Il giovane Dostoevskij I. Povera gente

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1. Il revival del romanzo epistolare

L’opera prima di Dostoevskij, Povera gente (1846) germina verosimilmente attorno a un primo nucleo in forma di diario condotto da un’eroina che rappresenta la variante sociale degradata dell’Eugénie Grandet di Balzac (il cui romanzo eponimo era apparso in russo nel 1844, tradotto dallo stesso Dostoevskij). Il tasso di critica nei confronti della disuguaglianza sociale e della subordinazione della donna s’innalza sotto l’influenza di George Sand, del cui Teverino – contraddistinto da un pauperismo addirittura enfatico – Dostoevskij scrive entusiasta che «nel nostro secolo non c’è stato ancora niente di simile. Questi sì che sono gli esempi»1; ma se Teverino, uscito in traduzione russa nell’ottobre 1845, non può aver influenzato Povera gente, in André (1834, trad. russa 1844) la Sand offre nella protagonista Geneviève un assai probabile prototipo dell’eroina dostoevskiana: una fanciulla di bassa condizione sociale ma caparbiamente indipendente, che finisce per soccombere ai pregiudizi e ai meccanismi di potere. Alla tale linea narrativa “femminile” influenzata da Balzac e Sand, Fedor Michajlovič affianca poi la vicenda di un impiegato povero, di ascendenza tipicamente gogoliana, e l’iniziale nucleo diaristico rimane come frammento incastonato in una struttura più complessa che si va via via articolando2.
Fin dalla sua opera prima, Dostoevskij si mostra abile e lucidissimo nel miscelare elementi eterogenei a tutti i livelli del testo e nel formulare un genere nuovo incrociando vie letterarie abbandonate o interrotte. Verso metà Ottocento, infatti, il genere di Povera gente – il romanzo epistolare – è percepito come arcaico, caratteristico di una fase dell’evoluzione letteraria che va dagli anni Venti agli anni Ottanta del secolo precedente, ossia dalla critica razionalistica delle Lettere persiane di Montesquieu alle inquietudini libertine di Choderlos de Laclos, passando per gli epistolari moraleggianti di Richardson, didattico-pedagogici di Rousseau e per il sentimentalismo del Werther goethiano. Riproporre il romanzo epistolare dopo Balzac, Hugo, Scott suscita un forte effetto straniante, anche se proprio la Sand aveva mostrato con l’assai prolisso Jacques (1834; trad. russa 1844) quanto il genere avesse le potenzialità per esprimere istanze affatto moderne: nel suo caso, la crisi dei modelli virili e la denuncia della subordinazione della donna all’interno dell’istituto familiare.
Se il genere scelto spicca per il carattere desueto, il soggetto dell’opera appare tradizionale fino allo stereotipo: la storia di due innamorati infelici, che parte a intreccio già avviato per diramarsi e chiarificarsi poco a poco fino alla catastrofe finale, anche grazie agli appunti memorialistici di lei, incapsulati nel flusso epistolare per gettar luce sull’antefatto. Quanto alla scelta di un “impiegato povero” come eroe centrale, essa era divenuta rapidamente mainstream sull’abbrivio dato da Gogol’, grazie agli autori di quella “scuola naturale” che allo stile del Cappotto sommavano gli elementi di analisi sociale della coeva letteratura francese: in opere oggi dimenticate di seconde e terze file della “scuola naturale”, la letteratura russa ha assistito a una vera e propria parata impiegatizia sostanziata da eroi di tutte le risme – dal più meschino dei passacarte al più olimpico dei funzionari – alle prese con le vicissitudini più varie3. Ma se a ogni singolo elemento della trama di Povera gente si possono trovare antecedenti immediati nell’ampia cerchia di opere dedicate al mondo delle cancellerie, il loro incrocio con la cornice narrativa convenzionale della trama amorosa e l’arcaico genere epistolare permette risultati di grande originalità.
Filtrata attraverso la coscienza degli eroi che scrivono di sé, la realtà ci appare frammentaria, decostruita in sprazzi travisati dall’interpretazione che ne danno i due narratori, e che il lettore è chiamato a “ricostruire” nei suoi effettivi nessi: in Povera gente «le persone non dicono le cose, ma se le lasciano sfuggire», – nota già Viktor Šklovskij. – «Il carattere schematico della storia è superato dal fatto che essa viene data nella formulazione di una persona che ha un’idea imprecisa dei reali rapporti fra i personaggi»4. Il meschino e non più giovane Devuškin si atteggia a protettore “paterno” di Varen’ka, ma la ama di un amore impossibile, grottesco agli occhi del prossimo e per lui fatale5; quanto alle sue reali condizioni economiche e abitative, esse ci appaiono tanto più disperate quanto egli tenta maldestramente di dissimularle (a poco a poco la sua stanza ammobiliata risulta essere un angolo della cucina comune munito di paraventi); in guisa non dissimile, attraverso le allusioni dell’ingenua e inconsapevole Varen’ka si rivela per gradi il meccanismo complessivo di abuso sessuale seriale che il ricco signor Bykov perpetra da sempre con l’ausilio della mezzana Anna Fedorovna: ne è stata vittima la madre dello studente Pokrovskij, lo è la stessa Varen’ka, lo sarà la sua cugina minore Saša, e a farne fede è il suo stesso cognome, da byk, “toro”, il primo personaggio “rapace” di Dostoevskij, prototipo del principe Valkovskij, Svidrigajlov, Stavrogin, Fedor Karamazov.
Per la gran parte occulti alla coscienza dei protagonisti, i meccanismi del mondo reale marciano ben oliati e frantumano senza scampo le speranze e i sogni che germinano nelle coscienze di questi; anche quando la macchina mortifera pare incepparsi e lasciare che si apra uno spiraglio, questo subito si richiude e la vita torna sui binari consueti: i cento rubli che “sua eccellenza”, impietosito, dona a Devuškin (in quella che è la prima delle tante scene catastrofiche in pubblico della narrativa dostoevskiana) alleggeriscono la sua sorte solo per poco; il povero ex impiegato Gorškov accoglie con gioia e sollievo la notizia inopinata di aver vinto la causa relativa al suo licenziamento, si corica e muore; tornato in apparenza per riparare al disonore inflitto a Varen’ka, Bykov è per i due protagonisti ciò che il Fato era nella tragedia antica, e farà di lei ciò che vorrà. In una formula, «si può raffigurare tutta la narrazione degli eventi in forma di una linea che – pur nel suo dipanarsi a zigzag – va sempre più sprofondando»6.

