Eresia della forma-saggio nell’era digitale

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Das Land, das meine Sprache spricht,
O Land, wo bist du?
Ich wandle still, bin wenig froh,
Und immer fragt der Seufzer: wo?
Im Geisterhauch tönt’s mir zurück:
„Dort, wo du nicht bist, dort ist das Glück!“ 

F. Schubert, Der Wanderer 

Dopo l’ennesimo lungo viaggio, sistematosi finalmente in un villaggio, il viandante continua a domandarsi dove sia la sua terra felice. Una voce interiore gli dice che sarà sempre dove lui non è più, così il viandante deve riprendere il cammino. Quest’immagine liederistica vorrebbe esser d’omaggio al nomadismo degli autori di questa raccolta e anche a quello dell’intento stesso che li muove: la forma-saggio. Come il viandante ha sempre da dire sulle sue scelte paesaggistiche, il saggio è animato da un dubbio sulla presunta verità dell’oggetto che ha scelto – e che già è, come nel caso del prodotto culturale – parlando di esso, il saggio si mette a criticarlo riconfigurandolo.
Seppur tra il saggio e l’arte sembra esserci questo scarto critico (il saggio, come un testimone, dovrebbe dire sempre e null’altro che la verità?, l’arte invece non sarebbe vincolata a questa presunzione d’integrità morale?), per Adorno il saggio «sfiora la logica della musica»1. Questi due fenomeni, considerati alla pari, come forme, condividono una bizzarra antinomia: il loro discorso logicamente non fa una piega, eppure di per sé essi sfuggono alla logica discorsiva. Diremo che è propria di entrambi una certa attitudine all’equivocazione linguistica, in cui il senso non si contiene, anzi, si libera dalle sue catene, deflagra fuori di esse. È quest’equivoco a ridare al linguaggio ciò che la logica discorsiva gli aveva sottratto?
Il saggio irrompe nel suo oggetto, ma non per risalire all’origine da cui scaturirebbe, anzi per calarsi nelle derive che esso genera. Da una parte medita su ciò che già è, dall’altra non sa mai dove lo porterà questa meditazione. Si sforza di mettere in discussione ciò che è già dato e che altrimenti potrebbe esser semplicemente contemplato. Sembrando di essergli ostile, svela la debole consistenza di ciò che il prodotto culturale crede di essere, ne mette in luce la materialità del momento produttivo, che invece tende ad essere presentato dalla cultura come avvenuto per ispirazione di uno spirito santo. «Allo sguardo del saggio la seconda natura acquista consapevolezza di sé come prima natura»2. Ma il saggio lo fa proprio per amore del pensiero. Ci dice anche che la forza dell’esperienza conoscitiva sta nell’oltrepassarsi dai suoi meccanismi puramente classificatorî del senso e nel porre una qualsiasi meditazione sullo stesso nella sfera della polisemia.
Nel suo rimettersi perennemente in dubbio attraverso il linguaggio, il saggio dice qualcosa anche sul problema della feticizzazione dello stesso, da parte di quelli che Adorno anche oggi marchierebbe a discepoli del Jargon3, un certo heideggerismo che voleva il linguaggio portatore di una verità originaria. Eppure il saggio è così schizofrenico da ridimensionare le dispute più titaniche, puntando l’attenzione su una questione la cui urgenza – almeno – mette tutti d’accordo e che del saggio oggi potrebbe decidere il destino: il rischio della sua deriva tecnica.
Quando Adorno assistette ai Drei Bruchstücke aus Wozzeck di Alban Berg, folgorato, decise di mettersi alla sua scuola e lo seguì a Vienna. Nella musica della Wiener Schule il suono degenera dalla sua espressività archetipicamente vocale – che aveva caratterizzato la fenomenologia della musica occidentale più o meno sin dalle origini – e quasi non canta più, non professa più alcun verbo, bensì ratifica un flusso di voci che da professare hanno ormai il loro compito fisico-acustico all’interno del funzionamento della serie dodecafonica (o al massimo hanno un’onomatopea, un hopp hopp! di un bambino su un cavalluccio4). La forza di questa rappresentazione poietica, che nella tecnica seriale della neuen Musik sembra quasi arrivare a negare se stessa, per Adorno era presagio dell’incombere di quella tecnicizzazione del mondo che lo stesso Heidegger tentava di leggere e risolvere col supporto di un’altra rappresentazione, quella dei versi hölderliniani. Innegabilmente, uno dei versi che inquadrava in maniera profetica la questione della tecnica, nel suo potenziale insieme salvifico e distruttivo, era: «Wo aber Gefahr ist, wächst | Das Rettende auch»5.
Nell’era digitale, giunge forse allo zenit quel processo di grammatizzazione, iniziato con l’invenzione della scrittura stessa, attraverso cui proiettiamo contenuti su di un supporto. Ciò che era disperso nella mente è ritrovato sul supporto, ma dalla mente è anche perduto, il suo concetto è ora delegato al supporto. Passando il supporto della grammatizzazione dal libro al digitale, «come lo era la scrittura ai tempi di Socrate, così oggi il digitale è per noi un pharmakon: può sia condurre alla distruzione dello spirito che alla sua rinascita»6. Oggi il digitale pone il problema di ciò di cui la mente dev’esser gelosa.
