I discorsi vuoti del male. Figure del discorso in Sommersione di Sandro Frizziero

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1. Sciabordio di voci

Una voce anonima inchioda un pescatore alla sua storia, apostrofandolo con il ‘tu’, risuonando dal sottovuoto cavernoso della coscienza in cui proseguono, come tappati, i suoi giorni: la sua vecchiaia non può fuggire fuori dal tempo, e ogni giorno è un irrancidirsi nella propria meschinità. Il filtro della voce narrante penetra fin dentro le piaghe infette della vita del personaggio, col bizzoso ardire di raccontare perfino ciò che la sua memoria aveva censurato sotto un sordido strato di bestemmie incattivite. Risultato di quel disseppellimento, di quella esplorazione speleologica dentro questa coscienza, è la storia stessa: l’intreccio di Sommersione è tutto tramato dal vettore di una voce robusta e materica, che ha la consistenza ruvida della ruggine o della roccia. Con questi primi passi dentro la storia, ci si addentra in una riflessione critica intorno al secondo romanzo di Sandro Frizziero, edito da Fazi Editore, finalista del Premio Campiello 2020.
Il protagonista – pescatore da tutta la vita, sagoma fatta di mare e di ombra – ha i connotati di un anti-eroe vecchio ed esausto, ma non per questo lo si direbbe realmente rassegnato. Mentre la sua stanchezza lievita, in parallelo si gonfia il male che egli cova e trascina lungo i giorni; male che, con l’avanzare dell’età, non si limita semplicemente a ristagnare nella sua vecchiaia, frangia usurata del tempo della vita. Al contrario, il vecchio non smette mai di rinnovare l’odio che incuba, né di compiere i peccati che medita: le sue storture, che dapprima hanno la forma di pensieri astratti, deflagrano presto in una rabbia incendiaria, si trasformano in azioni meschine, sabotaggi ben studiati. Ogni sua biliosa azione nasce da una cattiveria arroventata e fraudolenta. La muscolatura dell’opera è tutta fatta di nervi tesi dalla collera. Infatti, sebbene il pescatore sia pugnacemente convinto che quel dio cui tanto era stata devota la sua defunta moglie non esista (se non come guscio vuoto di un’astrazione che gli uomini hanno avuto bisogno di inventare per dirottare le proprie responsabilità e smaltire le deiezioni delle proprie colpe) non può fare a meno di rimasticare il nome di quella divinità anonima, per poi espellerlo in uno sputo. Nel condirlo di bestemmie truci e blasfemo disgusto, non può non invocarlo quale testimone del proprio esistere: allora quel dio, negato e ripudiato, è destinato a rimanere comunque l’unico destinatario possibile del flusso di pensieri acquitrinoso che sciaguatta tra le pagine.
Per tutto il testo, la scrittura si tende lungo lo sforzo di dare una forma – territorializzata, terrigna e antropologicamente accuratissima – all’odio. Sentimento, quest’ultimo, che pare essere il solo motore dei giorni del protagonista, in grado di tenere ancora in vita la sua carcassa cascante, che pare ignorare i meccanismi più elementari di autoconservazione e si alimenta solamente per mezzo di zaffate di rancore. Come quello che ribolle nel fegato di tutti i misantropi, il suo è un odio capiente, democratico, che fa posto per tutti: scruta quella marmaglia estranea di Altri tenendosi a debita distanza, e non smette mai di indirizzargli contro il suo livore marcescente. In più, il suo è un odio giudicante, che fa la morale agli altri, dall’alto della sua irretrattabile intolleranza per la specie umana tutta. Non perché si ritenga più virtuoso degli altri, o più giusto; forse uno degli aspetti più bestiali della sua personalità è proprio la trasparente consapevolezza del dirupo lungo cui è precipitata la sua anima e l’irredimibilità del male a cui si è votato.