2. La «rivoluzione copernicana»

Eppure, se pure nel mondo dei rapporti reali i personaggi sono destinati a soccombere, il romanzo si sviluppa anche su un secondo livello. Dostoevskij ha già capito che lo stile gogoliano (o skaz), privato del sostrato metafisico che lo ha generato, minaccia in ogni momento di ripiegare sulla pantomima burlesca fine a se stessa o di ridursi a elemento subalterno in complessi stilistici eclettici, dominati dal descrittivismo “fisiologico”: un «grasso sugo letterario» composto da intrecci scurrili tanto nella trama quanto nelle singole gags, da personaggi ridotti a maschere ottenute tramite il mero accumulo di dettagli comici7. Il lavoro degli altri “post-gogoliani” gli pare infatti condotto a maglie troppo larghe: «Le vecchie scuole stanno scomparendo». – scrive al fratello Michail nel marzo 1845, a romanzo ormai quasi ultimato. – «Le nuove fanno scarabocchi, non letteratura. Il talento scompare tutto in un sol gesto, in cui s’intravede un’idea enorme e imperfetta e la forza dei muscoli di quel gesto, ma il risultato è minimo»8.
E dunque, secondo il giovane debuttante, nei prosatori contemporanei l’enorme idea dell’indagine sociale e la forza del gesto stilistico gogoliano vengono giustapposte meccanicamente: fra idea e gesto manca un termine medio di raccordo, ossia la costruzione di soggettività. Già nel tradurre Eugénie Grandet, Dostoevskij si era mostrato “infedele” alla poetica del naturalismo quotidiano di Balzac tentando di approfondire l’analisi psicologica dei personaggi e di rafforzarne la carica emotiva9. Quanto a Gogol’, i problemi riguardano soprattutto il suo stile, del tutto inadatto a fissare i processi di autodefinizione interiore dell’individuo:

Il mosaico verbale del discorso colloquiale che Gogol’ sapeva creare con somma perizia e che più di ogni altra cosa colpiva i contemporanei e spingeva all’imitazione, non era adatta a “toccanti” esternazioni dell’animo, ad esprimere i sentimenti elevati di un “cuore chiacchierone”.

