Utopie, eterotopie. La comunità nell’altrove letterario

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1. L’onesta brigata

In Utopie. Eterotopie, Michel Foucault si concentra sulla descrizione di non-luoghi – un “altrove” – ricostruibili attraverso episodi e spazi letterari. Da questa formalizzazione testuale, è possibile costruire una mappa di “luoghi altri” ed analizzarne la funzione nella costruzione dei personaggi che li abitano. Scrive Foucault:

Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono ad alcuno spazio. Probabilmente queste città, questi continenti, questi pianeti sono nati, come si suol dire, nella testa degli uomini o, a dire il vero, negli interstizi delle loro parole, nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel vuoto dei loro cuori; insomma è la dolcezza delle utopie. Credo tuttavia che ci siano – e questo in ogni società – delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su una carta; utopie che hanno un tempo determinato, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni1.

Utile ai fini dell’analisi è fissare un polo positivo e contrastivo per gli altrove da noi trattati: la Firenze boccacciana martoriata dalla pestilenza del 1348. Partiamo da un focus sulla «venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina»2. Qui

non essendovi quasi alcuna altra persona […] si ritrovarono sette giovani donne tutte l’una all’altra, o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte […] Le quali, non già da alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il dir de’ padrenostri, seco della qualità del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare3.

Il caso favorisce l’incontro delle donne; la pari posizione sociale e la contrapposizione netta che ciascuna di loro – partendo dai nomi – segna con le mortifere strade fiorentine le spinge a disporsi in cerchio, in una situazione di parità, per meglio ragionare. Tema della conversazione introdotta da Pampinea è la fuga dalla città; di fronte allo scenario depravato che attende le giovani fuori da Santa Maria Novella, l’unica soluzione è il ritiro in campagna:

E per ciò, acciò che noi per ischifaltà o per traccuraggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri onestamente a’ nostri luoghi in contado, de’ quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo. Quivi s’odono gli uccelletti cantare, veggionsi verdeggare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d’alberi ben mille miniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città; e èvvi, oltre a questo, l’aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v’è la copia maggiore e minore il numero delle noie4.

«Tutte queste gerarchie, queste opposizioni, questi incroci di luoghi costituiscono quel che molto grossolanamente si potrebbe definire lo spazio medievale: lo spazio della localizzazione»5. La campagna si contrappone alla città infernale come un paradiso, è consacrata a luogo di salvezza dall’ambiente cittadino, presentato come minaccioso, disordinato e mortale6.
Le bellezze del contado si propongono come eterne e immutabili, impermeabili anche al mal tempo. Questo perché lo spazio altro del Decameron non è l’aperta campagna, selvaggia, richiamo di un mondo fatto di lavoro, l’altrove boccacciano è il giardino, perfetta incarnazione dell’otium, protagonista insieme ai giovani di questa parentesi che alla morte si oppone. In quanto co-protagonista, l’otium deve accompagnare i giovani nella loro fuga dalla morte. Deve, non può, perché esplicitamente sottolineato da Dioneo, giovane della brigata che non vuole (e fortunatamente non deve) seguire le regole valide per la piccola comunità appena formatasi, contribuendo così alla variatio dell’opera pur in uno schema chiuso e circolare:

io non so quello che de’ vostri pensieri voi v’intendete fare: li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne usci’ fuori. E per ciò o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s’appartiene) o voi mi licenziate che io per li miei pensier mi ritorni e steami nella città tribolata7.

Il giardino è «il luogo dell’esclusività – perché recintato, separato dal mondo esterno – e uno spazio lavorativo. Esso si situa inoltre all’intersezione tra natura e cultura, giacché le piante crescono ordinatamente, in obbedienza a un piano imposto dalla ragione umana»8. Il giardino, ci informa Foucault, è forse l’esempio più antico di eterotopia (definita come luogo al di fuori di ogni luogo), una millenaria associazione ad un significato magico: la rappresentazione esemplare del mondo. Questi giardini, per lo più di matrice persiana, sulle cui orme ha operato il Boccaccio, sono rettangolari, suddivisi in quattro parti che rappresentano i quattro elementi di cui si compone il mondo, presentano al loro centro un elemento sacro – una fontana o un tempio – intorno al quale cresce tutta la vegetazione del mondo, esemplare e perfetta.
Sempre per caso, a Santa Maria Novella (tempismo da cinecomics!) si presentano tre giovani (Panfilo, Filostrato e Dioneo) con il compito di guidare le donne «mobili, riottose, sospettose, pusillanime e paurose»9. Abbracciano l’idea delle giovani e si accordano per trasferirsi il giorno seguente in campagna.

