Nabokov, Canetti e Djebar: tre diversi casi di translinguismo letterario

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1. Il matricidio della lingua nel Ventesimo secolo

Sono molti i fattori che si possono individuare nell’osservare il passaggio che si realizza in letteratura tra la prima e la seconda metà del secolo scorso; a tal proposito è interessante, ad esempio, che si sia verificato un autentico matricidio della lingua, infatti la quȇte di molti scrittori novecenteschi diviene il tentativo di servirsi di un idioma differente rispetto alla propria lingua materna. Le ragioni della suddetta scelta possono essere le più disparate: spesso muovono a partire da complesse questioni sociopolitiche o, a volte, più semplicemente attengono al nuovo mercato editoriale dei consumi nato all’indomani del secondo conflitto mondiale1. Agota Kristof, ad esempio, che già nutriva velleità da scrittrice nella patria ungherese, all’altezza cronologica del suo trasferimento in Francia, non ha esitazioni nello scegliere il francese come lingua d’elezione per le sue prove narrative. Questa decisione è dettata dalla consapevolezza che, in quanto romanziera nient’affatto nota prima d’allora, nessun editore l’avrebbe probabilmente mai tradotta2.
D’altro canto la temperie culturale scaturita dalla devastante guerra degli anni Quaranta aveva già ampiamente contribuito ad annullare il paradigma ormai consolidato della nozione di letterature nazionali. Per giunta, l’avvento della globalizzazione e la conseguente percezione di un mondo sempre più interconnesso ha favorito un uso massivo delle lingue, per cui ogni parlante, soprattutto se afferente ad uno spazio periferico del mondo, ha sperimentato l’apprendimento di almeno una seconda lingua, oltre a quella materna.
Inoltre la comparatistica, ponendosi quale disciplina antigerarchica per eccellenza, non ha potuto non tener conto dell’atteggiamento di quanti hanno preferito effettuare scelte linguistiche del tutto innovative, motivo per cui in anni recenti Steven G. Kellman, esperto di Letterature comparate e Teoria della letteratura, ha pubblicato un interessante studio dedicato proprio al fenomeno del translinguismo in letteratura; in The Translingual Imagination3 lo scopo dello studioso è infatti quello di dimostrare come sia possibile scrivere altrettanto bene in due lingue, o quanto meno di scrivere bene in una lingua d’adozione. Studi in merito chiaramente già esistevano, ma spesso si è trattato di monografie, il proposito di Kellman è stato, invece, quello di sviscerare tale fenomeno nella sua globalità.
A partire dal presupposto fondante dell’opera del comparatista americano – ovvero che il multilinguismo sia sempre fonte di arricchimento e mai di perdita – egli fornisce indicazioni generali sulle ragioni storiche e biografiche che hanno indotto autori e autrici a scrivere in una lingua diversa dalla propria. The Translingual Imagination verrà citato a più riprese all’interno del seguente studio poiché si focalizza su autori che hanno attraversato il Ventesimo secolo, arco temporale che dal punto di vista storico – sulla scia del colonialismo, delle guerre e delle migrazioni intercontinentali – è il secolo fondamentale per istituire un ipotetico canone di scrittori translingui.
In alcuni casi, soprattutto nel secondo Novecento, a seguito del faticoso processo di decolonizzazione, il fenomeno del translinguismo appare di natura coercitiva: scrittori di letterature migranti e postcoloniali fanno leva su questa tipologia di translinguismo forzato per crearsi una nuova identità o riappropriarsi di quella d’origine smarrita. Questo, in fondo, è quanto accaduto ad autori capofila della nuova identità post-coloniale come Salman Rushdie e Ahmadou Kourouma, rispettivamente il primo per il mondo anglofono ed il secondo per quello francofono. A questo proposito, il saggio di Kellman dedica un capitolo intero al particolare caso studio dell’Africa, probabilmente il più importante bacino di scrittori translingui al mondo. Qui, come anche in altri paesi ex membri degli imperi coloniali, le direzioni possibili sono molteplici: si può scegliere di recuperare la lingua indigena dei propri antenati, rifiutando così l’egemonia politica e culturale del colonizzatore, oppure – al contrario – si può scegliere di adottare il prestigio e il potere della lingua dell’Altro. In questa seconda casistica si inserisce anche l’antesignano del decostruzionismo Jacques Derrida, algerino di nascita e francese d’adozione, che in Il monolinguismo dell’altro, in merito alla sua condizione, afferma convintamente: «Sì, non ho che una lingua, e non è la mia»4; il riferimento è al francese, idioma il cui studio veniva imposto in Algeria nelle scuole di ogni ordine e grado dall’autorità coloniale, ecco perché appare a molti come la lingua dell’Altro per eccellenza.
Per quanto concerne la scrittura postcoloniale e la relativa questione linguistica, questo studio dedica un paragrafo all’opera L’amour, la fantasia (1985) della scrittrice algerina Assia Djebar, tuttavia prima di giungere al suo caso, l’autore al quale è dedicato il secondo paragrafo è Vladimir Nabokov, uno straordinario scrittore ambolingue, capace cioè di essersi inserito in una duplice tradizione letteraria, ossia quella russa e quella angloamericana. Segue un focus sul caso de La lingua salvata (1977), il primo volume dell’opera autobiografica di Elias Canetti, uomo al crocevia di più culture, che decide di elaborare l’intera produzione unicamente in lingua tedesca pur conoscendone svariate altre e soprattutto pur non essendo quest’ultima la sua lingua materna.

