finzione sulle vite altrui arriva a intrecciarsi a una velata autobiografia. Secondo quanto è stato recentemente sottolineato da Alexandre Gefen al riguardo, tali «projections du sujet»94 sul biografico e tali nodi tra realtà e finzione darebbero vita a un genere nuovo, proposto da Philippe Vasset nel 2013 come possibile variante della biofiction: l’exofiction, una letteratura che mescola «au récit du réel tel qu’il est celui des fantasmes de ceux qui le font»95.
Eppure, ad accomunare due scrittori come Jauffret e Delerm e le loro opere non è soltanto la finzione che si intreccia al reale e al racconto di sé, ma anche il tipo di scrittura a cui essi aderiscono. Infatti, si tratta in entrambi i casi di esempi di letteratura cosiddetta minimalista: la prosa è estremamente asciutta, il senso complessivo dei testi racchiuso e condensato in poche battute. Metaforicamente, li si potrebbe accostare all’immagine di uno schizzo su una tela bianca: semplice ma d’impatto per la sua concisione. Questo tipo di narrazione può essere anche considerata il frutto di un’ibridazione con nuove forme di narrazione iper-sintetiche, tipiche della comunicazione extra-letteraria del XXI secolo. Basti pensare ai metodi di comunicazione dei social network odierni, come nel caso dei post e delle stories, la cui efficacia e la cui potenza espressiva risiedono proprio nel loro essere brevi e istantanei. Proprio in virtù di tali caratteristiche, alcuni hanno imputato al minimalismo letterario una certa povertà estetica e psicologica, povertà respinta, lo ricordiamo, da Raymond Carver, che in un’intervista alla Paris Review confessa di non aver mai apprezzato questa etichetta proprio a causa del messaggio errato veicolato dal termine minimalismo96.
In questa prospettiva, è importante ribadire che anche qui brevità non è sinonimo di insufficienza. Infatti, questo tipo di scrittura gioca «sur le non-dit, sur le sous-texte, sur le pouvoir de la suggestion»97. Sta dunque al lettore saper colmare il vuoto di informazioni e andare al di là di ciò che si coglie in superficie. «On pourrait ainsi dire que l’écriture minimaliste est travaillée par le silence […] Les mots sur la page semblent renfermer une vérité première, arrachée dans un combat contre les excès et les équivoques de la langue»98. Non è un caso, quindi, se questo tipo di letteratura si sviluppa in Francia negli anni Ottanta come reazione ai principi del Nouveau Roman proprio per la sua intenzione di recuperare «les éléments principaux du récit, sans pour autant postuler un retour à la tradition»99.

3. A proposito di ibridazioni intermediali: scritture autobiografiche e performance

Gli anni ’60 e ’70 del Novecento costituiscono un tournant fondamentale per la letteratura di lingua francese anche perché questa va incontro a un periodo di sperimentazione che promuove l’emergere della figura dell’intellettuale “mediatico” che si fa promotore dei diritti umani. Questi grandi cambiamenti, accompagnati in Francia dal lancio della trasmissione televisiva Apostrophes (1975-1990), concorrono alla mediatizzazione della letteratura e al ritorno del soggetto che racconta sé stesso – talvolta anche in maniera esibita ‒ all’interno del testo100. Partecipando alla trasmissione Apostrophes, molti scrittori, tra cui Marguerite Duras, si mostrano in tv per promuovere e legittimare la lettura autobiografica dei loro libri. In tal guisa, si inaugura una letteratura del “moi je” in cui non si può più dissociare il narratore dallo scrittore101. Lo stesso Philippe Lejeune osserva precocemente che gli scrittori iniziano ad assumere una postura mediatica poiché non solo espongono il contenuto del loro libro ma lo impersonano attraverso l’esibizione di sé in tv. Ciò li spinge a pre-costruirsi un ruolo ben preciso (influenzato tanto dal cerimoniale dell’emissione quanto dall’interazione con le aspettative dei lettori) che mira a invogliare lo spettatore alla lettura del libro. Lo spettatore, a sua volta, sviluppa una percezione dell’opera influenzata dal modo in cui lo scrittore si presenta attraverso i media102.
Così, a partire dagli anni ’80, cresce il numero di testi letterari, in particolare autobiografici, che rivolgono particolare attenzione alla vita dell’individuo, il quale diventa sia oggetto che soggetto di indagine103. Tuttavia, la presenza di un referente reale all’interno del testo non esclude né la costruzione immaginaria del sé, né l’assenza «di un perfetto adeguamento delle parole alle cose vissute»104: ciò conduce a un travalicamento dei canoni dell’autobiografia tradizionale e a una rottura dell’ideale autobiografico. Per di più, come evidenziato dall’emersione dei cultural and visual studies, si assiste a una variazione/ibridazione dei generi letterari e all’impraticabilità di una definizione fissa e immutabile dei vari linguaggi artistici, i quali confluiscono in una commistione fra l’elemento verbale e quello visivo105. Nascono, così, artisti dai talenti plurimi che, esprimendosi attraverso le interferenze tra codici e linguaggi (letteratura, musica, cinema, teatro, fotografia, architettura), inducono a considerare i rapporti fra scrittura e arte contemporanea secondo una prospettiva di contaminazione reciproca, in comunione con diverse reti di produzione e di comunicazione106.
In questo clima la performance, considerata come il risultato di quattro azioni performate (being, doing, showing doing, explaining showing doing)107 o di comportamenti ritualizzati che si danno in spettacolo e che sono legati alla recitazione di un ruolo e alla partecipazione a un gioco108, inizia a diffondersi in ambito artistico, linguistico, sociologico, antropologico e letterario suscitando l’interesse di un numero crescente di artisti. Essa risponde alla ricerca di democratizzazione dell’arte, di un riavvicinamento tra opera e pubblico e del conseguente travalicamento dell’intertestualità e del libro come unico supporto di fruizione letteraria.
Dal momento in cui le fotografie, la performance, i videogiochi, i nuovi media entrano all’interno del giron della letteratura, si assiste a una co-implicazione tra l’asse verbale e visivo che conduce a una riconfigurazione delle modalità di scrittura, di lettura e di pubblicazione del supporto-libro. Quest’ultimo perde, infatti, la sua autonomia in materia di fruizione letteraria poiché, grazie alla convergenza delle varie arti all’interno del récit de soi, assume una natura transmediatica e inizia a far parte di un insieme poliespressivo. A tal proposito, tra il XX e il XXI secolo, Magali Nachtergael conia il termine néo-littérature per far riferimento allo sviluppo di una letteratura che ingloba al suo interno varie pratiche artistiche, plastiche e visive. Secondo la studiosa, le specificità di questo tipo di produzioni sono legate alla performatività del testo, alla messa in scena visiva o sonora del récit de soi, alla digitalizzazione del testo letterario. Si tratta di una letteratura che oltrepassa – è il caso di ribadirlo – i confini del libro cartaceo e si estende su altri supporti, dagli spazi espositivi agli schermi digitali109.