È la morte, non la vita, a stringerci in un orizzonte comune […] la morte è la nostra comune impossibilità di essere ciò che ci sforziamo di restare – individui isolati. […] Se in questo cum è lo stampo originario che definisce fin dall’inizio la nostra condizione, per Bataille costituisce la zona-limite di cui non si può fare esperienza senza perdersi. Perciò in esso non si può ‘stare’ che per brevi istanti – il riso, il sesso, il sangue – in cui la nostra esistenza tocca insieme il suo apice e il suo precipizio10.

Scrive Roberto Esposito. In che modo è possibile reagire alla peste? Si rende necessaria la comunità, una comunità che è inconcepibile immaginare eterna, ma che è necessariamente destinata ad una durata mortale, e nel caso specifico, due settimane. Alla brigata non resta che raggiungere l’apice discorrendo, riprendendo i termini di Esposito, di riso, sesso e sangue: gli elementi fondativi di quasi tutte le novelle decameroniane.
Ritorniamo per un attimo a Santa Maria Novella: le sette giovani si sono disposte per caso in cerchio. Il cerchio è notoriamente un simbolo di completezza e compiutezza – principio e fine coincidono, si sovrappongono – ed esprime pienezza ed armonia, perfezione. La circonferenza ricorda una ruota, ed è quindi simbolo traslato di movimento, dinamicità. Tutte queste caratteristiche sono trasferibili alla brigata. La condizione muliebre è infatti ripetuta dai dieci giovani durante l’atto del novellare: si dispongono in cerchio eleggendo di giorno in giorno un re o una regina che decida l’argomento delle novelle. Partendo da Pampinea, il ciclo si chiude con Panfilo. Fin da subito sappiamo che lo scopo della fuga non è l’isolamento permanente dalla morte (la comunità non può essere eterna); con Panfilo la parentesi si chiude, si ritorna a Firenze. Perché ritornare in un luogo di morte? Come ha scritto Giancarlo Alfano,

risulta evidente che la «lieta brigata» non obbedisce al desiderio di un isolamento egoistico, ma al contrario si propone di rilanciare la vita associata: una scelta politica, che risponde alla frammentazione dei legami collettivi condotta dalle condizioni eccezionali dell’epidemia.
Risulta così oltremodo significativo che il titolo del Decameron contenga un’allusione precisa all’Hexameron, in cui sant’Ambrogio raccontava la creazione dell’Universo. Come lì il santo parafrasava e commentava il racconto biblico della Genesi, dove si racconta la creazione dell’universo culminante con l’apparizione dell’uomo nell’Eden, così Boccaccio propone nel suo libro la “ricreazione” del mondo civile da parte di una cellula sociale, piccola, ma rappresentativa della cultura cittadina, provvisoriamente rifugiatasi in un giardino11.

La necessità di una comunità è quanto meno evidente.
Un’altra delle caratteristiche del cerchio sopra elencate è la dinamicità e, non a caso, Alfano ha parlato di «un sistema dinamico»12. La brigata è sì un sistema chiuso, perfetto, ordinato, ma non statico, proprio grazie alla figura di Dioneo. Questi decide di non seguire il tema proposto per la giornata, spezzando la monotonia narrativa. Tuttavia, il ripetersi di questo gesto ad ogni giornata garantisce la perfezione della costruzione boccacciana.
Non volendoci ulteriormente dilungare su argomenti più che noti, ricapitoliamo le caratteristiche della comunità del Decameron: si forma per casualità, crea una dimensione di parità e coesione, con una finalità: allontanarsi dalla devastazione per poter ricostruire. Partiti dalla morte, si ritorna alla morte con una nuova speranza di vita.

