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La catastrofe e gli orizzonti del possibile nella nonfiction italiana contemporanea

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Negli ultimi anni si riscontra un aumento di popolarità e interesse per le narrazioni distopiche o postapocalittiche, ribadito dalle pellicole catastrofiche e da narrativa a tema. Che sia dunque per esorcizzare il pericolo di distruzione del nostro pianeta, per rinvigorirne la consapevolezza o, al contrario, per compiacere un pubblico indifferente alle minacce reali e che ricerca l’emozione nell’horror o nell’apocalittico inverosimile, è innegabile che le previsioni sconfortanti abbiano la meglio su qualsiasi utopia, a cui tanto industria culturale quanto letteratura ‘elevata’ sembrano aver voltato le spalle. Un segno di tempi che il sociologo Ulrich Beck ha acutamente interpretato all’insegna del rischio, il quale «rappresenta il modello di percezione e di pensiero della dinamica mobilitante di una società che si deve confrontare con l’apertura, le insicurezze e i blocchi di un futuro autoprodotto e non è più ancorata alla religione, alla tradizione o allo strapotere della natura, ma ha anche perduto la fede nella forza salvifica delle utopie»1.
Ponderazione e gestione di scenari possibili e inquietanti costituiscono così la prassi della modernità avanzata, abituatasi a convivere con l’idea della catastrofe. Quella che Beck ha definito «società del rischio», in cui, cioè, le minacce nell’età contemporanea sono aumentate in portata (divenendo pervasive e incontenibili, come vuole l’esempio principe della radiazione nucleare) e si devono allo stesso sviluppo tecnico-economico, è d’altronde plasmata dal timore che il peggio possa accadere: «La necessità di proteggersi da esse [le catastrofi] e di gestirle può comportare una riorganizzazione di poteri e competenze. La società del rischio è una società catastrofica. In essa lo stato di emergenza minaccia di diventare la norma»2. Lo si evince, eloquentemente, da una misura restrittiva come i controlli del bagaglio che precedono ogni volo, procedura così assimilata che la sua origine emergenziale è ormai dimenticata. Era infatti il 2006 quando veniva sventato un attacco terroristico sulla rotta tra Gran Bretagna e Stati Uniti; nemmeno tre mesi dopo, con questo (non) fatto veniva motivata la misura che limita in tutta l’Unione Europea il trasporto di liquidi in aereo: «I nuovi provvedimenti per la sicurezza sono in tutto il mondo la reazione ad attacchi terroristici anticipati che, […] in un luogo determinato, cioè a Londra, non sono avvenuti. Essi limitano per un tempo indefinito la libertà di milioni di passeggeri. I passeggeri nelle cui menti si è annidata la minaccia del terrorismo hanno accettato senza protestare queste limitazioni delle loro libertà»3.
Costituita da possibilità, probabilità, incertezza, ponderazione, alternative e decisioni, la semantica del rischio identificata da Beck «si riferisce a pericoli futuri tematizzati nel presente, che spesso derivano dai successi della civilizzazione»4. Si tratta di una dinamica che la letteratura ha indubbiamente incorporato e della cui evoluzione nel tempo ha serbato traccia, a partire dalla modernità, quando il mondo inizia a fare a meno della sua guida divina e il rischio si traduce in avventurosa imprevedibilità, significativamente espressa nel romanzo dal peregrinare di Don Chisciotte e dal viaggio indefinito intrapreso da Jacques le fataliste et son maître di Denis Diderot. Supportando la propria riflessione con questa digressione dedicata al romanzo, Beck prosegue evidenziando come la rischiosità esistenziale venga sostituita in Balzac dalle istituzioni rappresentate da giustizia, finanza, mondo della criminalità, polizia e autorità statale, ma ancora con una promessa di felicità e libertà superiore alla paura della sventura, che invece giunge a prevalere in Kafka: con il castello e il tribunale a compenetrare ogni cosa, non restano che l’autoaccusa e l’autosottomissione, in quanto l’ «onnipresenza e l’indecidibilità dei rischi sistemici vengono scaricati sui singoli individui»5.
Nell’itinerario di Beck, destinato d’altronde ad approdare su sponde lontane dal discorso artistico, che si accontenta di sfiorare, la tappa letteraria resta isolata e non portata a compimento. Ammaliati dalla suggestione, tuttavia, si è portati a chiedersi come è proseguito il cammino letterario del rischio e soprattutto come interagisce con la contemporanea società catastrofica, la stessa nella quale a tenere testa al romanzo, sfidandolo e spesso respingendolo, è la galassia di scritture non finzionali.
Muovendo da simili premesse, ci proponiamo pertanto di indagare alcuni esiti della letteratura italiana più recente, la quale, particolarmente incline alla narrativa di stampo fattuale e autobiografico, si mostra a suo agio nel confronto con la catastrofe in un’ottica realistica, basata cioè sul prelievo dalla Storia e dalla cronaca a dispetto di una rielaborazione di ansie attuali in mondi immaginari o collocati in un avvenire più o meno remoto. È quanto accomuna i tre testi al centro della nostra analisi: Notizia del disastro (2001) di Roberto Alajmo, che riporta alla memoria il volo di linea schiantatosi in mare nel 1978, nei pressi di Palermo, provocando la morte di 108 persone a bordo (21 furono i superstiti); La vita umana sul pianeta Terra (2014) di Giuseppe Genna, che fuoriesce dai confini nazionali soffermandosi sulle stragi compiute in Norvegia nel 2011 da Anders Behring Breivik; Una specie di vento (2018) di Marco Archetti, incentrato sull’attentato di Piazza della Loggia a Brescia, avvenuta il 28 maggio 1974. Si tratta di testi contraddistinti da un non pacificato rapporto con la mimesis, riconoscibile anche da un ethos autoriale che si carica di attese e responsabilità specifiche, distinte da quelle che animano imprese di scrittura dichiaratamente d’invenzione. Inoltre, si impone all’attenzione come, a dispetto della diversità di sciagure trattate e degli approcci di scrittura con cui ci si accosta a vicende estreme, nel nostro corpus ritorni l’arrovellamento sulle alternative possibili, da intendersi sia associato allo svolgersi degli eventi, alle storture temporali e ai margini di azione di fronte alla catastrofe, sia in rapporto alle forme attribuibili alla narrazione sul tema, tese a superare gli steccati dei generi e a esplorare le molteplici vie del verosimile.
Tuttavia, l’adesione alla cronaca o alla Storia collocate in anni recenti non ostruisce uno sguardo rivolto al futuro, né l’intersecarsi dei piani temporali. Come la stessa dinamica del rischio indica, il recupero del passato e lo scandaglio del presente restano inevitabilmente connessi con il futuro, dal momento che una loro disamina è alla base del tentativo di sradicare o decifrare in quei due assi temporali le premesse di una catastrofe, realizzatasi o potenziale. Inteso come esercizio combinatorio, l’atto narrativo associato al disastro può allora riassumersi in questo modo:

Per voi ragazzi nati nel 2000 sono cose lontane, me ne rendo conto, ma io in questi anni ho continuato a ripetermi: Redento, invece di logorarti chiedendoti perché è accaduto, chiediti come accidenti sarebbe potuto non accadere. Perché gli indizi erano lì, allineati, una fila di birilli in attesa dello strike. Provate a immaginare: l’azione comincia con una sfera lucida e nera che rotola inesorabile lungo una corsia. E noi – i birilli – lì in piazza: gli otto che sono morti, io che mi sono salvato, i cento che sono rimasti feriti e gli altri duemilacinquecento.
«Ragazzo, vieni sotto il portico, ché piove.»
Sotto il portico, sì. Perché sapete, io mi stavo sporgendo. Sono queste le parole che mi ha detto Bartolomeo Talenti, una delle vittime della bomba. Gli ho sorriso e ho fatto un passo indietro. Senza che lo immaginasse, quell’uomo mi stava salvando la vita.
È in una semplice frase che si incarna il destino? Poteva toccare anche a me, quel destino che ha contato fino a otto? È la pioggia il destino6?

Si esprime così, ricorrendo alla categoria di destino, Redento Peroni, sopravvissuto all’esplosione in Piazza della Loggia, a cui Marco Archetti dà voce in Una specie di vento. Le domande si moltiplicano, le risposte latitano, ma smontare il meccanismo, scambiarne le parti, ripercorrere gli eventi alla ricerca di un senso permangono movimenti del pensiero da cui non si riesce a sfuggire. Altrove, la dimensione astorica, esistenziale del pericolo viene colta da una vittima, Euplo Natali, a cui ugualmente viene conferita la parola: «Quante famiglie, quanti bambini e quante donne, in quel preciso momento, dormivano e non conoscevano quello che avrebbe riservato loro il futuro? Il fatto è che non può andare altrimenti: essere vivi vuol dire essere in pericolo. Essere vivi, Massimo caro, vuol dire ignorare tutti i significati»7. Se affidarsi alla narrazione equivale a mobilitare, in relazione agli eventi, una ricerca di senso, l’assenza o le alternative di quest’ultimo possono essere altrettanto tematizzate dal racconto stesso. Al di là delle variazioni storiche e sociali nell’interpretazione del pericolo, la letteratura continua a rielaborarne le concezioni che ruotano intorno alle simulazioni del ‘cosa accadrebbe se’. La messa in narrazione, del resto, non solo permette di ‘provare’ scenari alternativi, ma anche di assumere identità altrui e di dar vita, nella scrittura, a chi non ha più possibilità di esprimersi, come Archetti e Alajmo fanno con coloro che non sono sopravvissuti al disastro e a cui vengono attribuiti pensieri e voci frutto perlopiù di immaginazione.
È imprescindibile, pertanto, esaminare proprio l’ambiguo rapporto con il romanzo che caratterizza i testi selezionati: Una specie di vento, Notizia del disastro e La vita umana sul pianeta Terra presentano infatti in copertina la dicitura «romanzo»8. Per questi testi, quello con il romanzo, e più in generale con la finzione letteraria, è un legame da conciliare con una materia storicamente attestata (collettiva o che coincide con il vissuto autoriale), passando attraverso scelte stilistiche e prese di posizione etiche, la cui esplicitazione risulta necessaria proprio perché si trattano eventi estremi che comportano morti di massa. Non c’è, d’altronde, solo un generico lettore a cui dover render conto, ma una platea di vittime, morti e sopravvissuti, la cui memoria va, per essere onorata e rispettata, costruita, ossia in qualche modo inventata, immaginata, narrata, poiché, di quelle singole vite, la distruzione non ha lasciato che silenzio, vuoto, oblio. Di fronte all’assenza di spiegazione, inoltre, la letteratura non esita a porsi sulle tracce di ragioni che i referti e la cronaca colgono in maniera insoddisfacente, fermandosi in superficie e limitandosi ad accadimenti e dati, laddove la parola letteraria tende a svelare l’irrisolto, le sfumature, le sfaccettature e, primariamente, la dimensione umana. Anche per colmare alcune lacune, rivolgendo lo sguardo al quotidiano inaccessibile all’occhio pubblico o liberando pensieri celati dietro a volti ermetici, la scrittura sopperisce ai fatti e realizza, per l’appunto, letteratura a partire dalla fonte documentaria, apportando la molteplicità dei punti di vista, il montaggio, il ribaltamento di ogni oggettività, lo scavo psicologico: «l’inchiesta si fa controinchiesta, la prima persona inserisce nella cronaca un elemento soggettivo – una chiave interpretativa, un giudizio morale, un’empatia, un disincanto»9. Siamo al cospetto, in ogni caso, di «“oggetti narrativi non-identificati”, libri che sono indifferentemente narrativa, saggistica e altro: prosa poetica che è giornalismo che è memoriale che è romanzo»10.