2. Il più emblematico degli scrittori translingui: Vladimir Nabokov e il caso Lolita

Tra tutti gli autori che hanno adoperato il fatidico passaggio dalla lingua madre ad una lingua altra, Nabokov è sicuramente il più celebre. Il suo sentimento di duplice appartenenza a due mondi – Occidente e Oriente, America e Russia, i due blocchi simbolo della guerra fredda – si consolida fin dalla più tenera infanzia; infatti, se è vero che il giovane Nabokov nasce a Pietroburgo da una famiglia appartenente alla vecchia nobiltà russa, è anche vero che a seguito della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 – quando ha circa diciotto anni – è costretto a emigrare a causa di posizioni politiche in netto contrasto rispetto all’ideologia vincente. Questa non fu certamente solo la sua sorte, anche svariate altre personalità pienamente entrate a far parte del canone letterario, vivranno simili peripezie: fra tutte, ad esempio, la celebre Irène Némirovsky, che ha avuto una storia di emigrazione affine a quella dell’autore russo, ma che, a differenza sua, si è convertita all’uso letterario del francese.
Nella sua raccolta di memorie autobiografiche5 Nabokov narra della propria famiglia come di una famiglia agiata e benestante che, ben prima del trasferimento forzato, trascorreva le estati in villeggiatura nelle più rinomate mete europee, inoltre la sua casa era popolata da domestiche e balie che parlavano lingue diverse dal russo (la prima governante della casa di San Pietroburgo, la signorina Rachel Home, comunicava proprio in inglese). Non è stato difficile quindi per Nabokov entrare in contatto con idiomi differenti dalla propria lingua materna; fin dalla più tenera età, infatti, sapeva destreggiarsi abilmente anche con il francese e l’inglese, infatti in lui l’inconfondibile cifra cosmopolita sarà sempre un forte segno distintivo.
Nel vecchio continente ha vissuto dapprima in Inghilterra, dove ebbe l’opportunità di frequentare il Trinity College di Cambridge e specializzarsi nello studio parallelo sia delle lingue slave che di quelle romanze. Successivamente seguì un trasferimento in Germania, luogo in cui l’autore sperimentò un periodo emotivamente cupo a causa dell’assassinio di suo padre avvenuto nel 1912 a Berlino per mano di un fanatico monarchico, poi ancora a Parigi, città in cui conobbe la celebrità a seguito delle prime pubblicazioni.
Anche se Nabokov è conosciuto presso il grande pubblico soprattutto per il talento di romanziere, il suo esordio è riconducibile ad una raccolta poetica in cui si avvertono echi del simbolismo francese. Solo nel 1926 darà alle stampe un primo romanzo intitolato Mašen’ka; scritto in russo, con lo pseudonimo di V. Sirin; la storia è ambientata sullo sfondo della rivoluzione sovietica, nel testo si avverte profondamente l’influenza di Turgenev, un autore imprescindibile della letteratura russa, tuttavia si percepisce già la volontà di effettuare una ricerca espressiva che insegue le tracce delle correnti e delle questioni letterarie occidentali più in voga del tempo (ne sono un esempio gli echi dell’espressionismo tedesco e la grande epopea proustiana della memoria).
Dunque, la primissima produzione nabokoviana, scritta utilizzando la lingua materna, si muove in una dimensione di double bind tra l’Europa dell’esilio presente e la memoria di una Russia ormai perduta. Di tutt’altro genere sarà la fase letteraria che prende piede con il trasferimento oltreoceano, nel continente americano, in quanto una realtà simile non poteva di certo lasciare indifferente qualsiasi uomo europeo che vi giungesse; il boom economico degli anni Cinquanta negli Stati Uniti rivela un paese pieno zeppo di contraddizioni, che vive peraltro nell’incessante timore del pericolo nucleare in pieno clima da guerra fredda. Una società che sbandiera il noto american way of life e che, a dispetto di ciò, dimostra che a far successo, alla fine, sono solo gli individui bianchi, maschi e borghesi. Un luogo dove l’ineguaglianza e la discriminazione razziale sono all’ordine del giorno, celati dall’immagine dell’America del consumismo e del nuovo lusso.
Insomma, i drammi, le antinomie, le miserie di una società così tanto eterogenea, lo spingono ad una rimodulazione della sua poetica, ad inaugurare cioè una nuova fase letteraria che tematizza questioni differenti da quelle analizzate finora ma che soprattutto fa uso dell’inglese, lingua che all’epoca stava già assumendo il peso rilevante che riveste ancora oggi nella società odierna; pertanto a partire da La vera vita di Sebastian Knight (1941), prima opera di Nabokov scritta in inglese, nuclei ricorrenti nei suoi testi divennero alcune delle derive del mondo americano, quali ad esempio il falso perbenismo moralista, l’ossessione per il sesso e il vizio del gioco.
Tuttavia, pur avendo attuato questa migrazione fisica e letteraria, ciò che risulta interessante in uno scrittore del suo calibro – secondo quanto scrive Guido Carpi – è che egli sia stato in grado di «costruire nei propri testi una sorta di modello bispaziale del mondo, dove l’altrove della Russia prerivoluzionaria e il qui e ora dell’esilio in Occidente possano coesistere e compenetrarsi anziché entrare in cortocircuito come nelle opere della maggior parte degli altri autori»6.
All’indomani del suo arrivo in America, Nabokov scrive Lolita, il romanzo con cui ha raggiunto fama mondiale, soprattutto a causa dello scandalo che ne derivò dalla pubblicazione avvenuta nel 1955 a Parigi per l’Olympia Press, una casa editrice semiclandestina che si occupava di letteratura erotica in lingua inglese (si tratta dello stesso editore che si interessò anche della stampa di Watt di Samuel Beckett7). La scelta di una realtà editoriale di questa tipologia è dettata da vari motivi; poiché il tema focale è la storia di Humbert Humbert, un professore di mezza età, innamorato di una ragazzina di dodici anni, è facile intuire che di un romanzo del genere non sarebbe mai stata possibile la pubblicazione nel contesto di un regime totalitario quale quello sovietico, di conseguenza l’utilizzo della lingua slava sarebbe risultato inutilmente dispendioso (solo svariati anni più tardi Nabokov si assumerà l’onere di auto-tradurre il suo capolavoro in russo).
In realtà, come scrive in una nota finale al libro, già in Russia elaborò un breve racconto di trenta pagine che ruotava attorno a questo stesso tema, però ambientato a Parigi. La breve operetta non lo convinse del tutto, infatti ben presto accantonò il progetto. Solo più tardi, giunto in America, l’idea sopita tornò a galla con la sostanziale differenza che, in tale circostanza, decise di svilupparne un vero e proprio romanzo, questa volta in inglese, una lingua e una cultura che sono emblema di uno spazio Altro rispetto allo spazio del sé.
Se è vero infatti che Nabokov sceglie la lingua del paese che l’ha accolto, è anche vero che non è così semplice per lui ritrovarvisi fin da subito. A tal proposito ha precisato:

Il libro si sviluppò lentamente, con molte interruzioni e digressioni. Mi ci erano voluti circa quarant’anni per inventare la Russia e l’Europa occidentale, e ora dovevo affrontare il compito di inventare l’America. Procurarmi gli ingredienti locali che mi avrebbero consentito di instillare una modica dose di media «realtà» (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette) nel calderone della fantasia individuale si rivelò, a cinquant’anni, un procedimento molto più difficile che nell’Europa della mia giovinezza, quando ricettività e capacità di ritenere erano al loro automatico culmine8.

