«O cameretta che già fosti un porto»: tanatologia tragica e alibi autoriali in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante

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Le parole […]
Si annodano sciogliendo e ordiscono calappi,
sono le gambe lunghe e le bugie che menti,
trucchi strucchi, falsi, melensi, e fango denso.

Lello Voce, Razos

1. Scrivere l’ultimo e uccidere il genere

Pubblicato nel 1948 per Einaudi e passato – al netto della vittoria del Premio Viareggio – sostanzialmente in sordina; apparentemente nato «fuori dalla Storia, […] ideato nella più completa ignoranza della tragedia che si era appena compiuta e ancora si consumava nel nostro paese»1 e pertanto alieno all’imperante gusto neorealista a causa delle sue «atmosfere fiabesche e spiritate, in netto contrasto con le opere di Vittorini, Pavese, Pratolini e dello stesso Calvino»2; estraneo pure – come ampio e complesso romanzo-cattedrale il cui «terreno di coltura […] è ben più l’Ottocento che il Nove» –3 alle dinamitarde innovazioni del modernismo, Menzogna e sortilegio, «il più grande romanzo italiano moderno»4 secondo Lukàcs, è, in iniziale mancanza di definizioni migliori, un particolarissimo ordigno. Innanzitutto per le sue fondamenta.
«Il matrimonio con Moravia era stato, sotto il profilo economico, un grande sollievo. La Morante era passata dalle dure ristrettezze in cui aveva trascorso la giovinezza a una vita più agiata e serena. Dal giorno del suo matrimonio […] poteva oziare, poteva sognare»5, nota Garboli, sicché è proprio nel sogno che sta il fondo primo del romanzo. Al di là, difatti, della precedente produzione novellistica, che pure è tutta in bilico «fra veglia e sogno» sino alla «finzione eccitante dello spettacolo» e alla «allucinazione patologica, dai tratti funerei» di «protagonisti, spesso bloccati in una solitudine claustrofobica, […] in attesa di un evento disvelatore» tra cui «per via fantasmatica, l’insorgere puberale delle pulsioni sessuali»6, e in cui sono insomma evidenti gli esercizi preparatori alla grande prova narrativa, ancor più importante a queste altezze è il rapporto della Morante con la letteratura freudiana – di cui appare forse la maggior lettrice italiana al di là delle ben note frequentazioni sveviane e gaddiane7 – e, soprattutto, con il proprio mondo onirico. Non si tratta di un mero esercizio culturale o autoanalitico. Prodotto ne sarà, nel 1938, il cosiddetto Diario 1938, vero e proprio minuzioso diario di sogni rimasto inedito fino al 1989, anno della sua pubblicazione postuma: tuttavia, come sottolineato da Giovanna Rosa,

Per Elsa, mettere su carta le visioni notturne ha lo scopo non di chiarire i contenuti latenti della veglia diurna, «le sudicie correnti della vita», quanto piuttosto sperimentare la grammatica e la retorica degli effetti con cui lavora la «fantasmagoria dei sogni» […]. Nelle pagine della Psicopatologia della vita quotidiana o del Romanzo familiare dei nevrotici Morante non cerca una teoria sistematica o una precettistica rigorosa; recupera, riplasmandola, la ricchezza di modelli e di paradigmi rappresentativi […]. La fantasmagoria dei sogni diventa lo strumento per trasformare la «foresta di mostri» da cui si sente assediata […] in una somma di procedimenti e di effetti artistici che nulla concedono allo sfogo liberatorio o al risarcimento compensativo8.

Se quindi l’intento dell’autrice sarà, subito dopo, fare del romanzo, convinta della sua agonia, «quello che per i poemi cavallereschi ha fatto l’Ariosto» o ancor meglio Cervantes9, ovvero «scrivere l’ultimo e uccidere il genere»10, il «progetto ambizioso di rifondare la ‘moderna epopea borghese’ (Hegel), sfruttandone le varie tipologie»11 non potrà che partire da qui, e cioè da opere – e riflessioni – in grado di far esclamare:

Che miracolo il sogno! Ora capisco da dove è nata la grande e ombrosa cattedrale del mio. Ieri sera discorrendo dell’arte nel romanzo e nell’intreccio con V. ricordo di avere di sfuggita paragonato la costruzione del racconto a un’architettura, a una cattedrale […]. Da questa parola fuggitiva è nata quell’immensa cattedrale sognata. […] È come un filo esile, che si compone in un fiabesco ricamo12.

Tuttavia, si è pur sempre di fronte a chi, per il futuro Il Mondo salvato dai ragazzini (1968) e provocando il pubblico riguardo la nozione di genere letterario, parlerà dell’opera come «un romanzo d’avventure e d’amore […]. Un poema epico-eroico-lirico-didascalico […]. Un’autobiografia. […] Un memoriale […]. Un balletto. […] Una tragedia. […] Una commedia. […] Un madrigale. […] Un documentario a colori. […] Un fumetto»13: anche per Menzogna e sortilegio la questione di genere non è presto risolvibile, e certo non è riducibile alla semplice etichetta di Roman, ancorché Familien.
In questo senso, particolare attenzione andrebbe messa su di un aspetto spesso poco considerato della produzione morantiana: la sua strabiliante consapevolezza letteraria, tanto in senso critico quanto metodologico, tale da renderla «‘uno degli scrittori più profondamente colti del panorama italiano moderno’ (Lucamante): […] senza dimenticare, naturalmente, lo spessore di intertestualità fitta con cui la prosa romanzesca si accorda alle opere dei massimi poeti italiani e stranieri, dei musicisti, degli artisti, pittori e uomini di cinema e teatro»14. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che, come spiegato da Rosa riprendendo le considerazioni espresse dall’autrice in risposta all’inchiesta Sul romanzo promossa da «Nuovi Argomenti» nel 1959,

Morante, dopo aver rigettato con forza l’idea allora diffusa della «crisi del romanzo», spiega la necessità dell’adozione di una «prima persona responsabile» a cui delegare la conduzione del racconto. Nel secolo della relatività, «diventata un’acquisizione di tutte le scienze», anche gli scrittori devono preliminarmente «suscitare un io recitante» che valga da «alibi»: una «prima persona responsabile» capace di filtrare e riplasmare la «multiformità sterminata e cangiante dell’oggetto reale» […]15.