3.1. La performance e le sue caratteristiche

L’origine della performance e la sua introduzione in campo artistico è stata oggetto di un ampio dibattito critico che non ha esitato a mettere in luce, anche in questo caso, diversi problemi di definizione. Molteplici, infatti, sono gli ambiti e i movimenti artistici in cui essa viene coinvolta: le prime performances, infatti, potrebbero essere collocate tanto nel movimento giapponese Gutaï di metà anni Cinquanta, quanto nelle avanguardie artistiche e letterarie europee del primo Novecento quali Futurismo e Dadaismo110. L’introduzione progressiva della performance nelle arti plastiche ha inoltre fatto sì che il concetto venisse ancora oggi confuso con quello di happening111.
Secondo una prospettiva antropologica, ogni manifestazione rituale sarebbe, di fatto, una performance. E quest’ultima verrebbe identificata col concetto di arte vivente, effimera per definizione, dal momento che produce un atto destinato a non lasciare tracce nel tempo e che, nonostante possa essere riprodotto e messo in scena più volte, non sarà mai identico a un’esecuzione precedente112. Si tratta, questa, di una visione che viene messa in crisi dall’ingresso della performance in ambito letterario, laddove la performance in praesentia è strettamente collegata a quella in absentia: numerosi performer, drammaturghi e scrittori, inseriscono infatti atti performativi113 sia nelle loro rappresentazioni teatrali che nei loro testi, oltrepassando i limiti temporali e spaziali legati al ciascun intervento.
Certo è che la performance genera una rivoluzione del concetto di spazio e di tempo: talvolta le performances presentano una durata variabile e in alcuni casi una singola performance in praesentia può essere prolungata per ore, o addirittura per giorni; la loro realizzazione, inoltre, può avere luogo all’interno di un ampio ventaglio di luoghi che spaziano dagli ambiti espositivi abituali di opere artistiche (teatri, gallerie, musei, biblioteche) ad ambienti di vita quotidiana (strada, case), il che le rende fruibili a un pubblico sempre più ampio. Ne consegue una rimodulazione delle categorie estetiche e la conseguente trasgressione dei confini tra le arti, poiché la performance mira a scontrarsi con usi e tabù radicati nella società: attraverso la centralità attribuita alla messa in scena del corpo con la sua nudità, le sue trasformazioni, i suoi aspetti tenebrosi, propone, infatti, una riflessione talvolta perturbante su temi come l’erotismo, l’autolesionismo, la grassofobia, il patriarcato, la rappresentazione stereotipata del corpo femminile114. In questa prospettiva, non è infatti un caso se sempre più donne si servono del medium della performance come strumento di protesta, di emancipazione e di rivendicazione: da sempre relegate a un ruolo di secondo piano all’interno della società e della scena artistica, le donne intravedono in questo nuovo medium un veicolo strategico alla libertà di azione e di parola per imporsi e legare spazio intimo e sociale ai fini di vere e proprie battaglie collettive115.
Per loro, l’arte corporale diventa strumento per una ricerca identitaria e il mezzo di espressione che facilita l’autonomia individuale: per questo motivo, tra gli anni ’50 e gli anni ’70 del Novecento, con l’ingresso della performance nelle arti plastiche e la conseguente nascita della performing art e della body art ‒ termini mediante i quali viene messo in evidenza il ruolo centrale del corpo ‒ sempre più artiste propongono di mettere in scena il proprio corpo sperimentandone i limiti attraverso trasformazioni, deformazioni o mutilazioni116. La stessa Marina Abramović ‒ una delle maggiori esponenti dell’arte corporea ‒ per esempio, sceglie il corpo come soggetto di rappresentazione; secondo l’artista, infatti, questo sarebbe uno strumento di conoscenza della realtà, in quanto medium vigoroso capace di facilitare la comunicazione con un pubblico coinvolto a partecipare alla performance in maniera attiva. L’arte corporea di Marina Abramović implica una riflessione sull’uomo e rompe con la visione hegeliana dell’arte e della bellezza ideale dei nudi, ponendo l’accento su ciò che è considerato esteticamente brutto e moralmente condannabile (per esempio sul corpo de-individualizzato o ferito che rivela l’oppressione). Per lei, infatti, la performance dev’essere provocatrice, denunciare le imposture ontologiche mutilando la realtà, ragion per cui la rivolta sociale e la sovversione del reale sono da lei ritenuti come tratti marcanti della performance117.
Tuttavia, sarebbe riduttivo circoscrivere il genere della performance all’attività delle sole donne, perché numerosi sono gli artisti che ricorrono all’arte corporea come strumento di affermazione del sé e di lotta contro il sessismo, il razzismo, il capitalismo, l’ideologia giudaico-cristiana. Ne sono un esempio; Michel Journiac, la cui performance più famosa è Messe pour un corps (1969); Kulik Oleg, che in una delle sue esibizioni ha impersonato un cane arrabbiato, decidendo di mostrarsi nudo, legato e incorniciato in una galleria di New York contro il disprezzo con cui l’imperialismo americano trattava la cultura russa; Santiago Serra, che si interroga sul modo in cui il capitalismo si appropria dei corpi dei lavoratori118; Stelarc che unisce componenti elettroniche o robotizzate alla messinscena del suo corpo sospeso nello spazio; Vito Acconci che nella performance Seedbed (1972) si masturba ed esprime ad alta voce le sue fantasie erotiche sotto il pavimento di una passerella posta nella Sonnabend Gallery a SoHo, al fine di contrastare il tabù della nudità, dell’autoerotismo e della pornografia119.

3.2. Un racconto sociale performativo

In ambito letterario, numerose sono le scrittrici, le musiciste e le drammaturghe come Agathe Charnet, Fatima Daas e Chloé Delaume che rappresentano il proprio vissuto attraverso una scrittura di tipo performativo, oscillando tra il desiderio di rappresentare un sé individuale e la volontà di prendere parte alla lotta collettiva contro un regime patriarcale ossessivo e contro una società che oscura l’identità dei singoli. In questa prospettiva, la performance diventa strumento in grado di veicolare una sofferenza a lungo repressa, nonché il vettore ideale per affermare il proprio Je riappropriandosi di un vissuto ignorato e delegittimato. Le autrici in questione non si limitano a intrecciare scrittura, inserti poetico-mitologico-musicali e tecniche di performance teatrale: si servono anche dei cosiddetti enunciati performativi120, i quali – come dichiara il linguista John Langshaw Austin nel ciclo di conferenze How to Do Things with Words (1962) – non mirano a descrivere la realtà, quanto a produrla, poiché sono essi stessi il compimento di un’azione121.
Secondo Austin e John R. Searle la presenza di un interlocutore attivo e di un contesto di enunciazione reale e ben definito sono essenziali ad assicurare l’efficacia e il raggiungimento dello scopo degli enunciati performativi122. In questa prospettiva, tali enunciati sarebbero così esclusi dalle rappresentazioni teatrali, poiché il teatro non è identificabile con un contesto reale ma di finzione, e con un mondo d’illusione che non ne consentirebbe la réussite123. Tuttavia, grazie a Jacques Derrida, il concetto di performatività ha subito una mutazione e oltrepassato i confini della linguistica: lo studioso aggira, infatti, l’impossibilità di avere enunciati performativi a teatro (e in qualsiasi altro processo artistico) perché sostiene che essi sono sufficienti e completi in sé; tali atti, prosegue Derrida, non necessitano di un contesto reale e ben definito poiché non sono gli eventi esterni o il contesto a legittimarne il valore124. L’affermazione performativa può emergere sia in un contesto reale che immaginario, perché si tratta di un enunciato per definizione ambiguo che non aspira a una verità assoluta ma oscilla, ancora una volta, tra realtà e finzione.
Un esempio lampante a sostegno della tesi sostenuta da Derrida può essere il testo Ceci est mon corps125 (2022) di Agathe Charnet: si tratta, infatti, di un testo autobiografico intriso di elementi performativi e composto per una rappresentazione teatrale. Qui l’autrice, mediante la scoperta della propria sessualità, lascia intravedere come l’identità personale non sia forgiata solo dalle esperienze di vita individuali ma anche dai discorsi culturali e sociali. Il testo di Charnet, accanto alla La petite dernière126 (2020) di Fatima Daas – récit de soi frammentario che, sotto forma di una litania ripetuta, mostra la difficoltà della protagonista a scegliere tra l’amore per Dio e l’amore per le donne all’interno di una società omofoba, classista e razzista – rientra all’interno di quella che Richard Schechner chiama performance liminaire, ovvero uno spazio all’interno del quale il personaggio decide di spogliarsi, davanti agli occhi del lettore, di un’identità precedente per poterne assumere una nuova127. Si tratta, inoltre, di récits de soi performatifs che si iscrivono in contesti socio-culturali ben definiti e che, mediante la grande molteplicità di elementi performativi, trasmettono significati multipli e variabili rendendo unica ogni performance128.
Agathe Charnet e Fatima Daas mettono in scena un’esperienza identitaria, segnata dal sentimento della vergogna e della colpa. Producono, infatti, un racconto sociale performativo mediante il quale, oltre a riappropriarsi dello spazio del proprio sé, mirano ad attirare l’attenzione dello spettatore/lettore su questioni sessuali da sempre oscurate dal velo dei tabù e dei pregiudizi. Grazie alla potenza performativa del linguaggio verbale e corporeo, Charnet genera il proprio coming out e tenta di imporre parole e temi invisibili all’interno dello spazio sociale e mediatico affinché non siano più soggetti all’umiliazione129.
In La petite dernière di Fatima Daas è, invece, la citationnalité – ossia la ripetizione di un gesto citazionale o socialmente codificato nella vita quotidiana130 – a permettere il raggiungimento di questo obiettivo. Difatti, l’uso anaforico del codice di presentazione con cui apre ogni frammento del suo libro («Je m’appelle Fatima» o «Je m’appelle Fatima Daas») rappresenta una delle caratteristiche principali della performance, che consiste nel coniugare il gesto di rinascita, di ricostruzione del proprio sé attraverso l’esibizione con quello di perturbare il lettore portandolo, di volta in volta, a interrogarsi su quanto sta ricevendo. A giocare un ruolo importante in entrambi i récits de soi è soprattutto la vergogna sessuale, elemento che ha un doppio valore all’interno dei testi. Da una parte, infatti, la honte è una forza paralizzante che rende visibile l’interiorizzazione di norme sociali omofobe, norme che oltre a opprimere la sessualità, danno vita a un récit de soi frammentato e alterato a causa dell’umiliazione sociale; dall’altra, la honte si presenta come una fonte di energia trasformativa e politica, perché porta al tissage del récit de soi, consente la nascita di un nuovo Je e, grazie all’uso di parole umilianti e ingiuriose, permette di contestare la norma linguistica dominante e di cambiarla131.
È soprattutto nelle ultime pagine di Ceci est mon corps e La petite dernière che si assiste a un capovolgimento della vergogna, perché tutto ciò che fino a quel momento era stato oggetto di un sentimento paralizzante, viene iscritto e performato con fierezza all’interno di una dimensione collettiva: tramite l’uso di un linguaggio inclusivo, le autrici cercano di assicurarsi la presenza attiva e l’ascolto da parte del pubblico affinché quest’ultimo ‒ come sosteneva Austin ‒ possa legittimare la loro enunciazione : «Nos MauditXs, noz Bizzarres, […] Vous entendez? Vous m’entendez? Est-ce que vous m’entendez? […] Et je vous parle»132. Come sostiene Judith Butler, le parole assumono dunque un potere politico ed etico perché, essendo pronunciate davanti alla comunità, inducono il lettore a riflettere sui propri comportamenti, sulla propria identità e sul proprio genere; quest’ultimo, secondo la filosofa, non è predeterminato dalla natura, dalla biologia o da costruzioni socioculturali ma è generato, come un vero e proprio work in progress, attraverso le parole, i movimenti corporei, gli atti ripetuti, rinnovati, rivisti e consolidati nel tempo, atti spesso inconsci, più che volontari, poiché l’individuo è spinto ad agire in base a ciò che la società si attende da lui. Attraverso la performatività, infatti, l’io si sdoppia, si appropria di codici o li trasforma e può anche giocare con la finzione esibendo l’identità attraverso connotazioni di genere o altre costruzioni culturali133.