L’autore necessita di un nuovo pubblico e sceglie quello americano che tuttavia, in parte, lo deluderà, non solo perché ben quattro editori ai quali propose il dattiloscritto lo stroncarono in toto a causa del perbenismo dilagante nella società americana del tempo, ma anche perché, nonostante tutti i suoi sforzi, il romanzo venne ritenuto dai più antiamericano: «Questo mi addolora molto più dell’idiota accusa di immoralità. […] Ho scelto i motel americani invece degli alberghi svizzeri o delle locande inglesi solo perché sto cercando di essere uno scrittore americano, e rivendico solo i diritti di cui godono gli altri scrittori americani»9.
Non è dunque un’interpretazione del tutto corretta quella di un romanzo che si muove in senso opposto rispetto alla logica culturale dell’America del tempo. Nabokov non si rispecchia affatto nel sedicente intellettuale parigino Humbert Humbert, anzi non perde occasione per prenderne le distanze, tuttavia egli stesso ha fornito, come ipotetica chiave di lettura, la possibilità di intendere l’amore del professore europeo per la ragazzina americana come il fascino dilagante dell’Europa per il nuovo mondo, e ancor di più come l’amore che lui, scrittore di madrelingua russa, ha poi nutrito per la lingua inglese.
Lolita è l’America: in lei si intravede l’emblema del teenager tipo degli anni Cinquanta, colui che negli USA non ha vissuto la guerra e che adesso si gode gli albori della nuova civiltà dei consumi. Nabokov, da attento scrutatore qual è sempre stato, osserva e dipinge nel personaggio di Lolita la smania giovanile di voler accedere ad una dimensione del sogno consumistico fatto di riviste patinate e rotocalchi cinematografici:

Da un punto di vista mentale scoprii che era una bambina disgustosamente convenzionale. L’hot jazz edulcorato, le quadriglie folkloristiche, gli stucchevoli gelati col cioccolato fuso, i musical, i rotocalchi di cinema e così via… erano quelle le ovvie voci nella lista delle cose che prediligeva. Sa Dio di quante monetine nutrii gli sfarzosi juke-box che ci seguivano a ogni pasto! Sento ancora le voci nasali degli esseri invisibili che le cantavano la serenata, gente dai nomi come Sammy e Jo e Eddy e Tony e Peggy e Guy e Patti e Rex, e quelle sdolcinate canzonette di successo, tutte simili alle mie orecchie come le varie caramelle di Lo al mio palato. Lolita credeva, con una sorta di celestiale fiducia, in tutte le réclame e i consigli che apparivano su «Movie Love» o «Screen Land» – lo Sterasil stermina i foruncoli, o «Niente camicia fuori dai jeans, ragazze: Jill dice che proprio non si deve!». Se un cartello stradale diceva: VISITATE IL NOSTRO NEGOZIO Di REGALI dovevamo visitarlo, dovevamo comprare le curiosità indiane, le bambole, la bigiotteria di rame, le caramelle a forma di cactus. […] Erano dedicate a lei, tutte quelle réclame: la consumatrice ideale, soggetto e oggetto di ogni odioso manifesto10.

L’inglese, o meglio l’angloamericano di Nabokov, è una lingua che Gabriele Frasca ha definito post-traumatica11, derivante cioè da una situazione postuma rispetto a quella del trauma bellico che autori come Nabokov avevano in una certa misura vissuto. Certamente la Seconda guerra mondiale non si combatté sul suolo statunitense ma sulla stampa del tempo imperava il linguaggio bellico e ciò non ha potuto non influenzare lo scrittore russo. La nuova lingua del post-trauma si nutre anche del moderno sostrato dei media alimentato soprattutto dalla radio e dal cinema; del resto, infatti, tra gli autori prediletti da Nabokov vi è James Joyce che egli scopre nel 1930 attraverso la lettura dell’Ulisse (alla fine del 1933 progettava addirittura di tradurre il romanzo in russo e ne informò lo stesso Joyce, il quale gli donò una copia di Haveth Childers Everywhere, prima versione del Finnegan’s Wake)12. Dunque se già nell’opera joyciana è ravvisabile l’utilizzo di tecniche quali la stampa periodica, non stupisce che autori-ammiratori dello scrittore irlandese intessano i loro romanzi di una dimensione vicina a quella dei media. In Lolita tutto ciò si traduce in un pastiche di tipo cinematografico messo in atto attraverso l’utilizzo di una «voce fuoricampo, un montaggio convulso e improvvisi fermo-immagini»13.
Humbert, da moralista tout court, incarna anche una forza che tenta di opporsi, certamente invano, all’angloamericano del suo autore-creatore. Fin dalle prime pagine infatti, Humbert, di cui il lettore sta leggendo il memoriale, critica aspramente questo inglese che non gli si addice affatto e che è aspramente in contrasto con il francese, ossia la sua lingua materna:

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta. Era Lo, semplicemente Lo al mattino, ritta nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Lolita14.

L’incipit, in tal senso, è emblematico di quanto scritto sopra: Humbert tenta di insegnare ai suoi lettori la corretta pronuncia del nome della ninfetta attorno a cui ruota l’intera vicenda; e per giunta, anche quando descrive altri personaggi, non si smentisce affatto, giacché critica severamente le loro abilità linguistiche. Ciò avviene, ad esempio, quando sta narrando di Gaston Godin: «Guardatelo, quel pingue, vecchio invertito depresso e repellente, un uomo privo di qualsiasi talento, insegnante mediocre, studioso scadente, che teneva in sommo dispregio l’American way of life e ignorava trionfalmente la lingua inglese»15. Inoltre nel memoriale di Humbert l’inglese usato è estremamente composito, non è raro infatti che egli utilizzi espressioni idiomatiche in francese, in latino e a volte in tedesco, per ribadire il suo stretto legame con la cultura europea.
Alla strabiliante creatività linguistica, si aggiunge un’ironia che investe in maniera preponderante l’intero romanzo e che fa capo anche a giochi linguistici non del tutto intuitivi, d’altronde Nabokov possedeva una forte propensione per l’enigmistica, motivo per cui attraverso una storia dal gusto classico – quasi archetipico – come Lolita, offre al suo lettore una serie di anagrammi, crittogrammi e tanto altro da decifrare16.
Secondo Kellman lo scrittore translingue si trova spesso nella situazione, conscia o inconscia, di dover dimostrare le proprie competenze nella lingua dell’Altro17; ciò spesso si traduce in una preziosa ricerca stilistica, connotata da un lessico ricco e diversificato. Nabokov, in tal senso, è forse davvero lo scrittore che meglio rappresenta l’ipotesi sopracitata, tuttavia in A proposito di un libro intitolato Lolita, la postfazione redatta nel 1956, sente comunque di dover fare una chiosa relativa all’annoso confronto con la lingua inglese:

La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti, può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri18.

Insomma, dato il suo stile estremamente ricercato, potrebbe sembrare una cosa di poco conto per lui l’aver scritto in questo idioma differente dalla madrelingua, eppure è ben più complicato di così. Se uno scrittore come, ad esempio, Haruki Murakami decide di compiere la sua prima prova narrativa in una lingua diversa dalla propria, perché – a suo dire – ciò gli conferisce la giusta essenzialità e lucidità per esprimersi al meglio, tutt’altro è avvenuto per Nabokov che ha definito l’abbandono della sua splendida lingua russa come «una tragedia privata». Con essa avrebbe potuto mirare ad abolire, quasi trascendere l’eredità e la tradizione letteraria del paese d’origine, eppure a partire dagli anni Quaranta in poi sceglie definitivamente come lingua l’inglese, ponendola quale contrainte primaria della sua stessa opera.

