Dietro il paesaggio (violato). Riflessioni intorno a Violazione di Alessandra Sarchi

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In una conversazione con Carlo Truppi, il filosofo e psicoanalista statunitense James Hillman diagnostica alla società contemporanea l’incapacità di dialogare col genius loci di un paesaggio. Più precisamente, secondo Hillman gli uomini avrebbero disattivato la propria disposizione a mettersi in ascolto dell’intima voce dell’ambiente esterno, che li preesiste, per quanto essi pretendano di imporgli la propria voce e il proprio linguaggio. La sensibilità dell’uomo contemporaneo, di fatto, sembra esser divenuta una cassa di risonanza dove rimbombano fragorosi troppi suoni perché si possano discernere quelli che si promanano genuinamente dal luogo, e dal luogo tornano all’uomo:

Non sappiamo riconoscere l’anima del luogo. Questo è dovuto alla cultura in cui viviamo. Abbiamo perso la nostra risposta all’estetica. L’an-esteticità ci anestetizza. I suoni sono così forti che le orecchie si sono intorpidite1.

“Anestetizzati”, in fondo, ci appaiono anche i personaggi di Violazione, primo romanzo di Alessandra Sarchi edito da Einaudi nel 20122. Questo intorpidimento dei sensi è una caratteristica comune a pressoché tutti i personaggi della storia, benché nel corso della nostra analisi si avrà modo di notare quanto, sotto numerosi altri aspetti, essi risultino diversissimi fra loro: per i sistemi di pensiero che adottano, per l’educazione ricevuta (da figli) o che stanno impartendo (da genitori). Per certi versi li si direbbe persino incompatibili, per le divergenze nei modi in cui esprimono il proprio affetto, per il coefficiente di “impatto ambientale” che sanno intrinseco ai propri passi, quando si muovono nel mondo (e lo guastano, o si atteggiano a paladini che lo proteggono).
Insomma, i personaggi che progressivamente fanno la propria apparizione tra le pagine del romanzo sembrano quasi appartenere a pianeti che orbitano in galassie lontanissime, ma che pure si incontreranno al crocevia di certe scelte di vita comuni: Primo Draghi, imprenditore edile (ma sopra ogni altra cosa spudorato «imbroglione», come lo accuserà la figlia adolescente, con gli occhi iniettati di consapevolezza e indignazione), vive con la sua famiglia fuori dal caos mefitico della città, in una tenuta sui colli bolognesi. Alberto e Linda Donelli, coniugi imbrigliati dentro le maglie della vita metropolitana, covano da sempre il sogno verde di trasferirsi in campagna. Quando questi ultimi, nel corso delle proprie imperterrite ricerche, incorrono nell’annuncio di Primo Draghi che ha messo in vendita parte della tenuta de I Cinque Pini, finalmente pregustano il sapore terso e verace del loro sogno realizzato.
Le storie dei due nuclei familiari convergono perciò in questo punto che, malgrado le lampanti distanze che si dicevano, è purtuttavia un’affinità che li apparenta: in sostanza entrambe le coppie, nel ripensare il proprio posto nel mondo, hanno scartato la città a vantaggio della Natura.