3.3. La démarche artistique di Chloé Delaume: tra scrittura del sé, performance e autofiction

L’incontro fra costruzione di una nuova identità e dimensione politica e collettiva della propria démarche artistique è un elemento distintivo anche del lavoro della performance artist Chloé Delaume. L’autrice si colloca nel solco di un tipo di performance sviluppatasi negli anni ’80 che si basa su spettacoli molto strutturati, caratterizzati da una rappresentazione in cui immagini e suoni coinvolgono l’uso delle tecnologie, del web e della combinazione più ampia tra i media134. Le sue performances hanno l’obiettivo di sperimentare strumenti inediti di comunicazione e, per questo motivo, i suoi testi possiedono una complessa dimensione multimediale. Attingendo ad ambiti eterogenei (teatrale, tecnologico, musicale, corporeo, linguistico), Delaume realizza siti web, pièces sonore, performances in absentia e performances in praesentia che le permettono di fissare ed esaltare la propria identità. Il lettore-spettatore si trova dunque di fronte ad un’identità frammentata e fluttuante che si riappropria della vita all’interno di un mondo mutevole, e grazie alla quale può sperimentare svariate modalità di fruizione del testo. Tuttavia, per poter avere un’immagine completa e ben definita di Delaume, questi è anche costretto a prestare particolare attenzione alla pluridimensionalità dell’opera, e ad attingere simultaneamente a più supporti di fruizione: se, infatti, egli recepisce la storia di Delaume attraverso il supporto scritto (libro), deve interrompere la lettura per cercare le canzoni e le citazioni poetiche che sono in esso presenti, e per le quali è prevista un’espansione digitale135. Ciò lo si rileva sia in Le Cri du sablier136 (2001) che in Dans ma maison sous terre137 (2009).
Le Cri du sablier è un récit d’une réminiscence che mira a restituire i ricordi della vita della protagonista come se fossero dei granelli di sabbia che si muovono all’interno di una clessidra. Si tratta della rappresentazione metaforica sia di un corpo sedimentato e bloccato in un trauma infantile, sia del tempo che scorre prefigurando un futuro migliore in cui la protagonista potrà avere una nuova identità.
Quanto a Dans ma maison sous terre, siamo di fronte al romanzo della vendetta nei confronti della nonna materna: qui la performer mescola finzione e trama autobiografica, combinando elementi cari alla numerologia, all’astrologia e alla musica nel tentativo di operare un’autentica nascita personale attraverso la potenza performativa del Verbe138. Secondo Delaume, il Je si ricostruisce a ogni rappresentazione di sé ed è l’effetto di una ripetizione che produce continuità e coerenza nel suo insieme139, e il suo carattere esibizionistico – uno dei tratti dell’autofiction – è funzionale alla ricostruzione di un’identità personale che non è per nulla casuale, ma è voluta e sottoposta al riconoscimento altrui nel contesto sociale140. Questo aspetto è esplicito in Dans ma maison sous terre, dove tramite una lettera fittizia redatta come necrologio per la sua famiglia, l’autrice dichiara il desiderio di seppellire il suo vecchio Je e di creare un personaggio di finzione: «Nathalie est morte en 99 […] Vous ne connaissez pas celle qui depuis neuf ans m’habite et me console, elle vous est étrangère et tient à le rester. Elle est moi, et elle s’appelle Chloé […] je suis un personnage d’affliction»141.
La creazione di uno pseudonimo, dunque, diventa parte integrante della vocazione performativa e del processo di autogenesi attraverso i quali la performer decide di rifiutare un’identità impostale da altre e radicate finzioni: quelle sociali e familiari. L’intento è di riappropriarsi, così, di una nuova identità capace di renderla protagonista della propria vita attraverso il potere della scrittura e della letteratura. Mediante questa costruzione fittizia (rappresentativa di un io sradicato e disincarnato), la scrittrice va alla ricerca di un nuovo corpo e di una nuova residenza da abitare, ovvero quella dell’autofiction, «forme littéraire parfaitement subjective, où le Je se libère des fictions imposées, s’écrivant dans sa langue et chantant par sa plaie142». L’autofiction diventa, dunque, sia il territorio della fusione e della co-identità tra autore, narratore e personaggio che condividono lo stesso nome di fantasia, sia il territorio della sperimentazione letteraria che consente a Delaume di teorizzare la sua pratica di performer.
Si tratta, ancora una volta, di una costruzione pubblica del sé che oscilla costantemente tra realtà e finzione, generando contaminazioni interessanti con il campo di per sé complesso dell’autofiction. L’autrice sostiene che il reale sia composto da una moltitudine di finzioni e che, quindi, scrivere di sé attraverso gli strumenti della fiction serva ad entrare nel reale perché «[elle] ne raconte pas d’histoire, [elle] les expérimente toujours de l’intérieur. […] Vécu mis en fiction mais jamais inventé. Pas par souci de précision, pas par manque d’imagination. Pour que la langue soit celle des vraies battements de cœur»143. Nel saggio teorico Les Règles du Je (2010), Delaume asserisce inoltre che l’autofiction per lei è «le compte rendu d’un Je qui s’emploie à s’écrire […] Vivre son écriture, ne pas vivre pour écrire. Écrire non pour décrire, mais bien pour modifier, corriger, façonner le réel dans lequel s’inscrit sa vie. Pour contrer toute passivité. Puisque. On ne naît pas Je, on le devient»144.
Accostando la tesi di Austin alla definizione che Delaume dà dell’autofiction, sembrerebbe dunque lapalissiano sostenere che la dimensione performativa del linguaggio sia intrinseca alla sua pratica dell’autofiction. Quest’ultima, infatti, permetterebbe di essere pienamente padroni di sé e del proprio destino: «L’autofiction était pour [elle] un territoire, un terrain vaste et vague où bâtir des possibles cimentés de vécu. [Elle s’y installait] donc, intimement persuadée [qu’elle y avait sa] place»145. Quella di Delaume è un’autofiction expérimentale perché, come afferma Mercédès Baillargeon ne Le politique est personnel, la scrittrice mira a reinventare un genere che, attraverso l’esplorazione delle varie forme di mediatizzazione del sé, oltrepassi i limiti imposti dal supporto-libro consentendole, dunque, di creare dei safe spaces utili ad affrancarsi dalle norme e dalle convenzioni per difendere la propria libertà. Per di più, attraverso un approccio provocatorio e interdisciplinare che combina critica sociale, psicoanalisi e femminismo, le sue opere propongono un pacte autofictionnel che si colloca nel solco di una logica dell’engagement che vuole porre uno sguardo critico sulle norme e sulle costrizioni che governano identità individuali e collettive. Il che suscita nel lettore la sensazione che gli si parli con sincerità spingendolo, così, a interrogare anche se stesso146.