A prima vista, chi pesca a piene mani dal repertorio romanzesco è Marco Archetti, il quale con Una specie di vento ‘fa parlare’ i morti di Piazza della Loggia e con formule convenzionali nell’avvertenza dichiara l’opera di fantasia, basata su eventi realmente accaduti e supportata da interviste, un romanzo che «avanza seguendo le impronte della verità storica e qua e là se ne discosta per seguire quelle dell’immaginazione», raccontando le storie di coloro che sono stati assassinati in qualità di «esseri umani come tutti, con i dubbi, le gioie e gli smarrimenti dell’ardente corpo a corpo con la vita»11. Usuale nella forma e nel contenuto, la premessa di Archetti non risulta superflua se si tiene conto della struttura dell’opera, interamente affidata a narratori in prima persona, corrispondenti, oltre che a un sopravvissuto, alle tre donne e ai cinque uomini periti nell’esplosione. L’autore, dunque, si defila rinunciando alla voce narrante e fa sì che siano le vittime stesse a raccontarsi, con largo uso del discorso diretto, lasciando che si rivolgano a interlocutori vari, come i nipoti, rappresentanti dei posteri. Inscenando un venir meno della mediazione dell’autore, il quale si astiene per giunta dall’interferire con un proprio apporto autobiografico12, Una specie di vento conferisce piena visibilità, e voce, alle vittime, per mezzo della finzione narrativa, con ciascun capitolo che riporta una testimonianza immaginaria.
All’espediente dell’ ‘occultamento autoriale’ ricorrono a livello internazionale altri scrittori che si sono confrontati con la catastrofe: Svetlana Aleksievič, ad esempio, ha intessuto la sua Preghiera per Černobyl’ (1997) di cori e monologhi in cui a prendere la parola è direttamente la popolazione colpita dall’incidente nucleare del 1986; in Underground (1997) Haruki Murakami raccoglie le interviste ai cittadini coinvolti nell’attentato al sarin nella metropolitana di Tokyo del 1994, con il solo inserimento delle domande formulate dall’autore a segnalarne l’esile presenza nel testo (dettaglio che Aleksievič omette, sebbene i testimoni siano in conversazione con la scrittrice), se si escludono le sezioni liminari finalizzate a introdurre l’opera e a fornirne un epilogo. Aleksievič e Murakami, tuttavia, operano in un regime manifestamente non finzionale, prossimo all’inchiesta giornalistica, in cui la trascrizione dei colloqui con le vittime, e non la loro immaginazione, come invece avviene in Una specie di vento, costituisce la sostanza del testo13. Questa differenza non annulla, però, una resa narrativa molto simile, data dalla struttura corale e dalla delega autoriale alla prima persona delle vittime. Se ne discosta parzialmente Roberto Alajmo con Notizia del disastro: anche nel suo caso, ciascun capitolo coincide con la ricostruzione della vicenda individuale di una vittima dell’incidente aereo, ma a fungere da raccordo tra le parti è un narratore eterodiegetico ed extradiegetico, che ciononostante è estremamente cauto nel non soverchiare eventi e protagonisti, evitando commenti, giudizi e divagazioni. Alajmo, appellandosi alla romanzizzazione insita in qualsiasi narrare ed esacerbata dal confronto di più prospettive su un unico fatto, si guarda bene tanto dall’abuso di licenza poetica quanto dal sentimentalismo e dalla sovrainterpretezione degli eventi (a differenza della prosa di Archetti, non esente da enfasi). Oltre alla memoria delle vittime, per Alajmo in gioco non c’è altro se non l’amaro confronto con l’insensatezza della morte, una chiave di lettura svelata in prima battuta dall’epigrafe di Camus:

Non si sopporta di ammettere che un numero enorme di persone, ognuna delle quali conteneva in sé tutte le evenienze del genere umano, sia stato massacrato inutilmente, assolutamente per nulla; e perciò si va in cerca di qualche significato. Poiché la storia prosegue è sempre facile trovare un senso nella sua continuità, e si fa in modo che acquisti decenza. Ma la verità non ha alcuna decenza14.

Il testo di Alajmo è, evidentemente, ben più di una mera Notizia del disastro, sebbene sicuramente il titolo venga richiamato dalla prosa documentata, dimessa, disadorna e precisa, senza essere però né fredda né compiaciuta, ma soffusa di una partecipazione discreta. Il mosaico narrativo del disastro è fatto di tessere che non combaciano e che Alajmo riporta prendendone atto, rilevando l’irriducibile soggettività della testimonianza, specie se legata ad eventi traumatici, e l’imperscrutabilità di vicende umane che resistono alla conoscenza e all’interpretazione dell’autore, come avviene per l’epilogo della storia di Fortunata Parlavecchio. Su come sopravvisse allo schianto, la donna

cambiò versione diverse volte, arricchendo man mano il suo racconto con nuovi particolari che le venivano in mente o le tornavano alla memoria. […] Disse di aver pensato: «Va bene, veramente è finita…» […] a dimenticare ci provò per tre anni […]. Poi si uccise sparandosi un colpo di pistola. Dissero che suo marito aveva fatto degli affari sbagliati, ma dissero pure che lei pensava sempre a quella notte, a quanto era stata fortunata.
Anna Mascali, sua figlia, oggi vive in Lombardia15.

