Russia prebellica, una cultura al limite II

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Bobeòbi si cantavano le labbra,
Veeòmi si cantavano gli sguardi,
Pieeo si cantavano le ciglia,
Lieej si cantava il sembiante,
Gzi-gzi-gzeo si cantava la catena.
Così sulla tela di alcune corrispondenze
Fuori dalla dimensione viveva il Volto. 

V. Chlebnikov, Bobeòbi 

1. Le vie della poesia: i futuristi

Nel 1913 il futurismo sta diventando di moda: la poetessa decadente Zinaida Gippius, ad esempio, accoglie volentieri i giovanotti “semifuturisti” alle proprie domeniche letterarie, «ma i del-tutto-futuristi non li faccio entrare; sono sporchi, caciaroni e rozzi. E poi finisce che si fregano qualcosa»1. I “del-tutto-futuristi” sarebbero i cubofuturisti o budetljane, secondo un neologismo di Chlebnikov (suppergiù: “abitanti del sarà”, da budet, 3° p. sing. del futuro del verbo essere). Questi si erano agglutinati un paio d’anni addietro sotto il nome di “Gileja” (Hylaea, nome dato dagli antichi greci all’allora semimitica Russia meridionale) come gruppo di giovani freaks dalle provenienze più diverse: arti figurative, ipogei paraletterari, frammentari studi storico-letterari e frequentazioni simboliste. Contraddistinti fin dalle origini da un forte spirito provocatorio, da ricerche formali sul crinale fra arte verbale e arte figurativa (di qui l’autodefinizione di cubofuturisti), nonché da un interesse accentuato – e paradossale in ambito futurista – per gli strati “pre-razionali” della coscienza individuale e della civiltà (infantilismo, psicopatologie, rituali e miti arcaici, primitivismo), i budetljane proprio alla fine del 1913 celebrano a Pietroburgo il primo dei loro grandi trionfi col doppio spettacolo teatrale di Aleksej Kručënych e Vladimir Majakovskij.
Né questi ultimi né i loro sodali potevano ancora saperlo, ma è proprio con l’allestimento di Vittoria sul sole e di Vladimir Majakovskij, nato dalla collaborazione fra i più arditi sperimentatori in poesia e in pittura, che il cubofuturismo supera la dimensione da conventicola e la cerchia della provocazione un po’ acerba per diventare – propriamente – l’avanguardia russa: nell’osmosi che inizia nel 1913 fra avanguardia letteraria e avanguardia figurativa sta la molla fondamentale che porterà i protagonisti di tale area ad abbracciare la rivoluzione e a proporsi come suo indispensabile, organico lievito artistico. Ne è un esempio evidente Vittoria sul sole, concentrato di sperimentalismo sinestetico, dove le musiche violentemente dissonanti sono opera di Michail Matjušin e le decorazioni – già basate sulla scansione suprematista tra forme geometriche in bianco e nero – sono di Kazimir Malevič.
Malevič e Kručënych, del resto, già da un paio d’anni lavoravano in parallelo e secondo un obiettivo comune: «superare il mondo reale, affrancandosi dai sensi e dalla ragione, per attingere a una realtà superiore, la “quarta dimensione”»2; a tal pro, il pittore mirava a depurare le immagini da ogni simulacro del reale, riducendole a un alfabeto di forme primordiali analoghe alla melancholia – o nigredo, “materia nera” – da cui l’alchimista parte per ricostruire una realtà spiritualizzata. Kručënych, dal canto suo, perseguiva obiettivi non dissimili, seppur meno connotati in senso filosofico e iniziatico \ alchemico, e più esposti sul versante ludico, provocatorio, all’insegna di un allegro orrore e di un satanismo stilizzato: vedi la plaquette Gioco all’inferno, a quattro mani con Velimir Chlebnikov (1912, con illustrazioni primitiviste di Natalija Gončarova; 1913, nuovamente illustrata da Ol’ga Rozanova, Malevič e Kručënych stesso), oppure, ancora in Vittoria sul sole, un bestiario trash comprendente «testuggini maciullate», «rape sanguinarie», «poppe crepate», «teschi rosicchiati» che «corrono sulle sole quattro zampe», etc.
La pietra angolare del programma estetico di Kručënych è ovviamente la zaum’, o “lingua transmentale”: croce e delizia dell’avanguardia russa, da lui teorizzata e praticata come impasto di suoni alogico e totalmente desemantizzato, “grado zero” del senso e documento del libero flusso delle energie psichiche. Ma se non paiono molto ricche le possibilità inerenti a una strategia che contrappone sonorità e comprensione come modalità del linguaggio reciprocamente escludentisi, sarà Chlebnikov a fare della zaum’ uno strumento capace – al contrario – di identificare le due modalità, portando così a una dilatazione sostanziale di entrambe.
Chlebnikov si propone di riattivare le originarie potenzialità mitopoietiche del linguaggio tramite la manipolazione della sua struttura secondo criteri pseudoscientifici (o, come Malevič in pittura, magico-alchemici). La zaum’ in versione chlebnikoviana aspira ad essere un vero e proprio alfabeto “universale”, le cui parti costitutive – fino alle più minute: fonemi, segni grafici – esprimono un determinato archetipo cinetico e\o relazionale, valido, in forme diverse, su tutti i piani dell’essere: dalle potenze cosmiche (gli “déi”) alle stelle, dalla storia umana alla vita spirituale del singolo; è una sorta di esasperazione ad absurdum dell’utopia simbolista di una lingua “magica” che faccia cadere e fruttificare sulla terra – per dirla con Dostoevskij – i “semi di altri mondi”, né è un caso che il giovane Chlebnikov avesse gravitato attorno alla corte del maître simbolista Vjačeslav Ivanov.
Quella di Chlebnikov è una lega di misticismo e scientismo non sine mixtura dementiae, o – per parafrasare Benedetto Croce – è «una negazione di forme logiche inadeguate, che prepara e porta seco più profonde e comprensive affermazioni logiche»3. Ad esempio, le idee di Chlebnikov riguardo al linguaggio ricordano la tesi di Benjamin Lee Whorf, secondo cui la struttura del parlare riflette la percezione cosmologica del parlante, con la differenza che, secondo il poeta, il linguaggio “ridestato” è tanto una fonte di conoscenza assoluta quanto una leva per la trasformazione della realtà.
«Così, sulla tela di alcune corrispondenze \ fuori dall’estensione viveva il Volto». – Tale è la conclusione del capolavoro in miniatura Bobeobi si cantavano le labbra… (1908-09) da noi messa a epigrafe. «Paesaggio senza orizzonte, volto senza profilo»4, il linguaggio poetico di Chlebnikov è «un continuum senza divisione in unità discrete»5 dove il senso trionfa sul segno, la semantica sulla grammatica. Il poeta è infatti impegnato nel tentativo di liberare la lingua dalla concatenazione obbligata in unità verbali fissate una volta per tutte, di sciogliere il significato (l’infinità dei significati potenziali) in un fluire verbale liquido e polimorfo, fatto di unità grafiche\fonetiche liberamente combinabili:

L’assenza di un confine netto (semiotico) fra il diveniente (ἐνέργεια) e il divenuto (ἔργον) risponde come meglio non si potrebbe a quella forma dal senso mobile che contraddistingue il “nuovo sistema semantico” di Chlebnikov6.

L’annullamento dei confini fra unità semantiche, si noti, rispecchia per Chlebnikov un reale annullamento della scansione della realtà in unità spaziali e temporali: «Il superamento del tempo e dello spazio era per Chlebnikov il superamento della forma in nome del contenuto». Così Maksim Šapir sintetizza gli intenti del poeta della zaum’:

La lingua transmentale non è lotta della forma col senso, ma al contrario – lotta del senso colla forma, ribellione del “contenuto” contro la struttura materiale in cui il destino lo condanna a doversi incarnare […]. La “parola” senza denotato né significato è non-segnica, è direttamente collegata al senso del testo, anche se tale significato “è noto solo al poeta stesso”7.

Tale procedimento sarà, per così dire, elevato al quadrato dopo la rivoluzione in Zangezi (1922), straordinaria “ipernarrazione” (sverchpovest’), in cui lacerti verbali, motivi e temi “denudati” si stratificano in una struttura ispirata al tesseratto, o “ipercubo” a quattro dimensioni. In generale, dunque la poesia di Chlebnikov è fondata su molteplici forme di annullamento della segmentazione logica, spaziale e temporale: «Per capire Chlebnikov bisogna uscire insieme a lui dai confini non solo della grammatica e della sintassi, ma anche della logica, del tempo e dello spazio», scriverà David Vygodskij (cugino del grande psicologo) in un necrologio al poeta-filosofo8; e Osip Mandel’štam, l’anno dopo, nel bozzetto Sturm und Drang lo definirà «un cittadino di tutto il sistema della lingua e della poesia. È come un Einstein demente, incapace di distinguere cosa sia più vicino: il ponte della ferrovia o il Cantare della schiera di Igor’»9.