«Oggetto reale» cui corrisponde, con un paradosso, l’oggetto-romanzo, anzi il più generale oggetto-narrazione, anzi il più generale oggetto-letteratura e tutta la sua plurisecolare tradizione. La protagonista di Menzogna e sortilegio, la giovane Elisa, è, innanzitutto, una bibliomane: come da lei ammesso, parlando della propria stanza, «in questa casa v’è un territorio nel quale mi fu sempre concesso di regnare indisturbata; vale a dire, la mia camera. […] Chi la veda, può supporre ancora oggi ch’essa appartenga a una bambina ordinata, molto studiosa e amante della lettura»16. Analogamente, in quanto «fedele segretaria» della turba di spettri che le detta la propria cronaca familiare e, al di là della sua natura di alter ego della Morante di cui si discuterà in seguito, Elisa è anche e soprattutto scrittrice, tanto da portarla ad ammettere che «come se il tempo della scuola fosse tornato, io, levatami dal letto, mi siedo al tavolino, e tendo l’orecchio all’impercettibile bisbiglio della mia memoria. La quale, recitando i miei ricordi e sogni della notte, mi detta le pagine della nostra cronaca passata; ed io, come una fedele segretaria, scrivo»17. Secondo questa descrizione, però, la ragazza è sì scrittrice, ma non autrice, bensì copista, un’accezione ben differente. È proprio sulla dialettica tra queste due possibilità di “materializzazione” della narrazione che si gioca l’intero romanzo, a partire dal suo incipit, dalla sua Dedica in versi:

Di te, Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
che vestì prima d’esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!

L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di mama non m’ama
la risposta celeste

mi fingo18.

Come nota Rosa, qui Morante «dichiara la strategia compositiva su cui si eleva la prima cattedrale: solo oggettivando nella finzione il proprio patrimonio memoriale si può continuare a preservarlo come materia per ogni racconto possibile, senza sentirsene sopraffatti19. L’esperienza dell’io, radicata nelle fantasie fanciullesche […] da queste attinge slancio per uscire dal silenzio e rompere la gabbia delle ossessioni narcisistiche»20. È insomma attraverso il dipanarsi della «finzione» che l’io-copista può liberarsi dalla tirannide della dettatura, assumendo il controllo sugli spettri e divenendo io-autrice: il paradosso sta nel fatto che, per far ciò, è assolutamente necessario farsi medium delle voci altrui, riassumendole, dando loro verità e coerenza tramite un rigido controllo le cui modalità verranno analizzate in un secondo momento. Che nella cameretta da cui l’io-autrice scrive coincidano dunque quelli che De Rogatis definisce come il cronotopo della «modernità arcaica della fantastica città di P.»21 – la Palermo «Tule irraggiungibile, fatta solo di memoria»22 – e il cronotopo massicciamente realistico della «modernità generica di un’anonima grande città»23 in cui la ragazza è esiliata serve a comprendere come, nella genealogia incantata del romanzo, Elisa sia a ben vedere una sorta di novella Medea, una «figura ‘barbara’»24 e strega, seguace e traditrice degli avi al contempo. Se, come ironicamente scritto da Giorgio Manganelli nel suo Discorso sulle difficoltà di parlare coi morti (1965), «altri […] ritiene» che i defunti «alloggino nelle minuscole miniate, acquattati al centro di quei bei laberinti, le porte chiuse, sotto le coltri, quando taluno diteggia il libro» e «allo stesso modo […] vedono il problema coloro che suppongono i morti appollaiati dentro i suoni»25; se «dice taluno: ‘i morti sono fuori della storia; ergo, fuori di arte e moralità, ignari di dialettica’» tanto da rendere necessario «apprestare tests, dai quali dedurre la attendibilità e il livello culturale del defunto»26, il rapporto di Elisa coi morti altro non è allora che metafora del rapporto di Elsa con la tradizione letteraria e soprattutto romanzesca. Scrive ancora Manganelli, stavolta ne La letteratura come menzogna (1967):

Corrotta, sa fingersi pietosa; splendidamente deforme, impone la coerenza sadica della sintassi; irreale, ci offre finte e inconsumabili epifanie illusionistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità. […] Nessuno se ne allontanerà intatto. Anzi: nessuno ne è immune. […] Taluno – tra i quali non rari grandi scrittori – meditò di togliere di mezzo affatto la letteratura. […] Altri, liberale e umanista, volle e vuole rieducarla27.