3. Il translinguismo monolinguistico di Elias Canetti: La lingua salvata

Elias Canetti, Premio Nobel per la letteratura nel 1981, è un perfetto esempio di quegli scrittori che Steven Kellman ha definito i translingui monolingui19, ovvero autori che – a differenza di quanto notato con Nabokov – scrivono in un’unica lingua che, tuttavia, non risulta essere propriamente quella materna.
Claudio Magris, che per lungo tempo è stato un caro amico di Canetti, lo definì un autentico spirito sovranazionale a causa della sua esistenza divenuta emblema di un intellettuale in continua peregrinazione. Sulla stessa scia, anche il germanista Giuseppe Bevilacqua ha scritto che «prima ancora di essere uno scrittore Elias Canetti è un vivente compendio della storia d’Europa. Le sue origini e gli itinerari della sua esistenza, se venissero tracciati sulla carta del nostro continente, mostrerebbero un viluppo indistricabile»20. Ciò si riflette, inevitabilmente, soprattutto nei tre volumi autobiografici, La lingua salvata (1977), Il frutto del fuoco (1980) e Il gioco degli occhi (1985), che coprono l’arco temporale che va dal 1905 al 1937 e risultano densi di descrizioni relative soprattutto agli ambienti culturale e sociali di Vienna e Berlino, oltre che dei numerosi altri luoghi in cui ha soggiornato.
Con il primo volume della trilogia lo scrittore raggiunse la fama che da tanto agognava presso il grande pubblico; sulle qualità letterarie del suddetto scritto in molti si sono pronunciati, scatenando svariate polemiche in relazione ad una presunta superiorità letteraria che spetterebbe ad Auto da fé (1935), esordio, nonché suo unico romanzo21.
Come il titolo stesso lascia presagire in La lingua salvata Die gerettete Zunge in tedesco – tema centrale dell’opera (e in fondo leitmotiv della vita stessa dell’autore) è proprio la questione linguistica. Non stupisce allora che fin dalle primissime pagine ci si imbatta in riflessioni relative ai diversi idiomi e al loro apprendimento: «per quel che riguarda la lingua, il destino della maggior parte dei bambini è diverso dal mio, dovrei forse dire qualcosa su questo punto»22, scrive Canetti in una delle prime pagine. L’autore, dunque, dichiara fin da subito che la sua storia di apprendimento di una lingua è stata molto diversa da quella che normalmente spettava ai suoi coetanei. Come per Nabokov, sarà utile effettuare un rapido excursus sulle intricate origini familiari, per meglio comprendere il complesso insieme di idiomi che hanno caratterizzato la sua esistenza.
Quando Elias Canetti nasce la famiglia abita a Rustschuk, una cittadina bulgara situata sulla sponda destra del Danubio, zona totalmente periferica rispetto al mito europeo incarnato nell’immaginario genitoriale da Vienna. La famiglia, tuttavia, non è propriamente bulgara ma è di origini ebraico-sefardite, motivo per cui fin da bambino dialoga con i suoi parenti in ladino o giudeo-spagnolo, ovvero una forma arcaizzante dello spagnolo parlato dagli israeliti balcanici. Dalle balie contadinelle che lo accudivano invece apprende il bulgaro: «Tutti gli eventi di quei miei primi anni si svolsero dunque in spagnolo o in bulgaro. In seguito mi si sono in gran parte tradotti in tedesco»23. Ciononostante l’intera produzione letteraria canettiana si svolge in tedesco. L’amore per questa lingua, pur non essendo come si è visto, una delle lingue che apprende fin da piccolo, ha radici molto profonde. Essa rappresenta la personificazione del legame tra i suoi genitori, entrambi infatti si conobbero a Vienna in occasione dei loro studi, lì iniziarono a dialogare in tedesco, lingua che mai li ha abbandonati e che hanno deciso di trasmettere gradualmente ai loro figli:

Quando il papà tornava a casa dal lavoro, subito si metteva a parlare con la mamma. A quel tempo si amavano molto e tra loro usavano una lingua speciale che io non capivo, parlavano tedesco, la lingua dei loro felici anni di studio a Vienna. Ciò che più amavano era parlare del Burgtheater, là avevano visto, ancor prima di conoscersi, gli stessi spettacoli e gli stessi attori e non la finivano più di rievocare le esperienze di quel tempo. Seppi più tardi che si erano innamorati l’uno dell’altro proprio parlando di queste cose e, mentre nessuno dei due da solo aveva potuto realizzare il sogno del teatro – entrambi avrebbero desiderato più di ogni altra cosa al mondo diventare attori –, uniti erano riusciti a vincere la battaglia per il loro matrimonio, che era stato molto contrastato24.

Il tedesco è definita da Canetti “lingua incantata” poiché siccome i genitori la usavano solo tra loro, a lui era preclusa la possibilità di recepire il contenuto di quei discorsi che tanto lo affascinavano: quasi fosse una lingua in codice, ogni volta chiedeva impazientemente che qualcuno gliela insegnasse, eppure questa innocente richiesta era destinata ad essere respinta con il pretesto di dover rimandare il periodo dell’anelato apprendimento.

Avevo dunque i miei buoni motivi per sentirmi escluso quando i miei genitori cominciavano quei discorsi. Quando parlavano così si facevano molto allegri e vivaci e io collegavo questa trasformazione, che percepivo con grande acutezza, al suono della lingua tedesca. […] Io pensavo che discorressero di cose meravigliose, che si potevano dire soltanto in quella lingua. Quando alla fine smettevo di mendicare invano una spiegazione, me ne scappavo via infuriato, andavo in un’altra stanza che si usava raramente, e lì, cercando di riprodurre esattamente il tono della loro voce, ripetevo fra me e me le frasi appena ascoltate, e le pronunciavo come formule magiche esercitandomi più e più volte25.

Prima di giungere alla conoscenza dell’ambita lingua dell’impero austro ungarico, vi sono altre importanti tappe intermedie nella vita del giovane Elias Canetti. Nel 1911 si trasferì con la famiglia a Manchester, città in cui il padre diventa socio di suo cognato. Il trasloco in Inghilterra comportò chiaramente l’acquisizione dell’inglese che Elias deve imparare per poter frequentare le scuole. L’apprendimento della lingua britannica passa attraverso la figura paterna. Il papà inizia a costruire con il primogenito un rapporto speciale attraverso la lettura condivisa di una collana di libri per bambini scritta in inglese:

Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò. Era The Arabian Nights, Le Mille e una notte in un’edizione adatta alla mia età. […] Era una collana di libri per bambini, tutti volumi dello stesso formato quadrato. […] Ma che collana stupenda e impareggiabile! Non ce n’è mai stata un’altra simile. […] Sarebbe facile dimostrare che quasi tutto ciò di cui più tardi si è nutrita la mia esistenza era già contenuto in quei libri, i libri che io lessi per amore di mio padre nel mio settimo anno di vita26.