2. Nel laboratorio di Chlebnikov. La zaum’

Di solito, la zaum’ è definita e descritta partendo dagli enunciati teorici dello stesso Chlebnikov, formulati in periodi diversi e spesso fra loro discordanti. Ma come si presenta la zaum’ nella concreta pratica poetica?
Innanzitutto, il grado di deformazione della lingua è differente da caso a caso. In ordine di crescente distanza dalla lingua standard, la zaum’ comprende:
a. i neologismi grammaticali, «conformi alle leggi della formazione delle parole russe»10, come plènnost’ (“cattività”), smechàč (“ridòne”), širokàn (“largùto”);
b. i neologismi non grammaticali, che «violano le leggi della formazione canonica delle parole. Questi neologismi utilizzano formanti legittime (radici, prefissi, suffissi), ma violano le regole che governano la loro combinazione»11, ad esempio vladìnja (“autoritèssa”), ljubjànin (“amorèstre”), budetljànin (“futurèstre”) uniscono basi verbali (vlad-, ljub-, budet-) a suffissi (-in'(a), -‘an’in) che richiedono basi sostantivali (knjagìnja – “principessa”, zemljànin – “terrestre”);
c. i neologismi agrammaticali (il vero “biglietto da visita” di Chlebnikov, benché la loro percentuale sul totale sia solo del 18%), la cui composizione non avviene sullo sfondo della lingua reale (passata o presente), ma si basa su etimologie immaginarie. Essi possono essere ottenuti secondo procedure “pseudo-derivazionali”, ossia incorporare formanti reali e suggerire un’analogia illusoria con parole esistenti: lobzebrò (dalla radice di lobzàt‘ – “baciare” e da un frammento della parola serebrò – “argento”, non scomponibile), il fiume Dnestr → mnestr (da mne – “a me”), ognèstr (da ogòn’ – “fuoco”), volèstr (da vòlja – “libertà”). Vi sono anche procedure “non derivazionali” per ottenere i neologismi agrammaticali: la mutazione dell’iniziale, come dvorjanìn (“nobile”) → tvorjanìn (“aristocratico della creazione”, cf. tvorìt’ – “creare”), boèc (“combattente”) → poèc (“colui che combatte col canto”, cf. p(o)èt’ – “cantare”), brìtva (“rasoio”) → mrìtva (“rasoio che dà la morte”, cf. radice -mrt – area semantica della morte), lèbed‘ (“cigno”) → nèbed‘ (“cigno celeste”, cf. nèbo – “cielo”). Un’altra procedura è la pseudo-alternanza vocalica («declinazione interna», secondo Chlebnikov), usata saltuariamente: ad esempio knjaz’ (“principe”) → knez’ (“angelo caduto”, dato che secondo Chlebnikov il fonema\grafema e indica la “discesa”, la “caduta”).
A queste categorie – che rimangono entro i limiti dei morfemi russi deformati e straniati più o meno violentemente – si aggiungono i generi della zaum’ vera e propria, che a tali morfemi non rimandano, sconfinando nell’astrazione pura: essi utilizzano i grafemi dell’alfabeto cirillico ma non si conformano necessariamente alla sua fonologia. I generi della zaum’ astratta (che possono riguardare contemporaneamente lo stesso testo) sono:
d. forme differenti di onomatopea, fra cui la “lingua degli uccelli”, i cui cinguettii e gridi di richiamo sono spesso desunti con grande precisione da trattati di ornitologia (da notare che Chlebnikov era un esperto ornitologo);
e. la “fonopittura” (zvùkopis’), dove ogni fonema\grafema corrisponde a un colore: ad esempio, Chlebnikov rileverà a posteriori che in Bobeobi le labbra sono rosse (b), gli occhi blu (v, m), le ciglia nere (p), il volto bianco (l), la catena giallo-oro (g, z). Ma l’inaffidabilità di tali corrispondenze (e la necessità di puntualizzarle ogni volta) relega la zvukopis’ a un ruolo creativo secondario;