Ciononostante, riemergono più vistose ancora le diversità se ci si sofferma sulla qualità di quell’“idea di Natura” che i singoli personaggi hanno in mente. A ben guardare, non esiste un referente univoco, vale a dire che non emerge dal romanzo un solo concetto di Natura condiviso da tutti i personaggi, ma piuttosto si moltiplicano e diffrangono in una multifocalità di sguardi. Ciascuno di loro modella, su misura per sé, un paesaggio che il più delle volte è una versione adulterata di quello reale, e lo forza fino ad assestarlo nell’immagine di Natura che più si confà a ciò che, di volta in volta, a quella Natura si sta chiedendo: di ubbidire, di lasciarsi depredare, di assicurare ricchezza, di simulare idilli di pace.
Più che vivere la campagna per com’è (e quindi ascoltarne l’intimo gorgoglio dell’organismo, rispettarne tempi e ritmi e spazi), essi operano una mitizzazione del proprio composto e plurale «Umwelt, il territorio di coesistenza che può sfociare nell’incontro, nel conflitto, nel rovesciamento di prospettive fra agenti che hanno valori e percezioni diversi»3. Questo, proprio perché sono anestetizzati dal «frastuono psichico»4 prodotto dalla cultura contemporanea, che li induce a fare del referente paesaggistico un prodotto culturale da consumare, prim’ancora che un ecosistema da abitare.
Si pensi ad esempio a quale concezione di Natura resiste in Linda, quando sostiene di rimpiangerne l’atmosfera tersa e perciò cerchia freneticamente annunci che promettono poderi e cascine lontani dall’isteria metropolitana. Ci si domanda, in fondo, se l’ideale di Natura che crede di rincorrere non sia un capriccio bucolico, più che una consapevole mancanza, che solo immersa nella Natura saprebbe pacificarsi. Ella tinge il luogo di pennellate di “pittoresco”, vagheggia il pronto e rapido consumo di un godimento sensoriale che sappia liberarla dalla città e catapultarla nella frescura che si irradia dai suoi ricordi di infanzia. In realtà, le recrudescenze della sua nostalgia verde si associano a null’altro che all’ombra di un albero di fico che se ne stava al centro del cortile della casa in cui abitava da bambina, quando cioè la città non aveva ancora ingoiato tutti gli spazi verdi che ospitava al suo interno. Adesso, nella riproposizione classica del binomio città-campagna, per lei la seconda batte la prima in nome di un virtuale simulacro di requie e distensione e pienezza.
Ciononostante, Linda dovrà rinegoziare parte di quelle aspettative così romantiche e ingenue: durante la prima visita al casolare della famiglia Draghi, nello specifico dinanzi alla vista degli animali allevati, Linda realizza per la prima volta il coefficiente di crudeltà (necessaria) che la Natura incuba. Naturale è, dopotutto, il meccanismo per cui parte di quei maiali che l’allevatore guarda negli occhi e accudisce, finisce poi affettato sotto forma di salume dalla pelle sottile e le zebrature di grasso oleoso.