Lo skaz gogoliano poteva illustrare pose grottesche, anomalie logiche, automatismi assurdi, sequenze dettate dal frantumarsi incoerente di dettagli casuali, esasperando il tutto con un colorito iperbolico (enfatico, patetico o impostato sul tono gergale-familiare): tutto, dunque, ma non introspezione. È proprio per psicologizzare lo skaz gogoliano, per forzarlo ad esprimere «in una nettezza da filigrana la rifinitura analitica dei dettagli non solo della realtà esteriore, ma anche delle vibrazioni psichiche», che Dostoevskij ritiene necessario “incrociarlo” con una forma narrativa epistolare mai usata da Gogol’10.
Il rovesciamento della gerarchia non potrebbe essere più radicale. Fino ad ora, nelle opere del “testo pietroburghese” – dal Cavaliere di bronzo al Cappotto – il “piccolo uomo” poteva bensì essere oggetto di empatia e commiserazione, ma sempre in qualità di variabile secondaria in un complesso di fattori che lo trascendevano di molte misure, e di cui la Città voluta da Pietro era la concrezione simbolica: in Puškin i destini dell’Impero e della stessa civilizzazione russa, in Gogol’ la perdita del fondamento ontologico e il disgregarsi della modernità in fantasmagoria verso un prossimo ma imponderabile futuro escatologico. Fino a Dostoevskij «nella sontuosa Pietroburgo l’impiegato era simile alla figuretta che si disegna alla base di un progetto architettonico per suggerire la scala», ma adesso, «perché la scelta cadesse sul genere del romanzo epistolare ci voleva interesse per l’eroe, per la sua psicologia, l’analisi dei suoi pensieri, e non delle avventure»11: nella cornice epistolare libera da una trama troppo articolata, sugli eventi rarefatti e minuti «si riverberano in rapida successione le emozioni e i ragionamenti “morali”» dei personaggi12. L’“impiegato povero” soccombe, né potrebbe essere altrimenti nell’ottica della “scuola naturale”, ma la sua tragedia occupa il centro della scena, è l’elemento selettivo e connettivo che organizza la porzione di mondo reale che – attraverso la coscienza dell’eroe – ci è dato vedere: in ciò consiste quella «rivoluzione copernicana» che Michail Bachtin rilevava nella poetica del primo Dostoevskij, ossia «raffigurare non l’“impiegato povero”, ma l’autocoscienza dell’impiegato povero […] la nostra visione artistica si trova di fronte non più alla realtà del personaggio, ma alla pura funzione della presa di coscienza di questa realtà da parte di lui»13.