È rieducando l’imperiosa narcisistica narrazione che Elisa se ne emancipa, “denullificandosi”28 nel processo. È rieducando il romanzo agonizzante “non-neorealista” che Elsa lo resuscita. «I morti sono fuori dalla storia»29, così come pure lo sarebbero i natali di Menzogna e sortilegio, e ciononostante, secondo Calvino, quest’ultimo «non dimentica per un istante la situazione della società in cui si muove»30, in cui vive, dimostrando come per la critica coeva «il pulviscolo neorealista» fosse lì a intorbidire l’aria. Menzogna e sortilegio è un romanzo d’amore, ma se «per il romanziere dell’Ottocento, il contesto sociale è un dato, il muro contro il quale le passioni urtano e si abbattono», nella Morante «da una parte, l’infezione sociale che affligge l’amore è la prima causa della sua patologia. Ma dall’altra, l’infezione stessa fortifica l’amore»31. Insomma, «i due elementi, quello sociale e quello sentimentale, agiscono insieme. È probabilmente questa una delle ragioni che hanno spinto un critico come Lukàcs a esprimere nei confronti di Menzogna e sortilegio tutta la sua ben nota ammirazione»32. Al contempo, se «non storia abitarono, vivi, gli ora morti: ma piuttosto preistoria, come irragionevole e irrazionale, superstiziosa e feroce»33; e se all’inizio del romanzo Elisa può confessare «la fugace apparizione dei miei genitori, durata per me quanto durò l’infanzia, era stata d’una specie tanto conturbante che, in seguito, la mia memoria trasformò il loro dramma piccolo-borghese in una leggenda. E, come avviene ai popoli senza storia, su questa leggenda io mi esalto», prendere in mano – dalla quarta parte del romanzo in poi – le redini di una narrazione finalmente autoptica, finalmente Storia e finalmente autoriale – benché con tutti i dubbi del caso34 –, ha non piccolo peso. Non facile è del resto liberarsi dalla feroce superstizione, ma la volontà della protagonista è ferrea: se prima della “presa di responsabilità narrativa” «le clausole della certificazione veridica si sprecano»35 e il lessico, il periodo intero persino, ha il piglio chirurgico dell’anamnesi, è perché, per il momento, altro non si può opporre alla tirannia della leggenda36.
Non è certo da tracciarsi col primo romanzo della Morante la nascita di una consapevolezza che, come si è visto, l’accompagna fin d’agli albori intellettuali; e tuttavia se ne possono qui vedere i segni più abbaglianti. Non casualmente, è nell’Introduzione che – a stabilire la natura e le regole di un ordigno in procinto di mettersi in moto – si affastellano. Ancor meglio, è nel suo secondo capitolo, momento d’annuncio dei suoi personaggi sulla scena che farà da sfondo all’intera opera – la cameretta della protagonista e narratrice –, che si addensa lo statuto di Menzogna, meraviglioso alibi del letterario37.

2. Nel magma

Le poche stanze che compongono il nostro appartamento dànno, tutte meno una, su un lungo corridoio: il quale da ultimo piega ad angolo retto e finisce in un piccolo vano celato da una tenda di velluto e contenente valige accatastate, vecchi lumi inservibili ed altri oggetti di scarto. Da un lato di questo ripostiglio, s’apre l’uscio d’una cameretta […], alla mia venuta qui fu allestita per mio uso […].
L’unica finestra della cameretta dà su un cortile; non, però, sul cortile principale del casamento, vasto e chiassoso, ma su una stretta corte secondaria, per dove non passa quasi nessuno. Il casamento s’innalza per dieci piani, e in questa corte, chiusa fra quattro altissimi muri di cemento, come una sorta di torre scoperta in cima, il sole non entra mai, per nessuna ora o stagione […]38.