Nessuno in famiglia era vegetariano, compravano e cucinavano carne di ogni tipo. Ma il passaggio dagli animali vivi e vegeti, perfino blanditi con nomignoli e cantilene da bambini, ai loro compagni, forse figli, macellati e offerti in sacchetti di plastica con tanti sorrisi dalla stessa mano che li aveva appena nutriti, era un pugno nello stomaco (p. 134).

Le immagini che ora Linda è capace di incollare insieme, parte di un medesimo processo che solo adesso visualizza completo, spoetizzano e crepano la filosofia della “produzione a kilometro 0”, che si ritiene ammirevole finché la si abbina a un ideale di genuinità e cura, ma scoprire mani sporche di sangue nelle griglie di quella filiera può rovinare l’appetito.
Vengono in mente le parole di Jameson, quando nel descrivere i meccanismi di produzione dell’epoca postmoderna parlava di «“cancellazione delle tracce della produzione” dall’oggetto stesso, dalla merce così prodotta»5: per l’uomo contemporaneo, d’altronde, non sarebbe più comodo pensare che chissà che gli avocado non nascano già avvolti nella loro placenta di packaging, quasi che i preparativi della produzione fossero il represso freudiano che non torna a galla. Affidarsi all’illusione che tutto sia stato apparecchiato lì dalla produzione dell’uomo per il consumo dell’uomo e che la natura perciò non giochi più alcun ruolo, essendo stata soppiantata da una estensiva antropizzazione.
Sebbene tecnicamente la campagna dovrebbe salvarsi e estraniarsi da questo processo di pervasiva antropizzazione che agisce da ogni lato, assottiglia limiti e scavalca confini, in realtà nel romanzo il paesaggio naturale figura solo come tratteggio di spazio vuoto dove reimpiantare l’illusione che esso abbia ancora un suo proprio orizzonte per esistere. In realtà, non c’è un solo cantuccio in cui il luogo figuri autonomamente nella sua ariosa spazialità, e non in relazione ad occhi che lo convocano a rappresentare qualcosa, oppure contaminato da elementi artificiali che si incistano nella sua wilderness profanata: «Il sole era morto da poco. Sulla pianura galleggiava una nebbia soffice tinta del viola dei gas di scarico e dei riflessi delle luci artificiali. Alla prima curva ne furono inghiottiti» (p. 147).
Le nostre ultime constatazioni basterebbero dunque a decretare l’innegabile sconfitta di qualsiasi battaglia ecologica, come Alberto nel corso della sua carriera ha già abbondantemente appurato: da addetto regionale allo Sviluppo sostenibile, egli ha sondato quanto utopico e frustrante sia battersi per il verde in un mondo che s’ingrigisce di asfalto e tecnologia giorno dopo giorno. Le sue amare consapevolezze gli hanno silenziato persino la nostalgia dello spazio aperto che era abituato a respirare da bambino: quei ricordi sono invecchiati assumendo la forma di «visioni nitide, ma ormai prive di significato, inagibili» (p. 67). Ad oggi, egli non può che ammettere che la sfida ecologica è nient’altro che il cadavere di una chimera.
Se, da parte sua, la moglie ritiene quell’utopia ancora praticabile, è perché la sua lotta in fondo si accontenta di una dimensione domestica e individualista; un (legittimo?) margine di ipocrisia la salva dall’eventualità di dover rinunciare ai suoi sogni. Del resto, «Ognuno difende i propri microscopici spazi vitali, la rete di connessioni assurde che ne garantisce i privilegi e ne legittima l’esistenza. Inutile farsi illusioni» (p. 214).
Dall’altro lato, si consideri l’idea di Natura a cui rimane abbarbicato Primo Draghi: per lui la terra funge sia da eredità della famiglia tradizionalmente contadina, che da risorsa di inesauribile ricchezza da razziare e sfruttare. D’altronde, come si accennava, Primo è un imprenditore edile che sotterra le sue frodi dentro l’impasto di quella stessa terra di cui si dice erede e padrone, e lo fa con continui soprusi, violenze, penetrazioni e scavazioni, che arrivano fin dentro le budella di quel suolo aggredito.
Spesso la prosa restituisce le risonanze di quella sofferenza, come se di quella terra venissero assalite le carni, violato lo spirito, spolpato il tesoro:

Fianchi, pancia, braccia di interi fiumi scavati e spolpati di sabbia per diventare edilizia privata, popolare, media, di lusso. Non più la terra gonfia di vita e di germogli, ma il gesso la calce la pietra che uniti al ferro sarebbero durati per un tempo ben più lungo delle esistenze umane, specie di quelle dei contadini (p. 145).

O ancora: «Primo aveva risposto alla violenza della collina con la stessa violenza, mettendola a tacere, irreggimentandola con pali conficcati in profondità nel terreno» (p. 186).
Tale tendenza intrinseca alla scrittura è biunivoca: così come in alcune situazioni essa associa all’humus terrigno la consistenza carnosa di un corpo che subisce violenza (e violazione), allo stesso modo, dall’altro lato, gli uomini vi figurano come paragonati a elementi naturali. Come i piedi cadaveri del padre di Primo, posizionati in modo innaturale e grottesco, che mentre se ne stavano «assurdamente rivolti in alto facevano pensare a radici divelte» (p. 17).
È ancora il corpo di Salvatore Draghi a suscitare in Primo immagini in cui si confondono sostanza umana e animale, immagini che si rapprendono nella scrittura sotto forma di grumi sciolti di sangue e interiora:

Il corpo di Salvatore Draghi che da più d’una ora aveva cominciato a essere un po’ meno suo padre e un po’ di più materia in decomposizione, non diversamente dagli animali della fattoria che insieme avevano ucciso, liberandoli il più in fretta possibile dal sangue e dalle interiora, perché il degrado organico è un processo veloce, se ne possono cogliere i segni in pochissimo tempo, e non è un bello spettacolo (p. 25).