4. Tra forme e temi: scrivere sul trauma

Scritture del sé e studi sul trauma sono due campi di ricerca che convergono in un’intima e potente sinergia. La forma autobiografica, infatti, permette di rivivere le esperienze scioccanti, offrendo una profonda comprensione della resilienza umana di fronte a eventi devastanti. D’altra parte, la crescente ramificazione di studi sul trauma è indicativa della progressiva attenzione del dibattito scientifico e mediatico sull’argomento, senz’altro alimentata dalla diffusione pervasiva di immagini e di informazioni riguardanti eventi bellici su scala mondiale. Si tratta di fenomeni che, inseriti all’interno del quadro storico-letterario tracciato finora, hanno contribuito alla proliferazione altrettanto significativa di produzioni autobiografiche aventi come oggetto la narrazione di episodi traumatici individuali e collettivi147.
Nel primo caso, tali avvenimenti possono includere abusi fisici o sessuali, incidenti gravi e perdite personali. Quanto ai secondi, questi si riferiscono a shock che coinvolgono intere comunità, società o gruppi più ampi. Possono comprendere guerre, disastri naturali, epidemie e genocidi, e altre tragedie che coinvolgono un gran numero di persone. L’oggetto di queste narrazioni, dunque, costituisce un macro-tema evidenziato anche in lavori collettivi sul genere autobiografico, come il Dictionnaire de l’autobiographie148 e l’Encyclopedia of Life Writing149, che identificano all’interno di tale produzione una grande varietà di forme e generi praticati da autrici e da autori contemporanei. Questi, infatti, sfruttano la scrittura e altri media per trasmettere la memoria di eventi tragici e avere così un impatto duraturo sulla cultura e sull’identità di un popolo150. Dunque, il riconoscimento della profonda interconnessione tra questi due aspetti nell’ambito della letteratura ha costituito un filone di indagine complesso ma indicativo dell’attuale produzione nel contesto francese e francofono.
Il modo in cui scrittrici e scrittori affrontano la rappresentazione del sé attraverso memorie, autobiografie diari, e opere intermediali, offre una lente tramite cui esplorare il dolore del vissuto in un ampio ventaglio di forme151. Nel contesto degli studi sul trauma, i processi di scrittura, di elaborazione e di guarigione vengono infatti messi in stretta relazione152: la capacità di esprimere in parole le proprie esperienze dolorose diventa terapeutica, poiché consente agli individui di dare un senso alla propria esistenza e di dare voce a ciò che sarebbe difficile comunicare diversamente153. In questa prospettiva, nelle pagine che seguono ci soffermeremo sugli esempi di Boris Cyrulnik, di Assia Djebar e di Maryse Condé come punto di partenza di una riflessione che intendiamo estendere ad altre produzioni contemporanee seguendo due direttrici principali: da un lato, quella della post-memoria legata alle conseguenze della Seconda guerra mondiale; dall’altro, quella della rappresentazione degli eventi scioccanti in area francofona e in epoca post-coloniale.

4.1. Il bagaglio dei traumi di massa del Novecento: Boris Cyrulnik e l’Olocausto

I trauma studies, non a caso, fioriscono in un momento chiave della storia del Novecento: il secondo dopoguerra. Oltre alle esperienze traumatiche delle popolazioni coinvolte e dei soldati al fronte, la narrativa del sé si è rivelata essere il genere prediletto per la trasmissione dei testimoni dell’Olocausto. Il campo degli studi sul tema, infatti, mira a comprendere le cause e le conseguenze di questa tragedia collettiva, nonché i modi in cui la società può aiutare i sopravvissuti a superare l’evento doloroso. L’American Psychiatric Association fu la prima a riconoscere, nel 1980, le basi scientifiche del trauma:

La teoria del trauma come è stata sviluppata nel lavoro di Caruth, Felman e Laub appartiene per molta parte, innanzitutto alla decostruzione, al post-strutturalismo e alla psicoanalisi. Essa è anche informata di studi clinici, per la maggior parte provenienti dal contesto statunitense, svolti su pazienti sopravvissuti ad esperienze ritenute ‘traumatiche’. La combinazione delle influenze subite può essere tracciata attraverso i contenuti di Trauma Explorations in Memory, di Caruth, che include, oltre al capitolo scritto da Felman e Laub, anche contributi dei neurologi Van der Kolk e Van der Hart e di letterati come Georges Bataille e Harold Bloom154.

Cathy Caruth, specialista di studi sul trauma e curatrice dell’Archivio digitale Trauma Explorations in Memory (Baltimore), descrive l’esperienza destabilizzante come una risposta ritardata all’evento, che prende la forma di continue e ripetute allucinazioni. La reiterazione e la dissociazione sono strettamente legate alla natura stessa dell’avvenimento violento, ovvero al fatto che questo che non è in realtà comprensibile nel momento in cui avviene, ma solo attraverso ripetizioni. La coazione a ripetere è una delle principali conseguenze del trauma psicologico. Il soggetto, in modo del tutto inconscio e inconsapevole, riproduce all’infinito la vecchia esperienza. L’infernale roulette scuote la persona che vive un determinato evento doloroso, configurandosi, così, come un fenomeno che dà luogo alla produzione di soggetti dissociati155.
Il noto neuropsichiatra e psicoanalista francese di origini ebraiche Boris Cyrulnik ha dedicato grande attenzione al fenomeno dei traumi e alle conseguenze psicologiche che essi generano nella psiche umana, cercando una via di guarigione attraverso gli strumenti della resilienza156. Nel suo libro Sauve-toi, la vie t’appelle (2012)157, Cyrulnik tratta le proprie esperienze da sopravvissuto alla Shoah e offre uno sguardo unico sulla post-memoria, un termine coniato da Marianne Hirsch per descrivere la relazione che sussiste fra i traumi subiti dai genitori durante l’Olocausto e quelli dei figli, appartenenti alla seconda generazione158. Figlio di genitori uccisi nel campo di concentramento di Auschwitz, Cyrulnik ricuce la tela squarciata del suo passato, riannoda i fili della sua coscienza attraverso lo strumento dell’autoanalisi. Scrivendo la sua esperienza, Cyrulnik enfatizza l’importanza della parola e dell’espressione dei pensieri, rendendolo un potente strumento di superamento e di guarigione. L’autore presenta una narrazione lucida degli eventi personali, inclusi i momenti più difficili e dolorosi, come quando racconta del nascondiglio trovato in una sinagoga per sfuggire ai Tedeschi. L’episodio può essere visto come un punto di svolta nella sua vita, un momento in cui ha dovuto affrontare la paura della morte in un luogo identitario e sacro. La lucidità della narrazione di Cyrulnik offre ai lettori un’intima comprensione delle sue emozioni e delle sue reazioni di fronte a situazioni violente. La franchezza e vulnerabilità nel raccontare il proprio io offrono un’esplorazione profonda dei meccanismi di sopravvivenza, della resilienza e della guarigione159.