f. la cosiddetta «lingua stellare», utopico mezzo di comunione universale governato da due leggi: 1) il primo fonema\grafema della parola (corrispondente a un qualche archetipo cinetico e\o relazionale) ne determina il significato; 2) le consonanti ineriscono alla “materia”, le vocali – allo “spirito”. Oltre al già citato Bobeobi, possiamo esemplificare con un passo di Zangezi dedicato alla Grande guerra: «Ėr, Ka , Ėl’ e Ge – / abbecedari della guerra, – / son stati i protagonisti di questi anni, / i bogatyri dei giorni. / La volontà degli uomini circondava la loro forza, / come cade dagli scalmi l’acqua umida / […] E inutilmente Ka portava le catene mentre Ge e Ėr si battevano, / Ge cadde, squarciato da Ėr, / e Ėr è ai piedi di Ėl’!». Su un piano “universale”, lo stesso Chlebnikov precisa che R è «un punto che reseca un piano perpendicolare alla direzione», K è «l’incontro e la conseguente cessazione di movimento di molti punti in movimento in un punto immobile», L è «un punto la cui caduta è arrestata da un piano perpendicolare alla direzione del movimento», G è «il movimento di un punto ad angolo retto rispetto al movimento base, in allontanamento da esso. Da cui l’altezza». Ma allo stesso tempo – su un piano storico-concreto – R è la Russia, G è la Germania, K è la morte, che «in forma di guerra civile ha arrestato la vita sia in Russia che in Germania», L è «la spossatezza dilagata dopo la guerra»12;
g. la «lingua degli dei», riservata a divinità o altri enti sovrannaturali (come le rusalki di Notte in Galizia). È la forma più criptica di zaum’, che Chlebnikov non correda mai di spiegazioni o cifrari, e che resta dunque senza alcun referente concreto. Essa è modellata sulla base delle interiezioni e delle filastrocche infantili (specie quelle di “conta”, es. le italiane Ambarabà-cicì-cocò; Àn-ghin-gò, etc.), e rappresenta dunque un esempio estremo di quella «iperbolizzazione di forme letterarie minime» e marginali su cui buona parte della poesia cubofuturista si fonda13. La «lingua degli dei» è composta solitamente di sequenze iterative di gruppi di fonemi, con ritmo trocaico (Ėmč, amč, umč; Dùmči, dàmči, dòmči; Rìči čìči ci-ci-cì) ed è sempre mescolata a grumi di lingua “normale”: «L’impressione suscitata è simile a quella di quando si guarda un film in una lingua sconosciuta, o di un bimbo piccolo quando i grandi parlano di fronte a lui di cose che non capisce»14.
Resta da sottolineare il carattere fluido, polimorfo delle aggregazioni linguistiche chlebnikoviane: non solo elementi zaum’ di tipo diverso possono coesistere, ma spesso una parola è “sezionabile” in vari modi, i segmenti di ognuno dei quali sono catalogabili sotto diverse categorie della zaum’. Ad esempio, Zangezi dichiara di essere «il mogogur e la buona novella Em»; dove il primo sostantivo è scomponibile come mog-o-gur (“potente affabulatore”, da mog-, radice di “potere” + bala-gur, “giullare”. Neologismo del tipo c., agrammaticale), come mo-go-gur (neologismo in “lingua stellare”: mo = «disperdersi di punti da un centro in varie direzioni»; go = «il punto più alto lungo un cammino o un’oscillazione»), m-o-g-o-gur (cf. b-ogatyj, “ricco” → m-ogatyj, “riccopotente”, “riccoaltezza”; mo-l-va, “fama” → mo-g-va, “altafama”. Cf. la definizione di G data al punto f.), mog-o-g-ur, etc. Questi lessemi sono composti aplologici multipli, variamente scomponibili15: «La struttura della genesi di tali parole fa di esse dei continuum: esse vogliono essere testi e temono di trasformarsi in segni indivisibili»16. Di qui l’affinità della zaum’ con anagrammi, rebus, sciarade etc.