Soffermandosi ancora sui dispositivi formali attivi nel testo, in particolare dal punto di vista strutturale la narrazione si organizza in un trittico di spazi, i quali si incasellano e richiudono su loro stessi. Mondo, Casa, Frana sono le tre dimensioni attraverso cui l’intreccio spazia, in un anticlimax che procede lungo il rimpicciolirsi dei loro perimetri.
Le tre coordinate potrebbero assestarsi anche lungo una catena consequenziale di eventi che ruzzolano verso il disastro, l’epilogo che chiazza la terra col sangue: il mondo di una casa che frana.
La casa è qui intesa come cellula sana in un organismo deteriore (la città), da cui fa di tutto per trasmigrare, per innestarsi in un altro. Le suggestioni immaginative insite in questa metafora scientifica ci consentono di notare anche un’altra inclinazione della prosa: specialmente quando la materia narrata prende a orbitare attorno al personaggio di Linda, essa fa spesso ricorso a un precisissimo linguaggio clinico. Da neurobiologa appassionata nonché ricercatrice universitaria, Linda è infatti abituata a scomporre scansionare setacciare con il radar del proprio frasario scientifico qualsiasi aspetto della realtà, finanche quella delle emozioni. Solamente mentre le ribolle dentro la frenesia del desiderio, quando inizia cioè a presentire una possibile realizzazione di quel sogno di una «casa nuova. Una casa nel verde, fuori città, con tanto spazio dentro e fuori, con tanta natura» (p. 54), la narrazione la fotografa in gesti di impulsiva impazienza, come se la voracità del suo sogno di Natura fosse più forte di tutto, persino della lucidità con cui è abituata a misurare il mondo.
A parte questo strumentario di termini propriamente medici, che appartengono allo stile di pensiero di Linda e che la prosa impresta in più occasioni, il suo stile si arricchisce spesso anche di zone di un più generico «lessico decontestualizzato»6; si contano soprattutto ossimori che cercano di fotografare la realtà stirata fra i poli delle sue contraddizioni. La lettura non può sorvolare su queste incongruenze, ma deve fermarsi e percepire la frizione: tali espressioni disorientano e spiazzano il lettore, accompagnandolo in una realtà fatta tutta di zolle sdrucciolevoli e certezze frananti. Emanuele Zinato ha fissato in maniera straordinaria questa attitudine stilistica nella sua sintesi critica, in particolare mettendo in luce come

le enumerazioni tecnico-scientifiche, solo in apparenza neutrali, […] trascinano il lettore nel territorio dell’ironia disvelante («monossido di carbonio, piombo, benzene, insomma tutta la varietà degli idrocarburi composti, che dànno quella patina giallognola all’aria»)7.