L’inglese divenne così la lingua simbolo del legame con il papà e, più in generale, fu lui a trasmettergli l’amore per l’Inghilterra, paese che ben presto assunse i connotati di primo baluardo di Europa verso cui si protesero per sfuggire da quell’eden premoderno, quale appariva la Bulgaria dei primi decenni del Novecento: «Fu in quell’occasione che udii per la prima volta la parola “libertà”. Mi disse in proposito qualcosa che ho dimenticato, ma ricordo che aggiunse qualche parola sull’Inghilterra: per questo eravamo venuti a vivere in Inghilterra, perché qui si era liberi»27.
Successivamente una tragedia si abbatté sulla famiglia Canetti: il giovane papà di Elias muore stroncato da un arresto cardiaco. Il doloroso evento contribuì ad avvicinare lo scrittore a sua madre per la quale finora non aveva mai nutrito un bene di chissà quale entità. Nei momenti più bui, è Elias con il suo ruolo di figlio maggiore, a vegliare sulla mamma, la quale si sentiva colpevole per la dipartita del marito.
Nel maggio 1913 non vi era più alcun motivo per restare a Manchester, pertanto la signora Canetti decide di trasferirsi nella sua città prediletta, Vienna, l’unico luogo in cui si sia mai realmente sentita a casa. Tra i numerosi preparativi da affrontare, una delle questioni che le stava più a cuore era che suo figlio imparasse finalmente il tedesco, affinché venisse ammesso nella futura scuola austriaca. Fu una lunga estate trascorsa nella Losanna francofona all’insegna del terrore per il piccolo bambino (terrore pedagogico, come lo etichettava la mamma) a causa del metodo poco ortodosso che ella adottò per impartirgli delle lezioni. Tuttavia, dopo qualche tempo, finalmente avvenne la svolta: Elias riuscì ad ottenere una buona padronanza della lingua incantata.

Quello che iniziò allora fu un periodo mirabile. La mamma cominciò a parlare tedesco con me, anche fuori dalle lezioni. Sentivo di esserle di nuovo vicino come nelle prime settimane dopo la morte del papà. Solo più tardi compresi che se mi insegnava il tedesco, fra scherno e tormenti, non lo faceva per me. Lei stessa aveva un profondo bisogno di parlarmi in tedesco, per lei il tedesco era la lingua dell’intimità e dell’affetto. La tragica frattura che aveva spezzato la sua vita quando, a ventisette anni, aveva perduto la possibilità di comunicare con mio padre, si faceva sentire più dolorosamente che mai nel fatto che, venendo meno lui, si era taciuto per lei il colloquio d’amore in tedesco. La sua vita coniugale l’aveva infatti vissuta tutta in tedesco. Senza il papà si sentiva smarrita, perduta, e allora aveva tentato di mettermi al suo posto il più in fretta possibile28.

La madre ha covato a lungo un forte senso di colpa per la morte di suo marito, poiché poco prima che lui morisse, si era recata in un centro termale a causa di una malattia non ben definita. Lì ha avuto modo di conoscere un medico che l’ha corteggiata, adoperando proprio l’uso della lingua tedesca. Il tradimento, che di fatto fisicamente non è mai avvenuto, passa metaforicamente attraverso l’uso del linguaggio, dell’idioma simbolo del legame esclusivo avuto da sempre con suo marito. Trasmettere di persona – senza avvalersi di precettori – la conoscenza del tedesco al piccolo Elias è stato il solo modo che lei ha avuto per onorare la memoria dell’uomo che ha amato. È come se imparando e poi utilizzando il tedesco come lingua della scrittura, Canetti prendesse il posto del padre, come unico uomo in grado di assumersi la responsabilità di proteggere la mamma e la sua intera famiglia29.

A Losanna comunque – dove sempre intorno a me sentivo parlare il francese, lingua che appresi quasi inavvertitamente e senza drammatiche complicazioni – vissi sotto l’influsso della mamma la mia seconda nascita in lingua tedesca, e proprio nel travaglio di quella nascita ebbe origine in me la passione che mi avrebbe legato a entrambe, a quella lingua e a mia madre. Senza questi due elementi, che in fondo erano un’unica e medesima cosa, tutto il corso successivo della mia esistenza resterebbe incomprensibile e privo di significato30.

Kellman sostiene che Canetti sia vissuto in una famiglia quadrilingue e che, per l’importanza che il tedesco ha rivestito nelle sue vicende familiari, esso sia equiparabile ad una belated mother tongue31, ossia una lingua madre tardiva, in quanto il suddetto apprendimento giunge solo all’età di otto anni; eppure come si legge nel passo sopracitato da La lingua salvata si tratta di un passaggio fondamentale in quanto si configura come un’autentica seconda nascita per l’uomo, prima che per lo straordinario scrittore che poi è diventato.
Le soste da un luogo all’altro non si arrestarono di certo a Vienna. La lingua salvata ripercorre minuziosamente ancora altre due fasi essenziali della sua formazione: prima a Zurigo, dove la mamma mostra le sue preoccupazioni per il dialetto zurighese che affiora anche nell’ambiente scolastico frequentato dal figlio e che potrebbe corrompere il suo tedesco puro e, successivamente, nel periodo decisivo della sua formazione, dal 1924 – anno in cui si arresta la narrazione del primo tomo dell’autobiografia qui preso in esame – al 1938 giungerà di nuovo nell’amata Vienna e vi resterà fino all’occupazione hitleriana.
A causa delle persecuzioni che sopraggiungono con l’instaurarsi del regime nazista, Canetti, ebreo sefardita, si stabilisce forzatamente in Inghilterra dal 1938 e lì, al riparo dalle terribili leggi razziali, ha sempre continuato a scrivere in tedesco.
Se si pensa al panorama culturale del tempo, la potenza di questa scelta è strabiliante. Presto ottenne anche la cittadinanza britannica e avrebbe potuto scegliere di intraprendere una produzione letteraria in inglese, lingua che conosceva perfettamente, se non altro per svincolarsi anche da una cultura che subito dopo la Seconda guerra mondiale non era certamente vista di buon occhio, eppure prosegue imperterrito, tanto da arrivare ad annotare orgogliosamente: «La lingua del mio spirito continuerà ad essere il tedesco, e precisamente perché sono ebreo. Ciò che resta di quella terra devastata in ogni possibile modo voglio custodirlo in me, in quanto ebreo. Anche il suo destino è il mio; io però porto ancora in me un’eredità universalmente umana»32.