Nel flusso di dati di cui ogni giorno acconsentiamo all’elaborazione attraverso i nostri dispositivi, deleghiamo ai supporti non solo i contenuti dell’intelletto ma anche le forme che lo strutturano, quelle linguistiche. Ebbene, Grammarly è una piattaforma che utilizza il natural language processing7 per fornire all’utente una supervisione lessicale, sintattica, persino semiotica, del processo di scrittura (l’interfaccia elabora e dispone: here’s how your text soundsconfidentjoyfuloptimistic). Oggi chiunque utilizzi i suoi dispositivi anzitutto per la scrittura, per mezzo della profilazione attraverso i cookies, tendenzialmente vedrà un’inserzione pubblicitaria di Grammarly prima di qualunque video su YouTube. In uno di questi video promozionali, un impiegato ottiene il beneplacito del capo donna (il video sottende un certo immaginario sessuale) attraverso una mail di lavoro supervisionata da Grammarly. Ma mentre le intelligenze artificiali iniziano oggi, attraverso il deep learning, a sfornare romanzi, composizioni e dipinti, anche il saggio (o dovremmo dire l’articolo scientifico?) tende ad esser provocato da un processo di review e indicizzazione digitale. Esso è ora un funambolo in equilibrio col vento alle spalle, mentre un algoritmo calcola dove si dirige il suo soffio.
All’alba del Sessantotto, Roland Barthes apriva l’edizione Einaudi del suo libricino in risposta a Raymond Picard con un’apostrofe diretta proprio al lettore italiano, chiedendosi curioso «se le Università italiane soffrano degli stessi mali che affliggono l’Università francese»8. A partire dal dibattito sulla nouvelle critique, si ponevano i seguenti problemi: 1) il presunto scientismo del sapere umanistico, 2) le dinamiche istituzionali che ne governano coercitivamente il canone di scrittura attraverso i miti dell’oggettività e della chiarezza (il libro, la scrittura – quella ancora analogica – erano mezzo di trasmissione del sapere) 3) il manicheismo tra l’opera e la critica, ad esempio tra il romanzo e il saggio. Nell’analisi di Barthes, mutuata anche da Derrida, tutto ruotava intorno all’unica verità del testo («non c’è fuori-testo»9) e della sua scrittura. Se questa è lo «spazio di dissolvimento del soggetto nel linguaggio»10 (in un recente volume sulla teoria impossibile della non-fiction, Ander Monson presenta un creative essay in cui tutte le pagine sinistre sono occupate da una “I” che man mano si restringe, fino a sparire, e quelle destre da frammenti di varia natura, che veicolano la miseria del soggetto americano di mezz’età11), è urgente oggi più di allora una discussione sulla scrittura, perché oggi il soggetto non si dissolve più nello spazio fisico della carta ma in quello digitale di un cloud.
Mi chiedo allora se i saggi di questo numero e dei numeri che verranno, che nel digitale calano la loro esistenza, seppur gli oggetti di ognuno di essi non siano che prodotti culturali d’ogni genere, mi chiedo se essi possano vivere il digitale insieme, con un’unica irruenza che un poco contribuisca a riconfigurarne il potenziale. Penso che quest’irruenza risieda in un’esistenza nomadica che del saggio è senza dubbio presupposto e che nel digitale si pone ancora come un’eresia12. Esistenza nomadica in cui la verità di cui il testo è informativo rimane sempre provvisoria. Nel suo inoltrarsi in questa «lotta per la verità»13, nel saggio sembra incarnarsi una certa idea di umanità. Questa continua a tormentarsi per un mondo che è pur sempre fatto di prodotti, cioè quelli culturali, ma in cui persiste una volontà che non è predatoria solo di manufatti – l’industria culturale ha sempre più una cultura dell’industria; case editrici, enti museali e lirici hanno sempre più i loro consigli d’amministrazione aziendali. Quest’idea di umanità che il saggio incarna si tormenta per un mondo fatto di prodotti in cui persiste anche una volontà che è predatoria di pensieri, che si ciba del pensiero. In questo suo incarnarsi, il saggio è un prodotto che può sfuggire alla reificazione. Può essere vivo, come lo descriveva Virginia Woolf14. La sua voce, figlia di sovrapposte voci autoriali che quando grammatizzate muoiono, è così umana da far sfoggio di se stessa. Lei, come invece l’apostrofa Cynthia Ozick:

moody, fickle, given to changing her clothes, or the subject, on a whim; sometimes obstinate, with a mind of her own, or hazy and light; never predictable […] Above all, she is not a hidden principle or a thesis or a construct: she is there, a living voice. She takes us in15.