Quel rifiuto degli uomini, nella forma della materia narrata, si traduce in uno strumento cui la prosa fa continuamente ricorso, in maniera ripetuta e pervasiva: un brulichio di similitudini che mettono a confronto gli uomini con gli abitanti della fauna marina. D’altra parte, se è il mondo degli uomini che il pescatore ripudia, quello da cui cerca l’estraneità e l’esilio, dall’altro lato l’universo marino è quello che egli meglio conosce. Non ci si azzarda ad asserire che lo ami, giacché non ama niente intorno a lui, a nulla fa caso: qualunque dettaglio intercettato dal suo sguardo si imprime sulla pagina come già incrostato di marciume. Nondimeno, il popolo del mare e il mare stesso rimangono gli elementi che fondano il suo stesso sistema di pensiero, gli unici termini di paragone possibili. Filtri attraverso cui guardare la realtà e interpretarne i significati che il mondo umano complica o adultera.
Allora, in numerosi momenti, tale inclinazione della scrittura si estrinseca nella forma di vere e proprie similitudini funzionali, ad esempio, a particolareggiare la descrizione di un corpo umano, giacché solamente in questo modo la realtà diventa dicibile per il pescatore, che usa il mare come lente e come abecedario, come strumento ausiliario per gli occhi e per la parola. Si pensi a quando il protagonista ricorda la moglie prima che la malattia le rodesse la formosa bellezza: la comparazione spicca nel testo per la sua soda visività: «[…] la Cinzia prima della malattia, ovviamente, quella con i capelli radi, le braccia gonfie, la pelle lucida per il sudore, gli occhi ravvicinati come quelli di una sogliola»1. Sebbene siano più numerose le occorrenze di similitudini costruite come quella appena citata – cioè esplicite, dove il come esemplifica dichiaratamente tali esperimenti immaginativi bifronti – ricorrono anche dispositivi formali diversi, espressioni la cui doppiezza si fonde in autentiche crasi linguistiche: «Uomini-paguro che, come te, si ritirano nelle loro stanze al suono della sirena, si appiattiscono ai muri, si nascondono dietro ai cassonetti, sempre sospettosi e diffidenti come merli, pronti a fuggire se qualcuno li osserva anche da lontano»2. Questa tendenza della prosa è biunivoca e va in entrambe le direzioni: così com’è un corpo umano a innescare, in diversi momenti, un paragone con la natura animale, allo stesso modo la deformazione immaginifica e mostruosa può ritorcersi al contrario; a volte, può accadere anche che sia un pesce a richiamare a sé affinità e somiglianze con la sostanza umana: «La pelle del pesce s’imbruna, si raggrinzisce, come quella di un vecchio quando prende troppo sole in faccia»3.
Risponde sempre a tale formula associativa la descrizione di un sogno allucinatorio in cui a un certo punto il pescatore scivola: la scrittura racconta l’incubo sgranandolo nella sua sostanza di immagini terrificanti, una vera e propria catabasi nell’abisso, dove i fotogrammi che risalgono a galla nella coscienza appaiono deformati dalle recrudescenze di un male che gorgoglia, in quel tempo-limbo sottilissimo tra il sonno tormentato e la veglia. Diversamente dalla qualità tipologica delle altre associazioni, stavolta l’analogia sconfina quasi in una transizione metamorfica, scavalcando la struttura canonica della similitudine e finanche l’ibridazione della crasi, poiché le immagini (e non, in questo caso, le parole) si liquefanno in un unico perturbante incrocio: il miraggio di un uomo, che il protagonista intravede nelle profondità marine mentre i suoi connotati si deformano in quelli di un pesce: «Là sotto, tra le acque turbinose del porto, deve esserci un pescatore esperto, magari vecchio come te, una rana pescatrice che vive solo mossa dalla vendetta»4. La metamorfosi perciò è qui duplice, coinvolgendo a un tempo sia il livello fisionomico più superficiale che quello interiore: a questa mostruosa visione animalizzata vengono infatti associati sentimenti grondanti d’odio che generalmente si assocerebbero agli uomini. Quel sogno d’inferno continua, accompagnato dalla presenza pullulante e non sempre amica degli animali del mare, che vivono adesso antropomorfizzazioni e animazioni; essi replicano così, con spaventoso orrore, l’intreccio meticcio delle nature che era avvenuto nella scena appena citata:

Ti lasci andare e ti senti finalmente libero mentre scendi negli abissi e attorno a te si compone la danza macabra delle orate e dei branzini, delle canocchie e delle grancevole. Un enorme pesce serra ti si fa incontro e ti elenca tutte le tue colpe prima di morderti sulle gonadi5.

Un processo immaginativo del genere potrebbe rispondere alla definizione di “animalizzazione”; nello specifico, si fa riferimento al brillante saggio di Paolo Trama sulla zoopoetica: «Con animalizzazione, si vuole indicare un livello descrittivo e analitico dei processi compositivi, retorico-stilistici, considerati in relazione alla presenza dell’animale come personaggio, immagine, parola e figura, ma anche come orizzonte di riferimento costante di tali processi in senso più ampio»6. I momenti che si sono appena estratti appaiono effettivamente innervati da una prospettiva trasformativo-onirica, laddove l’immagine umana si “animalizza” e ne vengono snaturati i connotati ma, così facendo, si giunge a stravolgere le prospettive di senso. Nella selva di sensi amnemonici, insondabili ed ermetici del sogno, la scrittura tenta la terza via di un linguaggio altro, qual è quello rappresentato dalle immagini animali e metamorfiche; eppure, neanche la presenza dell’animale sub metaphora riuscirà a ispessire di senso le scorie del sogno rapprese nel narrato.
Se l’animale è la più compiuta allegoria dell’Altro – portavoce di un linguaggio estraneo, il cui sguardo rimarrà sempre sibillino e indecifrabile – la sua presenza si staglia nel testo come una palpebra serrata, che non si indovinerà mai cos’ha visto. In altri casi ancora, intersezioni e somiglianze tra uomini e animali sono rintracciate perfino dai personaggi: ripetute a mo’ di perle formulari di saggezza popolare: «Come direbbe proprio Don Antonio, che la Cinzia amava tanto citare, i peccati sono come le anguille: vanno al Mar dei Sargassi e poi inspiegabilmente ritornano»7. Oppure assumono la forma di un pensiero del protagonista stesso, mimetizzato e sciolto dentro il suo flusso ragionativo:

Gli uomini, quando ragionano, o meglio, quando fingono di ragionare, sono come le sardine, pensi. Amano stare appiccicati tra loro, sentirsi parte di un’idea più grande, un sentire comunque che non li lascia mai soli. E se uno di questi piccoli pesciolini si stacca dal gruppo, be’, ha subito nostalgia perché il mondo è troppo grande, troppo vasto per affrontarlo in solitudine8.

Pensieri espressi con tanto livore e grettezza non sono nient’affatto rari nel testo: conditi di ributtante misoginia, essi si riagganciano a quella postura ideologica d’altra parte condivisa da tutti i vecchi e burberi uomini dell’Isola, i quali, nelle proprie chiacchiere da taverna, ciarlano della violenza con cui le proprie donne meriterebbero di essere educate: «C’era bisogno di batterla come il baccalà, perché, come del resto ti dicevi con i tuoi compagni della Taverna, le donne stanno bene pestate, proprio come il baccalà»9. Pertanto, l’insistita propensione della scrittura di servirsi di icastici termini di paragone provenienti dal mondo animale, dà forma alla visione secondo cui la natura animale e quella umana non sarebbero estranee l’una all’altra, e neppure così dissimili. Esse, piuttosto, coesistono in una comunità dove sia uomini che bestie godono degli stessi diritti, e usano gli uni contro gli altri la stessa dose di bruta violenza.
Proprio per questo, si ritiene possibile un’interpretazione che mutui suggestioni e chiavi ermeneutiche dal modello della “zoopoetica”, data la ricorsività dello stile che incita nell’opera «non solo e non tanto l’animale come elemento appariscente del testo (personaggio, immagine), ma l’animale che si annida tra le sue pieghe, a configurare una sorta di serbatoio energetico […]»10 di senso, per quanto muto e blindato. Allora l’animale, che è immagine dal doppiofondo cavo, strato sotto il quale non si cela niente che possa essere verbalizzato, non figura tanto come vettore di una significazione che rimarrà serrata nel suo proprio linguaggio; è esso stesso elemento di linguaggio, lemma del solo vocabolario tramite cui il pescatore sa leggere e ridire i segni di realtà.
Il fare esortativo e imperativo a un tempo, su cui si è detta incardinata tutta la narrazione, si anima tramite lo stratagemma comunicativo del ‘tu’ che addita il protagonista, lo solleva per il bavero e lo spinge con le spalle al muro. Tale postura della voce dota l’intreccio di un sottofondo di ruvida ambiguità, che si acuisce soprattutto verso la fine del romanzo, quando cioè un ricordo aggirato ed eluso per tutta la vita minaccia con insistenza di riattivare il suo potenziale infetto nel presente del tempo della storia. A quel punto, il lettore ha già camminato dentro le paludi putride della vita interiore del personaggio, ne ha già ascoltato pensieri torbidi e disonesti. Ci si sarebbe potuti attendere allora l’intervento di un narratore inaffidabile, che seppellisce il senso di colpa nel rimosso e simula ricordi che non ha, fabbrica racconti che non sono i propri. Diversamente, il bisturi puntuto di quella voce che dall’esterno incide la coscienza del protagonista crepa la superficie della verità e la svela laddove lui avrebbe potuto tacerla. Del resto, in tutto il romanzo non c’è solo un personaggio che, con la sua retorica affabulatoria, inganna il lettore, attraendolo nelle spire della sua carismatica oratoria, come avverrebbe secondo la logica narrativa del narratore inaffidabile alla Zeno o Carrère; a parlare, piuttosto, è una voce che, pur non configurandosi come filtro autodiegetico della prima persona narrante, tuona nell’interiorità del protagonista, portando a galla anche l’indicibile, ciò che di infame e terribile se ne stava rintanato nei sotterranei della coscienza.
Diventa difficilissimo, perciò, tanto per il lettore quanto per il personaggio – e perfino per quella stessa voce che lo costringe al dubbio e all’interrogazione continua – discernere alibi, attenuanti e toppe di oblio, messe a occultare il suo segreto osceno. Mentre da quella voce ci si sarebbe aspettati una requisitoria senza scampo, un’accusa che mai si sarebbe sfilacciata in margini di incertezza ma piuttosto avrebbe sbattuto in faccia al personaggio la truce colpa dei suoi peccati passati, essa invece partecipa del dubbio, attraversa la nebbia di certi ricordi monchi impossibili a ricostruirsi. Gioca con il rimosso e ne fa tassello fantasma della materia narrata. Non viene intaccata così la sua attendibilità, ma si mette in dubbio tutto sommato il suo potere. L’equivocità è irrisolvibile e scolla il testo da qualunque verità.
In un altro momento della storia, la voce svela in maniera ancora più perturbante il suo potenziale di ambiguità. Come un burattinaio che manovra i fili del suo congegno, tenendolo così in vita, la voce sembra presiedere alla forza demiurgica delle parole che narra: minaccia di morte il suo personaggio soltanto con l’eventualità di sospendere il periodo nel vuoto, rasciugare le parole, murarle con un punto fermo:

Tu, invece, continui a esistere solo grazie a queste parole. Sono loro a tenerti in vita, a testimoniare la tua esistenza. Basterebbe un punto fermo messo proprio qui, ora, adesso, per ucciderti senza alcuna spiegazione, per farti fare la fine che meriti11.

È questa l’unica zona del testo in cui la voce anonima mette tanto di sé nella storia, scoprendo parte del suo potere e della sua responsabilità poietica; l’unico istante in cui il testo si smaglia e il focus sembra spostare la soggettiva proprio sulla voce, che normalmente invece scompare nelle quinte del narrato, facendo piuttosto da cassa di risonanza per le parole del personaggio. Per dirla con Eco: «Non è confusione, è invece un momento di limpida visione, di epifania della narratività, dove appaiono insieme le tre persone della trinità narrativa: autore modello, narratore e lettore»12.

2. Spazio e tempo: l’isola come cronotopo (e trappola infernale)

Per quanto riguarda il tempo attraversato dall’intreccio, la narrazione si spalma lungo l’arco di una giornata vissuta dal pescatore sull’Isola; nondimeno, l’effettivo tempo della storia è amplificato continuamente da flashback che lo dilatano dall’interno, scene scomode e urticanti che dal passato s’impongono alla memoria e alla scrittura con tutta la deflagrante irruenza del loro portato emotivo. Come accadrà per il personaggio stesso, il cui nome non importa ma, anzi, il cui anonimato lo situa in una condizione universalizzante di generico everyman, anche l’Isola che fa da ambientazione alla vicenda non ha nome. Così, la storia del protagonista può coincidere con quella di un qualsiasi uomo, in una qualsiasi succursale d’inferno sulla Terra. L’Isola, da parte sua, non verrà mai agganciata a riferimenti geografici esatti; la sua rimarrà la sagoma d’ombra di un’Isola senza battesimo, identità né coordinate. Benché la sua sia una latitudine fantasma, nella sua descrizione sono stati comunque intercettati alcuni referenti paesaggistici che avrebbero un plausibile attracco con la realtà di certi luoghi della laguna di Venezia (Pellestrina, Chioggia sono alcune delle località che lo scrittore ha ammesso aver fatto da superfici riflettenti per la sua ri-creazione letteraria del posto). Infatti, lo stesso autore ha poi precisato di aver trasfigurato la costituzione di quei luoghi reali, di averli cioè rimescolati e confusi tra loro: chiazze disarticolate e galleggianti nella laguna che nella sua immaginazione si sono amalgamate in un unico caliginoso paesaggio.
Tale fondale paesaggistico, che in ogni caso nell’opera non è mai ridotto soltanto a inerte cornice, induce ad allargare la presente riflessione, che può equipaggiarsi anche di certi strumenti attinti dalla critica ecologica. In questo caso specifico, le relazioni tra gli uomini e l’ambiente che figurano nell’opera legittimano e, anzi, stimolano una lettura ecocritica, nell’intenzione di interpretare il sentimento ecologico nella sua polimorfa proficuità semantica. In tal senso, l’opera narrativa si configura come un primo ecosistema, all’interno del quale si inscrive l’atmosfera di un paesaggio fittivo; come in cerchi concentrici che si inanellino gli uni negli altri, o come in un reticolato dalla fitta intelaiatura, le relazioni interpersonali tra i personaggi – anche quando troncate dall’odio o corrose dalla misantropia – reagiscono con il paesaggio determinandone una precipua percezione e una rappresentazione artistica altrettanto connotata. «Se l’ambiente è il contenuto, il paesaggio è la forma: l’espressione sensibile […] di quelle relazioni che nell’ambiente sono vive e come incarnate»13.