2. In compagnia del narratore

Da Firenze alle Alpi svizzere. Abbandonata l’eterotopia della perfezione del giardino, affrontiamo l’eterotopia di deviazione:

quelle nelle quali vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte. Si tratta delle case di riposo, delle cliniche psichiatriche e si tratta, anche, ben inteso, delle prigioni e bisognerebbe senz’altro aggiungere i ricoveri per anziani che sono in qualche misura al limite tra l’eterotopia di crisi e l’eterotopia di deviazione poiché, dopo tutto, la vecchiaia è una crisi, ma è anche una deviazione, in una società come la nostra in cui il tempo libero è la regola, e l’ozio costituisce una specie di deviazione13.

A tutti questi luoghi sarebbe da aggiungerne un altro: il sanatorio. La dimensione altra di questo luogo è sottolineata da Thomas Mann ne La montagna incantata alle soglie del testo:

Due giornate di viaggio allontanano l’uomo (specie l’uomo giovane le cui radici sono ancora poco abbarbicate alla vita) dal mondo di tutti i giorni, da quelli che egli considerava doveri, interessi, affanni, previsioni, assai più di quanto non abbia immaginato mentre la carrozza lo portava alla stazione. Lo spazio che rotando e fuggendo si dipana tra lui e la sua residenza sviluppa forze che di solito si credono riservate al tempo; di ora in ora provoca mutamenti interiori molto simili a quelli attuati dal tempo, che però in certo modo li superano. Come quest’ultimo, esso genera oblio, ma lo fa staccando la persona dai suoi rapporti e trasportando l’uomo in uno stato di libertà originaria… anzi, trasforma in un baleno persino il pedante borghese in una specie di vagabondo. Il tempo, si dice, è oblio; ma anche l’aria delle lontananze è un filtro dello stesso genere, e se anche dovesse agire meno a fondo, in compenso lo fa con maggiore rapidità14.

Il sanatorio non è stato ancora nominato in questa prima pagina del romanzo, ma già intuiamo delle sue proprie peculiarità temporali. Al Berghof il tempo non è più qualcosa di circoscrivibile, qui quella dimensione di morte che minacciava la brigata boccacciana è quieta e silenziosa, aleggia tra le camere composta, manca l’impellenza di una ricostruzione. La morte si accetta, si aspetta, a volte la si rimanda, ma fa parte del rituale degli ospiti del sanatorio. Questo oblio silenzioso non manca pur tuttavia di creare un orizzonte comune, un “noi”: «per noi quassù tre settimane non sono niente, ma per te che sei venuto in visita e conti di restare soltanto tre settimane, per te sono un cumulo di tempo»15 dice Joachim al cugino Hans appena arrivato, o ancora Settembrini: «Noi, signor mio, se permette che glielo insegni, non sappiamo calcolare a settimane. La nostra più breve unità di tempo è il mese. Noi si calcola in grande stile… è un privilegio delle ombre»16.
Da chi è composto questo “noi”? Anche stavolta è possibile una sintesi geometrica: gli abitanti del sanatorio vengono molto spesso descritti nella sala da pranzo comune seduti a grandi tavole rettangolari. Con il Novecento sembra andare in crisi anche il simbolismo geometrico perché non c’è traccia della perfezione, della coesione, tantomeno della dinamicità del cerchio: sopportazione, cortesia, talvolta infatuazione sono il collante dei commensali, lati diseguali di questa nuova figura. Presente ancora solo uno dei caratteri del cerchio del Decameron: la chiusura. Non una chiusura serrata come nell’opera precedentemente affrontata: non si è costretti a socializzare solo con i propri vicini di tavolo, ma è ciò che spesso accade, nessuno si prende la briga di portare la conversazione al di là di questo piccolo orizzonte. Come un nuovo Dioneo, fa talvolta eccezione Settembrini, il quale però non è un joker che contribuisce all’ordine, ma una voce fuori dal coro in un ambiente caoticamente silenzioso. Qualcosa rompe questa apparente calma collettiva, qualcosa che cammina per le stanze non vista, che favorisce gli adulteri, gli insulti giocosi, i pettegolezzi sfacciati: la malattia. «Esiste una opposizione fondamentale tra la comunicazione debole, base della società profana […] e la comunicazione forte, che abbandona le coscienze riflettentisi l’una nell’altra, o le une nelle altre, a quel fatto impenetrabile che è il loro ‘da ultimo’»17. Questi individui riescono a creare un tipo di comunicazione forte proprio grazie alla loro malattia, la quale permette loro di smontarsi di alcune delle ipocrisie del piano (pur mantenendo quelle necessarie alla propria vanità). Non sembra possibile parlare canonicamente di comunità se non per la casualità che ha favorito l’aggregarsi di un certo numero di individui ugualmente malati. Possiamo arrivarci per vie meno lapalissiane:

contro ogni evidenza, la via di Kant alla comunità va cercata altrove e dal soggetto e da ogni forma di pretesa intersoggettività. Attenzione: altrove non significa ‘fuori’ – dal momento che il soggetto resta l’asse portante intorno a cui lavora tutto il criticismo kantiano. Ma nei suoi vuoti, nelle sue pause, nei suoi margini esterni e soprattutto interni. In quel limite, precisamente, che lo attraversa e lo taglia segnandone la finitezza e la fragilità; e perciò stesso lo espone sull’abisso del suo altro o precipita l’altro dentro di esso18.

Questa comunità è data da un incastro di individualità ben definite, non coese, non coercibile in un’unità. Rifacendoci ancora una volta a Communitas di Esposito:

il comune non è caratterizzato dal proprio, ma dall’improprio – o, più drasticamente dall’altro. Da uno svuotamento – parziale o integrale – della proprietà del suo negativo. Da una depropriazione che investe e decentra il soggetto proprietario forzandolo ad uscire da se stesso. Ad alterarsi. Nella comunità, i soggetti non trovano principio di identificazione – e neanche un recinto asettico entro cui stabilire una comunicazione trasparente o, magari, il contenuto da comunicare. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi: ‘donanti a’, in quanto essi stessi ‘donati da’ un circuito di donazione reciproca che trova la propria peculiarità appunto nella sua obliquità rispetto alla frontalità del rapporto soggetto-oggetto, o alla pienezza ontologica della persona (se non nella formidabile duplicità semantica del francese personne; ‘persona’ e ‘nessuno’.)19

Questa particolare comunità presenta un’ulteriore peculiarità: comprende anche il suo narratore. Possiamo considerare il romanzo diviso in due metà la cui linea di confine è segnata dal capitolo intitolato Neve. Osserviamo il prima: il narratore eterodiegetico si limita a qualche parere sui suoi personaggi, il suo protagonista, Hans Castorp, nonostante il tempo trascorso al Berghof è convinto a non abituarsi alla vita del sanatorio, come un eterno ospite. Dopo circa due terzi del romanzo, la situazione presentataci è diversa: Castorp prende consapevolezza di essere ormai come gli altri malati: è questa la sua vita ora. Il dato curioso è che il narratore sembra arrendersi con lui e sedersi ad una sua propria tavola della sala da pranzo per poter meglio parlare dei suoi commensali.
Qual è la sorte di questa fiacca brigata? Non lo sappiamo. Da un presentimento di fine silenzioso siamo trasportati in un campo di battaglia caotico con Hans: dalla morte alla morte.

3. Di volata a Never Land

L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché sulle sue molle si può saltare; è il bosco perché ci si può nascondere; è la notte, perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi; ed è il piacere, perché al ritorno dei genitori si verrà puniti20.