Alajmo espone i dubbi, ricorre all’ellissi e non propende per una o l’altra possibilità, mantenendole entrambe.
Autori che si defilano, cedono la parola o la inventano per chi non l’ha avuta, ma sempre a partire da documenti e dalla chiamata al dovere civico che l’intellettuale è tornato ad avvertire: anche quando l’ineludibile componente finzionale è più palese nella narrativa della catastrofe, resta evidente l’influenza del giornalismo e della sua deontologia di fronte a eventi estremi.
Se il giornalismo è innanzitutto una professione esercitata da Roberto Alajmo, in Una specie di vento svolge una funzione preparatoria, in quanto l’origine dell’opera, come reso noto nella premessa di Archetti, si deve a una serie di articoli scritti dall’autore stesso per il Corriere della Sera. Le fonti consultate per accertare lo svolgimento dei fatti, invece, vengono inserite o menzionate in maniera implicita e organica nei testi, evitando note, appendici e riferimenti sistematici, mantenendo così il carattere letterario come dominante e ravvisabile. Ad esempio, quando Alajmo riproduce (poiché non c’è traccia di rielaborazione apparente della forma orale) la trascrizione di una registrazione, la introduce senza indugiare in dettagli che precisino natura, ottenimento e protagonisti del documento, il quale però è riconoscibile come tale: «Tre minuti dopo, alle ore zero e quaranta, fra radar e torre di controllo si svolse via radio la seguente conversazione: […]»16. Dal canto suo Archetti fa ripercorrere allo scampato Redento Peroni gli strascichi del fascismo, con dovizia di nomi, cariche coinvolte, numeri e richiami ad inchieste, immettendo un circoscritto approfondimento storico sul tema all’interno della rievocazione personale17. Altrove, la lunga citazione (o emulazione?), senza preavviso, del servizio di un telegiornale che nel 1968 informa di scontri tra polizia e studenti è distinta dal resto del testo per mezzo del corsivo; ad essa si alluderebbe, con qualche riga di ritardo, quando la vittima Euplo Natali asserisce che insieme ad un’altra persona stava ascoltando «il racconto del Tg1»18. In La vita umana sul pianeta Terra Giuseppe Genna riporta ugualmente in maniera estesa (per circa tre pagine) le «parole di fumigazione universale» leggibili da Breivik su un quotidiano che dava notizia, nel 2012, di un terrorista fermato prima che eseguisse in Polonia un massacro simile a quello norvegese, portando per altro l’attenzione su una gestione del rischio questa volta riuscita19. Il referto risulta infine convocato con la ricostruzione, minuto per minuto, nel linguaggio stringato da verbale e supportata dalle registrazioni delle videocamere di sorveglianza, dei movimenti con cui Breivik si è recato prima a Oslo, facendo esplodere un ordigno, quindi nell’isola di Utoya, dove ha assassinato decine di giovani e da ultimo è stato arrestato20.
Lo scarto dal romanzo, inoltre, è individuabile in una certa sensibilità per quei principi di scrittura che Federico Rampini elenca nella sua prefazione all’antologia Catastrofi. I disastri naturali raccontati dai grandi reporter (2007), menzionando la lezione di Hemingway e London, in prima linea, rispettivamente, dopo i terremoti di Yokohama nel 1923 e San Francisco nel 192621. Così, Rampini ci ricorda che «nessun talento narrativo vale la testimonianza di uno che c’era, della vittima. Al cronista è vietato il protagonismo, deve lasciare tutto lo spazio possibile alla voce di chi ha subito il disastro»22; pertanto, costituiscono regole d’oro «l’umiltà e lo studio dei classici, l’odio del kitsch, l’avversione al sentimentalismo facile, l’allergia alla prosopopea e alla superficialità, la battaglia alla vanità e al protagonismo»23. Come a dire: dovendo scontare il privilegio esistenziale di non aver subito il disastro e al contempo lo svantaggio inestinguibile, dal punto di vista narrativo, di non essere colui a cui le cose sono accadute, di non aver fatto esperienza in prima persona, chi riporta le voci altrui della catastrofe è tenuto a farlo con spirito di abnegazione e riducendo al massimo il proprio ego autoriale24. Oltre agli occultamenti già rilevati nei nostri testi, vanno ricondotti a questa sorta di vademecum anche le dichiarazioni di impegno e le manifestazioni di inadeguatezza, modestia e insicurezza, spie di un diffuso complesso di inferiorità di cui pare preda la narrativa italiana contemporanea e che il confronto con la materia catastrofica risulta accentuare per mezzo dell’affermatasi ‘sacralizzazione della vittima’25.