4. Decolonizzazione e “letteratura minore”: L’amour, la fantasia di Assia Djebar

La guerra per l’indipendenza algerina – tramandata a lungo tempo con il nome di «fatti d’Algeria» in quanto il termine “guerra” in Francia venne ufficializzato solo dal 1999 – sarà uno dei grandi eventi rimossi nella storia della Francia contemporanea. Combattere contro l’Algeria, per un francese, significava fare la guerra a quello che veniva considerato a tutti gli effetti un département, una parte di esagono collocata oltremare. Insomma, l’importanza di questa colonia era alquanto diversa da quella rivestita dalle restanti colonie francesi presenti nel Maghreb, nell’Africa nera o in Indocina.
In tale panorama culturale tutt’altro che mite il ruolo di Assia Djebar – pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayène – è stato di primaria importanza. Nata a Cherchell, sulla costa a ovest di Algeri, anche lei ha vissuto la sua esistenza in un crocevia di identità culturali, sempre protesa tra l’Oriente delle sue origini e l’Occidente in cui è approdata successivamente. Con le sue numerose opere ha tentato di dare voce alle donne algerine che non hanno mai avuto la libertà di espressione che lei è riuscita a conquistare, merito avallato dal fatto che sia stata la prima donna algerina ad accedere all’esclusiva Académie française.
L’intera produzione letteraria della scrittrice algerina si è svolta in francese, tuttavia, in questa sede, si è scelto di focalizzare l’attenzione su L’amour, la fantasia, pubblicato a Parigi nel 1985, perché in quest’opera è assolutamente centrale la questione linguistica che, tra l’altro – come in Canetti – ha rivestito un ruolo di primaria importanza nella vita stessa di chi scrive.
Un’ulteriore analogia con La lingua salvata è relativa al genere dell’opera in questione: L’amour, la fantasia ha un sostrato chiaramente autobiografico; nello specifico la narrazione si snoda sullo sfondo della grande Storia per poi intrecciarsi con il vissuto individuale. I filoni narrativi primari sono così riassumibili: la guerra di conquista dell’Algeria ad opera dei francesi del 1830, la guerra di liberazione degli algerini contro il regime coloniale francese che ha inizio nel 1954 ed infine la sua autobiografia.
La scuola nell’Algeria del tempo era appannaggio dei figli dei coloni francesi e l’insegnamento dell’arabo era sostanzialmente proibito. Djebar, invece, ha la fortuna di avere un padre che insegna in una scuola elementare francese, motivo per cui avrà l’opportunità di crescere in un ambiente intellettualmente rivolto all’occidente. L’episodio dell’arrivo a scuola, possibilità ritenuta inevitabilmente un raro privilegio se si osservano le sue coetanee costrette alla permanenza casalinga, è talmente centrale nella propria realtà da rappresentare il tema dell’incipit di L’amour, la fantasia, intitolato simbolicamente Bambina araba che va a scuola per la prima volta:

Bambina araba che va a scuola per la prima volta, una mattina d’autunno, la mano stretta nella mano del padre. L’uomo porta il fez, la figura è alta e dritta nell’abito europeo, ha una cartella, è maestro alla scuola francese. Bambina araba in un villaggio del Sahel algerino33.

Dunque, se da un lato, la madre della piccola Assia – donna discendente da una famiglia aristocratica e marabutica berbera – trasmette a sua figlia il vasto patrimonio culturale arabo, il papà la reca con mano nella cultura dell’Altro, ovvero nel francese, la lingua dell’occupante, l’idioma del colonizzatore. In uno dei capitoli finali – La tunica di Nesso – l’autrice si sofferma sul significato che ciò ha rappresentato per lei.

Coabito con la lingua francese. […] Così il padre maestro, che l’insegnamento del francese ha tratto dall’indigenza, mi avrebbe “data” prima dell’età da marito. […] L’incoscienza rivelata da questo esempio tradizionale assumeva per me un significato opposto: nei confronti delle cugine, tra i dieci e gli undici anni, godevo del privilegio riconosciuto di essere “la preferita” del padre, poiché senza esitare mi aveva salvato dalla segregazione. […] Il francese mi è lingua matrigna. Qual è la mia lingua madre scomparsa, che mi ha abbandonato ed è fuggita vai?… Lingua-madre idealizzata o poco-amata, lasciata ai soli banditori di fiera, ai soli carcerieri! […] La lingua ancora coagulata degli Altri mi ha avvolto fin dall’infanzia come una tunica di Nesso, dono d’amore del padre che ogni mattina mi teneva per mano sulla strada che portava a scuola. Bambina araba in un villaggio del Sahel algerino…34

Questo capitolo può essere interpretato come una mise en abyme dell’intera opera, in quanto contribuisce a riannodare i fili della questione fondante, quella linguistico-identitaria: con un evidente richiamo alla tradizione mitica, la lingua francese appare certamente come il più prezioso dei doni paterni, ma essa, proprio come la tunica del centauro Nesso, rappresenterebbe contemporaneamente un dono avvelenato poiché la lingua dell’Altro è garanzia di libertà per una ragazza come lei che altrimenti avrebbe dovuto soccombere alle logiche dell’harem musulmano, tuttavia si tratta pur sempre della lingua del colonizzatore, del nemico per eccellenza… come se non bastasse tutto ciò la esibisce in maniera inevitabile al pericolo della deflagrazione rispetto al suo mondo e alle sue tradizioni; ed è proprio il papà ad esporla ad una tale condizione di costante ambivalenza, infatti, secondo l’accademica Mireille Calle-Gruber, egli «la accoglie nella lingua nella quale lui stesso è ospite, facendosi invitante-invitato»35.
Se a partire dalla figura paterna si mette in moto la macchina narrativa di Djebar, è interessante notare come il personaggio, citato all’inizio, appaia nuovamente solo sul finire del romanzo, dissolvendosi del tutto nella parte centrale. Qualche anno prima i filosofi Gilles Deleuze e Féliz Guattari in Kafka. Per una letteratura minore, saggio divenuto di capitale importanza, a partire dall’archetipo kafkiano sistematizzano il concetto di letteratura minore:

Una letteratura minore non è la letteratura d’una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore. Il primo carattere di tale letteratura è che in essa la lingua subisce un forte coefficiente di deterritorializzazione. […] L’aggettivo minore non qualifica più certe letterature ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all’interno di quell’altra letteratura che prende il nome di grande (o stabilita)36.