Il controllo capillare della «prima persona responsabile» mostra già tutta la sua forza in questo attacco. La descrizione – immersa in un presente atemporale – è vividissima e totalizzante, la sua progressione è lineare e anzi, non aggiunge semplicemente dettagli a quanto precedentemente scritto, ma vi entra nel profondo, con un’inquadratura via via più ristretta che peraltro, coerentemente con le altre descrizioni morantiane39 e forte della sua posizione incipitaria, più che fermare il flusso della narrazione procrastina l’inizio dell’azione, creando una suspense che ha tutto del cinematografico: non si tratta però dell’unica strategia di dominio materiale della narrazione – anche solo di questo capitolo – da parte di un io-regista caratterizzato, innanzitutto, dalla sua «tortuosità analitica»40. Questa tortuosità ha due valori principali, primo fra i quali – amplificando il ruolo di medium della protagonista e riprendendo il modello dell’amatissimo Rimbaud – quello di voyant. Come davanti alla consapevolezza dell’inutilità – se non anche della pericolosità – di uno sguardo di sola superficie sul reale, non solo nessun oggetto di narrazione o descrizione è lasciato senza un pur minimo attributo che tenti di comprenderne e identificarne più a fondo la natura, ma, spesso e volentieri, anche ciò è giudicato insufficiente: la dilatazione semantica si fa allora dilagante, e gli aggettivi si schiudono in frequenti e più chirurgiche e mai dittologiche coppie e triadi. Espressioni come «poche e rade», «luttuose, e […] bizzarre», «inattesa e rapida», «stravagante e perversa», «debole e servile», «disumana, solitaria», «grottesco e inconcludente», «nefasta e aberrante», «insipidi e grossolani», «antica, dolorosa»; o ancora «savia, accorta, e […] pedante», «ordinata, studiosa, e amante della lettura», e «gaia, esuberante e fastosa» non aggiungono soltanto un quid ontologico in più agli elementi, bensì permettono, cosa forse ancor più importante, di riconoscere le correspondances nascoste tra questi ultimi. Che all’inizio del capitolo si dica che «l’unica finestra della cameretta dà su un cortile; non, però, sul cortile principale del casamento, vasto e chiassoso, ma su una stretta corte secondaria, per dove non passa quasi nessuno»41, ad esempio, non è cosa da poco: è questa esatta estraneità dai concetti di ‘vastità’ e ‘chiasso’ della cameretta che permette di comprendere come la giovanile ossessiva mitopoiesi di Elisa e il conseguente arrivo – immediatamente prima del capitolo successivo – di maschere spettrali che «affollarono la […] camera», facendo sì che «questo territorio angusto» si allargasse «senza limiti» e rimbombasse «dei loro nomi titolati»42, non sia altro che un risarcimento esistenziale.
Ruolo cruciale, in tal senso, ha l’uso diffusissimo dell’analogia, parimenti adoperata – e in modo sempre più ampio, più profondo – per scavare nella natura delle cose e trarne le corrispondenze. Una «congerie d’oggetti» ingombra allora «a somiglianza d’una barricata»43, una tensione patica è «come bandiera che proceda contro vento»44, un’ossessione è «come un insetto attorno a una lampada accecante»45, una dipendenza emotiva rende «simile a una invalida, la cui ferita, non chiusa, ad ogni urto ricomincia a sanguinare»46, e soprattutto chi partecipa al delirio della finzione è «come un demente condotto a teatro, il quale si spaventa alla tragedia rappresentata, e urla vedendo la primadonna trafitta, e vuol precipitarsi sulla ribalta a uccidere il tiranno»47. C’è però, a ben vedere, un’analogia più fortunata delle altre: quella della «menzogna […] trasmessa» dagli avi «come un morbo»48. Immediatamente tematizzata, forte di un determinate eureka ontologico, sostituirà in toto il suo correlativo, spesso con la ripetizione ossessiva del medesimo lemma. La menzogna diviene quindi «morbo ereditario» per cui si ha «disposizione nativa», «male velenoso», «contagio» pur se «in forma benigna», «caso […] grottesco», «antico morbo» – o «fantastico» –; tutte definizioni, si badi, accumulate fra la pagina in cui tale corrispondenza per la prima volta appare e la successiva, e cui segue soltanto l’ambiguo concetto di «umori quotidiani» dalla cui varietà le fantasticherie derivano. Una simile insistenza sul valore patologico e più in generale sul lessico medico non appare però come una sorpresa a chi legge. Il primo dato cronologico che Elisa, all’inizio del capitolo, dà sul primo ingresso nella casa da cui poi scriverà è il suo esservi entrata da «convalescente d’una malattia mortale, […] fatta sensibile e morbosa»49; il progressivo e inesorabile invischiarsi col mondo spettrale degli avi è, non casualmente, «una malattia di consunzione»50; soprattutto, il modo di amare della giovane narratrice – la «paura» seconda eredità della protagonista assieme alla menzogna – non è solo «eccessivo», ma «inguaribile»51 e, come già visto, capace di rendere «simile a una invalida», di far ammalare se maltrattati, di sconvolgere tanto «da averne poi la febbre»52. È tutto qui il senso del piglio chirurgico d’anamnesi menzionato in precedenza: tracciare la storia clinica di una psicopatologia stregata – l’affabulazione mistificante compulsiva, l’ossessione narcisistica – che non è solo personale, ma genealogica, per comprenderla e sottrarsene.
Da qui l’altro valore della «tortuosità analitica» del periodo di Menzogna: disambiguare e demistificare, dunque smascherare e controllare attivamente la narrazione. L’armamentario a disposizione di questo compito è molteplice, e innanzitutto abbondanti sono i meccanismi di ripetizione, riformulazione e avversazione volti a impedire fraintendimenti53 e smarrimenti di sorta, guidando passo per passo nella lettura di una sintassi in ogni caso volutamente «ravvolta, a più piani, non per eccesso di complessità e subordinazione ma piuttosto per il continuo procedere a incastri»54, puntellata da una fittissima punteggiatura e dal frequente uso di parentetiche e incisi. Alcuni esempi:

In realtà, la mia vita (intendendo con la parola vita quelle prove, incontri ed eventi che compongono l’esperienza d’ognuno), la mia vita s’arresta al giorno che mi vide, bambina di dieci anni, entrar qui per la prima volta55.

In tal modo, il mio interesse per il fantastico esercizio raddoppiò, e la mia stramba epopea (la quale come certi romanzi pubblicati a dispense, non giungeva mai a conclusione), la mia stramba epopea, dico, m’avvinse al punto che la sera, addormentandomi, io smaniavo di giunger presto alla mattina, per riprendere il filo dell’avventura interrotta56.

In breve, gli incontri più casuali, i più insignificanti colloqui, diventavano per me eventi drammatici. Fu così che si sviluppò nel mio cuore una costante paura dei miei simili: o meglio, non precisamente di loro stessi, ma delle mie proprie passioni per loro, e della vendetta ch’essi prenderebbero su di me per queste mie passioni57.

In questa cameretta io ho consumato, quasi sepolta, la maggior parte del tempo che ho vissuto in questa casa. In compagnia dei miei libri e di me stessa, come un monaco meditativo […]. Ma non si deve credere, perciò, che questa camera solitaria sia stata il rifugio d’una santa: piuttosto d’una strega58.

Il male velenoso della menzogna serpeggia per i rami della mia famiglia, sia paterna che materna. […] Tuttavia, se ricerco fra i miei ascendenti toccati da un simile contagio, m’avvedo che per solito in loro esso prende una forma benigna. […] Ma anche nei casi più seri, e perfino in quelli mortali, il malato, in fondo alla propria coscienza, non cessa dallo stimar la menzogna un surrogato della realtà59.

[…] Vi troverai numerose vite di santi: nelle quali, però, sebbene io mio pretenda devota, ciò che mi piace non è la testimonianza del potere divino […]. No, quel che mi piace, mio malgrado, in esse, è una sorta di nefasta illusione che mi vince durante la lettura […]60.