Circa il richiamo all’impegno, Archetti non esita a stabilire sbrigativamente una connessione tra il suo recupero della Storia e l’attualità, asserendo nella premessa a Una specie di vento di aver scritto «con lo sguardo rivolto all’indietro e col pensiero a un presente in cui il terrorismo e la violenza hanno riguadagnato un malaugurato protagonismo». La distanza di sicurezza dagli anni di piombo, un periodo di terrore e tensione che in ogni caso non è nemmeno accostabile alla realtà italiana del 2018, l’anno di uscita di Una specie di vento, è tuttavia ciò che permetterebbe la riscoperta di quel periodo da parte degli autori, al riparo dall’incandescenza dei fatti nel loro verificarsi26. Il generico nesso che Archetti stabilisce con il presente, però, ha il sapore di un passaggio obbligato, come se sia necessario e doveroso dar prova di partecipazione, militanza e attinenza con l’attualità, più o meno indipendentemente dal contenuto della propria scrittura. Offrire questo tipo di giustificazione, di cui evidentemente non sempre i testi hanno bisogno, è anche un segno di quella paura di essere romanzieri fino in fondo che trova espressione nell’ibridazione di genere (romanzi non romanzi) e nello sfoggio di impegno, come scorciatoie di fronte alla complessità della costruzione letteraria27. Sebbene con una visione meno critica, pure i Wu Ming individuano nella rivendicazione di un’etica e di un marcato senso di responsabilità il collante tra opere di natura mista, ma contraddistinte dalla stanchezza per «“passioni tristi” e/o giochetti tardo-postmoderni»28 e da un sentito calore emotivo in cui si scorgono «[a]rdore civile, collera, dolore per la morte del padre, amour fou ed empatia con chi soffre»29. L’attenzione per le disgrazie altrui, d’altronde, è pienamente in accordo con un contesto storico in cui l’identità vittimaria gode di largo favore politico e culturale, il quale viene confermato dallo spazio d’espressione e memoria che la narrativa della catastrofe riserva appositamente a chi è stato colpito da una sciagura.
Composta da soggetti disparati accomunati da una forma di sofferenza, dal disoccupato a chi ha subito uno stupro, dal malato allo sfollato, quella di vittima è una categoria fondata sull’esigenza di riconoscimento e presa di parola30, al punto che l’invisibilità e il silenzio vengono percepiti come una ferita supplementare, talvolta persino dolorosa quanto il trauma originario31. Tuttavia, la qualifica di vittima, giunta, dopo il forte influsso del 68, a invadere immaginari e politiche, non è esente da derive, tra cui è pertinente segnalare un’indulgenza compassionevole non sempre accompagnata da cauto spirito critico e che giunge a sfociare in cecità deleterie, giustificate dalla difesa, a priori, di chi si dichiara svantaggiato. In La société des victimes (2006) Guillaume Erner si sofferma su pericolosi fenomeni di isteria collettiva in cui ci si è spinti a cercare carnefici ad ogni costo (accuse infondate di pedofilia, azioni indebitamente identificate come violenze), osservando, inoltre, come i politici abbiano imparato a svelare le proprie debolezze, mostrandosi vulnerabili, per acquisire consensi e distogliere l’attenzione da colpe o mancanze commesse32. Divenuta discutibilmente appetibile, la condizione di vittima garantisce risonanza e autorevolezza ugualmente nello spazio letterario, dove il maggiore effetto collaterale di una genuina disponibilità ad accogliere racconti di sofferenza si riscontra nei significativi casi di autori spacciatisi indebitamente per testimoni. Alessandro Costazza ne dà conto in Ladri di identità (2019), esaminando pubblicazioni smascherate come menzognere in relazione alla Shoah e interrogandosi sui motivi che hanno portato critica, storici e pubblico a non accorgersi inizialmente dell’artificio. In merito a Frantumi (1995) di Binjamin Wilkomirski, che racconta la presunta infanzia dell’autore in un campo di concentramento, Costazza sostiene che il kitsch e la sovrabbondanza di luoghi comuni nel testo avrebbero dovuto immediatamente screditarne l’autenticità. Tuttavia, proprio la concezione acquisita della vittima e il coinvolgimento emotivo richiesto nei confronti del suo racconto sarebbero sufficienti ad escludere la riflessione e l’analisi formale da parte del lettore: «A questo mancato approfondimento critico ha sicuramente contribuito in primo luogo il fatto che l’opera è stata considerata, almeno fino al disvelamento della vera identità di Wilkomirski, come pura testimonianza, di fronte alla quale può valere solo un rispetto religioso, che fa apparire un giudizio estetico quasi come un’empietà»33. Di conseguenza, come sancisce Erner, «la victime apocryphe témoigne du pouvoir de conviction de la victime»34.
Nella nostra epoca, pertanto, i traumi vissuti coesistono accanto a quelli sorprendentemente desiderabili o, più banalmente, immaginati e temuti, ma in ogni caso non verificatisi. Una prossimità che ci porta a considerare la società del rischio identificata da Beck e quella delle vittime descritta da Erner come due facce della stessa medaglia. Notizia del disastro offre l’inatteso spunto per una riflessione critica in tal senso, attraverso la storia di Giuseppe Cravotta. L’uomo non riesce ad imbarcarsi sull’aereo che poi cadrà in mare; venuto a sapere dell’incidente, non è colto unicamente dal sollievo nel rendersi conto che un disguido gli ha salvato la vita:

Scoprì di provare invidia. Non certo per i poveri morti […], ma semmai per gli scampati, che avrebbero avuto una vera storia con cui riempire il resto della loro vita. Non era un gran filosofo, Giuseppe Cravotta, ma mentre guidava sull’autostrada verso Caltanissetta, fece altri pensieri sul destino di ognuno. Pensieri del tipo:
«Che cosa sarebbe successo se fossi salito sull’aereo precedente? Mi sarei salvato?»35.

Cravotta decide quindi di raccontare ai famigliari, e successivamente alla stampa, di essere invece salito sull’aereo caduto ed essere sopravvissuto alla sciagura venendo tratto in salvo. La bugia attecchisce per un tempo breve e viene successivamente smascherata, ma il suo inserimento all’interno di Notizia del disastro è rilevante sia perché risulta un completamento, tramite ampliamento, dell’inventario testimoniale, includendo la vittima indebita; sia perché implicitamente, e performativamente, mostra in azione una notevole alterazione della fattualità che passa insidiosamente inosservata. Non solo infatti Cravotta mente, ma anche Alajmo, in quanto il personaggio è del tutto inventato dall’autore, malgrado non ci siano spie nella scrittura che ne segnalino l’incompatibilità con il resto delle testimonianze: le licenze romanzesche, quali la resa di pensieri di norma inaccessibili a terzi, sono le medesime in uso per gli altri protagonisti. Per pervenire a rendersi conto del cortocircuito occorre conoscere la produzione precedente di Alajmo, dove ci si imbatte in una storia simile a quella di Cravotta e dichiarata come immaginaria36. Va da sé, tuttavia, che una simile deviazione interpretativa non è predisposta dal testo di Notizia del disastro e resta dunque fuori dalla portata di una lettura che non ha motivo di essere guidata dal sospetto.
Un risvolto del legame tra vittima e rischio sul piano letterario è rintracciabile poi nell’autorevolezza assunta da chi scrive per dissotterrare verità insabbiate e rendere giustizia agli sventurati, ponendo in pericolo la propria esistenza pur di adempiere il proprio dovere. Abbiamo rilevato la consapevolezza dei nostri autori di essere testimoni di secondo grado e quindi non direttamente colpiti dai crimini e disastri di cui si occupano. Eppure, non è da sottovalutare come anche l’attività documentaristica ponga chi scrive in una condizione di rischio e che tale stato si rifletta nella ricezione dei testi. Non è un caso che l’esempio di Roberto Saviano, costretto a vivere sotto scorta dopo l’impatto di Gomorra (2006), sia diventato paradigmatico: «Ha messo a rischio la sua vita. La storia che narra è stata autenticata da ciò che ne costituisce insieme il limite e la sanzione, e cioè la morte»37. Pur non arrivando a tanto, se nell’accostarsi a determinate tematiche si sceglie comunque di partecipare in qualità di personaggio alla materia narrata, venendo meno all’occultamento autoriale spesso privilegiato, lo si fa porgendo il proprio vissuto al servizio di una storia collettiva e non in modalità centripeta38, senza rinunciare a conferire alla propria opera e attività una valenza sacrificale. È la via percorsa da Giuseppe Genna in La vita umana sul pianeta Terra.
Come ritiene Gianluigi Simonetti, se collocarsi dalla parte delle vittime è il modo più sicuro e semplice di avere ragione, molte opere ibride si basano su qualche vittimismo, laddove il romanzo non teme di immischiarsi nelle vite dei carnefici, i quali respingerebbero invece gli oggetti narrativi non identificati: «lo spazio è tutto per gli sfruttati, rappresentare uno sfruttatore – rappresentarlo in forma artistica, cioè problematica – sembrerebbe una mancanza di riguardo o una cattiva azione»39. Il testo di Genna, incentrato sulla figura dello stragista Breivik, è dunque un’eccezione degna di nota40. Omettendo il punto di vista di morti e sopravvissuti, Genna fa del norvegese il fulcro, e il pretesto, della propria visione a tratti apocalittica con cui interpreta il presente e il futuro dell’Occidente, identificandone il declino nel predominio di una tecnologia anestetizzante e nella svalutazione della cultura, culminanti nel prossimo superamento dell’umano, della Storia, del bene e del male:

Umani muovono passi incerti bambini sul suolo rossiccio di ematite […]. È Marte.
La vita umana sul pianeta Terra non esiste più, poiché la vita umana inizia a stare su più pianeti.
La panspermia, ovverosia l’ubiquità universale della vita organica, l’esistenza di storie di viventi un po’ ovunque: viene abrogato il paradigma umano. Non soltanto si impone un nuovo paradigma, ma non può fare fede più l’umano.

[…] In quel momento, quando la mano guantata e insicura del primo umano su Marte raccoglie un campione organico vivente – in quell’attimo e soltanto da quell’attimo finisce Adolf Hitler, finisce dunque il signor Breivik.
[…] Consideriamo, con una superficialità un po’ svagata, cosa stanno per diventare alcuni perni di quella che fu la vita umana sul pianeta Terra.
Il Cristo, certo: e per la vita su Marte cosa è il Figlio dell’Uomo41?

L’opera di Genna, caratterizzata da una prosa visionaria, a tratti oscura e ridondante, non poggia né su una struttura corale né su una coesa narrazione biografica. È costituita, semmai, da un patchwork di materiali testuali di varia natura, tra cui rientrano il fatto di cronaca inaugurale, gli inserti saggistici a tema sociale (dal lavoro alla tossicodipendenza) e i circoscritti abbozzi di scene di vita (di Breivik e di Genna). Significativamente, quando l’autore si espone ricorrendo alla narrazione autobiografica, si ricollega stabilmente alla propria veste professionale, mostrandosi invariabilmente come scrittore impegnato e outsider di un’editoria dipinta come un’industria morente votata al profitto. Scopriamo allora che la stessa Vita umana sul pianeta Terra sarebbe un testo nato su commissione, per volontà di uno dei massimi editori italiani che avrebbe richiesto «un thriller leggibile, una spy-story»42. Vista la mancata adesione del risultato effettivo non solo alla narrativa di genere auspicata dall’editore, ma a qualsiasi genere definito, è lecito interpretare l’opera come l’esito del rifiuto delle logiche di mercato applicate alla scrittura, una ribellione ugualmente constatabile nell’evidente mancato assecondamento del criterio della leggibilità. Pertanto, l’integrità dell’autore si riflette nella commistione e nello smantellamento dei generi. Al contempo, il rigore etico è associato, nel testo, all’identificazione alternativa a quella di scrittore che l’autore adotta nel testo: egli agisce infatti come reporter d’inchiesta quando entra in contatto con i pericolosi ambienti neonazisti tedeschi, sulle tracce della rete a cui si era appoggiato Breivik; analogamente, si presenta come giornalista (e non scrittore) quando si trova a noleggiare un veicolo in Norvegia43.
Quest’ultimo dettaglio si riferisce alla scena onirica che vede l’autore affittare uno scuolabus con il quale si dirige verso la prigione in cui è rinchiuso Breivik, avendo cura di caricare durante il tragitto, una a una, le persone assassinate dal criminale, ritratte con un aspetto eloquentemente spettrale e con in mano una ciotola di sangue fumante da cui sono intente a bere44:

«Vi carico tutti. A mano a mano che vi incontro apro la porta, vi carico, vi porto con me.»
«Proseguirai da solo, però. Ti accompagneremo fino al penultimo. Rimarremo a osservarti in silenzio, nutrendoci del sacrificio che compirai per tutti noi.»
È difficile pronunciare le formule dell’annullamento: pare una bestemmia. «Non compio sacrifici per voi. Non li compio per me. Non li compio se non perché sarà così, è così che le cose vanno. La vita umana sul pianeta Terra è una catena di sacrifici, portati a termine per finire e uscire da qualunque catena.»
«Tu non farai il sacrificio che ci ridia la carne, il sangue, la luce che fa serrare le palpebre, le fibre con cui nutrire il corpo?»
«No.»45

Il simbolismo è facilmente riconducibile al sacrificio dello scrittore per onorare le vittime, ma Genna preferisce mischiare le carte in tavola in dialogo con uno dei ragazzi morti, come ad ammettere la limitatezza della propria impresa. E ciononostante, l’immagine dell’autore al servizio di una causa che lo trascende e per cui si mobilita, non senza rischi, viene puntualmente evocata. Nel testo Genna giunge all’incontro, irrealistico, con Breivik, ma tra le fonti che l’autore menziona nella nota conclusiva non compaiono interviste (che siano al criminale, a informatori o ad altre persone coinvolte), bensì solo risorse di stampa e disponibili in rete, oltre a un saggio di Franco Fracassi. Probabilmente, è abbastanza per individuare nel Genna-personaggio de La vita umana sul pianeta Terra, integerrimo giornalista-scrittore in prima linea, una coincidenza piuttosto relativa con l’autore. Del resto, quella che compare in copertina è pur sempre la dicitura «romanzo».
Identificando assonanze e divergenze tra le opere che abbiamo accostato sulla base di una affinità contenutistica, ossia le circostanze catastrofiche, siamo pervenuti a riscontrare quanto il racconto del disastro si concili agevolmente con alcuni presupposti caratteristici della nonfiction italiana contemporanea. L’ibridazione di genere risulta un’alleata pressoché irrinunciabile per tenere a freno le insicurezze e le insofferenze al cospetto del romanzo e insieme continuare a ricorrere a quegli strumenti che garantiscono l’appartenenza al letterario e l’identificazione come scrittore. Si tratta di esigenze chiaramente non sollecitate solo dal tema estremo del disastro, il quale tuttavia è in grado di accentuarne la portata e la realizzazione, soprattutto perché, come abbiamo osservato, queste risentono non unicamente dello stato attuale del panorama letterario, ma anche di più ampi fenomeni, a livello storico e sociale, che plasmano il nostro rapporto con la realtà. La familiarità acquisita con una dinamica del rischio onnipresente ci obbliga così a porci costantemente domande sulle alternative del presente, spingendoci a cercare significati ai margini del possibile, riavvolgendo il nastro del tempo e riportando in vita i morti, narrando il futuro, provando abiti identitari che desideriamo, ma non ci appartengono, dando voce a chi non l’ha avuta. Tutte possibilità con cui i nostri autori si sono confrontati all’ombra della catastrofe e che si condensano in un comune, ultimo interrogativo:

di fronte all’indeterminatezza del rischio non c’è alternativa allo sperimentalismo esistenziale: lo scoprire, il subire, il prevedere l’imprevedibile, la paura, il piacere, la sorpresa, la dosata anticipazione della morte, che introduce il rischio nella quotidianità, tutto questo culmina nell’affermazione (da intendersi, ovviamente, in senso ironico) «Rischio», ergo sum. Rischio, dunque sono. Soffro, dunque sono. Chi sono? Perché sono? Perché sono quello che sono e non sono quello che potrei anche essere46?


  1. U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, trad. it. di C. Sandrelli, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 10.

  2. Ivi, p. 31.

  3. Ivi, p. 4.

  4. Ivi, p. 9.

  5. Ivi, p. 12.

  6. M. Archetti, Una specie di vento, Milano, Chiarelettere, 2018, pp. 7-8.

  7. Ivi, p. 44.

  8. I testi di Alajmo e di Genna sono stati oggetto di riedizione (con il passaggio a nuove case editrici, ossia Sellerio e Alegre), perdendo la dicitura in copertina. Per la nostra indagine, tuttavia, ci riferiamo alle edizioni originali, ritenendo però degna di nota la ripubblicazione dei testi, segno di un interesse vivo per questo tipo di opere (addirittura per Notizia del disastro trascorrono ventuno anni dalla prima uscita).

  9. G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino, 2018, p. 102.

  10. Wu Ming, New Italian Epic. Narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, p. 12.

  11. M. Archetti, Una specie di vento, cit., p. 4.

  12. Archetti tralascia persino di informare che è nato a Brescia, luogo della catastrofe.

  13. Omettendo il discorso sull’uso delle fonti documentarie, si osserva a margine che il rispetto delle stesse da parte degli autori può naturalmente essere soggetto a verifica, pur in presenza di affermazioni che assicurano la consultazione e la riproduzione fedele dei resoconti dei testimoni diretti. Mentre Murakami, in apertura a Underground, rende noto in maniera dettagliata il metodo con cui ha raccolto e gestito le interviste (cfr. H. Murakami, Undergound. Racconto a più voci dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, trad. it. di A. Pastore, Torino, Einaudi, 2011, pp. 7-13), Aleksievič non vi si sofferma nella sua autointervista in Preghiera per Černobyl’ (cfr. S. Aleksievič, Preghiera per Černobyl’, trad. it. di S. Rapetti, Roma, e/o, 2005, pp. 39-42). È risaputo che l’autrice ha fatto di quelli che sono stati definiti «romanzi di voci» (ricorrendo ancora al macrocontenitore romanzesco) una forma e un procedimento di scrittura collaudati, in merito a cui Aleksievič si è espressa ripetutamente sulla stampa e sul suo sito web, rendendo forse superflua un’ulteriore ripresa nelle singole opere riconducibili ad analoghi presupposti. Eppure, il sospetto che la rielaborazione letteraria, nella produzione di Aleksievič, pesi più della verità delle vittime di cui l’autrice si pone al servizio, si insinua se si approfondiscono le modalità di lavoro della scrittrice (cfr. G. Ackerman, F. Lemarchand, Du bon et du mauvais usage du témoignage dans l’œuvre de Svetlana Alexievitch, in «Tumultes», XXXII-XXXIII/1-2, 2009, pp. 32, 44-46, dove emerge, tra l’altro, che a una richiesta di deposito delle sue registrazioni presso un archivio, Aleksievič ha risposto sorprendentemente che non conserva quelle tracce).