3. La lotta per lo “stile”

E ancora, l’autocoscienza dell’eroe viene mostrata in continua evoluzione, contrariamente agli standard del genere prescelto: «Di solito nei romanzi epistolari si dà un eroe immutabile», – nota ancora Viktor Šklovskij. – «In Povera gente l’immagine di Devuškin viene svelata un poco alla volta»; l’evoluzione dell’autocoscienza dell’eroe si manifesta come evoluzione del suo stile espressivo, che – da un iniziale balbettio pseudo-impiegatizio simile a quello degli eroi di Gogol’ – si fa via via più strutturato e versatile14. Non è un caso che Dostoevskij, nel confezionare il proprio eroe, “corregga” ed arricchisca la caratterologia “unidimensionale” dei personaggi di Gogol’ prendendo a modello il Maksim Maksimyč del lermontoviano Un eroe del nostro tempo: già l’atteggiamento di Makar Devuškin nei confronti di Varen’ka – sospeso fra paternalismo protettivo e una carica erotica blanda e dissimulata – è plasmato su quello dell’attempato capitano nei confronti di Bela “prigioniera” di Pečerin. Ma il modello è anche e soprattutto stilistico: la narrazione degli eventi affidata a Maksim Maksimyč oscilla infatti su un diapason assai ampio, dal linguaggio naturalistico, “fisiologico” proprio del militare semiilletterato, fino a costrutti complessi e analitici, vicini allo stile colto dello stesso Lermontov15. Un proteismo stilistico che Dostoevskij mutua e sviluppa ulteriormente: se Maksim Maksimyč funge da mero raccordo strutturale statico fra livelli stilistici differenti, Makar Devuškin imprime al proprio stile una dinamica evolutiva precisa e riconoscibile man mano che il testo si dipana.
Del resto, il povero impiegato è anche l’unico dei due eroi ad attribuire un valore intrinseco alla comunicazione epistolare: la sua corrispondente preferirebbe infatti incontrarlo di persona, e gli rivolge frequenti inviti a venire in visita: Var’enka si trova così in «una condizione passiva dal punto di vista comunicativo»16. Le sue lettere presentano una marcata uniformità stilistica composta e un po’ leziosa, la cui discendenza dallo stile della Povera Lisa di Karamzin, dalla lirica di Žukovskij e da altri monumenti del sentimentalismo di fine Settecento e inizio Ottocento traspare soprattutto nelle articolate metafore a forte concentrazione lirica. Benché le lettere di Varen’ka occupino meno di un terzo del volume complessivo della corrispondenza, la loro medietas stilistica ne fa la base “neutra” sul cui sfondo acquista risalto l’assai dinamica evoluzione del linguaggio di Devuškin, che spicca inizialmente per la propria inadeguatezza: «È come se le parole non si adattassero ai sentimenti che esprimono, e ciò fa percepire con più forza l’umiliazione dell’eroe. La forma dell’opera mostra una frattura fra l’umanità del piccolo uomo e il suo balbettio da schiavo»17. Lo stesso eroe ne è consapevole: «Non ho stile, Varen’ka, non ho stile per nulla, magari ce ne fosse uno purchessia», egli ammette fin da subito, dando inizio a una genealogia di narratori dostoevskiani goffi ed esitanti18; e nondimeno, dibattendosi fra pleonasmi, reticenze, diminutivi e solecismi, «gradualmente […] il suo stile si va formando», – constata Viktor Vinogradov già nel 1924: – «tanto la composizione lessicale delle sue lettere quanto la loro organizzazione sintattica si fanno più complesse, variegate»19.
Nel 1957, nel quadro di una polemica contro il concetto dogmatico di “realismo” in vigore nel periodo staliniano, Vinogradov riprende lo schema tracciato trentatre anni prima riguardo all’evoluzione stilistica di Devuškin e lo articola in una struttura “concentrica”, dove il realismo del primo Dostoevskij è visto come «una complessa struttura di relazioni soggettive che è necessario dipanare da un punto di vista stilistico». Per caratterizzare il protagonista in quanto mero derivato di un sistema socio-culturale, Dostoevskij ha infatti elaborato uno “sfondo linguistico” standard: «l’oralità quotidiana di città, i gerghi cancellieresco-impiegatizi, tipi diversi di linguaggio libresco trasferiti in una cerchia sociale di bassa cultura»; ma se tanto sarebbe bastato a Gogol’ e ai suoi epigoni della “scuola naturale”, la fisionomia espressiva di Devuškin – e dunque la sua interiorità, oggetto di espressione – non si limita a questa base comunicativa socialmente determinata e composta da «segnali stilistici convenzionali»: nelle forme in cui l’eroe viene individualizzato da un punto di vista linguistico, Dostoevskij «apre una via d’uscita dai confini del condizionamento da parte della quotidianità sociale. Tale individualizzazione dell’immagine si crea tramite forme stilistiche “personali” che esprimono la soggettività», ovvero tramite «forme caratteriologiche» capaci di riflettere in tutta la loro complessità nodi emotivi, situazioni e nessi relazionali20. Valga ad esempio l’episodio della morte di Gorškov, narrato a Devuškin dalla moglie di questi e da lui riferito a Varen’ka: «d’un tratto la moglie si riscosse per non so che presentimento, e il silenzio tombale nella stanza la colpì in primo luogo. Essa guardò il letto e vide che il marito giaceva sempre nella medesima posizione. Gli si avvicinò, tirò via il lenzuolo […]» – alla descrizione del momento, condotta con laconico oggettivismo e sapiente dosaggio della suspence (costrutti colti dietro cui traspare lo stile autoriale), segue per contrasto una serie di esternazioni soggettive in puro slang devuškiniano – «[…] e quello è già bello freddo: è morto, mammina, Gorškov è morto, è morto d’un tratto, come colpito dal fulmine! E di cosa è morto lo sa Dio […] Che poverello, che meschinetto questo Gorškov. Ah, che sorte, ma che razza di sorte».
La psicologizzazione del personaggio si manifesta come lotta per acquisire uno stile non solo epistolare, ma qualificante nel suo complesso per una personalità che si differenzi dal mero condizionamento del contesto “naturale”, fino a imporsi a quest’ultimo come principio unificante e gerarchizzante. Non a caso, tanta versatilità pluristratificata suscita da subito reazioni perplesse da parte di chi nella lingua dell’“impiegato povero” vede un mero esempio di stilizzazione letteraria: «Siamo certi», – scrive lo slavofilo Konstantin Aksakov in una recensione malevola, – «che l’impiegato Devuškin parlasse, potesse parlare proprio così come nella povest’; ma siamo anche certi che egli non avrebbe mai scritto così: così può scrivere un autore che pone al di fuori di sé il personaggio descritto, che lo ha creato e colto con la propria forza artistica»21; lo stesso Vissarion Belinskij – critico democratico che più di ogni altro ha contribuito al sorgere della “scuola naturale” e, nello specifico, alla scoperta di Dostoevskij – proverà in seguito a “pettinare” lo stile del giovane adepto, invitandolo a «imparare a comunicare con facilità i propri pensieri, a liberarsi da un’esposizione troppo arzigogolata»22. Ma Dostoevskij, caparbio: «Non capiscono come si possa scrivere in quel modo; sono abituati a vedere il muso di chi scrive; io, il mio, non l’ho fatto vedere. E non ci arrivano a capire che a parlare è Devuškin e non io, e che Devuškin non può parlare in altro modo»23.