Come spiegato da Rosa, «in Menzogna e sortilegio ogni espressione, verbale e non, è sempre ricondotta entro il dominio diegetico della voce molteplice di Elisa: solo la scrittura della fedele segretaria può riportare chiarezza nel magma vischioso dei ricordi familiari e disperderne lo splendore nefasto»61, operazione resa necessaria dalla natura del «parlare poetico» di questa «stramba epopea», «sentito come uno strumento adatto alla sincerità ma anche alla finzione, inventato e fatto apposta per dirsi e dire la verità ma anche per camuffarla, declamarla, ingannarla»62. L’io narrante, dunque, assume connotati tirannici e onnivori, rendendo propria ogni maschera63 pur di cancellarle tutte: nel costante tentativo di sopraffazione psicologica dell’altro «i dialoghi veri e propri» fra i personaggi «spiccano per la loro assenza»64 e il monologo – specialmente laddove, come in questo caso, l’analisi si fa più profonda – si fa a sua volta serrato e imperioso, nonché teatralissimo. Nonostante i continui rimandi narrativi alla dimensione letteraria – tra cui passaggi come «e sebbene voi dobbiate aspettarvi, o lettori, di conoscere attraverso questo libro più d’un personaggio contagiato dal morbo fantastico, sappiate che il malato più grave di tutti lo avete già conosciuto. Esso non è altri se non colei che qui scrive» –, Elisa presto – e con una paradossale giustapposizione di parti – si comporta come se davanti a un pubblico65 in una dimensione orale66, pubblico cui ci si rivolge persino col tu67 e con esclamative ricchissime di pathos:

Ma farsi adoratori e monaci della menzogna! fare di questa la propria meditazione, la propria sapienza! rifiutare ogni prova, e non solo quelle dolorose, ma fin le occasioni di felicità, non riconoscendo nessuna felicità possibile fuori del non-vero! ed ecco perché mi vedete consunta e magra al pari dei ragazzetti mangiati dalle streghe del villaggio. Essi dalle streghe, e io dalle favole, pazze e ribalde fattucchiere68.

Ancora, nello smascherare la persistenza ossessiva di determinati comportamenti – anche e forse in particolar modo propri, e in tal senso cruciale è la costante anafora del pronome «io» – l’imperfetto di aspetto continuo è onnipresente: «una parola sgarbata bastava a farmi piangere, una piccola offesa mi feriva come un grave oltraggio; e potevo anche ammalarmi, se maltrattata»69; «se mi trovavo in società, le voci dei circostanti mi giungevano come echi»70; «io mi compiacevo di architettare, nella mia fantasia, vicende e storie di mia propria fattura»71; «io non comunicavo a nessun vivente le mie fantasie, che anzi ricevevano il loro maggior incanto, e veleno, proprio dall’esser segrete»72; «io vedevo le mie maschere combattere e amarsi dinnanzi a me, rimiravo le loro bellezze, ascoltavo le lor voci modulate, mi deliziavo al loro grazioso incesso»73. Analogo valore di “assolutezza continua” hanno però anche i presenti – «nello stesso tempo che io la consumo, consumo me stessa»74, «io covo acerbo disdegno verso la mia nullità»75 –, sicché «sono le scene singolative ad essere subordinate alle sequenze iterative, non viceversa; è la cornice, non il quadro ad avere maggior importanza. I singoli episodi assumono rilievo non perché messi in primo piano, ma al contrario perché nella rifrangenza ostentata corroborano la regola di ricorrenza che li racchiude e che offusca lo sviluppo narrativo»76. A riprova di ciò, un caso particolare: nella regola generale che, nell’usus scribendi di Menzogna e sortilegio e per i motivi suddetti, vede gli avverbi frequentativi – e soprattutto iterativi – accompagnati esclusivamente dall’imperfetto77, nel capitolo è presente la sua unica eccezione, ovverosia il passo

se talora m’accadde, trovandomi in qualche ricevimento o ritrovo, di partecipare alla conversazione comune e, dimentica di me stessa, abbandonarmi un poco agli svaghi, agli interessi del mondo, ecco uno dei miei gelosi fantasmi apparirmi sulla porta78.

che «mette proprio in evidenza […] la singolarità del fatto su cui pone l’accento», e consapevolmente, «la narratrice»79, una narratrice voyant, tirannica e teatrale, personaggio a sua volta80, e che necessita dunque di un palcoscenico su cui muoversi, e di un genere drammatico entro cui recitare i propri monologhi. Senz’altro – come evidente anche solo con la lettura di questo capitolo – a far parte di questo genere v’è il melodramma81 di modello metastasiano82, vero e proprio modello linguistico dell’opera con il suo lessico e il suo costante uso di elisioni e troncamenti: sotto il velame dei versi settecenteschi, però, c’è qualcosa di ben più problematico.

3. Un melodramma, un Kammerspiel, una tragedia, una stramba epopea

La descrizione su cui ci si è concentrati all’inizio del precedente paragrafo ha anche un merito ulteriore: quello di tematizzare da subito e con forza l’ambientazione da cui Elisa scrive, da cui la «Tule irraggiungibile, fatta solo di memoria» che fa da sfondo alle vicende narrate viene evocata, la «cameretta». Non si tratta di un luogo qualunque, e per due ragioni. Immediatamente e ossessivamente rimarcata come silenziosa, buia e isolata – «quest’uscio, e la tenda pesante del mio minuscolo vestibolo attutiscono alquanto ai miei orecchi i rumori delle altre stanze»83, «il sole non entra mai, per nessuna ora o stagione»84, «io sono, in breve, sola. […] Dalle stanze vicine mi arrivano echi attutiti; ma anche simili voci non contano: intorno a me c’è silenzio»85 –, una camera di tal fatta è non solo il luogo generalmente deputato all’incontro con gli spiriti dei defunti86 – sia ciò tramite loro sogno o evocazione – o di riposo dei convalescenti, ma anche di ciò che v’è al mezzo: per un’ammalata di menzogna, l’evocazione dei morti che abitano «le lettere miniate», vale a dire la creazione letteraria. Del resto, come spiegato da Manganelli, la letteratura «sta dalla parte della morte, abbagliante ingiustizia», e scriverla

non è un gesto sociale. […] Non di rado, come il discorso dei dementi87, presuppone l’assenza dei lettori. Di conseguenza, lo scrittore fatica a tenere il passo con gli eventi […]. Assai imperfetto è il suo colloquio con i contemporanei. È un fulmine tardivo, i suoi discorsi sono inintelligibili a molti, a lui stesso. Allude ad eventi accaduti tra due secoli, che accadranno tre generazioni fa88.