Nel momento in cui il sentimento rustico e trasognato dell’utopia bucolica si contamina con l’elenco delle proprietà chimico-fisiche dell’aria, l’idillio si guasta, e la realtà svela attraverso la scrittura la sua amarognola consistenza.
Finora sono stati delineati alcuni atteggiamenti comuni a (quasi) tutti i personaggi della storia: l’incapacità di leggere il luogo se non in funzione dei propri bisogni, che l’opportunismo flette e ricicla; un fare violenza al paesaggio che è abuso e oltraggio; una tendenza finanche aggressiva a rimappare i luoghi, terremotandone e spostandone epicentri in base all’orientamento dei propri egoismi.
Solo un personaggio si mantiene sempre estraneo a questi comportamenti: si tratta di Jon, diciannovenne moldavo impiegato per prendersi cura dei cavalli nella stalla dei Draghi. Egli è il figlio di Natasha, la donna che assiste l’anziana madre di Primo, la signora Berenice, burbera e cocciuta almeno quanto la sua badante è paziente e remissiva. Natasha è la silhouette più delicata fra tutti i personaggi, ben consapevole del resto che «la sua presenza in quella casa è tanto più necessaria, tanto più gradita e remunerata, quanto più lei è capace di cancellarla, renderla invisibile e senza peso» (p. 85). Così fa anche il racconto: le toglie volume e consistenza, benché il motore del testo s’ingolfi, verso la fine del romanzo, di fronte all’eruzione della sua sensibilità, troppo a lungo soppressa nei ranghi di un’obbedienza servile e iniqua.
All’inizio del romanzo, il ragazzo vagheggia l’Italia dal suo Paese, prima ancora di risolversi a partire per raggiungere la madre. In Moldavia studiava Agraria, ora che è in Italia da clandestino la sua condizione di provvisoria instabilità l’ha costretto a interrompere gli studi, ma non per questo la sua lucida coscienza si disattiva: egli vede, e non può non vedere, le brutture che in quella campagna si compiono. Il suo sguardo, che pure stagna nell’impossibilità della denuncia, compensa comunque l’ignava miopia degli altri personaggi; Jon inorridisce di fronte all’arsenale di pesticidi, ormai vietati a livello europeo, che lì continuano ad essere impiegati dall’ignoranza fiera della signora Berenice, la quale lo scruta diffidente dall’alto della sua posizione da padrona. Agli occhi di Jon, la sua figura rattrappisce penosamente nella posa di una «ridicola tiranna».
La stessa espressione inquadrerà il personaggio di Primo, erede di quel modo di fare arrogante e cinico; qualità del carattere che, com’è evidente, egli deve aver geneticamente attratto da sua madre, mentre poco resiste in lui della personalità di suo padre, Salvatore Draghi: anche lui imprenditore edile, dopo esser stato buona parte della sua vita agricoltore. La stoffa da contadino l’aveva fasciato come un’uniforme, che tuttavia egli aveva saputo reinventare e sostituire al momento opportuno: aveva interpretato astutamente il sogno medio degli italiani, urbanizzando e costruendo e confezionando case di tipo rustico per «borghesotti in fuga» (p. 246), come sono Alberto e Linda, i quali si affrancano dalla città per soddisfare la velleità di andare a vivere in campagna.
Primo comunque si sente più furbo ancora del genitore, anti-modello fantasma, la cui morte – evento su cui si spalanca l’intreccio – gli ha concesso un’impensabile e straordinaria libertà di manovra. Egli può ribadirsi orgogliosamente la sua diversità con la fierezza di chi, lungo tutto il romanzo e probabilmente nel corso della sua vita intera, non ha mai subito i pruriginosi dubbi che pone il senso della morale, quando lo si consulta per convalidare le proprie scelte.
Pur a contatto con la sporca sostanza di questi personaggi e benché outsider clandestino, spesso costretto a muoversi come una sagoma invisibile e discreta, Jon rimane comunque il solo in grado di mettersi in ascolto del genius loci che tutti gli altri hanno sacrificato per anteporvi i propri interessi. L’unico testimone consapevole delle implicazioni etiche del rapporto tra uomo e ambiente, che tutti gli altri declinano nella forma dell’appropriazione o del sopruso, in lui rivive invece in una forma più sana e devota dell’abitare.
Nessuno dei personaggi è in grado di fare luogo nel posto in cui ha scelto di radicarsi, che sia una città ripudiata in nome di un più alto ideale di aria pura e azzurrina (come la vogliono Alberto e Linda) o una terra quotidianamente tradìta, nelle due sfumature semantiche che il termine intrinsecamente cova, di tradimento come lascito e come corruzione (è questa la terra interpretata da Primo Draghi); diversamente da tutti loro, per quanto Jon non appartenga a quel territorio ma vi si insedi precariamente, stringendovi solo un rapporto funzionale e temporaneo, tuttavia rimane il solo a rispettarne l’essenza e percepirne il battito. È questa un’attenzione e una cura che Jon profonde sempre nel suo starci: «Ascoltava il respiro come se nel silenzio fosse l’unica prova del suo essere lì, in quel momento e in quel luogo» (p. 15).
Egli sembra essere chiamato a interpretare il ruolo di capro espiatorio (l’Altro, il diverso, la toppa di bianco puro al centro di una macchia di grasso) di una società che non può ammettere le sue storture, e cerca perciò di tumularle nel terreno. Quello stesso terreno che è infestato da malerbe sotterranee che lui solo vede, mentre tutti gli altri preferiscono tapparsi gli occhi.
Si arriva a ritenere il suo addirittura uno sguardo poetico, se non è azzardato il riferimento a ciò che è stato detto della poetica di Zanzotto, poeta da sempre attento alla sensibilità che il paesaggio convoca e attiva in noi, ossia che

[…] per capire i luoghi non abbiamo bisogno di radicarci, ma di eradicarci da essi, addentrandoci così profondamente in loro da riuscire a “bucarli” per arrivare altrove, rivedendoli nuovi, forse soltanto allora “nostri”8.