4.2. La lingua dell’altro come rifugio: Assia Djebar e Maryse Condé

In area francofona, le voci di Assia Djebar e Maryse Condé si distinguono per la potente componente traumatica oggetto delle loro narrazioni autobiografiche, rispettivamente in Nulle part dans la maison de mon père (2007)160 e La vie Sans Fards (2012)161. Qui sono le esperienze dolorose rigorosamente legate alla dimensione femminile, individuale e collettiva, come gravidanze, abusi sessuali o discriminazioni razziali, che vengono esplorate e descritte attraverso procedimenti stilistici tra loro molto diversi. Parallelamente emerge, nei loro testi, la complessa questione dell’appartenenza a due culture e a due lingue, quella arabo-francese nel caso di Djebar, e quella caraibico-francese per quanto concerne Condé. Questo elemento si rivela determinante nel modo in cui le due autrici affrontano il processo di ricostruzione dell’identità dilaniata dall’evento angoscioso, da quella «blessure mortelle»162 così come la definisce Condé. Di fatto, il racconto autobiografico si appropria della lingua dell’altro, il francese, come rifugio e strumento per l’esplorazione di un io frantumato da esperienze sconvolgenti.
Assia Djebar, per la quale l’uso della forma autobiografica si configura come un graduale riconoscimento dell’impossibilità di scrivere senza riferirsi alla propria storia163, annoda nel testo i fili della memoria individuale, familiare e collettiva delle donne algerine. Attraverso la lingua dell’ex-colonia, rivendica così il diritto di raccontare il proprio vissuto e un passato più ampio di sottomissione164, denunciando al tempo stesso le ferite storiche del suo paese per affermare il ruolo delle donne nell’immediato periodo post-coloniale165. Il titolo stesso del romanzo – Nulle part dans la maison de mon père –, evoca una sensazione di smarrimento e la ricerca di un senso di appartenenza166 che si sviluppa attraverso un racconto corale dove, alla sua voce, si uniscono quelle di altre donne di generazioni diverse, rimarcando così la potente sinergia fra trauma personale e dolore collettivo167. La frammentazione del racconto è accentuata dalle scelte formali e stilistiche operate dall’autrice, che attraverso salti temporali e flashback, si scontrano con la necessità di ricostruire la memoria individuale e di dare continuità della vita: il passato irrompe nella narrazione, portando con sé le ferite e le cicatrici della protagonista. Ciò crea un senso di incompiutezza, ma anche di speranza nel processo di guarigione. La lingua stessa utilizzata da Djebar, intensa ed evocativa, riflette la polifonia del testo attraverso l’uso di diversi registri linguistici168, che non solo fa trasparire la complessità del trauma, ma permette al tempo stesso ai lettori di immergersi profondamente nella realtà multilingue e multiculturale del mondo narrato169.
Da parte sua, Maryse Condé, originaria della Guadalupa, esplora le complesse dinamiche della diaspora e dell’identità post-coloniale. La Vie sans Fard è un esempio potente di narrazione in cui l’autrice rappresenta la propria vita e il proprio background culturale cercando una costante aderenza alla verità. La narrazione rivela conflitti, gioie e dispiaceri all’interno della famiglia d’origine, tentando di posare sulla propria vita e sulle proprie esperienze tragiche uno sguardo globale, utile a comprendere il presente170. I sogni alimentati all’interno della famiglia borghese vengono infatti, per la giovane Maryse, offuscati dall’amarezza delle esperienze vissute nella nuova e inizialmente promettente vita in Francia. Il terribile shock della violenza sessuale subita, perno traumatico del racconto, è rivissuto nel testo in modo lucido e deliberato. Il suo viaggio, per certi aspetti contrario a quello della Djebar, termina con una riconquista di sé che coincide con l’allontanamento dalla Francia e da quella lingua che parlava come «une vraie parisienne»171. Si tratta di una narrazione personale che prende la forma di una terapia in cui l’autrice esamina il proprio io in modo profondo e onesto. Le gravidanze, l’abbandono e la separazione dal marito costituiscono ulteriori esperienze che inducono l’autrice a una profonda riflessione sulle sfide che ha affrontato come donna, e sul modo in cui queste vicende hanno influenzato la percezione di sé e del mondo.
La scrittura di queste due voci al femminile, dunque, non è solo un atto di testimonianza ma un gesto di empowerment: le autrici si riappropriano della voce e del racconto interrotti dall’esperienza dolorosa. Questo approccio costituisce un esempio efficace di come l’autobiografismo possa essere un mezzo di guarigione e come la lingua seconda sia uno strumento per esplorare le proprie origini e affrontare le sfide dell’identità in una società globalizzata. Entrambe dimostrano che la narrazione di sé non solo è un potente canale per accedere al passato, affrontare dunque il dolore, ma anche uno strumento di esplorazione identitaria, individuale e collettiva insieme. Comparativamente, l’analisi dei traumi, collegati sia alla post-memoria che al post-colonialismo, offrono uno sguardo critico sulle complesse dinamiche sociali, e come quest’ultime possono essere trasformate mediante l’arte della scrittura. Negli ultimi ventitré anni, la letteratura ha agito come specchio e filtro, di trasformazioni sociali e culturali, e si è assistito così a una crescente diversificazione di voci. Questa ricca varietà di forme e di temi continua ad arricchire il panorama letterario francese e francofono contemporaneo, aprendo finestre su mondi nuovi e stimolando riflessioni profonde sulla complessità della pratica autobiografica.


  1. Il gruppo di ricerca Dopo il primato è co-diretto da Valentina Sturli, Michele Costagliola d’Abele e Michela Lo Feudo. Al suo interno, l’équipe è strutturata in tre sottogruppi dei quali fa parte il nucleo impegnato a indagare le scritture del sé nel romanzo francese e francofono contemporaneo, coordinato da Michela Lo Feudo. Le sezioni di questo working paper sono state redatte da: Adelaide Pagano (introduzione e sezione 4), Carmen Mattiello (sez. 1), Martina De Pasquale e Walter Lisi (sez. 2), Erika Cioffi (sez. 3), Francesca Ricci (sez. 4).

  2. Sul cambiamento di prospettiva avvenuto in Francia verso gli studi letterari negli ultimi trent’anni del secolo rimandiamo ad: A. Compagnon, Après la littérature, in «Débat», 110, 2000, pp. 136-154.

  3. Ph. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1975. La questione del patto autobiografico di Lejeune è certamente la teoria più nota del critico francese, ciononostante la sua riflessione si articola, muta e si arricchisce con gli anni. Cfr. Id., L’autobiographie en France, Paris, Colin, 1971; Id., Je est un autre, Paris, Seuil, 1980; Id., Signes de Vie. Le pacte autobiographique 2, Paris, Seuil, 2005.

  4. F. Simonet-Tenant (a cura di), Dictionnaire de l’autobiographie. Écritures de soi de langue française, Paris, Honoré Champion, 2018, p. 600.

  5. Ph. Lejeune, L’autobiographie en France, cit., p. 14.

  6. V. Sperti, Écriture et mémoire: Le labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar, Napoli, Liguori, 1999, p. 11.

  7. Ivi, p. 8.

  8. Y. Baudelle, Mémoire et imagination dans le roman français contemporain, in (a cura di) G. Rubino, Voix du contemporain. Histoire, mémoire et réel dans le roman français d’aujourd’hui, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 13-33, p. 14.

  9. In questa sede, ci limiteremo a ricordare: B. Blanckeman, Les fictions singulières. Études sur le roman français contemporain, Paris, Prétexte, 2002; D. Viart, B. Vercier, La littérature française au présent. Héritage, modernité, mutations, Paris, Bordas, 2005.

  10. Possiamo citare a titolo di esempio lo spazio ‘Ecrisoi’ dell’Université de Rouen, pensato come estensione digitale del progetto del Dictionnaire de l’autobiographique; ‘APA’ (Association pour l’autobiographie et le patrimoine autobiographique); e l’Équipe Autobiographie et Correspondences dell’ITEM (Institut des textes et manuscrits modernes). In Italia, l’attenzione per l’autobiografico ha portato alla recente creazione del Centro interuniversitario di ricerca Visages (Variations et hybridismes des écritures autobiographiques dans les littératures d’expression française), diretto da Fabrizio Impellizzeri, che vede la partecipazione delle Università di Urbino, Genova, Chieti-Pescara, Udine e Federico II di Napoli.

  11. Da notare come in francese e in italiano l’accento venga posto sul soggetto, mentre nella prospettiva anglosassone è posta attenzione sulla ‘vita’ che diventa oggetto di scrittura, life writing, come testimonia anche l’opera collettiva M. Jolly (a cura di), Encyclopaedia of life writing: autobiographical and biographical forms, London, New York, Routledge, 2017.

  12. G. Gusdorf, Les écritures du moi. Lignes de vie 1, Paris, Odile Jacob, 1963.

  13. M. Foucault, L’écriture de soi, in Id., Dits et écrits, Paris, Gallimard, 1994, pp. 415-430.

  14. F. Simonet-Tenant, Écritures de soi: Histoire d’une nébuleuse, conferenza organizzata da ‘Cultures Anglo-Saxonnes’ (CAS) e ‘Patrimoine, Littérature, Histoire’ (PLH), Université de Toulouse, tenutasi il 20 gennaio 2023, online dal 3 marzo 2023: <https://www.canal-u.tv/chaines/ut2j/ecritures-de-soi-histoire-d-une-nebuleuse-francoise-simonet-tenant>.

  15. Ead., Introduction, in Dictionnaire de l’autobiographie, Paris, Honoré Champion, 2018, p. 8.

  16. G. Genette, Fiction et diction, Paris, Seuil, 1992.

  17. «Empruntant les voies du récit, au contraire, je suis fidèle à ma vérité : tous les hommes qui marchent dans la rue sont des hommes-récits, c’est pour cela qu’ils tiennent debout. Si l’identité est un imaginaire, l’autobiographie qui colle à cet imaginaire est du côté de la vérité». Ph. Lejeune, Signe de vie, cit., pp. 38-39.

  18. Ivi, p. 38.

  19. «L’autobiographie s’inscrit dans le champ de la connaissance historique (désir de savoir et de comprendre) et dans le champ de l’action (promesse d’offrir cette vérité aux autres) autant que dans le champ de la création artistique». Ibidem.

  20. S. Doubrovsky, Fils, Paris, Gallimard, 2010 (1° ed. 1977).

  21. Ph. Gasparini, Autofiction vs autobiographie, in «Tangence», 97, 2012, pp. 11-24, p. 12.

  22. Ibidem.

  23. R. Castellana (a cura di), Fiction e non fiction. Storia, teorie e forme, Roma, Carocci, 2021, p. 158.

  24. P. Pavis, Dictionnaire de la performance et du théâtre contemporain, Paris, Colin, 20182, p. 107.

  25. S. Ferrari, Scrittura come riparazione, Bari, Laterza, 2005.

  26. F. Simonet-Tenant (a cura di), Dictionnaire, cit., p. 787.

  27. P. Zanotti, Dopo il primato: La letteratura francese dal 1968 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 92-93.

  28. A. Oliver, Scrivere la vita, in Il romanzo francese contemporaneo, a cura di G. Rubino, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 89-90.

  29. Roland Barthes par Roland Barthes gli viene commissionata da Denis Roche per la collana Seuil «Écrivains de toujours» che dava spazio a biografie che vedevano protagonisti autori dei secoli passati. La particolarità del testo di Barthes è che verte proprio sul suo vissuto. P. Zanotti, op cit., pp. 99-100.