4. Storia di un fallimento

Se la realtà oggettiva non lascia vie di fuga, a rendere Devuškin capace di acquisire uno stile e, in prospettiva, una personalità autonoma è il suo rapporto con la letteratura, che influisce sull’eroe soprattutto nel continuo confronto col testo, con la parola altrui, nel tentativo di formarsi un proprio stile: non solo stile di scrittura, per diventare a sua volta «narratore» (cosa a cui pure Devuškin ingenuamente ambisce), ma stile come struttura profonda della propria soggettività che infine arriva a riconoscersi e a definirsi. Pungolato dalla più istruita Varen’ka, lo stile di Devuškin “attraversa” tutte le correnti letterarie degli anni Trenta per approdare alla fatidica lettura del Mastro di posta di Puškin e del Cappotto di Gogol’, entrambi prestatigli dall’amica.
Ed è nella diversa reazione dell’eroe a queste due opere che forma letteraria e contenuto della vita entrano in fatale corto circuito, come argomenta Sergej Bočarov in un suo fondamentale studio. Storia di un padre abbandonato dalla figlia che fugge col proprio seduttore, la povest’ di Puškin appare a Devuškin la generalizzazione di uno specifico archetipo di destino («tutta la tua vita è squadernata come sulle dita»): lo stesso eroe verrà ben presto colpito da un destino simile, ma a suscitare la sua profonda adesione emotiva è il significato universalmente umano del Mastro di posta: «la faccenda è semplice», scrive Devuškin, «la faccenda, insomma, è generale». Nella storia del mastro di posta Samson Vyrin, Devuškin trova una parificazione nel dolore e nella solitudine che trascende i ceti sociali, non inchioda il singolo alla sua condizione materiale in una struttura ineluttabile, ma affratella gli uomini lasciando a ognuno di essi la propria dignità, i propri scopi e la propria libertà nel perseguirli:

È naturale! È vivo! L’ho visto anch’io: son tutte cose che vivono attorno a me; […] ecco anche solo il nostro povero impiegato: eppure è forse lo stesso Samson Vyrin, solo che ha un altro cognome, Gorškov […] E un conte che vive sulla Nevskij o sul lungofiume, anche lui sarà lo stesso, e solamente sembrerà un altro, poiché quelli là vivono a modo loro, in tono superiore, ma anche lui sarà lo stesso, tutto può capitargli, e anche a me può capitare lo stesso.