Jon buca davvero il luogo, vi familiarizza senza impossessarsene, giunge in quel limbo senza parole che è dietro il paesaggio, ma vi arriva da solo, non concede al lettore di seguirlo: le ultime pagine lo costringono al silenzio.
Il riferimento al silenzio ci autorizza a tessere un’emblematica associazione con la secondogenita di Primo Draghi, che pure si scopre bloccata in una dimensione senza parole: Vanessa è, infatti, una tredicenne muta e sottosviluppata a causa di una lesione cerebrale, che le ha impresso sul volto la maschera grottesca e sformata di un sorriso che sbava. Nondimeno, nella sua ignara e incomunicabile serenità, quella di Vanessa somiglia davvero alla «felicità edenica» (p. 120) della Natura, autarchica e chiusa in se stessa, che non ha bisogno degli uomini e che, anzi, nota a stento la loro empia presenza.
Sulla scia di questa similitudine, immaginando cioè Vanessa realmente affine a quella Natura che vorrebbe starsene sola, equilibrata e impassibile nel suo silenzio, si è creduto di rivedere in lei «una volontà di disarcionamento dell’umano che appartiene sempre a ogni luogo, una rabbia dello spazio nei confronti di ogni tentativo di abitarlo»9: pur senza parlare, ella esprimerebbe allegoricamente la ribellione alla sacrilega arroganza umana, che la Natura rappresentata nel romanzo, invece, passivamente subisce.
Alla fine della storia, da parte sua, il lettore rimane a fissare inerte gli altri personaggi, che pure si guardano torvi e dubbiosi gli uni gli altri, domandandosi tormentosamente se avessero dovuto intercettare avvisaglie capaci di annunciare la frana, scricchiolii prima del tonfo micidiale. Dopotutto, come fa notare Giglioli nella sua recensione, non che certi segnali non fossero percepibili, ma:

[Alberto] sceglie, scelgono tutti di non vederli, perché questo è il piano inclinato su cui il mondo sta scivolando senza opporre resistenza: non gloriose sconfitte ma una serie ininterrotta di compromessi al ribasso10.

Dopo il tonfo rappresentato dall’epilogo, i personaggi rimangono soli con le scelte che hanno compiuto; il paesaggio si è forato, ma a loro non ha svelato niente dietro la sua cortina se non il vuoto cavo su cui essi hanno creduto di edificare il proprio sentimento geografico, impastato soprattutto di ambiguità e violenza.


  1. J. Hillman, L’anima dei luoghi. Conversazione con Carlo Truppi, Milano, Rizzoli, 2004, p. 103.
  2. A. Sarchi, Violazione, Torino, Einaudi, 2012. D’ora in poi in forma abbreviata nel testo con la sola indicazione dei numeri di pagine.
  3. N. Scaffai, Letteratura e ecologia, Roma, Carocci, 2017, p. 72.
  4. J. Hillman, L’anima dei luoghi, cit., p. 103.
  5. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2007, p. 317.
  6. E. Zinato, Alessandra Sarchi, «Violazione», in «Allegoria», 65-66, 2012, p. 319.
  7. Ibidem.
  8. M. Giancotti, Introduzione, in A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Milano, Bompiani, 2013, p. XI.
  9. G. Vasta, R. Fazel, Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, Macerata, Quodlibet, 2017, p. 214.
  10. D. Giglioli, In collina aspettando una frana che travolga natura e coscienza, in «Corriere della sera», 12 febbraio 2012, p. 14.

In a conversation with Carlo Truppi, the American philosopher and psychoanalyst James Hillman diagnoses contemporary society’s inability to dialogue with the genius loci of a landscape. More precisely, according to Hillman, humans have deactivated their disposition to listen to the intimate voice of the external environment, which pre-exists them, no matter how much they claim to impose their own voice and language on it. The sensibility of contemporary man, in fact, seems to have become a sounding board where too many sounds rumble thunderously for one to discern those that emanate genuinely from the place, and from the place return to man: «We do not know how to recognize the soul of the place. This is due to the culture in which we live. We have lost our response to the aesthetic. Aesthetics anesthetize us. The sounds are so loud that the ears have gone numb». “Anesthetized,” after all, appear to us also the characters in Violation, Alessandra Sarchi’s first novel.