  30. V. Sperti, Fotografia e romanzo. Marguerite Duras, Georges Perec, Patrick Modiano, Napoli, Liguori, 2005, p. 73.

  31. Ivi, p. 74.

  32. Ph. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil, 1996 [1975], p. 14.

  33. «Le héros d’un roman déclaré tel peut-il avoir le même nom que l’auteur? […] [r]ien n’empêcherait la chose d’exister, et c’est peut-être une contradiction interne dont on pourrait tirer des effets intéressants». Ivi, p. 31.

  34. Ph. Vilain, L’autofiction en théorie: suivi de deux entretiens avec Philippe Sollers et Philippe Lejeune, Lonrai, Éditions de la transparence, 2009, pp. 11-14.

  35. L. Marchese, L’io possibile. L’autofiction come paradosso del romanzo contemporaneo, Massa, Transeuropa, 2014, pp. 104-110.

  36. Ivi, p. 66.

  37. Ivi, p. 65.

  38. Ph. Vilain, L’autofiction en théorie: suivi de deux entretiens avec Philippe Sollers et Philippe Lejeune, cit., p. 12.

  39. L. Marchese, op. cit., pp. 67-71, 76-78.

  40. Ph. Vilain, L’autofiction en théorie: suivi de deux entretiens avec Philippe Sollers et Philippe Lejeune, cit., pp. 14-15.

  41. A. Strasser, Camille Laurens, Marie Darrieussecq: du «plagiat psychique» à la mise en questions de la démarche autobiographique, in «Revue de sociologie de la littérature», 10, 2012, pp. 1-15.

  42. F. P. A. Madonia, Philippe Vilain, l’amour en ses discours, Milano, Mimesis, 2022, p. 53.

  43. Ibidem.

  44. V. Montémont, Les Années: vers une autobiographie sociale, in D. Bajomée, J. Dor, Annie Ernaux. Se perdre dans l’écriture de soi, Paris, Klincksieck, 2011, p. 132.

  45. La démarche autosociobiographique è riscontrabile anche nei romanzi di Edouard Louis (pseudonimo di Eddy Bellegueule) e di Didier Eribon. Difatti, come si evince dai rispettivi En finir avec Eddy Bellegueule (2014) e Retour à Reims (2009), i due scrittori adottano la postura dell’intellettuale engagé nel solco di Zola e di Sartre. La loro operazione non risponde alle leggi dell’emotività e del ricordo, ma adotta una prospettiva vicina alle scienze umane, analizzando un determinato quadro sociale e politico attraverso un’esperienza personale. R. Rossi, Raccontare il soggetto minoritario: Il caso Édouard Louis, in «Between», V/10, 2015, pp. 1-9.

  46. Cfr. P. Hachette, L’usage de la chanson dans Les Années d’Annie Ernaux: les qualités mémorielles de l’émotion musical, in «Publifarum», 35, 2021: “Écritures mélomanes”, pp. 65-83.

  47. Cfr. M.-P. Huglo, «Entrer dans un art par un autre»: cinématographie de la petite scène chez Roland Barthes et Annie Ernaux, in Le bal des arts: Le sujet et l’image: écrire avec l’art, a cura di E. Bricco, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 191-201.

  48. In L’Usage de la photo, l’autrice e il compagno di allora, Marc Marie, commentano a turno immagini cariche di erotismo in cui vengono ritratti i loro vestiti e accessori, spesso sovrapposti. In queste foto, i due amanti non appaiono mai: prevale l’assenza del corpo che rimanda, metaforicamente, al suo deterioramento dovuto al cancro che aveva colpito la scrittrice. Quanto a Écrire la vie, il concetto di ‘assenza del corpo’ viene superato. Difatti, nel fotolibro Annie Ernaux appare diverse volte e in una foto non indossa la parrucca: quest’ultima è accostata a un estratto dal suo diario in cui comunica la fine delle chemioterapie.

  49. M. Bacholle-Bošković, Ph-auto-bio-graphie: Écrire la vie par des photos (Annie Ernaux), in «Women in French Studies», 21, 2013, p. 84. Sull’argomento Cfr. anche G. Mora, C. Nori, L’été dernier. Manifeste photobiographique, Paris, Éditions de l’étoile, 1983, in cui si riflette sull’idea che la fotografia sia un «amplificateur d’existance» e che, in accordo con la scrittura autobiografica, dia forma ad una nuova forma di scrittura del sé: la photobiographie.

  50. F. P. A. Madonia, op. cit., p. 53.

  51. Ibidem.

  52. Da un punto di vista referenziale, lo scrittore implicato in questa scrittura métafictionnelle può sia rapportarsi con la sua stessa scrittura e riflessione teorica (come nel caso di Vilain), sia con la produzione di altri scrittori (come fa Doubrovsky ne Le livre Brisé in cui usa Les mots di Sartre come ‘specchio’ ai fini di definire il suo concetto di autofiction. R. Robin, L’auto-théorisation d’un romancier: Serge Doubrovsky, in «Études françaises», XXXIII/1, 1997, p. 46.

  53. Ph. Vilain, L’été à Dresde, Paris, Gallimard, 2003 (testo non tradotto in italiano).

  54. Id., La fille à la voiture rouge, Paris, Grasset & Fasquelle, 2017 (trad. it. La ragazza dalla macchina rossa, a cura di M. Bertolazzi, Roma, Gremese, 2018).

  55. Id., Le Renoncement, Paris, Gallimard, 2001 (testo non tradotto in italiano).

  56. F. P. A. Madonia, op. cit., pp. 47-49.

  57. Ph. Vilain, L’autofiction en théorie: suivi de deux entretiens avec Philippe Sollers et Philippe Lejeune, cit., p. 74.

  58. Ivi, p. 110.

  59. Ivi, pp. 14-15.

  60. Ph. Forest, Le roman, le réel et autres essais, Nantes, Defaut, «Allaphbed 3», 2007 [1999], p. 197.

  61. G. Bosco, Philippe Forest et la tierce forme, ou bien le roman (auto)critique, in «Revue italienne d’études françaises», 8, 2018, p. 2.

  62. A. Strasser, op cit., p. 7.

  63. Ph. Forest, M. J. Latour, Entretien avec Philippe Forest «Caril est en vérité un grand vide», in «L’en-je lacanien», 28, 2017, p. 20.

  64. Ph. Forest, L’oubli, France, Folio-Gallimard, 2018, p. 235 (trad. it. L’oblio, a cura di G. Bosco, Roma, Fandango, 2020).

  65. Ph. Forest, M.J. Latour, Entretien avec Philippe Forest «Caril est en vérité un grand vide», cit., p. 20.

  66. Id., Crue, Paris, Gallimard, 2016 (trad. it. Piena, a cura di G. Bosco, Roma, Fandango, 2018).

  67. Id., Nouvel Amour, Paris, Gallimard, 2009 (trad. it. L’amore nuovo, a cura di G. Bosco, Alet Edizioni, Padova, 2009).

  68. Ph. Vilain, Démon de la définition, in Autofiction(s), a cura di C. Burgelin, I. Grell, R.-Y. Roche, Lyon, Presse Universitaire de Lyon, 2010, pp. 461-482.

  69. Id., La femme infidèle, Paris, J’ai lu, 2014 [2013] (trad. it. La moglie infedele, a cura di C. Floris Gremese, Roma, Gremese, 2013).

  70. Il caso di Pas son genre (2011) è estremamente interessante in quanto Vilain riflette se stesso nella controparte femminile e non nell’effettivo narratore. F.P.A. Madonia, op. cit., pp. 54-55.

  71. Ph. Vilain, Démon de la définition, cit., pp. 461-482.

  72. Ph. Forest, M.J. Latour, Entretien avec Philippe Forest «Caril est en vérité un grand vide», cit., p. 7.

  73. Cfr. supra, p. 3.

  74. F. P. A. Madonia, op. cit., p. 35.

  75. A. Oliver, op. cit., p. 108.

  76. M. Mongelli, Narrer une vie, dire la vérité: la biofiction contemporaine, Tesi di dottorato, Università di Bologna-Université Paris Cité-Université Sorbonne Nouvelle, 2019, p. 33.

  77. Ivi, p. 51.

  78. Ivi, p. 52.

  79. A. Gefen, Inventer une vie: la fabrique littéraire de l’individu. Préface de Pierre Michon, Bruxelles, Les impressions nouvelles, 2015.

  80. Id., Le genre des noms: la biofiction dans la littérature française contemporaine, in Le Roman français au tournant du XXIe siècle, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2005, pp. 305-319.