Anche Djebar, come Franz Kafka, inserendosi all’interno della grande tradizione letteraria francese, lo fa da una posizione minoritaria, quella di donna algerina che necessita di lottare per far sentire la propria voce. La sua opera rispecchia i tre principi che Deleuze e Guattari individuano come costituenti della letteratura minore: utilizza un francese che è deterritorializzato, defunzionalizzato in favore di una lingua che non sia puramente significativa ma che possa divenire a suo modo espressiva, inoltre l’aspetto politico-sociale prevale decisamente su quello individuale ed infine tra autore e personaggio vi è una fusione che si concretizza nell’aver intessuto assieme alla grande Storia la sua personale autobiografia.
Tali letterature si caratterizzano per non avere una paternità, cioè una solida tradizione alle spalle a cui ispirarsi, sono “orfane”, a ciò forse si può ricondurre il dissolvimento della figura paterna dalla parte centrale di L’Amour, la fantasia. Un’altra vicenda biografica dell’autrice rimanda ad un simile riferimento: nel primo capitolo, l’adolescente Assia riceve una lettera da uno spasimante segreto, intenzionato ad intraprendere una corrispondenza amorosa con lei. Quando il padre apprende dell’episodio, decide di strappare la missiva senza mezzi termini a causa del disonore che avrebbe arrecato alla figlia. Chiaramente anche la suddetta lettera è scritta in francese e la sua demolizione può essere interpretata come la distruzione di una tradizione letteraria preesistente e la volontà di inserirsi quale voce minoritaria in un nuovo contesto letterario connotato proprio per il non possedere una paternità:

Ho diciassette anni quando entro nella storia d’amore a causa di una lettera. Uno sconosciuto mi ha scritto. Per incoscienza o per sfida l’ha fatto apertamente. Il padre, in preda ad una collera muta, ha strappato la missiva sotto i miei occhi. Non me la dà da leggere; la butta nel cestino. […] Le parole, francesi e convenzionali, dello studente in vacanza si sono gonfiate di un desiderio imprevisto, eccessivo, solo perché il padre ha voluto distruggerle. I mesi, gli anni seguenti mi sono immersa nella storia d’amore o meglio, nel divieto d’amore; la censura paterna ha fatto fiorire l’avventura. In quell’inizio di educazione sentimentale, la corrispondenza clandestina avviene in francese: così, la lingua che il padre mi ha dato è la mia mezzana e da quel momento l’iniziazione si pone sotto un segno ambiguo, contraddittorio…37

Dunque dalla censura paterna – lo strappo della missiva – nasce l’amore per la lingua del nemico. La centralità che ricopre il tema della lettera è testimoniata dal fatto che essa ritornerà costantemente lungo l’intero corso del romanzo. Quando, ad esempio, anche la mamma di Djebar imparerà il francese, l’utilizzo di questa lingua contribuirà a rompere alcuni tabù relativi alla loro cultura araba, segno esclusivo di una libertà possibile solo attraverso il francese: il padre, momentaneamente lontano per un viaggio, invia una cartolina indirizzata alla famiglia e in essa saluta sua moglie, eppure la regola musulmana vuole che i due coniugi non si chiamino mai per nome ma solo attraverso perifrasi consolidate:

Era una rivoluzione innegabile: mio padre, di suo pugno e sua una cartolina destinata a viaggiare da una città all’altra, destinata a passare sotto gli occhi di tanti e tanti uomini, compresi quelli del postino del villaggio, un postino musulmano! mio padre aveva osato scrivere il nome di sua moglie alla maniera occidentale “Signora tal dei tali…”, mentre qualunque algerino, ricco o povero, nominava moglie e figli solo con una perifrasi “la famiglia”. […] Fu allora che intuii per la prima volta, mi pare, la felicità possibile, il mistero che unisce un uomo e una donna.
Mio padre aveva “osato” scrivere a mia madre. Entrambi, mio padre scrivendo, mia madre chiamando per nome in pubblico il marito senza falsi pudori, reciprocamente si amavano, cioè insomma si amavano apertamente38.

Il francese è inevitabilmente l’unico mezzo possibile per la libertà di espressione e, nonostante il suo impiego esponga chi ne fa uso al pericolo della deflagrazione, tale prospettiva resta fondamentale. In questo senso Derrida ha teorizzato il concetto di monolinguismo dell’altro39: l’utilizzo del francese nelle attuali ex colonie incarna in ogni caso un paradosso perché per quanto lo si conosca bene e lo si consideri al pari di una lingua materna, apparirà pur sempre un idioma estraneo, la cui vera patria sarà sempre la Francia e non l’Algeria.
Paolo Zanotti, a proposito di francofonia, si è chiesto «quanto spesso l’adozione del francese conduce ad una semplificazione delle proprie tendenze precedenti?»40 e nel caso di Djebar la risposta al suddetto interrogativo è assolutamente rilevante, poiché il suo obbiettivo ne L’amour, la fantasia è rendere il francese l’esatto contrario di quella lingua che tende alla chiarezza espressiva per eccellenza; l’autrice scrive con l’obiettivo di fare un uso non ordinario, sperimentale della lingua, di mettere su un idioma che miri a creare delle dinamiche di straniamento che, secondo il formalismo russo, fondano l’esperienza estetica stessa41. Per compiere questa operazione Djebar lascia intravedere sotto la superficie del suo francese la struttura grammaticale e sintattica della lingua araba. Sono molti infatti i termini arabi che compaiono nel testo e l’autrice si è intenzionalmente opposta all’inserimento di un glossario esplicativo da situare in appendice, poiché l’idea è proprio quella di creare un prodotto nuovo, orfano, che risulti quasi alienante per un francofono, ma accogliente per un arabofono. Lo stesso Kellman, d’altronde, nel primo capitolo di The Translingual Imagination sottolinea il carattere spesso ibrido della scrittura translingue: essa, infatti, pur configurandosi come un supporto nuovo, tradisce inevitabilmente la presenza del supporto vecchio, ovverosia la lingua parlata in origine42.
Daniela Marin che, assieme ad Eleonora Salvadori, si è occupata della traduzione italiana, si è espressa in merito all’evidente difficoltà di dover rendere il sopracitato meccanismo di straniamento:

Lo scrittore plurilingue deve produrre un testo che racconti esperienze fatte in una lingua usando il pensiero dell’altra, ma questo non avviene senza commistioni e contaminazioni tra le due o tre lingue possedute. […] Quindi nel caso di questi scrittori il testo originale è già una riscrittura e con tale complessità del testo deve fare i conti il traduttore che si trova di fronte a un compito arduo: tradurre una traduzione43.

Lo stesso titolo d’altronde necessita di una riflessione: esso, infatti, è già espressione concreta di una soggettività divisa in due: un termine francese – amour – e un termine arabo – fantasia. Solo il lettore che ha dimestichezza con entrambe le lingue riuscirà a coglierne pienamente il senso. Se, da una prospettiva occidentale, per il primo vocabolo non vi sono grandi problemi di comprensione, il secondo invece indica una tradizione efferente al mondo medio-orientale, nella fattispecie un gioco equestre di cavalieri arabi in cui si simula un combattimento, insomma qualcosa di intraducibile letteralmente in italiano, pertanto si è optato per una semplificazione (L’amore e la guerra).
Si è detto sopra del filone autobiografico che percorre il testo e che si intreccia con un retroterra storico di tutto rilievo; entrambe queste due parti abbondano di effetti stilistici che rappresentano un evidente scarto rispetto alla norma francese. Vi è però una terza parte che dal punto di vista stilistico è forse la più interessante, ed è quella composta dai capitoli intitolati Voci, che consistono in una quantità di materiale raccolto dall’autrice, relativo ad interviste, missive, testimonianze di ogni genere appartenenti a donne algerine. Già in occasione di un lungometraggio del 1979 (La nouba des femmes du Mont Chenoua) realizzato per la televisione algerina, Djebar raggruppò alcune memorie delle donne contadine della sua regione di appartenenza in merito agli anni della guerra di liberazione, quindi – servendosi in parte del lavoro svolto precedentemente – in L’amour, la fantasia imprime nello scritto il ritmo e il registro del parlato tramite un abbondante impiego di interruzioni, anacoluti e scarti sintattici propri dell’espressione orale, al fine di essere quanto più attendibile possibile.
Facendosi portavoce di tutte quelle donne algerine che sono state protagoniste della battaglia di indipendenza fa sì che il romanzo diventi meno incentrato sull’io individuale della narratrice per giungere ad un noi collettivo; questo passaggio può avvenire solo attraverso le possibilità che offre il francese, la lingua della libertà per Djebar, quella stessa libertà che lei, coraggiosamente, ha donato a tutte coloro alle quali è stata preclusa.