Entriamo così in un orizzonte immaginifico: il Paese Che Non C’è, il grande letto foucaultiano descritto da James M. Barrie. Riutilizzando quanto Barrie scrive a proposito di casa Darling nell’atto primo, potremmo dire che questa Never Land «possiamo metterla dove meglio preferiamo, e se crediamo che sia la nostra casa, probabilmente abbiamo ragione. Gira per Londra alla ricerca di qualcuno che ne abbia bisogno»21. La punizione di cui parla Foucault qui non arriva, perché i genitori non rincasano mai; qui vivono i bambini che cadono dalla carrozzina quando nessuno bada loro e se entro sette giorni nessuno viene a reclamarli vengono spediti nel Paese Che Non C’è e diventano i Ragazzi Perduti, i fedelissimi di Peter Pan. Chi è Peter Pan? Secondo Francesco Cataluccio un redivivo Dioniso. Riportando il pensiero di James Hillman, lo definisce: «il diavolo dell’immaginazione cristiana, un demone che, attraverso l’incubo ci rivela la nostra vera natura»22.

Per (Furio) Jesi “nelle grandi svolte della storia della cultura, e soprattutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire di un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l’immagine del fanciullo primordiale, dell’orfano”. La dottrina di Freud è per molti versi una “dottrina del fanciullo” e nasce in una delle più gravi svolte della cultura moderna, a cavallo tra i due secoli, come “presa di coscienza del fanciullo che sopravvive nell’uomo”: alla fine di un ciclo l’uomo si ritrova nella condizione dell’orfano primordiale, “abbandonato dinanzi all’alba del mondo”23.

Ci spiega Cataluccio che proprio Freud ne Il disagio della civiltà sembra aver fatto una diagnosi del “peterpanismo” legandolo al dramma dell’utopia: la realtà sta stretta a chi soffre della sindrome di Peter Pan, può costituire solo lo scenario di un’imminente pazzia, ragion per cui ha bisogno di costruire un mondo diverso, depurato di tutte le caratteristiche più intollerabili. Il mondo creato da quel demonietto di Peter Pan è una terra in cui gli adulti (i pirati) soccombono sempre, in cui tutti lo amano e gli si sottomettono, tempo compreso, perché, come è noto, Peter non vuole crescere e non crescerà. I Ragazzi Perduti sono la sua unica famiglia, ma sarebbe meglio definirla un reame: questi bambini non si muovono se non lo ha ordinato Peter, non parlano delle loro madri perché Peter non vuole e quando vogliono crescere semplicemente vengono fatti fuori. Siamo molto lontani dalla condizione di parità del Decameron, quella descritta da Barrie si potrebbe definire una società totalitaria, governata da questo bambino crudele con la paura di crescere.
Tutto ci lascia intendere che questa piccola comunità di bambini è sempre stata tale e così sarà sempre, fino a quando qualcosa cambia: arriva una ragazza, Wendy. Nel Paese Che Non C’è ci sono indubbiamente altre donne: le fate, la bella figura di Giglio Tigrato, le dispettose sirene, ma tutte sono riducibili ad una figura di amante, o in ogni caso sono caratterizzate da una forte carica erotica. Wendy no, è la ragazza della porta accanto, la perfetta ragazza perbene, ed è per questo che è perfetta per Peter. Il bambino cerca una madre per sé e per i suoi: porta Wendy e i suoi fratelli a Never Land e lì la pone a capo del suo focolare affinché possa finalmente accontentare i suoi “compagni” e goderne lui stesso.
Come finisce la storia di questi bambini? I Ragazzi Perduti, Wendy, Michele e Gianni tornano a casa Darling e crescono, questa volta con dei genitori veri, Peter rimane solo con le fate e gli altri abitanti del suo fantastico regno. Wendy tornerà a trovarlo fino a che avrà l’età giusta per volare, ma quell’altrove di sogno (e di sangue) non è eterno per lei come lo è per Peter. La fuga dalla realtà non può che durare “un istante” per i bambini che non hanno mai imparato a soggiogare il tempo.