Ma quella disuguaglianza sociale che la povest’ puškiniana pare lenire o addirittura annullare (il conte che vive sulla Prospettiva Nevskij «solamente sembrerà un altro» rispetto a Devuškin e al suo derelitto coinquilino Gorškov) deflagra alla lettura del Cappotto: proprio la necessità di giustificarsi, di rispondere a un attacco personale e deliberato, motiva da cima a fondo la reazione dell’eroe. Se la lettura del testo puškiniano da parte di Devuškin è incentrata su Samson Vyrin, personaggio principale della povest’, percepito come oggettivo e paradigmatico, quella del testo gogoliano si focalizza immediatamente su di «lui», ossia sull’autore, sullo specifico soggetto dal cui punto di vista la vicenda è narrata24.
Devuškin percepisce la realtà empirica non come il proprio ambiente “naturale”, ma come un «loro», un collettivo indistinto e pervasivo dotato di volontà, che gli si contrappone e tendenzialmente lo minaccia: «Ma insomma, ragionate voi stessa, mammina, che succederà quando loro sapranno di noi? Loro cosa penseranno e loro cosa diranno allora?»; «Guardo, e se ne sta lì sua eccellenza, e attorno a lui tutti loro». Quando dall’empiria si passa alla convenzionalità letteraria (il confronto col Cappotto), il loro reale si condensa nel lui autoriale, con cui l’eroe ingaggia la propria lotta disperata: calato (o meglio, rispecchiatosi) nel mondo di Gogol’, Devuškin tenta subito di divincolarsene, ma i suoi strattoni furiosi non conducono né possono condurlo a un “fuori” – tanto empirico quanto letterario – che di per sé neppure esiste, e la sua stessa identità inizia a lacerarsi lungo le fragili linee di sutura. Di acquisizione troppo recente e dalla struttura ancora fragile, lo stile acquisito dall’eroe è inerme sia contro di lui (l’autore del Cappotto) che contro di loro (la sfera dei rapporti reali).
Situato alla metà esatta del testo e della sequenza cronologica delle lettere, il duello di Devuškin con lui/loro indirizza la seconda parte della narrazione verso l’ultima lettera “catastrofica” dell’eroe: l’assenza di data (unico caso nel romanzo) è un evidente richiamo al finale dei gogoliani Appunti di un pazzo, dove le date delle sezioni sono ridotte ad arabeschi privi di concreto referente temporale, dettati dall’ormai completa disgregazione psichica del protagonista. Nonostante l’immediato successo tributatogli, il primo romanzo di Dostoevskij è dunque la storia di un fallimento, poiché dalla realtà “naturale” (= sociale) della Russia di Nicola I non c’è via d’uscita. Makar Devuškin tenta la fuga attraverso lo stile, e si era trova di fronte allo specchio del Cappotto: una soggettività autonoma non può germinare grazie all’arte senza che subito l’annichiliscano i meccanismi oggettivi che le vengono ricodificati ed “eseguiti” in tutta la loro freddezza ineluttabile – dall’arte stessa.


