I soggetti scuciti che tra queste pagine si proporranno di dire “io”, senza presunzioni di integrità esistenziale, sono altrettanto scettici sul definire Aura nello spazio di un sistema compiuto. Tuttavia, com’è vero che la malerba spunta dal terreno, di certo Aura viaggia da sequenze di bit imperscrutabili fino al display di te che leggi, ora, in quest’istante. Così, ci assumiamo la responsabilità di dire che, almeno da un punto di vista percettivo, Aura ci-sia. Sul quesito che riguarda nello specifico cosa-sia, invece, rifiutiamo categoricamente di esprimerci. Non per spocchia, quanto per l’idea che ogni soggetto costruisca e sorregga faticosamente da sé l’essenza sua e quella degli oggetti che gli si pongono davanti; soprattutto se questi rientrano nello spazio così polimorfo della testualità.
Qualcuno ha scritto i brevi saggi che tu leggerai in questa rivista. Essi si occupano di altri testi scritti da altri ancora. La tela dell’ipertesto dirama i suoi filamenti. Siamo di fronte a una scriteriata scatola cinese. Nei suoi angoli più remoti, ciò che continua a vivere è uno sguardo che attende di esser ricambiato: «chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare»1.


  1. Walter Benjamin, Di alcuni motivi di Baudelaire, in Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, p. 124.