        * Il saggio è da intendere come continuazione di Russia prebellica, una cultura al limite, in «Aura», 3, 2020.

  1. Z.N. Gippius, Dnevniki, t. 1, Moskva, Zacharov, 1999, p. 395.
  2. M. Marzaduri, Il futurismo russo e le teorie del linguaggio trasmentale, in «Il Verri», 31-32, 1983, pp. 20-21.
  3. B. Croce, Poesia antica e moderna, Bari, Laterza, 1943, p. 338.
  4. G.O. Vinokur, Filologičeskie issledovanija: Lingvistika i poetika, Moskva, Nauka, 1990, p. 32.
  5. M.I. Šapir, Vstupitel’naja stat’ja a “Jazyk vne vremeni i prostranstva”: G. O. Vinokur o lingvističeskoj utopii Chlebnikova, in Mir Velimira Chlebnikova: Stat’i. Issledovanija. 1911-1998, Moskva, Jazyki russkoj kul’tury, 2000, p. 196.
  6. Ibidem.
  7. Id., Primečanija a G.O. Vinokur, Filologičeskie issledovanija, cit., pp. 362-363.
  8. Cit. in Id., Vstupitel’naja stat’ja a “Jazyk vne vremeni i prostranstva”, cit., p. 198.
  9. O.E. Mandel’štam, Sobranie sočinenij v 4 tomach, vol. 2, Moskva, Art-biznes-centr, 1993, p. 296.
  10. R. Vroon, Velimir Chlebnikov’s Shorter Poems: A Key to the Coinages, Ann Arbor, Michigan Slavic Materials, 1983, p. 29.
  11. Ibidem.
  12. Ivi, p. 174.
  13. M.L. Gasparov, Sčitalka bogov. O p’ese V. Chlebnikova “Bogi”, in Mir Velimira Chlebnikova, cit., p. 291.
  14. Ivi, p. 282.
  15. Aplologia: «Fenomeno dissimilativo per cui una forma contenente due sequenze identiche in successione immediata si semplifica con la caduta di una delle due». Ad es. tragico + comico → tragicomico; do(mani) mattina → domattina (G.L. Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino, Einaudi, 20043, pp. 73-74).
  16. M.I. Šapir, Universum versus: Jazyk – stich – smysl v russkoj poezii XVIII-XX vekov. Kn. I, Moskva, Jazyki russkoj kul’tury, 2000, p. 28.

By 1913 Futurism was becoming fashionable: the decadent poet Zinaida Gippius, for example, gladly welcomed «semi-futurist» young men to her own literary Sundays, «but I don’t let the totally-futurists in; they’re dirty, noisy, and crude. And then they end up stealing something». The «totally-futurists» were the «cubofuturists» or budetljane, according to a Chlebnikov’s neologism (supposedly: «inhabitants of the will be», from budet, third person singular of the future of the verb to be). These had come together a couple of years back under the name Gileja (Hylaea, the name given by the ancient Greeks to the then semimitic South Russia) as a group of young freaks from the most diverse backgrounds: figurative arts, paraliterary undergrounds, fragmentary literary-historical studies and Symbolist acquaintances.