  81. R. Castellana, La biofiction. Teoria, storia e problemi, in «Allegoria», 71-72, 2023, p. 67.

  82. A. Gefen, Le genre des noms: la biofiction dans la littérature française contemporaine, cit., pp. 305-319.

  83. J. Echenoz, Ravel, Paris, Éditions de Minuit, 2006 (trad. it. Ravel, Milano, Adelphi, 2012).

  84. Id., Courir, Paris, Éditions de Minuit, 2008 (trad. it. Correre, Milano, Adelphi, 2014).

  85. Id., Des Éclairs, Paris, Éditions de Minuit, 2010 (trad. it. Lampi, Milano, Adelphi, 2012).

  86. A. Oliver, op. cit., p. 108.

  87. J. Echenoz, Correre, cit., p. 110.

  88. A. Oliver, op. cit., pp. 110-111.

  89. R. Castellana, Finzioni biografiche, Roma, Carocci, 2019, p. 143.

  90. Ph. Delerm, La vie en relief, Paris, Seuil, 2021. Il romanzo è stato pubblicato in Francia nel 2021 e, al momento in cui abbiamo ultimato la nostra ricognizione, non risulta essere stato tradotto in italiano.

  91. R. Jauffret, Microfictions II, Paris, Gallimard, 2018. L’edizione italiana è stata pubblicata nel 2021 presso le Edizioni Clichy.

  92. Anche in questo caso, l’edizione in italiano dell’ultimo tomo pubblicato, Microfictions III, non risulta, a oggi, ancora realizzata.

  93. R. Jauffret, Microfictions II, cit., p. 689.

  94. A. Gefen, De la biofiction à l’exofiction, in Biofictions ou la vie mise en scène. Perspectives intermédiales et comparées dans la Romania, Tübingen, Gunter Narr Verlag, 2022.

  95. Ibidem.

  96. A. Roy, L’art du dépouillement (l’écriture minimaliste), in «Liberté», XXXV/3, 1993, p. 2.

  97. Ivi, p. 9.

  98. Ibidem.

  99. S. Valenti, Du minimalisme littéraire, in «Acta Fabula», XVII/6, 2016.

  100. P. Zanotti, op. cit., pp. 92-96.

  101. Y. Baudelle, op. cit., pp. 14-15.

  102. Ph. Lejeune, L’image de l’auteur dans les médias, in «Pratiques: linguistique, littérature, didactique», 27, 1980, pp. 34-36.

  103. A. Oliver, op. cit., pp. 89-90.

  104. Ivi, p. 91.

  105. Un esempio lampante è l’ekphrasis, ovvero la descrizione verbale di un’opera d’arte visiva che consente di lavorare sulla dimensione visiva del linguaggio.

  106. F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma, Carocci, 2020, p. 26.

  107. Richard Schechner e Barbara Kirshenblatt-Gimblett tra i principali fondatori dei performances studies sostengono che queste quattro azioni siano alla base del verbo “performer’’ e che, quindi, interagiscono spesso nel processo performativo. Se si volesse dare una definizione di ogni singola azione sopra citata, si potrebbe dire che: being coincide con l’esistenza stessa dell’individuo; doing si riferisce all’attività di ogni essere vivente; showing doing indica l’esibizione dell’individuo, dei comportamenti umani e delle sue azioni con l’intento di farsi notare; explaining showing doing rientra, invece, nel campo d’azione dei Performance Studies, i quali si occupano appunto di spiegare e di analizzare l’esibizionismo e gli elementi fondanti della performance e della performatività. J. Féral, Performance. Le corps exposé: De la performance à la performativité, in «Communication», 92, 2013, pp. 206-207.

  108. Ibidem.

  109. M. Nachtergael, Écritures plastiques et performances du texte: une néolittérature?, in Le bal des arts: le sujet et l’image: écrire avec l’art, a cura di E. Bricco, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 307-325.

  110. B. Péquignot, De la performance dans les arts. Limites et réussite d’une contestation, in «Communications», 92, 2013, p. 10.

  111. L’happening ‒ in voga a partire dal 1950 ‒ è una manifestazione artistica svolta in luoghi non convenzionali che si basa sulla commistione di vari linguaggi artistici (musica, teatro, pittura, danza), sull’improvvisazione e sulla partecipazione del pubblico all’evento messo in scena dall’artista. I. Goldberg, Installations-Happenings, liaisons dangereuses?, in «Communications», XCII/1, 2013, pp. 67-68.

  112. Ivi, p. 11.

  113. Va precisato che, in questo caso, con il concetto di “atti performativi” si intende far riferimento a una grande varietà di elementi che rientrano all’interno della performance: enunciati performativi che, come si vedrà nei paragrafi successivi, si riscontrano nei testi di A. Charnet, F. Daas e C. Delaume; inserti fotografici rintracciabili, per esempio, nei testi di Sophie Calle o di Annie Ernaux (laddove sono talvolta presenti sotto forma di ekphrasis); inserti poetico-teatrali-musicali-cinematografici-mitologici; messa in scena corporea che, talvolta, è portata all’estremo (come nel caso delle performances autolesionistiche di Gina Pane o in Shoot (1971) di Chris Burden, dove l’artista chiede a un amico di sparargli addosso e resta ferito al braccio sinistro).

  114. B. Péquignot, op. cit., pp. 12-16.

  115. A.-J. Austin, La performance comme force de combat dans le féminisme, in «Recherches féministes», 2, 2014, pp. 81-83.

  116. Si precisa che la Body art di questi ultimi anni è diventata espressione di lotte femministe e identitarie sempre più ampie, caratterizzate dalla convergenza delle lotte di tutte le minoranze oppresse, con particolare attenzione alle identità queer. P. Wind, Performer le corps queer: de l’intime au politique, in «Écriture de soi-R», 2, 2022: “Performance”, pp. 2-3.

  117. S. S. Poori, Marina Abramović: Un regard médusant, in «Théâtres du Monde», 27, 2017, pp. 265-280.

  118. J.-M. Lachaud, C. Lahuerta, De la dimension critique du corps en actes dans l’art contemporain, in «Actuel Marxs», 41, 2007, pp. 90-95.

  119. B. Péquignot, op. cit., p. 15.

  120. Secondo J. Austin vi sono due tipi di enunciati: constativi/assertivi e performativi. Gli enunciati constativi/assertivi si limitano a constatare qualcosa e sono quindi dei puri atti locutori a cui può essere assegnato un valore di veridicità o falsità. Gli enunciati performativi sono invece degli atti linguistici illocutori che coincidono con l’esecuzione di un’azione e che necessitano di un’interazione e una comprensione tra il locutore e l’interlocutore. Tali enunciati non rispondono a criteri di veridicità/falsità, quanto alle seguenti condizioni di felicità: l’esistenza e l’applicazione di una procedura convenzionale o istituzionale; il riconoscimento della legittimità di colui che enuncia l’enunciato performativo; la reale intenzione da parte del locutore nel realizzare l’atto enunciato; la conformità del comportamento del locutore e dell’interlocutore alle prescrizioni relative all’atto del linguaggio. M. Varlet, F. Allard-Poesi, Les Conditions de Performativité du Discours Stratégique Analyses et apports d’Austin, Searle, Butler et Callon, in XXIV Conférence Internationale de Management Stratégiques, Paris, Juin 2015, pp. 4-6.

  121. J. L. Austin, How to Do Things with Words, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1962 (trad. fr. Quand dire, c’est faire, a cura di G. Lane, Paris, Seuil, 1970, p. 40-41).

  122. J. Féral, op. cit., p. 209.

  123. Ivi, p. 211.

  124. Ivi, pp. 210-211.

  125. A. Charnet, Ceci est mon corps, Paris, Œil du Prince, 2022 (opera a oggi non tradotta in italiano).

  126. F. Daas, La petite dernière, France, Les Editions Noir Sur Blanc, 2020 (trad. it. La più piccola, a cura di G. Tolfo, Roma, Fandango, 2021).

  127. Secondo Schechner la performance liminaire presenta una delle funzioni essenziali della performance, ossia la possibilità di marcare o cambiare l’identità. Egli sostiene inoltre che il rituel performatif liminaire permette di creare uno spazio comune tra persone che condividono una stessa esperienza in quanto, oltre a trasformare l’identità del personaggio, mira anche a modificare la soggettività del pubblico che assiste alla performance. L. Cassar, Écrire sa honte: un récit de soi performatif chez Agathe Charnet et Fatima Daas, in «Écriture de soi-R», 2, 2022: “Performance”, pp. 12-13, <https://www.ecrituredesoi-revue.com/cassar>.

  128. J. Féral, op. cit., pp. 211.

  129. Si pensi, per esempio, all’ossessiva ripetizione della parola «LESBIENNE» che, oltre a coincidere con un atto linguistico che consente sia la naissance de soi attraverso il racconto della vergogna, sia l’entrata del personaggio all’interno di una categoria identitaria ben definita, contribuisce anche a turbare il lettore spronandolo a riflettere sull’argomento.

  130. L. Cassar, op. cit., p. 5.

  131. Tale gesto è anche una tipica espressione della teoria queer, nella misura in cui ci si appropria di parole connotate negativamente per poterne rovesciare il significato. Ivi, pp. 5-15.