Laddove il testo e la sua scrittura oggi tendono a conformarsi come veicoli d’informazioni (proprio in senso informatico), il saggio non informa, bensì forma. Anche nel dire al lettore dei suoi debiti intellettuali, il saggio proietta i suoi concetti in un ipertesto che non è già compiuto (come quello digitale), ma sarà perpetuamente ancora da compiersi. I concetti del suo testo non si contengono mai in loro stessi, perché sanno che il contesto li arricchirebbe di molteplici sensi, così il saggio è insieme antidealistico e idealistico:

L’esperienza intellettuale è tanto più minacciata dal disastro quanto più essa si sforza di concretizzarsi e atteggiarsi a teoria, quasi avesse scoperto la pietra filosofale. Eppure l’esperienza intelletuale tende, per il suo stesso significato, a questa oggettivazione. Il saggio rispecchia tale antinomia16.

La sua potenza è quella del frammento romantico come espresso in una bizzarra metafora di schlegeliana memoria: quella del riccio. Il suo istinto difensivo è paradossalmente provocatorio. Il riccio prende forma in maniera ben definita, eppure indistinta alle estremità. È come se la sua immagine si proiettasse oltre se stessa. Così, il frammento vuol separarsi dal mondo eppure evocare prospettive distanti. La sua separazione vuol essere aggressiva. Quest’ideale del saggio è pur sempre un’immagine, ma è un’immagine dialettica, perché nel presente, lancia il suo oggetto che già era in passato, verso la verità provvisoria che gli sarà propria anche in futuro. In questa sua coscienza di autolimitazione il saggio di per sé fa sua l’utopia che di quel limite postula la superabilità.


  1. Th.W. Adorno, Il saggio come forma, in Note per la letteratura, trad. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 2012, p. 24.
  2. Ivi, p. 22.
  3. Cfr. Id., Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca, trad. it. e cura di P. Lauro, Torino, Bollati Boringhieri, 2016.
  4. Si veda la scena conclusiva del Wozzeck di Berg: «drittes kind Du! Dein Mutter ist tot! | mariens knabe Hopp, hopp! Hopp, hopp! Hopp, hopp!»
  5. F. Hölderlin, Patmos, in Sämtliche Werke, a cura di F. Beissner, vol. II, Stuttgart, Cotta-Kohlhammer, 1953, p. 172. Su Heidegger, tecnica e cibernetica cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. e cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1985 e Id., Filosofia e cibernetica, a cura di A. Fabris, Pisa, ETS, 1998.
  6. B. Stiegler, L’Aufklärung nell’epoca dell’ingegneria filosofica, in Il chiaroscuro della rete, trad. it. e cura di P. Vignola, Kainos, Lecce, 2014, p. 33.
  7. Sull’elaborazione computazionale del linguaggio naturale cfr. ad esempio I. Chiari, Introduzione alla linguistica computazionale, Bari, Laterza, 2007.
  8. R. Barthes, Critica e verità, trad. it. di C. Lusignoli e A. Bonomi, Torino, Einaudi, 2002, p. 8.
  9. J. Derrida, Della grammatologia, trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Milano, Jaca Book, 1969, p. 219.
  10. R. Barthes, Critica e verità, cit., p. 9.
  11. Cfr. A. Monson, Facing the Monolith, in Metawritings: Toward a Theory of Non-fiction, a cura di J. Talbot, Iowa City, Univerity of Iowa Press, 2012.
  12. «la legge formale più intima del saggio è l’eresia» (Th.W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 26).
  13. G. Lukács, Essenza e forma del saggio, in L’anima e le forme, trad. it. e nota di S. Bologna, con uno scritto di F. Fortini, Milano, SE, 2002, p. 28.
  14. «the essay […] like all living things […]» (V. Woolf, The Modern Essay, in The Common Reader, a cura di A. McNeillie, New York, Harcourt, 1984, p. 211).
  15. C. Ozick, She: Portrait of the Essay as a Warm Body, in «The Atlantic Monthly», cclxxxii, 3, 1998, p. 118.
  16. Th.W. Adorno, Il saggio come forma, cit., p. 20.

The essay breaks into his object, but not to trace the origin from which it would spring, rather to descend into the drifts it generates. On the one hand it meditates on what already is, on the other he never knows where this meditation will take it. It strives to question what is already given and might otherwise simply be contemplated. By appearing to be hostile to it, it unveils the weak consistency of what the cultural product believes itself to be, it highlights its materiality of the productive moment, which instead tends to be presented by the culture as having occurred by inspiration of a holy spirit. «To the essay’s gaze, second nature gains self-awareness as first nature.” But the essay does that for the sake of thought. He tells us that the power of gnoseological experience lies in moving beyond the purely classificatory mechanisms of meaning and placing any meditation on it in the sphere of polysemy.