Il rapporto con il territorio dell’isola ha, nel romanzo, qualcosa di viscoso e ambiguo, quasi allucinatorio; l’impressione per gli isolani è quella di vivere dentro una bolla di realtà che ignora l’esterno e basta a se stessa. Benché gli abitanti non possano negare né ignorare l’oggettiva proliferazione del progresso che, sempre e solo al di fuori dell’Isola, spadroneggia con le sue promesse e i suoi monumentali motivi di vanto; tuttavia, nessuno di quei sintomi della modernità ha mai concretamente raggiunto l’Isola. Estranea al riverbero della modernità come a quello della tecnologia, in ultima analisi il suo microclima parrebbe rimanere estraneo finanche al trascorrere del tempo:

Tu stesso, scrutando dall’Isola il profilo incerto della Terraferma, hai assistito al lontano moltiplicarsi dei comignoli delle industrie, alla posa di maestosi elettrodotti, all’innalzarsi delle prime torri; ma bastava tornassi a volgere il tuo sguardo al villaggio per renderti conto che sull’Isola non sarebbe arrivato nulla di nuovo.
Tu e gli altri vecchi dell’Isola non vi accorgete di alcuna differenza confrontando i vostri ricordi e ciò che vedete ogni giorno, sull’Isola non esiste nostalgia per il paesaggio.
Tutto è rimasto così com’era da tempo immemore, quasi che le piccole case alte e strette fossero anch’esse opere della natura […]14.

Rinchiusa in una bolla o imballata in una teca, l’aria dell’Isola appare immobile da secoli, i cambiamenti esterni non l’hanno mai alterata. Come si diceva, sembra che perfino il tempo la ignori; sicuramente, da parte loro, i suoi abitanti ignorano il tempo, che è una categoria universale così generalizzante e invertebrata che non può applicarsi alla qualità precipua del tempo sull’Isola: quello, d’altronde, lo decide il mare.

Gli abitanti dell’Isola, pur soffrendo la mancanza di servizi pubblici e il crollo del valore degli immobili, sono particolarmente fieri del loro isolamento e ciò non può non derivare dall’indole schiva, per non dire timorosa, dei primi che vi sono giunti, attratti proprio dal carattere impervio e inaccessibile di quei luoghi.
Esiste una fierezza nell’emarginazione e una gioia nell’esclusione. A parere di tutti gli isolani, il mondo fuori dell’Isola non è così migliore del mondo in cui vivono loro15.

Tale incaponita chiusura degli isolani è perciò interpretata come sintomatica di un vero e proprio determinismo naturale: il luogo ha plasmato il tipico atteggiamento ritroso e superbo di tutti gli abitanti, la convinzione autarchica di bastarsi, di non aver bisogno di spingere lo sguardo sognante o desiderante oltre la lingua di terra che abita. Queste inclinazioni, congenite qualità caratteriali, convergono e si fondono insieme nel personaggio del protagonista, campione antropologico che il lettore scoprirà guastato e corrotto dalle influenze ambientali, oltre che dalle proprie esperienze di vita.
Dal momento che l’intera narrazione transita attraverso i passi del protagonista, che egli cioè è il solo catalizzatore che la voce trapassa, riconsegnandone traiettorie e falcate e sguardi, è vero anche che l’Isola che il lettore s’immagina e impara a conoscere è un «effetto di realtà» che gli deriva unicamente dalle percezioni parziali del pescatore. Un reticolato che si stringe attorno al protagonista come una morsa che ottura il fiato e blocca il tempo. Se, d’altra parte: «le successioni di passi sono una forma di organizzazione dello spazio, costituiscono la trama dei luoghi»16, l’architettura del luogo-Isola (intendendo il «luogo come spazio praticato»17, espressione ancora mutuata dalle formule di De Certeau) qui si configura, alla fine, come la riproduzione planimetrica di un inferno la cui misura combacia con lo spazio vitale del protagonista, la manciata di metri cubi entro cui minaccia di venire sommerso:

La mappa dell’Inferno in cui ti trovi a vivere si può tracciare con precisione millimetrica, questa è la verità. Basterebbe unire ogni sofferenza, i punti morti del mondo, come in quel giochino della settimana enigmistica, fino a creare un reticolato, una gabbia che avvolge il pianeta e che imprigiona gli uomini come le seppie.
L’inferno è una trappola tesa, è un ricordo che non si può cancellare18.

In ultima analisi, è questa la forma assunta dall’intero romanzo, che si chiuderà a cerchio sul protagonista. L’autore ha spiegato, in un’intervista, che il suo titolo alludeva almeno a tre “sommersioni”: le sommersioni periodicamente subite dall’isola, dovute perciò agli umori delle maree, la sommersione vissuta dal protagonista, la cui vita passata lo assalta con ricordi che sanno di putrido rimorso, e infine la sommersione che (egli si augurava) avrebbe vissuto il lettore. Una sommersione da cui riemergere con consapevolezze non facili da mandar giù, finanche dolorose, eppure costruttive. Con il nostro sforzo ermeneutico, ci si è voluti avventurare in un’altra sommersione ancora, con l’auspicio che ogni rilettura di quest’opera grandiosa funga da ulteriore arricchente operazione di scandaglio. Non è detto che la riemersione sani o salvi; il romanzo di Frizziero ha saputo comunicare con amaro coraggio che non sempre il male cova attenuanti o alibi, né che c’è da aspettarsi sempre la catarsi di una redenzione – questo, contro il buonismo di qualunque ostinato e acritico ‘pensiero positivo’ che, per abbracciare una filosofia ottimistica, nega però al male anche il suo potere immunizzante, da anticorpo buono. A un certo punto della storia, l’incedere del protagonista è descritto zigzagante e precario come «il passo dell’ubriaco»19. Ci si concede un’ultima suggestione immaginativa: si è rivisto, in quel portamento – di un personaggio che non ha nulla dietro di sé, e che per tutta la vita non ha fatto che sputare su ogni residuo di bene, con una distruttiva furia nichilista – l’andatura di un’altra silhouette letteraria:

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco20.

Il poeta che Montale negli Ossi di seppia ritrae, si volta e scopre il nulla; squarciato il velo di Maya della realtà non c’è nessuna verità, né alcuna altra significazione in grado di restaurare la superficie crepata. Si conclude che, in fondo, anche dietro il pescatore di Frizziero non ci sia nulla: nulla in grado di salvarlo, né agli occhi di quel dio di cui non cercava il perdono, né agli occhi del lettore (che, forse, lo condannerà).


  1. Sandro Frizziero, Sommersione, Roma, Fazi, 2020, p. 58, corsivi nostri.
  2. Ivi, p. 40.
  3. Ivi, p. 61.
  4. Ivi, p. 66.
  5. Ibidem.
  6. Paolo Trama, Animali e fantasmi della scrittura. Saggi sulla zoopoetica di Tommaso Landolfi, Roma, Salerno Editrice, 2006, p. 24.
  7. S. Frizziero, Sommersione, cit, p. 126.
  8. Ivi, p. 105.
  9. Ivi, p. 101.
  10. P. Trama, Animali e fantasmi della scrittura, cit., p. 22.
  11. S. Frizziero, Sommersione, cit., p. 34.
  12. Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, p. 30.
  13. Niccolò Scaffai, Letteratura e ecologia, Roma, Carocci, 2017, p. 24.
  14. S. Frizziero, Sommersione, cit., p. 26.
  15. Ibidem.
  16. Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Roma, Editori del Lavoro, 2010, p. 150.
  17. Ivi, p. 176.
  18. S. Frizziero, Sommersione, cit., pp. 173-74.
  19. Ivi, p. 113.
  20. Eugenio Montale, Ossi di seppia, in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1984, p. 42.