Non a caso, Michele Mari – linguisticamente cannibale come pochi89 – commenterà il Discorso sulle difficoltà di comunicare coi morti dicendo:

Il programma del «malinconioso itinerario» nel regno dei morti coincide dunque con una dichiarazione di poetica. Se i morti non parlano, se sono più muti delle mummie di Ruysch, partecipare linguisticamente della loro esperienza sarà possibile soltanto «colonizzandoli» («…qualcuno lanciò una parola d’ordine tra folle ed empia: “Colonizziamo i morti!”»), cioè retoricamente inventarli, disporli, elocuterli90.

Sarà dunque esclamando petrarchescamente «o cameretta, che già fosti un porto»91 – conscio della tradizionale natura di questa stanza come luogo autoriale di colonizzazione dell’oltretomba più o meno letterario92 – che aprirà, in Dalla cripta (2019), le Altre rime di un poeta che pure per la sua Atleide dirà «uno struggimento di secondo grado giunge dall’assoluta inutilità dell’intera operazione, id est (a ben vedere) dalla scientifica pervicacia con cui l’autore, pel tramite d’essa, dissipava la propria vita o meglio non viveva»93. Anche l’io-autrice di Menzogna e sortilegio, però, coerentemente con l’orizzonte appena tracciato e come riportato nel sottotitolo del primissimo capitolo, è una «sepolta viva»94, completamente aliena dagli «interessi del mondo», e in generale, come notato da Mengaldo, «la Morante è una descrittrice molto più di interni […] che di esterni […]: gli interni, cioè i luoghi più adatti a suggerire atmosfere soffocanti, e a immergere in ambienti chiusi, in realtà come in prigioni, gli infelici personaggi»95. Anzi, di tutti questi «infelici personaggi» – che, si ricordi, sono a tutti gli effetti spettri –, scrive invece la Da Rin, «viene ritratta la stanza, spazio che riassume bene il senso di chiusura, una specie di microcosmo circoscritto, senza uscita, che permea l’intero MS»96. Conclude la De Rogatis: «sempre in linea con questa traduzione in area architettonica di un mondo liminale, distorto, allucinato, è la stanza vera e propria di Concetta, alle cui pareti pendono ovunque, in successione interminabile ma cronologicamente discontinua, innumerevoli ritratti di Edoardo»97; lì, soprattutto, «le due donne entrano l’una dentro l’altra, si sdoppiano nella gemellarità reciproca del ‘duplice mostro d’amore’, nella chimera della resurrezione di Edoardo»98.
Questa la seconda e ultima ragione dell’importanza della cameretta: se la storia della famiglia di Elisa è niente più che un «dramma borghese», e se Menzogna e sortilegio traduce in romanzo un’epoca «in cui s’inaugurarono i sogni collettivi, e le illusioni furono fatte credere», una fantasmatica «belle-époque stravolta, sventrata»99, il dramma della genealogia di Elisa assume a tutti gli effetti i contorni di un Kammerspiel che – per definizione – evoca gli spettri piscologici delle vicende di una famiglia borghese vincolandoli strettamente all’unità di luogo di una camera claustrofobica e a dialoghi scheletrici. Nel riconoscimento di questa radice sta il segreto dell’opera. I suoi personaggi vorranno pure con insistenza che la memoria li trasformi in protagonisti di una leggenda100, che il morbo della narratrice li trasmuti – «o impareggiabile prosapia!»101 – in «re, condottieri, profeti, e gente, insomma, d’altissimo rango»102, in «nomi titolati», in «orgoglioso ceto»103, coerentemente con la definizione aristotelica della tragedia, il genere che «si propone di rappresentare persone […] migliori che nella realtà»104: il controllo di chi li mette in scena e di chi li osserva sta nel riconoscerne il reale statuto, infrangerne il sortilegio e a quel punto, comprese le sue parti, riservarsi «lo spazio per una sorta di controcanto spudoratamente equivoco: il coinvolgimento partecipe» che «si intreccia all’onniscienza sovrana, per modularsi su toni critici, mai disgiunti dall’indulgenza complice. […] Lo sguardo materno di chi, contemplando le sue creature più care, nulla perdona e tutto giustifica»105, scegliendo, stavolta volontariamente e responsabilmente – e nel caso della Morante sempre consapevolmente106 –, di non infrangere l’ordigno del sogno.