4. Il brianzolo Maradagàl: il purgatorio di Carlo-Gonzalo

«L’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili»24. In Peter Pan abbiamo trovato la contrapposizione tra il mondo inglese (composto, educato e brillante nella signora Darling ed eccentricamente fastidioso nel signor Darling) e il Paese Che Non C’è, la terra degli adulti fallimentari e dei bambini tiranni. Carlo Emilio Gadda ci trasporta in un altro luogo che non dovrebbe esistere, eppure è reale: entriamo nel Maradagàl, più precisamente a Lukones, e, seguendo le indicazioni dei personaggi, giungiamo fino alla villa Pirobutirro. Questa geografia favolosa, pseudo-sudamericana dove ci porta in realtà? In Brianza, a Longone, nella villa familiare che Gadda ha venduto dopo quel 2 aprile 1946 in cui sua madre, Adele Lehr, è morta. «Morta la madre, la casa, prima occupata ma comunque profanata (non protezione, non chiusura, non porta sbarrata, non esclusione degli sconosciuti), era ora vuota, insensata: le premesse e le conseguenze esigevano di essere svolte»25.
Gadda deve fare i conti con il senso di colpa, con il risentimento nei confronti della madre, con il senso di colpa per il risentimento che nutre nei confronti di una madre che ormai non può più assolvere, ma il cui ricordo può continuare a punire. Vendere la villa, luogo di questo rancore, non è abbastanza. La data 2 aprile 1946

Segna la linea di frattura, e insieme il precipitare irreversibile, di una «sofferenza morale» che aveva progressivamente intossicato l’anima di Gadda in praesentia della madre e che da lì in avanti, ancora incrementandosi, avrebbe premuto perché le si desse forma con la parola, anche come (impossibile) risarcimento all’Assente: una giustificazione postuma che era rimorso non riscattato, strazio senza pacificazione, per quanto alla confessione letteraria un minimo di coefficiente terapeutico debba pur inerire26.

Questo è La cognizione del dolore: il risarcimento all’Assente in un altrove letterario.
«Nelle società cosiddette primitive, esiste una certa forma di eterotopia che chiamerò eterotopia di crisi, ciò significa che vi sono luoghi privilegiati o sacri o interdetti, riservati agli individui che si trovano, in relazione alla società e all’ambiente umano in cui vivono, in stato di crisi»27. È questo il caso della villa Pirobutirro: il luogo privilegiato del protagonista Gonzalo, il suo luogo, la casa che sarebbe dovuta essere sua e di sua madre, lo spazio privilegiato per consumare la vita di una micro-comunità, di una madre e di un figlio legati da un rapporto morboso fatto di mancanze e di risentimento. Scrive Roberto Esposito citando Weber:

«Una relazione sociale deve essere definita ‘comunità’ (Vergemeinschaftung) se, e nella misura in cui la disposizione dell’agire poggia […] su una comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale), degli individui che ad essa partecipano». Che tale possesso sia qui riferito soprattutto al territorio non sposta le cose dal momento che il territorio è definito appunto dalla categoria di «appropriazione» come matrice originaria di ogni altra proprietà successiva28.

Nel disperato tentativo di costruire questa unità familiare, Gonzalo cerca di appropriarsi della propria casa, e nel farlo deve liberarsi da tutti i parassiti che vede circolare nella sua abitazione, persone rozze che sua madre (e solo lei) lascia entrare. C’è un punto fondamentale nella citazione da Communitas appena riportata, e che costituisce il nodo intorno a cui gira la nostra argomentazione: c’è una comune appartenenza tra madre e figlio? Si può parlare di comunità?
Osserviamo velocemente i due personaggi: Gonzalo (e Gadda con lui) espia la colpa di non essere morto al posto di suo fratello, di essere il sopravvissuto indesiderato. Di cosa punisce la madre?

Quella, che il bambino pativa, non era la festa di una gente, ma il berciare d’una muta di diavoli, pazzi, sozzi, in una inutile, bestiale diavolerìa… Si trattava certamente, pensò adesso di sé il figlio, di una infanzia malata. L’uomo tentò di riprendersi da quel delirio. Consentì ad aggiudicarsi un ritardo nello sviluppo, una sensitività morbosa, abnorme: decise di essere stato un ragazzo malato e di essere un deficiente29.