  132. A. Charnet, op. cit., pp. 130-131.

  133. J. Féral, op. cit., pp. 214-215.

  134. M. Carlson, Performance: a critical introduction, London, Routledge, 1996, p. 115.

  135. Chloé Delaume ha realizzato un sito all’interno del quale sono presenti colonne sonore e documenti a cui si rimanda nei suoi testi: <http://www.chloédelaume.net/06176NSDA>.

  136. C. Delaume, Le Cri du sablier, Tours, Farrago Editions Léo Scheer, 2001 (opera a oggi non tradotta in italiano).

  137. Ead., Dans ma maison sous terre, Paris, Seuil, 2009 (opera a oggi non tradotta in italiano).

  138. «Je suis Chloé Delaume, je suis Do la ré sol mi Ré mi ré la mi mi mi. Je suis le rêve que fait chaque effet de papillon. Je m’incarne dans des phrases, dans des notes de piano. J’ai peut-être plus qu’un corps pour prouver que j’existe». Ivi, p. 107.

  139. M. Piva, Formes kaléidoscopiques: l’hybridité chez Chloé Delaume, in «Babel», 33, 2016, pp. 139-159.

  140. R. Castellana (a cura di), Fiction e non fiction, cit., pp. 194-200.

  141. C. Delaume, Dans ma maison sous terre, cit., pp. 204-205.

  142. Ead., La règle du Je, Paris, PUF, 2010, p. 77.

  143. Ead., Dans ma maison sous terre, cit., p. 186.

  144. Ead., La règle du Je, cit., p. 8.

  145. Ivi, p. 6.

  146. M. Baillargeon, Le personnel est politique. Médias, esthétique et politique de l’autofiction chez Christine Angot, Chloé Delaume et Nelly Arcan, West Lafayette, Purdue University Press, 2019, pp. 1-23.

  147. C. Caruth, Trauma: Exploration in Memory, Baltimore-London, John Hopkins University Press, 1995.

  148. F. Simonet-Tenant, Dictionnaire, cit.

  149. M. Jolly, op. cit. 

  150. Ibidem.

  151. D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011.

  152. J. F. Chiantaretto, Trauma et écriture de soi, in Vocabulaire des histoires de vie et de la recherche biographique, a cura di C. Delory-Momberger, Toulouse, Érès, 2019, pp. 448-451.

  153. S. Felman (a cura di), Literature and Psychoanalysis: The Question of Reading: Otherwise, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1982.

  154. S. Radstone, Trauma Theory: Contexts, Politics, Ethics, in «Paragraph», XXX/1, 2007, p. 9.

  155. C. Caruth, Trauma: Exploration in Memory, cit.

  156. B. Cyrulnik, Costruire la resilienza. La riorganizzazione positiva della vita e la creazione di legami significativi, Roma, Erickson, 2005.

  157. B. Cyrulnik, Sauve-Toi. La Vie T’appelle, Paris, Odile Jacob, 2012.

  158. M. Hirsch, Family Frames. Photography, Narrativity and Postmemory, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1997.

  159. B. Cyrulnik, op. cit.

  160. A. Djebar, Nulle part dans la maison de mon père, Paris, Fayard, 2007.

  161. M. Condé, La vie sans fards, Paris, JC Lattès, 2012.

  162. Ivi, p. 16.

  163. F. Simonet-Tenant, Dictionnaire, cit., p. 262.

  164. C. Brun, Résurgences/oublis: L’exemple de la guerre d’Algérie, in «French Forum», XLI/1-2, 2016.

  165. Ibidem.

  166. A. Murdoch, Rewriting Writing: Identity, Exile and Renewal in Assia Djebar’s “L’Amour, la fantasia”, in «Yale French Studies», 83, 1993, pp. 71-92.

  167. Ibidem.

  168. S. Dalil, Mémoire en fragments ou l’impossible anamnèse in “L’Amour, la Fantasia” d’Assia Djebar, in «Multilinguales», 6, 2015.

  169. Ibidem.

  170. F. Torchi, Jean Ouédraogo, Maryse Condé et Ahmadou Kourouma. Griots de l’indicible, in «Studi Francesi», XL/3, 2006, pp. 644-645.

  171. M. Condé, op. cit., p. 25.


The article presents the initial outcomes of the investigations on self-writings conducted by the research group Dopo il primato, affiliated to the Osservatorio sul romanzo contemporaneo. In particular, the study examines, from a theoretical, morphological, and thematic perspective, the main trends in French and Francophone novels of the last twenty years. The methodological criteria adopted are firstly described, aiming to frame the definitional issues related to the notion of “self-writings”, based on the theoretical debate in France and Italy. Subsequently, the choices that lead to the selection of a corpus of novels are illustrated, following the process of questioning autobiographical elements initiated in the last quarter of the twentieth century. After highlighting the composite and centrifugal nature of this object of study, some preferred lines of investigation are outlined and based on the relationship with the fictional element within the narrative. The reflection revolves around the following axes: autofiction, starting from the debate initiated by Doubrovsky with a focus on the productions of Philippe Villain and Philippe Forest; the complex dialogue between truth and fiction within biofiction (Jean Echenoz), also in its relationships with minimalist writing (Régis Jauffret and Philippe Delerm); forms of a performative self-writing from a feminine perspective (Agathe Charnet, Fatima Daas, Chloé Deleume); the relationships between fragmented and “recomposed” identity through the narration of trauma in its collective and individual dimensions, with particular reference to the cases of Boris Cyrulnik, Assia Djebar, and Maryse Condé.

Erika Cioffi studied European modern languages, cultures and literatures at the University of Naples Federico II. She graduated in French literature with a thesis entitled Les Rêveries du Promeneur solitaire: la solitudine come ricerca della trasparenza dell’Io di fronte al “maleficio del velo”. She is currently studying Languages and literatures for European plurilingualism at the same University. She is a member of the research group Dopo il primato within the Osservatorio sul romanzo contemporaneo (Federico II, 2022-ongoing), directed by Elisabetta Abignente and Francesco de Cristofaro.

Martina De Pasquale studied European modern languages, cultures and literatures at the University of Naples Federico II. She graduated in French Literature with a thesis entitled Atala e René di Chateaubriand: tra realtà e infinito. She is currently studying Languages and literatures for European plurilingualism at the same University. She is a member of the research group Dopo il primato within the Osservatorio sul romanzo contemporaneo (Federico II, 2022-ongoing), directed by Elisabetta Abignente and Francesco de Cristofaro.

Walter Lisi graduated in Modern literature at the University of Cassino and Southern Lazio, with a thesis in Italian literature entitled: «Un tremito ha colto le cose»: il rapporto con la realtà nei versi di Cesare Pavese. He obtained his master’s degree in Modern philology at the University of Naples Federico II with a thesis in Comparative literature entitled: Un dazio narrativo: i segni dei luoghi in Marcel Proust e Cesare Pavese. He is a member of the research group Dopo il primato within the Osservatorio sul romanzo contemporaneo (Federico II, 2022-ongoing), directed by Elisabetta Abignente and Francesco de Cristofaro.

Carmen Pia Mattiello studied European modern languages, cultures and literatures at the University of Naples Federico II. She graduated in French literature with a thesis entitled Bohèmes e Bohémiens in Notre-dame de Paris di Victor Hugo. She is currently studying Languages and literatures for European plurilingualism at the same University. She is a member of the research group Dopo il primato within the Osservatorio sul romanzo contemporaneo (Federico II, 2022-ongoing), directed by Elisabetta Abignente and Francesco de Cristofaro.

Adelaide Pagano is currently a postdoctoral researcher at the University of Naples Federico II. Her research interests focus on the transmedial autobiographical writings of Sub-Saharan Francophone authors and on the critical reception of Shakespeare in the eighteenth century in Italy, France, and England. On the latter aspect, she defended in 2022 a doctoral thesis entitled Le Fragment sur Shakespeare (1780) de Martin Sherlock, entre Naples, Paris et Londres. Édition critique numérique (University of Salerno-Université de Reims Champagne-Ardenne). She is also a collaborating member of the Seminario di Filologia Francese and the interuniversity research group VISAGES (Variations and hybridisms of autobiographical writings in French-language literatures).

Francesca Pia Ricci graduated in Modern literature at the University of Naples Federico II, with a thesis in Italian literature entitled: Natura e uomo nel cosmo leopardiano: un viaggio dallo Zibaldone alle Operette morali. She obtained her master’s degree in Modern philology by discussing a thesis in French literature on trauma entitled: L’eco indelebile: l’opera di Georges Perec e Ornela Vorpsi alla luce dei modelli di resilienza dei trauma studies. She is a member of the research group Dopo il primato within the Osservatorio sul romanzo contemporaneo (Federico II, 2022-ongoing), directed by Elisabetta Abignente and Francesco de Cristofaro.