  1. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, Torino, Einaudi, 2014, p. VI.
  2. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, in «Lingua e stile», XLIII, 2008, p. 245.
  3. P. V. Mengaldo, Spunti per un’analisi linguistica dei romanzi di Elsa Morante, in «Studi novecenteschi», XXI/47-48, 1994, p. 18.
  4. Cfr. G. Rosa, Elsa Morante, Bologna, il Mulino, 2013, p. 23.
  5. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. V.
  6. G. Rosa, Elsa Morante, cit., pp. 13-15.
  7. Cfr. A. Tricomi, Orfani di legge. Elsa Morante e la psicoanalisi, in Letteratura e psicanalisi in Italia, a cura di G. Alfano e S. Carrai, Roma, Carocci, 2019, pp. 149-166.
  8. Ivi, pp. 16-17.
  9. Cfr. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 7.
  10. Cfr. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., pp. 245-248.
  11. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 18.
  12. E. Morante, Diario 1938, a cura di A. Andreini, Torino, Einaudi, 2022, pp. 21-22, peraltro a conclusione del racconto di un sogno erotico. Si tenga presente, inoltre, un passo successivo dell’opera, datato 22 aprile 1938: «Fatto strano e misterioso, sognare così spesso delle cattedrali. Grandi cattedrali, e grandi piazze […]» (ivi, p. 61).
  13. Cfr. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 99.
  14. Ivi, p. 95.
  15. Ivi, p. 19.
  16. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 21.
  17. Ivi, p. 29.
  18. Ivi, p. 7.
  19. E difatti, nell’inserto poetico successivo, Ai personaggi – che chiude l’introduzione del romanzo per alzare il sipario sulla compagnia di spiriti che ne recita le vicende –, si dirà: «Altro io non sono che pronuba ape / fra voi, fiori straordinari e occulti. / Ma sulle effimere mie elitre / pur vaga una traccia rimane / del vostro polline celeste. / E il vostro miele / è tutto mio!» (ivi, p. 31).
  20. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 25.
  21. T. De Rogatis, Realismo stregato e genealogia femminile in Menzogna e sortilegio, in «Allegoria», XXXI/80, 2019, p. 108.
  22. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 27.
  23. T. De Rogatis, Realismo stregato e genealogia femminile in Menzogna e sortilegio, cit., p. 108.
  24. Ibidem.
  25. G. Manganelli, Dialogo sulla difficoltà di comunicare coi morti, in Id., Agli dèi ulteriori, Milano, Adelphi, 1989, p. 157.
  26. Ivi, p. 138.
  27. G. Manganelli, La letteratura come menzogna, in Id., La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1985, p. 217.
  28. Cfr. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 22 («io covo un acerbo disdegno verso la mia nullità, e proprio la mia convinzione d’esser nulla m’incoraggia a saziarmi dei trionfi altrui»).
  29. G. Manganelli, Dialogo sulla difficoltà di comunicare coi morti, in Id., Agli dèi ulteriori, cit., p. 138.
  30. Cfr. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. XVII.
  31. Ivi, pp. XXI-XXII.
  32. Ivi, p. XXI.
  33. G. Manganelli, Dialogo sulla difficoltà di comunicare coi morti, in Id., Agli dèi ulteriori, cit., p. 138.
  34. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 31.
  35. Ivi, p. 30.
  36. Si noti però come il concetto «tirannia della leggenda» sia anche più complesso, e problematico alla radice: prima che gli spettri familiari si vendichino della “presunzione mitopoietica” della protagonista compiendo una paradossale vendetta «della ragione e della realtà sulla stolida Elisa», difatti, quest’ultima ammetterà in un ulteriore ribaltamento che «pur credendo in esse» – ovvero le maschere mitiche – «e professandomi ipocritamente lor suddita e fedele, io mi presumevo la loro imperatrice, e quasi la loro dea, né dubitavo di stringere fra le mie dita il filo delle loro vite arroganti» (E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 24).
  37. Cfr. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., p. 290.
  38. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 16.
  39. Cfr. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., pp. 261-262.
  40. Cfr. P.V. Mengaldo, Spunti per un’analisi linguistica dei romanzi di Elsa Morante, cit., p. 19.
  41. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 16.
  42. Ivi, p. 24.
  43. Ivi, p. 16.
  44. Ivi, p. 17.
  45. Ibidem.
  46. Ivi, p. 19.
  47. Ivi, p. 20. Si noti inoltre come all’analogia più estesa del capitolo corrisponda, come risarcimento nei confronti del lettore o come presa di respiro e strumento di tensione della narratrice, una coppia di brevi enunciati: «La sorte dei miei genitori, dico, poteva servirmi d’ammonimento. Ma il loro esempio non poté nulla contro la nostra disposizione nativa». Meccanismo retorico simile è peraltro ravvisabile anche poco più avanti: «Chi m’avesse veduta immobile per intere giornate, gli occhi spalancati e sognanti, m’avrebbe potuta credere immersa in qualche celeste meditazione; e invece, come un bevitore maniaco, io giravo nella macchinosa tregenda delle mie bugie. Bugie per qualsiasi cervello assennato; ma non per quello d’Elisa» (ivi, p. 23).
  48. Ivi, p. 20.
  49. Ivi, p. 17.
  50. Ivi, p. 18.
  51. Ibidem.
  52. Ivi, p. 19.
  53. Cfr. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 41.
  54. P.V. Mengaldo, «Menzogna e sortilegio», in La tradizione del Novecento, Roma, Carocci, 2017, p. 268.
  55. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 17.
  56. Ivi, p. 23.
  57. Ivi, p. 19.
  58. Ivi, p. 17.
  59. Ivi, p. 21.
  60. Ivi, p. 22.
  61. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 43.
  62. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Alibi, Torino, Einaudi, 2012, p. XIII.
  63. Sicché le maschere, varie volte menzionate lungo il capitolo – cinque le occorrenze totali, rispettivamente alle pp. 19, 20, 23 e 24 –, sono chiamate infine, nella sua ultima pagina, «mie maschere» (E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 25).
  64. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., p. 264.