  14. Di un’epigrafe si serve pure Archetti, con medesima funzione di sintesi dello spirito che anima l’opera, tesa a porre l’accento sul persistere, tramite la loro ricostruzione, delle vite spezzate. Come per Alajmo, in questo modo ad essere veicolate sono anche le rispettive visioni autoriali delle catastrofi oggetto dei testi.

  15. R. Alajmo, Notizia del disastro, cit., pp. 42-43.

  16. Ivi, p. 13.

  17. Cfr. M. Archetti, Una specie di vento, cit., pp. 30-31.

  18. Ivi, p. 40.

  19. Cfr. G. Genna, La vita umana sul pianeta Terra, Milano, Mondadori, 2014, pp. 57-59.

  20. Cfr. ivi, pp. 11-14.

  21. Non è irrilevante ricordare, circa la vitalità degli scambi tra letteratura e giornalismo all’ombra di stragi e disastri, la collana Pulitzer curata da Simone Barillari per Minimux fax, che comprende, oltre a S. Barillari (a cura di), Catastrofi. I disastri naturali raccontati dai grandi reporter, Roma, Minimum fax, 2007, la raccolta Id. (a cura di), New York, ore 8.45. La tragedia delle Torri Gemelle raccontata dai premi Pulitzer, Roma, Minimum fax, 2015.

  22. S. Barillari (a cura di), Catastrofi, cit., p. 7.

  23. Ivi, pp. 14-15.

  24. Come nota Daniele Giglioli, se per narrare occorre essere in vita, ciò può comunque apparire, di fronte a chi è deceduto, magari pagando proprio per aver raccontato, come una colpa, un impegno mancato o un destino minore (cfr. D. Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011, p. 59).

  25. G. Erner, La société des victimes, Paris, La Découverte, 2006, p. 25.

  26. Rilevando come gli anni di piombo abbiano dato vita a un sottogenere fiorente tra anni Novanta e Zero, Gianluigi Simonetti ritiene che la mancata rappresentazione della lotta armata nel momento in cui era in corso si debba alla natura troppo scottante e orribile di quella realtà, diventata tema abbordabile quando la stagione violenta è terminata (cfr. G. Simonetti, La letteratura circostante, cit., pp. 91, 122).

  27. Cfr. ivi, pp. 101, 125, 127.

  28. Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. IX.

  29. Ivi, p. 24.

  30. Cfr. D. Giglioli, Senza trauma, cit., pp. 10, 61.

  31. Cfr. G. Erner, La société des victimes, cit., p.54.

  32. Cfr. ivi, pp. 58-65, 149-170; L. Lang, Délit de fiction. La littérature, pourquoi?, Paris, Folio, 2011, pp. 152-154; 159, 160.

  33. A. Costazza, Ladri d’identità. Dalla falsa testimonianza alla testimonianza come finzione nella letteratura tedesca sulla Shoah, Milano, Mimesis, 2019, p. 82.

  34. G. Erner, La société des victimes, cit., p. 33.

  35. R. Alajmo, Notizia del disastro, cit., p. 147.

  36. Questa rigorosa verifica si deve a L. Marchese, Storiografie Parallele. Cos’è la non-fiction?, Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 214-216.

  37. D. Giglioli, Senza trauma, cit., p. 60.

  38. Cfr. Wu Ming, New Italian Epic, cit., p. 15.

  39. G. Simonetti, La letteratura circostante, cit., p. 126.

  40. Non si tratta, tuttavia, di un caso isolato: Andrea Tarabbia dedica tre romanzi non finzionali ad altrettanti criminali (Il demone a Beslan, Il giardino delle mosche, Madrigale senza suono), mentre fuori dall’Italia Murakami riserva una sezione di Underground ad interviste a membri della setta responsabile dell’attentato.

  41. G. Genna, La vita umana sul pianeta Terra, cit., pp. 144-145.

  42. Ivi, pp. 79-86.

  43. Cfr. ivi, p. 150.

  44. Solo le persone decedute trovano spazio, esiguo e non approfondito, nel testo di Genna, come massa anonima, connotata unicamente dalla giovinezza (sebbene tra i deceduti ci furono anche persone mature). Gli scampati, di cui invece non si fa parola, vengono omessi anche nella scena dello scuolabus, riservata esclusivamente ai morti.

  45. Ivi, p. 155.

  46. U. Beck, Conditio humana, cit., p. 11.


In this essay I investigate how catastrophe is received within contemporary Italian nonfiction, focusing on three works: Notizia del disastro (2001) by Roberto Alajmo, La vita umana sul pianeta Terra (2014) by Giuseppe Genna and Una specie di vento (2018) by Marco Archetti. In particular, the analysis aims to identify the influences of the risk dynamic and the victim category in the narrative structures adopted. By emphasising the role played by the paratext and by characteristic authorial postures, it will be possible to recognise the compatibility of the catastrophic theme with certain peculiar trends in recent Italian literature, including the ambiguous relationship with the genre of the novel that pervades the works examined.