Pensa Gonzalo. In qualche modo Gonzalo-Carlo si sente obbligato a questo senso di appropriazione della propria casa per poter essere un bravo figlio, e lo fa anche a costo di rinunciare alla sua felicità e stabilità emotiva:

Carissima Mamma,
[…] Delle spese fatte in questi tempi non vorrei parlarti, ma siccome tu mostravi di credere che io ricorressi a te per vivere non facendo nulla, mentre precisamente accade che per aiutare la famiglia io devo rinunciare ai miei studî e a farmi un avvenire e prendere il primo posto che capita, così noterò le principali… E per la mia vita non c’è una distrazione, non un libro, non un sorriso, non una speranza. […] Poi, per essere un buon figlio, dovrei pensare a Longone, allo Stella, ecc. ecc. –
Sono tanto stanco30.

Scrive Gadda. In un altro passo Esposito parla anche di delitto fondativo della comunità, ma nel nostro caso specifico che il delitto avvenga o meno è irrilevante, e se pure fosse avvenuto sarebbe assolutamente sterile, priverebbe definitivamente Gonzalo Pirobutirro della possibilità di creare un’unione con sua madre.
Ne La cognizione del dolore, escludendo la piccola collettività di Lukones, non c’è possibilità di comunità per il suo protagonista, solo una debole speranza. Anche la morte (come in parte già ne La montagna incantata) con una noncuranza desolante evita di dare conferme, tutto resta a mezz’aria come il desiderio di Gonzalo.
Abbiamo osservato dei personaggi trasferirsi in un altrove e fronteggiarsi con il concetto di comunità: la brigata del Decameron è un modello esemplare di comunità sana; la comunità manniana si sfalda inconsapevolmente, senza avere il tempo di giustificare la sua esistenza; i Ragazzi Perduti abbandonano Peter Pan nella sua solitudine, pur tuttavia volontaria; Gonzalo Pirobutirro non può ambire a quanto hanno avuto questi suoi predecessori, il suo altrove è il suo luogo di penitenza, a fargli compagnia solo la mano che lo ha ritratto.


  1. M. Foucault, Utopie. Eterotopie, a cura di A. Moscati, Napoli, Cronopio, 2014, p. 11.
  2. G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 2014, p. 29.
  3. Ivi, pp. 29-32.
  4. Ivi, pp. 35-36.
  5. M. Foucault, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Milano-Udine, Mimesis, 2011, p. 20.
  6. Cfr. M. Tortora, Città e campagna, in Il romanzo in Italia, 4 voll., a cura di G. Alfano e F. de Cristofaro, Roma, Carocci, 2018, vol. III, Il primo Novecento, pp. 307-20.
  7. G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 42.
  8. G. Alfano, Introduzione alla lettura del Decameron di Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 59-60.
  9. G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 37.
  10. R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino, Einaudi, 2006, p. 126.
  11. G. Alfano, Introduzione alla lettura del Decameron di Boccaccio, cit., p. 60.
  12. Ivi, p. 59.
  13. M. Foucault, Spazi altri, cit., pp. 25-26.
  14. T. Mann, La montagna incantata, trad. it. di E. Pocar, Milano, Corbaccio, 2020, pp. 19-20.
  15. Ivi, p. 22.
  16. Ivi, p. 69.
  17. G. Bataille, La letteratura e il male, trad. it. di A. Zanzotto, Milano, SE, 1987, pp. 182-83.
  18. R. Esposito, Communitas, cit., pp. 67-68.
  19. Ivi, p. XIV.
  20. M. Foucault, Utopie. Eterotopie, cit., p. 13.
  21. J. M. Barrie, Peter Pan. Il bambino che non voleva crescere, trad. it. di P. Farese, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 33, corsivi miei.
  22. F. M. Cataluccio, Il dramma dell’immaturità, in J. M. Barrie, Peter Pan, cit., p. 15.
  23. Ivi, pp. 15-16.
  24. M. Foucault, Utopie. Eterotopie, cit., p. 18.
  25. C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Milano, Adelphi, 2017, p. 274.
  26. Ivi, p. 273.
  27. M. Foucault, Spazi altri, cit., p. 25.
  28. R. Esposito, Communitas, cit., p. IX.
  29. C. E. Gadda, La cognizione del dolore, cit., p. 195.
  30. Ivi, p. 297.