  65. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 21 («ecco perché mi vedete consunta e magra»).
  66. Cfr. infra, note 46, 55.
  67. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 22 («vi troverai numerose vite di santi»).
  68. Ivi, p. 21.
  69. Ivi, p. 19.
  70. Ivi, p. 20.
  71. Ivi, p. 22.
  72. Ivi, p. 23.
  73. Ivi, p. 24.
  74. Ivi, p. 18.
  75. Ivi, p. 22.
  76. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 39. Cfr., a riguardo e parlando degli Elisir del diavolo di Hoffmann, G. Manganelli, La letteratura come menzogna, in Id., La letteratura come menzogna, cit., p. 79 («La duplicazione, poi, estendendosi, come accade in questo racconto, dai personaggi agli eventi, per cui ciascun destino pare tendere alla imitazione di un comune destino platonico, elimina ogni qualità propriamente narrativa; Hoffmann risolve così uno dei problemi cruciali del narratore, come descrivere eventi privandoli insieme di ogni qualità effettuale, riducendoli a segni»).
  77. Cfr. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., p. 272.
  78. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 24.
  79. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., p. 272.
  80. Tanto da portarla spesso, nei momenti più concitati, a parlare di sé in terza persona (cfr. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., pp. 21, 23-24).
  81. Cfr. P.V. Mengaldo, «Menzogna e sortilegio», in La tradizione del Novecento, cit., p. 267 («si potrà dire che il terreno di cultura dell’opera non è tanto romanzesco quanto melodrammatico, con centro in Mozart»).
  82. E riguardo la poesia con cui l’opera si apre, e la sua evidente intertestualità con il sonetto Sogni e favole fingo, e pure in carte, si tenga presente C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Alibi, cit., pp. XVIII-XIX.
  83. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 16.
  84. Ibidem.
  85. Ivi, p. 17.
  86. Cfr. G. Manganelli, Dialogo sulla difficoltà di comunicare coi morti, in Id., Agli dèi ulteriori, cit., pp. 144-145 («io, riandando nella mente certe antiche storie, m’immaginai fosse il loro mondo a noi vicinissimo, ma racchiuso in luogo angusto […]. Quello, dunque, è il recapito dei morti? Ed erano i defunti così esigui da capir tutti in quella breve stanza?»).
  87. Cfr. infra, note 46, 64-67.
  88. G. Manganelli, La letteratura come menzogna, in Id., La letteratura come menzogna, cit., p. 219.
  89. Cfr. C. Tirinanzi De Medici, Il romanzo italiano contemporaneo. Dalla fine degli anni Settanta a oggi, Roma, Carocci, 2018, pp. 156-161.
  90. M. Mari, Evoluzione del Discorso sopra la difficoltà di comunicare coi morti di Giorgio Manganelli, in «Studi novecenteschi», XXII/49, 1995, p. 196.
  91. Id., Dalla cripta, Torino, Einaudi, 2019, p. 23.
  92. Cfr. gli incipit di ivi, 30-31.
  93. Ivi, p. 72.
  94. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 11.
  95. P.V. Mengaldo, «Menzogna e sortilegio», in La tradizione del Novecento, cit., p. 266.
  96. A. Da Rin, Tempo, modo e voce in Menzogna e sortilegio di Elsa Morante, cit., p. 263.
  97. T. De Rogatis, Realismo stregato e genealogia femminile in Menzogna e sortilegio, cit., p. 114.
  98. Ivi, p. 117.
  99. C. Garboli, Introduzione a E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. XII.
  100. E. Morante, Menzogna e sortilegio, cit., p. 18.
  101. Ivi, p. 23.
  102. Ivi, p. 22.
  103. Ivi, p. 24.
  104. Aristotele, Poetica, a cura di D. Lanza, Milano, Rizzoli, 2018, p. 123. Si noti però anche un ulteriore dettaglio, e cioè che nel suo seguire le vicende di ben tre generazioni lungo l’arco di decenni non è casuale che la storia della famiglia di Elisa sia descritta anche come «stramba epopea», dal momento che «l’epica si conforma dunque alla tragedia […]; in ciò invece differisce: […] per la durata: l’una cerca quanto più può di essere compresa in una sola giornata o di eccederne poco, l’epica è invece indefinita per il tempo», per quanto – rompendo ogni contraddizione – «dapprincipio tuttavia sotto questo aspetto nelle tragedia si faceva lo stesso che nei canti epici» (ivi, p. 133).
  105. G. Rosa, Elsa Morante, cit., p. 30.
  106. Sarebbe necessario, riguardo questa consapevolezza, aprire una corposa parentesi su come la Morante faccia assoluto tesoro in tutta la propria produzione del magistero nietzschiano sul tragico. Tuttavia, esulando dal romanzo in esame, si rimanderanno queste considerazioni a uno studio successivo, nel quale potranno godere dello spazio adeguato. Basti, per ora, sottolineare l’importanza per l’architettura ideologica de La Storia, ma anche per Aracoeli (cfr. E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi, 1997, pp. 117, 119), che pure risentono dell’idea aristotelica di intrinseca tragicità della sventura degli innocenti (cfr. Aristotele, Poetica, cit., pp. 157, 159), di passi de La nascita della tragedia come «L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno […]. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo in stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non esser nato, non essere, essere niente. […] Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere egli dove porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977, pp. 31-32).

The unique style of Elsa Morante’s Menzogna e sortilegio has its roots not only in freudian insights, but also, and more importantly, in a deep understanding of the contemporary situation of novel writing, in a deep reflection about literary genres and about what literature – and producing it – means. With the help of Giorgio Manganelli’s arguments about the essence of literature, a linguistic analysis of the second part of the novel’s introduction, Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia (S’annuncia il misterioso Alvaro), where the novel’s writing strategies are explained to the reader, helps to highlighting Menzogna and sortilegio’s as a multi-genre novel about writing novels.