  1. F. Dostoevskij, Lettere, Milano, Il Saggiatore, 2020, p. 154.
  2. Cfr. K. K. Istomin, Iz žizni i tvorčestva Dostoevskogo v molodosti, in N. L. Brodskij, Tvorčeskij put’ Dostoevskogo, Leningrad, Sejatel’, 1924; V. L. Komarovič, Dostoevskij: Sovremennye problemy istoriko-literaturnogo izučenija, Leningrad, Obrazovanie, 1925, pp. 27, 28; A. Bem, Issledovanija. Pis’ma o literature, Moskva, Jazyki slavjanskoj kul’tury, 2001, pp. 71, 72.
  3. Cfr. A. G. Cejtlin, Povesti o bednom činovnike Dostoevskogo (k istorii odnogo sjužeta), Moskva s. ed., 1923, pp. 25, 26; I. Avramec, Poetika novelly Dostoevskogo, Tartu, Kirjastus, 2001, p. 74.
  4. V. B. Šklovskij, Za i protiv: Zametki o Dostoevskom, Moskva, Sovetskij pisatel’, 1957, p. 33.
  5. Gia Konstantin Močul’skij notava nel 1947 che l’amore di un vecchio (o di un anziano) per una ragazza in certi casi anche molto giovane è uno dei motivi più costanti in Dostoevskij: «a un capo sta Devuškin, puro e nobile d’animo, mentre all’altro sta Fedor Karamazov» (K. Mocul’skij, Gogol’. Solov’ev. Dostoevskij, Moskva, Respublika, 1995, p. 262).
  6. N. Trubeckoj, Rannyj Dostoevskij, «Novyj žurnal», n. 1, 1960, p. 127. Cfr. O. A. Bogdanova, F. M. Dostoevskij, in Vidueckaja I. P. (red.), “Natural’naja škola” i ee rol’ v stanovlenii russkogo realizma, Moskva, Nasledie, 1997, p. 155.
  7. V. V. Vinogradov, Izbrannye trudy: Poetika russkoj literatury, Moskva, Nauka, 1976, p. 153. Sullo skaz gogoliano vedi G. Carpi, Storia della letteratura russa, vol. 1: Da Pietro il Grande alla rivoluzione d’Ottobre, Roma, Carocci, 20162, pp. 386-389, 403-406.
  8. F. Dostoevskij, Lettere, cit., p. 146.
  9. V. S. Nečaeva, Rannij Dostoevskij (1821-1849), Moskva, Nauka, 1979, p. 126.
  10. V. V. Vinogradov, op. cit., p. 108.
  11. V. B. Šklovskij, Za i protiv: Zametki o Dostoevskom, Moskva, Sovetskij pisatel’, 1957, pp. 22, 24.
  12. V. V. Vinogradov, op. cit., p. 165.
  13. M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968, pp. 65, 66. Cfr. G. Carpi, op. cit., pp. 421-422.
  14. V. B. Šklovskij, op. cit., p. 41.
  15. V. V. Vinogradov, Izbrannye trudy: Jazyk i stil’ russkich pisatelej ot Karamzina do Gogolja, Moskva, Nauka, 1990, p. 227.
  16. K. A. Baršt, Literaturnyj debjut F. M. Dostoevskogo: tvorčeskaja istorija romana Bednye ljudi, in F. M. Dostoevskij, Bednye ljudi, Moskva, Nauka, 2015, p. 463.
  17. V. B. Šklovskij, op. cit., p. 17.
  18. Il cronachista de I demoni inizia il racconto ammettendo la propria «incapacità»; «Non sono un letterato, non voglio essere un letterato», – si schermisce il narratore de L’adolescente; il narratore de I fratelli Karamazov si scusa per «essersi impergolato in queste spiegazioni così stucchevoli e vaghe».
  19. V. V. Vinogradov, Izbrannye trudy: Poetika russkoj literatury, cit., p. 167.
  20. V. V. Vinogradov, Izbrannye trudy: Jazyk i stil’ russkich pisatelej ot Gogolja do Achmatovoj, Moskva, Nauka, 2003, pp. 155, 159.
  21. K. S. Aksakov, Estetika i literaturnaja kritika, Moskva, Iskusstvo, 1995, p. 137.
  22. P. V. Annenkov, Iz Zamečatel’nogo desjatiletija, in K. Tjun’kin (a cura di), F.M. Dostoevskij v vospominanijach sovremennikov: V 2 tomach, Moskva, Chudožestvennaja literatura, 1990, vol. 1, p. 215.
  23. F. Dostoevskij, Lettere, cit., p. 162.
  24. S. G. Bočarov, O chudožestvennych mirach, Moskva, Sovetskaja Rossija, 1985, pp. 161-209.