5. Un fenomeno ancora da indagare

Il paragrafo precedente consente di ritornare su un aspetto essenziale, già menzionato in apertura, ma su cui vale la pena soffermarsi per concludere. Djebar, come tanti scrittori che hanno vissuto il processo di decolonizzazione, ha necessariamente avvertito di dover agire concretamente per il proprio popolo, dunque il suo translinguismo si connota per l’assunzione di un carattere propriamente engagé. È una forma di impegno anche l’adozione della lingua tedesca da parte di Elias Canetti poiché, sebbene sia legata al suo vissuto personale, diviene da uno specifico momento in poi un’audace presa di posizione contro il regime nazista che infuriava in tutta Europa. Le ragioni per Nabokov sono sicuramente diverse e non risultano esplicitamente legate a questioni politiche, ma indubbiamente abbracciano in toto l’evoluzione dei costumi socio-culturali del suo tempo. Insomma il translinguismo è un fenomeno di capitale importanza, le cui radici – come si può comprendere attraverso le vicende relative a questi tre autori – possono essere sicuramente molteplici e di non facile inquadramento.


  1. Cfr. G. Frasca, Il rovescio d’autore. Letteratura e studi letterari al tramonto dell’età della carta, Napoli, Edizioni d’if, 2016, pp. 17-47.

  2. Per il caso specifico di Agota Kristof cfr. P. Zanotti, Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 203-214.

  3. Cfr. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, Lincoln, University of Nebraska Press, 2000.

  4. Cfr. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine (1996), Milano, Raffaello Cortina, 2004.

  5. Cfr. V. Nabokov, Parla, ricordo (1967), trad. it. di G. Ragni, Milano, Adelphi, 2010.

  6. G. Carpi, Storia della letteratura russa. Dalla Rivoluzione d’Ottobre a oggi, Roma, Carocci, 2016, p. 292.

  7. Su questo cfr. G. Frasca, Il rovescio d’autore, cit., pp. 114-142.

  8. V. Nabokov, A proposito di un libro intitolato Lolita (1956), in Id., Lolita (1955), trad. it. di G. Arborio Mella, Milano, Adelphi, 1992, p. 389.

  9. Ivi, p. 393.

  10. V. Nabokov, Lolita, cit., p. 187.

  11. Cfr. G. Frasca, Il rovescio d’autore, cit., p. 187.

  12. Cfr. G. Carpi, Storia della letteratura russa, cit., p. 97.

  13. G. Frasca, Il rovescio d’autore, cit., pp. 160-161.

  14. V. Nabokov, Lolita, cit., p. 17.

  15. Ivi, p. 230.

  16. Per approfondire cfr. S. Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Torino, Einaudi, 2010.

  17. Cfr. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, cit., pp. 15-29.

  18. V. Nabokov, A proposito di un libro intitolato Lolita, in Lolita, cit., p. 395.

  19. Cfr. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, cit., p. 26.

  20. G. Bevilacqua, Dalla valle di Giosafat: Elias Canetti, in «Belfagor», XXXV/3, 1980, pp. 326-329.

  21. Sulle polemiche relative alla vincita del Premio Nobel cfr. F. Haas, Ritratti critici di contemporanei. Elias Canetti, in «Belfagor», LXV/6, 2010, pp. 701-714.

  22. E. Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza (1977), trad. it. di A. Pandolfi e R. Colorni, Milano, Adelphi, 1980, p. 22.

  23. Ibidem.

  24. Ivi, p. 39.

  25. Ivi, p. 40.

  26. Ivi, p. 59.

  27. Ivi, p. 60.

  28. Ivi, p. 100.

  29. Sul legame con la madre e la lingua tedesca cfr. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, cit., p. 36.

  30. E. Canetti, La lingua salvata, cit., p. 105.

  31. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, cit., p. 17.

  32. Cfr. E. Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-72, Milano, Adelphi, 1978.

  33. A. Djebar, L’amore, la guerra (1985), trad. it. di D. Marin e E. Salvadori, Como, Ibis, 1995, p. 17.

  34. Ivi, pp. 231-235.

  35. L. Percoco, Scrittura di paesaggi. Mireille Calle-Gruber lettrice di Assia Djebar, in «B@belonline», 5, 2018, pp. 293-299.

  36. G. Deleuze e F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore (1975), trad. it. di A. Serra, Macerata, Quodlibet, 1996, pp. 29-33.

  37. A. Djebar, L’amore, la guerra, cit., pp. 17-18.

  38. Ivi, pp. 50-51.

  39. Cfr. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine, cit.

  40. P. Zanotti, Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 a oggi, cit., p. 203.

  41. Cfr. V. Šklovskij, Teoria della prosa (1917), trad. it. di C. De Michelis e R. Oliva, Torino, Einaudi, 1981.

  42. S. G. Kellman, The Translingual Imagination, cit., pp. 15-29.

  43. D. Marin, Tradurre Assia Djebar. L’Amour la fantasia, 1985, in «Publifarum», 7, 2007, <https://riviste.unige.it/index.php/publifarum/article/view/1365/1352>, url consultato l’11 maggio 2023.


This essay aims to trace guidelines within the broad phenomenon of literary translinguism. In recent years the question increasingly became the object of investigation by critics. One of the most interesting studies on the subject is The Translingual Imagination (2000) by the American comparatist Steven G. Kellman. He reflected on the innumerable reasons that drive an author to compose narratives in a language different from his own and noted how this phenomenon occurred massively in the transition from the first to the second half of the last century. Here – after a generic introduction – I have decided to focus on three specific authors: Vladimir Nabokov, a bilingual writer, who has been able to fit skilfully into two distinct literary traditions (the Russian and the Anglo-American one); Elias Canetti who lived a life under the banner of multiculturalism, learning various languages, but decided to use only German for his own works (Kellman spoke in this case of monolingual translinguism); and finally the case of Assia Djebar, Algerian writer, who made use of the colonizer’s language, a question that gives us the opportunity to deal with concepts of such as the Deleuzian «minor literature».